News
Ad
Ad
Ad
Tag

NASA

Browsing

GRB220101A, IL GRB PIÙ BRILLANTE IN OTTICO RILEVATO FINORA: UN CASO ESTREMO

Un team di ricerca a cui partecipa anche l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) è riuscito a osservare le primissime fasi di un lampo di raggi gamma (GRB, dall’inglese gamma-ray burst) risultato essere il più luminoso nelle bande ottiche rilevato finora. I GRB sono fenomeni transienti esplosivi al centro di continue rivoluzioni scientifiche e INAF è impegnato sia sul piano osservativo-interpretativo che con la partecipazione a grandi missioni dallo spazio per rilevarli e studiarli. I lampi di raggi gamma sono eventi tra i più violenti dell’universo, a distanza di miliardi di anni luce da noi. La loro energia viene trasferita in potentissimi getti collimati che emettono la radiazione che osserviamo. Nello specifico, i ricercatori hanno studiato GRB220101A, il cui segnale – come dice la sigla – è stato rilevato per la prima volta nel capodanno del 2022.

Gli esperti, guidati dal Purple Mountain Observatory (Cina), hanno utilizzato un nuovo metodo sviluppato per ricavare una fotometria affidabile da fonti “catturati” dall’Ultraviolet and Optical Telescope (UVOT), uno dei tre strumenti a bordo del Neil Gehrels Swift Observatory, osservatorio spaziale della NASA con una importante partecipazione italiana dell’ASI e dell’INAF.

Stefano Covino, ricercatore presso l’INAF di Milano e unico italiano tra gli autori dello studio, spiega che

“questa scoperta rivela le diverse origini dei brillamenti ultravioletti/ottici estremamente energetici e dimostra la necessità dell’osservazione ad alta risoluzione temporale nei primi istanti di evoluzione del fenomeno”. E aggiunge: “Ogni evento GRB mostra dei comportamenti originali, ma in generale troviamo che anche i casi più estremi rientrano comunque nella stessa fenomenologia. GRB220101A non fa eccezione. Non si tratta quindi di una nuova categoria di GRB ma plausibilmente di un caso estremo fra quelli già noti”.

Perché allora è un caso “monstre”? Covino osserva che

“il motivo è probabilmente duplice. Da una parte semplicemente accumulando più osservazioni si possono identificare casi più rari che normalmente ci sarebbe bassa probabilità di poter osservare. E in aggiunta c’è una questione tecnica che consiste nell’avere definito una procedura per poter ottenere informazioni affidabili dalle osservazioni da satellite anche quando, come in questo caso, i dati sono, come si dice tecnicamente, saturi. Questo ci ha permesso di poter avere informazioni nella primissima fase di questo evento e quindi identificare l’impressionante picco in luminosità di cui parliamo”.

GRB220101A è stato osservato da Swift, ma anche da altri telescopi spaziali come Fermi e Agile.

“Come sempre quando Swift identifica un GRB si ripuntano gli strumenti di bordo, come UVOT, e si ottengono dati pochi secondi dall’identificazione dell’evento di alte energie (il GRB vero e proprio). Un ottimo risultato per uno strumento che ormai vola dal 2004! Non appena l’alert per l’identificazione è arrivato a terra anche i telescopi “ground-based” hanno cominciato ad osservare ed il telescopio cinese di Xinglong, da 2,2 metri, ha ottenuto la misura di distanza, tramite uno spettro, che è risultata essere il notevole valore di z=4,6. All’epoca dell’evento che ha generato questo GRB l’universo aveva poco più di un miliardo d’anni”, dice Covino.

Il ricercatore sottolinea il grande lavoro tecnico fatto su questo GRB:

“Dobbiamo prima di tutto immaginare che un telescopio ottico, qualunque, riceve la radiazione luminosa da un oggetto celeste e la converte in un’immagine sul suo rivelatore. Ora, quello che accade è che, in dipendenza dalle caratteristiche del telescopio, l’immagine che si crea per un oggetto puntiforme, come le stelle o anche un GRB a distanze cosmologiche, ha una forma matematica ben precisa (tecnicamente è la PSF). Per visualizzarla possiamo immaginare un cappello a punta, tipo quello dei maghi, con la punta in alto e delle larghe falde intorno. Fare “fotometria” significa misurare bene l’estensione e l’altezza di questo ipotetico cappello! In pratica però, per eventi così brillanti, la parte centrale del “cappello” è cancellata, come tagliata, e quindi non è possibile ottenere le informazioni necessarie. Tuttavia esistono delle relazioni ben precise fra l’altezza del “cappello” e le faglie, che dipendono per telescopi nello spazio (cioè senza l’effetto dell’atmosfera) solo dalle caratteristiche tecniche del telescopio stesso. Con un lavoro davvero certosino siamo riusciti a misurare i parametri di queste relazioni e quindi a ricostruire a posteriori la forma del “cappello” in modo da ottenere le informazioni fotometriche complete. Anche questo può essere un esempio di come, anche con uno strumento che vola dal 2004, non si smetta mai di migliorare”.

Nonostante i decenni di studio, i GRB continuano a mostrare sorprese. Covino conclude dicendo:

“sembra quasi che siano un serbatoio inesauribile di comportamenti estremi ed ovviamente grandemente interessanti. Dal punto vista più modellistico ci mostrano come determinate combinazioni di parametri che portano alla prodigiosa luminosità in ottico osservata sono realmente possibili nel mondo reale. Questo ha importanti conseguenze ad esempio nel valutare l’impatto dei GRB nell’ambiente delle galassie che li ospitano”.

Uno dei co-autori del paper, Hao Zhou, e il primo autore, Zhi-Ping Jin, del Purple Mountain Observatory, hanno un forte legame con l’Italia. Jin è stato postdoc a Merate proprio con Covino, mentre Zhou, un giovane alla fine del suo dottorato, è attualmente in visita nella sede INAF di Merate dove lavora con Covino.


Rappresentazione artistica di un lampo di raggi gamma GRB220101A
Immagine artistica di un Gamma Ray Burst e dei suoi due getti che si propagano in direzioni opposte. Quando vediamo il Grb è grazie al fatto che il getto, che ha un angolo di apertura di pochi gradi, punta in direzione della terra. La bolla di luce che si vede al centro è la stella di grande massa che sta scoppiando, al cui centro si è appena formato il buco nero da cui hanno origine i due getti. Crediti: Eso/A. Roquette

 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “An optical/ultraviolet flare with absolute AB magnitude of -39.4 detected in GRB 220101A”, di Zhi-Ping Jin, Hao Zhou, Yun Wang, Jin-Jun Geng, Stefano Covino, Xue-Feng Wu, Xiang Li, Yi-Zhong Fan, Da-Ming Wei e Jian-Yan Wei è stato pubblicato su pubblicato sulla rivista Nature Astronomy.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

IL PROTOAMMASSO PIÙ ANTICO E LONTANO DELL’UNIVERSO, A2744-z7p9OD, L’HA TROVATO WEBB. LO STUDIO PUBBLICATO SU THE ASTROPHYSICAL JOURNAL LETTERS

Avvistato da Hubble e confermato da Webb, con la preziosa collaborazione dell’ammasso Pandora che ha agito come lente gravitazionale, il protoammasso di galassie più antico e più lontano conta, ad oggi, sette galassie. Si stava assemblando già circa 650 milioni di anni dopo il Big Bang, un periodo in cui stavano cominciando a formarsi le prime strutture cosmiche. Nel team che ha realizzato lo studio partecipano anche ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica.

Il protoammasso più antico e lontano dell'universo, A2744-z7p9OD
Le sette galassie evidenziate in questa immagine del James Webb Space telescope sono state confermate avere un redshift di 7,9 che le colloca a un’epoca di 650 milioni di anni dopo il Big Bang. Queste sono le più antiche galassie ad essere confermate spettroscopicamente come costituenti di un ammasso in formazione. Crediti: NASA, ESA, CSA, Takahiro Morishita (IPAC), image processing: Alyssa Pagan (STScI)

Ogni gigante è stato un tempo un bambino, ma riuscire a immaginarlo senza averlo mai visto può essere difficile. Un esercizio che hanno dovuto fare per anni, gli astronomi, dovendo ricostruire come si sono formate le strutture cosmiche più grandi, come gli ammassi di galassie, senza poterne vedere direttamente i progenitori. Fino ad oggi. Grazie al telescopio spaziale James Webb di NASA ed ESA, e grazie all’aiuto della lente gravitazionale di un ammasso di galassie vicino, l’inaccessibile è diventato accessibile. In un articolo pubblicato su The Astrophysical Journal Letters arriva la conferma dell’osservazione del protoammasso più antico e più lontano di sempre, in un’epoca in cui la formazione e l’assemblaggio delle galassie era cominciato da poco. Redshift 7,9, o 650 milioni di anni dopo il Big bang, a tanto si è spinto lo specchio dorato di Webb. In quel momento cominciava a formarsi questa struttura destinata – secondo i calcoli – a diventare un enorme ammasso di galassie. Grazie alle osservazioni di spettroscopia infrarossa di Webb, un gruppo di astronomi, fra cui alcuni dell’istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha confermato che si possono contare almeno sette galassie legate gravitazionalmente all’interno del protoammasso, e molte altre sono destinate a finirci dentro.

«Questo è un sito molto speciale e unico in cui le galassie evolvono in maniera accelerata, e Webb ci ha dato la possibilità senza precedenti di misurare le velocità di queste sette galassie e di confermare con sicurezza che sono legate insieme in un protoammasso», dice Takahiro Morishita, ricercatore all’IPAC-California Institute of Technology e primo autore dello studio.

Gli ammassi di galassie sono le più grandi concentrazioni di massa dell’universo conosciuto e possono ospitare migliaia di galassie legate gravitazionalmente all’interno di un’unica culla (o alone) di materia oscura. Sono talmente massicci da deformare visibilmente il tessuto dello spaziotempo, in un effetto di relatività generale noto come lensing gravitazionale. Proprio come una classica lente ottica, un ammasso di galassie produce un ingrandimento degli oggetti che si trovano, in proiezione, dietro di esso, rendendoli così visibili nonostante la distanza. L’ammasso che è stato utilizzato come lente in questo studio è l’ammasso di Pandora, o Abell 2744, che si trova a poco più di 3,5 miliardi di anni luce da noi.

“È sorprendente che solo 650 milioni di anni dopo il Big Bang ci fosse già una sovradensità di questo tipo formata, nell’universo”, commenta Benedetta Vulcani, ricercatrice dell’INAF di Padova e coautrice dell’articolo. “Il protoammasso ha un raggio di 195.000 anni luce, che è circa la distanza tra noi e la Grande nube di Magellano. È quindi abbastanza compatto, visto che il raggio di un ammasso nell’universo locale può essere 20 volte tanto. Stimare la massa è molto difficile, abbiamo seguito diversi approcci e abbiamo trovato un valore – che riteniamo conservativo – di circa 400 miliardi di masse solari. È un valore che può sembrare molto piccolo a noi addetti ai lavori che siamo abituati a pensare ai grandi ammassi moderni, ma con l’aiuto delle simulazioni abbiamo potuto vedere che questa struttura, evolvendo nel tempo, potrebbe raggiungere una massa simile all’ammasso di Coma, il più grande ammasso noto”.

La pulce nell’orecchio a Morishita e collaboratori, nel caso di A2744-z7p9OD – questo il nome del protoammasso – l’ha messa Hubble. Le sette galassie erano infatti già state individuate nel programma Frontier Fields del telescopio spaziale ottico e ultravioletto, attraverso osservazioni che sfruttavano proprio l’effetto di lente gravitazionale di alcuni ammassi di galassie vicini per vedere oggetti lontani. Per vedere i dettagli di queste strutture, però, non basta ingrandirle: occorre disporre di strumenti in grado di lavorare a lunghezze d’onda infrarosse, alle quali la luce ottica emessa da questi oggetti è stata portata a causa dell’espansione dell’Universo. Ma non potendo osservare a queste lunghezze d’onda, il telescopio Hubble non era stato in grado di dire molto sulla struttura e aveva lasciato aperta la porta della curiosità.

Curiosità che il telescopio spaziale Webb, grazie al suo spettrografo nel vicino infrarosso NIRSpec, è riuscito a soddisfare. Per prima cosa, infatti, è riuscito a confermare la distanza delle sette galassie finora confermate come parte della struttura, a misurare la velocità con la quale si muovono all’interno dell’alone di materia oscura dell’ammasso, e le principali proprietà fisiche. E in secondo luogo, ha consentito di modellare e costruire la storia futura del protoammasso, scoprendo che somiglierà molto all’ammasso di Coma – uno degli ammassi più densi e popolosi dell’universo moderno.

Per crescere, una struttura come questa finirà per acquisire diverse centinaia e migliaia di altre galassie, delle quali gli astronomi hanno già trovato alcune tracce. Nella stessa regione di cielo ci sono infatti altre galassie che hanno un redshift fotometrico – stimato cioè con un metodo meno sicuro di quello utilizzato da Webb – simile a quello del protoammasso. Si trovano però ancora abbastanza lontane da questo, fino a un milione di anni luce di distanza dal centro della struttura, cinque volte più in là del suo raggio.

“Tutte le sette candidate che abbiamo osservato si sono rivelate parte della struttura, con un successo del 100%”, continua Vulcani. “In futuro di certo cercheremo di confermare anche gli altri candidati, per riuscire ad avere una stima più accurata delle dimensioni del protoammasso. Molto probabilmente finora ne abbiamo osservato solo il cuore, o una zona densa, ma pensiamo che ci siano altre galassie che non abbiamo individuato e che appartengono alla stessa struttura”.

Secondo la teoria della formazione e accrescimento delle strutture comiche, nel corso di miliardi di anni nuove galassie “cadranno” in questo protoammasso e contribuiranno alla sua crescita.

“La crescita delle strutture è simile a quella dei corsi d’acqua: torrenti che nascono da montagne diverse possono poi confluire in fiumi più grandi fino a formare i grandi fiumi. Così galassie inizialmente lontane con il passare del tempo si agglomerano in uno stesso spazio” commenta Vulcani, e conclude: “Quello che è sorprendente è che il nostro risultato supporta l’idea secondo cui galassie ad alto redshift che sono fisicamente lontane e magari non ancora parte di una struttura formata, in qualche modo sono già consapevoli del loro destino che le porterà a confluire in un ammasso. Queste galassie, infatti, formano stelle in maniera e quantità molto simili nel corso degli anni e hanno tutte un’evoluzione accelerata rispetto alle altre galassie che vivono la stessa epoca cosmica ma sono isolate. Come se, tornando all’immagine del fiume, le gocce d’acqua che nascono da sorgenti diverse in qualche modo sapessero che prima o poi si incontreranno”.

L’articolo Early results from GLASS-JWST. XVIII:A spectroscopically confirmed protocluster 650 million years after the Big Bang di Takahiro Morishita, Guido Roberts-Borsani, Tommaso Treu, Gabriel Brammer, Charlotte A. Mason, Michele Trenti, Benedetta Vulcani, Xin Wang, Ana Acebron, Yannick Bah´e, Pietro Bergamini, Kristan Boyett, Marusa Bradac, Antonello Calabrò, Marco Castellano, Wenlei Chen, Gabriella De Lucia, Alexei V.Filippenko, Adriano Fontana, Karl Glazebrook, Claudio Grillo, Alaina Henry, Tucker Jones, Patrick L. Kelly, Anton M. Koekemoer, Nicha Leethochawalit, Ting-Yi Lu, Danilo Marchesini, Sara Mascia, Amata Mercurio, Emiliano Merlin, Benjamin Metha, Themiya Nanayakkara, Mario Nonino, Diego Paris, Laura Pentericci, Piero Rosati, Paola Santini, Victoria Strait, Eros Vanzella, Rogier A.Windhorst e Lizhi Xie è stato pubblicato sul sito web della rivista The Astrophysical Journal Letters. DOI: 10.3847/2041-8213/acb99e

 Testo e immagine dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza
Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

GRB 221009A, IL LAMPO GAMMA PIÙ LUMINOSO DI TUTTI I TEMPI

Il potente lampo di raggi gamma scoperto il 9 ottobre 2022 è un evento estremamente raro, che si verifica una volta ogni 10mila anni. Le osservazioni, realizzate da telescopi nello spazio e a terra con forte coinvolgimento italiano, saranno determinanti per comprendere le colossali esplosioni da cui hanno origine i lampi gamma. L’annuncio oggi durante una conferenza stampa presso il meeting della High Energy Astrophysics Division della American Astronomical Society, alle Hawaii, in occasione della pubblicazione dei primi risultati, che vedono la partecipazione di numerosi team di ricerca dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e Agenzia Spaziale Italiana.

I raggi X del lampo gamma GRB 221009A sono stati rilevati per settimane come luce diffusa dalla polvere nella nostra galassia, portando alla comparsa di una serie di anelli in espansione. Questa animazione mostra le immagini catturate nel corso di 12 giorni dal telescopio a raggi X a bordo del Neil Gehrels Swift Observatory della NASA.
Crediti: NASA/Swift/A. Beardmore (University of Leicester)

Il 9 ottobre 2022, numerosi telescopi spaziali in orbita attorno alla Terra e sonde operanti in diverse aree del Sistema solare hanno rivelato un forte impulso di radiazione ad altissima energia, seguita da un’emissione prolungata su tutto lo spettro elettromagnetico. La sorgente era un lampo di raggi gamma (gamma ray burst, GRB), una delle esplosioni più potenti dell’universo, così eccezionale da guadagnarsi subito il soprannome di “BOAT” dall’inglese “Brightest Of All Time”, ovvero “il più luminoso di tutti i tempi”.

GRB 221009A, il lampo gamma più luminoso di tutti i tempi
GRB 221009A, il lampo gamma più luminoso di tutti i tempi. Il telescopio spaziale XMM-Newton dell’ESA ha registrato 20 anelli di polvere, 19 dei quali sono mostrati in questa immagine, che combina le osservazioni effettuate due e cinque giorni dopo la scoperta del GRB 221009A. Le strisce scure indicano gli spazi tra i rilevatori del telescopio. L’anello più grande visibile in questa immagine è paragonabile alle dimensioni apparenti della luna piena in cielo.
Crediti: ESA/XMM-Newton/M. Rigoselli (INAF)

Chiamato correntemente GRB 221009A, il lampo è stato rivelato per la prima volta dal Fermi Gamma-Ray Space Telescope della NASA, che vede un fondamentale contributo dell’Italia attraverso l’Agenzia spaziale italiana (ASI), l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), mentre il primo a dare l’annuncio è stato il satellite Neil Gehrels Swift Observatory, sempre della NASA, anch’esso con una forte partecipazione italiana attraverso ASI e INAF. Inizialmente si riteneva che la sua sorgente potesse trovarsi nella nostra galassia, la Via Lattea, ma ulteriori dati raccolti da Swift e Fermi e dal satellite INTEGRAL dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) hanno indicato un’origine molto più lontana. Grazie alle osservazioni realizzate poche ore dopo con lo strumento X-Shooter sul Very Large Telescope dell’ESO, in Cile, si è potuta finalmente identificare la sorgente del GRB: una galassia a circa 2 miliardi di anni-luce da noi. Si tratta di una distanza ragguardevole dalla Via Lattea ma relativamente vicina se si considerano le immense scale cosmiche. È il GRB più intenso di cui sia mai stata misurata la luminosità, e il più luminoso mai visto dalla Terra nei 55 anni da quando i primi satelliti per lo studio dei raggi gamma sono stati messi in orbita. È inoltre uno dei più vicini mai osservati tra i GRB lunghi, quelli la cui emissione iniziale dura più di 2 secondi.

Marco Tavani, presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, dichiara: “Il lampo gamma cosmico GRB 221009A è un evento a dir poco eccezionale per vari motivi. Prima di tutto, per la sua intrinseca potenza, durata e straordinaria intensità; ma anche per il fatto che si sia verificato, in termini cosmici, relativamente vicino alla Terra. Una combinazione rara, che non ha eguali tra i lampi gamma cosmici osservati negli ultimi decenni. La radiazione X e gamma delle prime fasi di GRB 221009A, e di seguito quella radio, ottica e X nella fase di emissione ritardata, è stata rivelata da diversi telescopi da terra e dallo spazio in cui l’Istituto Nazionale di Astrofisica è fortemente coinvolto se non primo attore. I telescopi utilizzati nello studio di questo GRB sono equipaggiati con strumenti all’avanguardia per poter catturare la radiazione dalla sorgente associata a GRB 221009A, analizzarla e comprendere i dettagli della poderosa esplosione da cui ha avuto origine. Il lavoro delle nostre ricercatrici e dei nostri ricercatori, che hanno guidato diversi studi sin dalle prime fasi di GRB 221009A, è stato fondamentale per caratterizzare questo peculiare lampo gamma cosmico e coglierne a pieno le sue potenzialità per la comprensione dei fenomeni più energetici dell’Universo che portano alla formazione delle stelle di neutroni e dei buchi neri”.

L’analisi dei dati, confrontati con quelli di circa 7mila GRB osservati nei decenni passati con il telescopio spaziale Fermi e lo strumento russo Konus a bordo del satellite NASA Wind, ha permesso di stimare la frequenza con cui si verifica un evento così luminoso e relativamente vicino: una volta ogni 10mila anni. Il lampo era così luminoso che ha letteralmente accecato la maggior parte degli osservatori spaziali a raggi gamma, che non hanno potuto misurare la reale intensità dell’emissione. Dopo aver ricostruito i dati mancanti di Fermi e grazie al confronto con i risultati del team russo che lavora sui dati Konus e con i team cinesi che analizzano le osservazioni del rivelatore GECAM-C a bordo del satellite SATech-01 e degli strumenti a bordo dell’osservatorio Insight-HXMT, si è dimostrato che l’esplosione è stata 70 volte più luminosa di qualsiasi altra mai vista.

L’evento è stato così brillante che la sua radiazione residua, il cosiddetto afterglow, è ancora visibile e rimarrà tale per molto tempo. I risultati sono stati presentati oggi durante il meeting della High Energy Astrophysics Division della American Astronomical Society a Waikoloa, Hawaii. Gli articoli che presentano i risultati sono stati pubblicati in un numero speciale della rivista The Astrophysical Journal Letters e su Astronomy & Astrophysics.

Hanno osservato il GRB anche lo strumento NICER a bordo della Stazione spaziale internazionale, il telescopio spaziale NuSTAR della NASA, la sonda Voyager 1 che esplora lo spazio interstellare, il satellite italiano AGILE, realizzato dall’ASI con il contributo di INAF e INFN, e diversi satelliti dell’ESA, tutti con importanti contributi italiani: dai telescopi spaziali XMM-Newton e INTEGRAL alle sonde Solar Orbiter e BepiColombo fino al satellite Gaia. INTEGRAL, trovandosi in posizione ottimale, ne ha registrato sia l’emissione immediata sia l’afterglow con un’accuratezza senza precedenti. Gli scienziati ritengono che i GRB lunghi, come questo, derivino dal collasso del nucleo di una stella massiccia e la conseguente nascita di un buco nero, che emette getti di particelle ad altissima energia in direzioni opposte mentre ingurgita la materia circostante. Osservare l’afterglow del GRB, causato proprio da questi getti bipolari, ha permesso di testare i diversi modelli teorici che descrivono i processi fisici in atto nelle fasi iniziali dell’esplosione.

“Si tratta di una scoperta importante – commenta il presidente dell’ASI Giorgio Saccoccia – resa possibile anche grazie al contribuito di tutte le sonde come Fermi, Swift, INTEGRAL, AGILE, NuSTAR, IXPE, XMM, Solar Orbiter, Bepi Colombo, Gaia e CSES. Satelliti in orbita a cui ASI ha dato il suo contributo. Il merito va anche al nostro Space Science Data Center (SSDC) che mette da diverso tempo a fattor comune i dati scientifici provenienti da tutte queste missioni che hanno a bordo strumentazioni fornite da ASI. Questa visione multidisciplinare della scienza spaziale rappresenta il percorso vincente per aumentare le competenze italiane nello studio dell’Universo. Si tratta di una forte capacità dell’ASI che, da sempre, lavora insieme all’intera comunità scientifica, per lo sviluppo di tecnologie all’avanguardia, che consentono di avere una visione dell’Universo più completa”.

Dopo aver viaggiato attraverso lo spazio intergalattico, la radiazione proveniente dal GRB 221009A si è imbattuta nelle nubi di polvere presenti nel mezzo interstellare che permea la nostra galassia, la Via Lattea. Quando i raggi X incontrano la polvere, una parte di essi viene dispersa, creando anelli concentrici che sembrano espandersi verso l’esterno: una sorta di eco luminosa del lampo mentre attraversa la galassia. Il telescopio spaziale XMM-Newton ha fornito un’immagine profonda e dettagliata di 20 anelli, osservando in diversi giorni dopo la scoperta del GRB, mentre il satellite Swift ne ha monitorato l’evoluzione nel tempo. L’anello più distante è sorto dall’impatto con una nube di polvere situata a 61mila anni luce di distanza, dall’altro lato della Via Lattea, mentre il più vicino, visto solo da Swift, si è formato a circa 700 anni luce da noi. Il modo in cui una nube di polvere diffonde i raggi X dipende dalla sua distanza, dalle dimensioni dei granelli di polvere e dall’energia dei raggi X: l’analisi degli anelli creati dal GRB ha permesso di ricostruire parte della sua emissione iniziale a raggi X ma anche la distribuzione e composizione delle nubi di polvere nella nostra galassia. I dati indicano che i granelli di polvere sono composti principalmente da grafite, una forma cristallina del carbonio.

Gli anelli di polvere sono stati rivelati anche dall’osservatorio spaziale IXPE, una collaborazione tra NASA e ASI con un importante contributo di INAF e INFN, che osserva la polarizzazione dei raggi X. Il piccolo grado di polarizzazione misurato da IXPE nella fase di afterglow conferma che uno dei due getti è stato osservato in direzione quasi frontale. Da questo tipo di GRB, gli scienziati si aspettano di osservare anche una supernova poche settimane dopo, che però non è stata rivelata. Uno dei possibili motivi della mancata osservazione potrebbe essere l’attenuazione da parte di spesse nubi di polvere nel piano della Via Lattea. Tuttavia, non ha sortito successo nemmeno la ricerca nell’infrarosso effettuata con il telescopio spaziale James Webb, che ha osservato l’afterglow in contemporanea con il Telescopio Nazionale Galileo (TNG) dell’INAF. Può darsi che la stella fosse così massiccia che, dopo l’esplosione iniziale, abbia immediatamente formato un buco nero che ha inghiottito tutto il materiale circostante, impedendo la formazione di una nube di gas, il cosiddetto resto di supernova.

“Un evento davvero unico per la sua intensità e vicinanza cosmica – spiega Marco Pallavicini, vicepresidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare – che conferma il potere diagnostico delle misure di polarizzazione offerte da IXPE e dallo strumento innovativo che INFN ha sviluppato e messo a disposizione della missione, il quale si innesta in una ormai consolidata tradizione di successi ottenuti nell’ambito della realizzazione di rivelatori spaziali di sempre maggiore efficacia e capacità risolutive. Risultati certificati anche dai contributi forniti a molti degli osservatori spaziali, tra cui Fermi e AGILE, protagonisti della caratterizzazione di questo GRB senza precedenti.”

Anche sulla Terra il GRB 221009A ha fatto sentire i suoi effetti, rilasciando nei pochi minuti della sua durata circa un gigawatt di potenza nella porzione superiore della nostra atmosfera, ionizzando fortemente la parte alta della ionosfera su una larga regione geografica centrata sull’India e che ha interessato anche Europa e Asia. L’aumento del flusso di elettroni correlato con il GRB è stato misurato dal rivelatore di particelle cariche HEPP-L a bordo del China Seismo-Electromagnetic Satellite (CSES-01), che vede la partecipazione di ASI e INFN, il quale stava orbitando sopra l’Europa al momento dell’arrivo del GRB.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

JWST CATTURA LE GALASSIE CHE HANNO REIONIZZATO L’UNIVERSO

Un team internazionale di ricercatrici e ricercatori guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha studiato 29 galassie ai primordi dell’universo, stimando per la prima volta la frazione di luce da esse rilasciata in grado di ionizzare il gas circostante. Questo lavoro è stato reso possibile grazie al telescopio spaziale JWST e l’aiuto di un massiccio ammasso di galassie che, come una lente, ha amplificato la luce proveniente dalle galassie ancora più distanti.

Le prime stelle e galassie nella storia dell’universo, nate oltre tredici miliardi di anni fa, quando il cosmo aveva solo poche centinaia di milioni di anni d’età, si sono formate a partire da una miscela di gas neutro, costituito principalmente da atomi di idrogeno. La radiazione energetica proveniente da queste prime stelle e galassie ha poi contribuito, nelle centinaia di milioni di anni seguenti, a trasformare questo gas e ionizzarlo, cioè scinderlo in elettroni e protoni. Gli astronomi la chiamano “reionizzazione” poiché durante questa fase il mezzo intergalattico che pervade l’universo, da neutro, torna a essere ionizzato come lo era nel cosmo primordiale. Non è però ancora chiaro quali galassie abbiano contribuito maggiormente a reionizzare il mezzo intergalattico nei primi stadi di questo processo, né quale percentuale di fotoni – le particelle di luce – con energie sufficienti a ionizzare il gas circostante sia fuoriuscita dai diversi tipi di galassie presenti all’epoca.

JWST CATTURA LE GALASSIE CHE HANNO REIONIZZATO L’UNIVERSO
JWST cattura le galassie che hanno reionizzato l’universo. JWST-Abell-2744: L’ammasso di galassie Abell 2744, chiamato anche Ammasso di Pandora, osservato con il telescopio spaziale Webb. L’ammasso agisce da lente gravitazionale, amplificando la luce proveniente da sorgenti più distanti e permettendo di rilevare galassie tra le prime a formarsi nella storia dell’universo. Crediti: NASA, ESA, CSA, I. Labbe (Swinburne University of Technology), R. Bezanson (University of Pittsburgh), A. Pagan (STScI)

Con il suo specchio dal diametro di 6,5 metri e la sensibilità osservativa nella banda infrarossa, il James Webb Space Telescope (JWST), osservatorio spaziale della NASA in collaborazione con ESA e CSA, può spingersi indietro nel tempo fino alle galassie più distanti, tra le prime a formarsi nella storia dell’universo. Il progetto GLASS, una collaborazione internazionale di ricercatrici e ricercatori in 24 istituti di ricerca e università tra Italia, Stati Uniti, Giappone, Danimarca, Australia, Cina e Slovenia, che utilizza JWST per cercare risposta ai quesiti ancora aperti sulla reionizzazione cosmica, ha recentemente pubblicato un nuovo articolo a guida italiana sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

“Abbiamo studiato, tramite osservazioni spettroscopiche e fotometriche ottenute con JWST, 29 galassie lontane e siamo riuscite a misurare in maniera indiretta le loro capacità ionizzanti, dato che a distanze così elevate non è possibile osservare direttamente i fotoni di così alta energia che sono quelli che hanno portato alla reionizzazione del mezzo intergalattico”, spiega la prima autrice del nuovo articolo Sara Mascia, dottoranda in Astronomy, Astrophysics and Space Science all’Università di Roma Tor Vergata, che porta avanti la sua ricerca presso l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). “Questo studio dimostra la capacità di JWST non solo di trovare le galassie più distanti ma anche di svelarne le proprietà fisiche.”

La luce proveniente da queste galassie, catturata con gli strumenti NIRCam e NIRSPec a bordo di JWST, è stata emessa quando l’universo aveva un’età compresa tra circa 650 milioni e 1,3 miliardi di anni. Prima di queste osservazioni, le proprietà ionizzanti di queste lontanissime galassie erano ignote, soprattutto per quanto riguarda le galassie di piccola massa, molto difficili da studiare.

“Abbiamo stimato per la prima volta la capacità ionizzante delle galassie nell’epoca della reionizzazione: in particolare, siamo riusciti a stimare quanti fotoni ionizzanti fuoriescono dalle galassie di piccola massa grazie all’effetto di lente gravitazionale da parte di Abell 2744, un ammasso di galassie che si trova tra noi e le galassie distanti e amplifica il loro segnale”,

aggiunge Laura Pentericci, ricercatrice INAF a Roma e co-autrice del nuovo lavoro.

“I nostri risultati indicano che oltre l’80 percento delle galassie osservate contribuisce in maniera significativa alla reionizzazione.”

Nuove osservazioni che saranno realizzate prossimamente con JWST estenderanno questa analisi a campioni più grandi di galassie, includendo quelle con masse più elevate o più distanti. Lo scopo è di determinare se la maggior parte dei fotoni che hanno contribuito a reionizzare l’universo sia stata fornita da galassie più massicce e luminose di quelle osservate oppure se, come ritenuto dai principali modelli attuali, il contributo maggiore sia dovuto alle galassie più deboli, molto più numerose.


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Closing in on the sources of cosmic reionization: first results from the GLASS-JWST program”, di S. Mascia, L. Pentericci, A. Calabrò, T. Treu, P. Santini, L. Yang, L. Napolitano, G. Roberts-Borsani, P. Bergamini, C. Grillo, P. Rosati, B. Vulcani, M. Castellano, K. Boyett, A. Fontana, K. Glazebrook, A. Henry, C. Mason, E. Merlin, T. Morishita, T. Nanayakkara, D. Paris, N. Roy, H. Williams, X. Wang, G. Brammer, M. Bradac, W. Chen, P. L. Kelly, A. M. Koekemoer, M. Trenti, R. A. Windhorst, è stato pubblicato online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

 

Allo studio hanno partecipato anche ricercatori delle università di Ferrara e Statale di Milano.

Testo e immagine dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

“ESSERE (POLARIZZATI) O NON ESSERE (POLARIZZATI)?”

La missione NASA-ASI IXPE svela i misteri di una storica supernova, Tycho

supernova Tycho
Immagine composita del resto di supernova Tycho con riprese dei raggi X delle missioni IXPE e Chandra e nel visibile del progetto NASA Digital Sky Survey. Crediti: X-ray: Chandra: Nasa/Cxc/Sao, Ixpe: Nasa/Msfc/Ferrazzoli et al.; Optical: Nasa/DSS

È una missione da record quella dell’osservatorio spaziale IXPE, nata dalla collaborazione tra la NASA e l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI). La sonda sta sfornando nuove immagini che sono una fonte inesauribile di preziosi dati per i ricercatori di tutto il mondo. Infatti è stato proprio un team internazionale di scienziati che ha scoperto nuove informazioni sui resti di una stella esplosa nel 1572. I risultati hanno fornito nuovi indizi sulle condizioni fisiche presenti nelle onde d’urto create in queste titaniche esplosioni stellari chiamate supernove.

Il resto della supernova si chiama Tycho, in onore dell’astronomo danese Tycho Brahe che notò il bagliore luminoso di questa nuova “stella” situata in direzione della costellazione di Cassiopea più di 450 anni fa. Nel nuovo studio, gli astronomi hanno utilizzato l’Imaging X-Ray Polarimetry Explorer (IXPE) per studiare i raggi X polarizzati emessi dal resto della supernova Tycho, scoprendo nuove informazioni sulla geometria dei suoi campi magnetici che sono una componente essenziale per l’accelerazione di particelle ad alta energia.

Lanciata nello spazio il 9 dicembre 2021, IXPE è una missione interamente dedicata allo studio dell’Universo attraverso la misura della polarizzazione dei raggi X. Utilizza tre telescopi installati a bordo con rivelatori finanziati dall’ASI e sviluppati da un team di scienziati dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), con il supporto industriale di OHB-Italia.

“L’importanza del resto di supernova di Tycho va al di là del suo interesse scientifico”, dice Riccardo Ferrazzoli, ricercatore presso l’INAF di Roma. “Essendo una delle cosiddette supernove storiche, Tycho è stata osservata dall’umanità in passato e ha avuto un duraturo impatto sociale e persino artistico. È emozionante essere qui, 450 anni dopo la sua prima apparizione nel cielo, rivedere questo oggetto con occhi nuovi e imparare da esso”. Ferrazzoli è il primo autore del lavoro che appare nell’ultimo numero della rivista The Astrophysical Journal.

La polarizzazione in banda X indica agli scienziati la direzione e l’ordine del campo magnetico della radiazione proveniente da una sorgente altamente energetica come Tycho. I raggi X polarizzati sono prodotti dagli elettroni che si muovono nel campo magnetico in un processo chiamato “emissione di sincrotrone”. La direzione di polarizzazione X può essere ricondotta alla direzione dei campi magnetici nel punto in cui sono stati generati i raggi X. Queste informazioni aiutano gli scienziati ad affrontare alcune delle più grandi domande in astrofisica, come il modo in cui Tycho e altri oggetti accelerano le particelle fino a velocità prossime a quelle della luce.

IXPE ha aiutato a mappare la forma del campo magnetico di Tycho con una chiarezza e un livello di dettaglio senza precedenti. L’osservatorio ha misurato la forma del campo magnetico a scale più piccole di un parsec ossia circa 3 anni luce – una dimensione enorme in termini umani, ma tra le più piccole mai raggiunte nelle osservazioni di queste sorgenti. Queste informazioni sono preziose per comprendere come le particelle vengano accelerate sulla scia dell’onda d’urto dell’esplosione iniziale.

I ricercatori hanno anche documentato somiglianze e differenze sorprendenti tra le scoperte di IXPE fra Tycho e il resto di supernova Cassiopea A, osservato in precedenza dall’osservatorio spaziale e studiato dal suo team scientifico. La forma complessiva del campo magnetico di entrambi i resti di supernova sembra essere radiale, estendendosi verso l’esterno. Ma Tycho ha prodotto un grado di polarizzazione dei raggi X molto più elevato rispetto a Cassiopea A, suggerendo che potrebbe possedere un campo magnetico più ordinato e meno turbolento.

“Dopo un anno di osservazioni, IXPE non smette di stupirci. Abbiamo osservato solo due resti di supernova, e già con così poco è emersa una diversità. La polarimetria X sta davvero aggiungendo tasselli mancanti alla nostra comprensione degli oggetti cosmici. Questo ci ripaga dell’investimento fatto sul lavoro di ricercatori e ricercatrici, che ha reso IXPE la magnifica realtà che è oggi” commenta Laura Di Gesu, ricercatrice ASI e co-autrice dell’articolo.

La supernova Tycho è classificata come tipo I-a, evento che si verifica quando una stella nana bianca in un sistema binario fa a pezzi la sua stella compagna, catturandone parte della massa ed innescando una violenta esplosione. L’annientamento della nana bianca scaglia i detriti nello spazio ad altissime velocità. Si ritiene comunemente che tali eventi siano la fonte della maggior parte dei raggi cosmici galattici trovati nello spazio, compresi quelli che bombardano continuamente l’atmosfera terrestre.

“Il processo mediante il quale un resto di supernova diventa un gigantesco acceleratore di particelle richiede una delicata danza tra ordine e caos”,

afferma l’astrofisico Patrick Slane dell’Harvard & Smithsonian Center for Astrophysics a Cambridge nel Massachusetts, Stati Uniti.

“Sono necessari campi magnetici forti e turbolenti, ma IXPE ci sta mostrando che è coinvolta anche un’uniformità o coerenza su larga scala, che si estende fino ai siti in cui si verifica l’accelerazione”.

L’esplosione della supernova stessa rilasciò un’energia pari a quella prodotta dal Sole nel corso di 10 miliardi di anni. Quella brillantezza rese la supernova di Tycho visibile ad occhio nudo qui sulla Terra nel 1572, quando fu avvistata da Brahe e da molti altri personaggi dell’epoca, incluso potenzialmente il giovanissimo William Shakespeare, che l’avrebbe poi descritta in un passaggio “dell’Amleto” all’inizio del XVII secolo.

“La Supernova Tycho è stata la sfida perfetta per gli strumenti di IXPE” conclude Enrico Costa dell’INAF, coautore dell’articolo: “I luoghi del fronte d’urto dove i Raggi Cosmici vengono accelerati vanno individuati con un’attenta analisi dell’immagine, dominata dall’emissione non polarizzata dei filamenti termalizzati. Ciò è possibile grazie alle buone proprietà di imaging dei rivelatori e all’eccellente qualità del telescopio, entrambi eccezionali per una piccola missione di massa così ridotta. Alla fine abbiamo trovato qualcosa di molto diverso dalle previsioni e questa è la migliore ricompensa per un astronomo”.

 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “X-ray polarimetry reveals the magnetic field topology on sub-parsec scales in Tycho’s supernova remnant“, di Riccardo Ferrazzoli, Patrick Slane, Dmitry Prokhorov, Ping Zhou, Jacco Vink, Niccolò Bucciantini, Enrico Costa, Niccolò Di Lalla, Alessandro Di Marco, Paolo Soffitta, Martin C. Weisskopf, Kazunori Asakura, Luca Baldini, Jeremy Heyl, Philip E. Kaaret, Frédéric Marin, Tsunefumi Mizuno, C.-Y. Ng, Melissa Pesce-Rollins, Stefano Silvestri, Carmelo Sgrò, Douglas A. Swartz, Toru Tamagawa, Yi-Jung Yang, Iván Agudo, Lucio A. Antonelli, Matteo Bachetti, Wayne H. Baumgartner, Ronaldo Bellazzini, Stefano Bianchi, Stephen D. Bongiorno, Raffaella Bonino, Alessandro Brez, Fiamma Capitanio, Simone Castellano, Elisabetta Cavazzuti, Chien-Ting Chen, Stefano Ciprini, Alessandra De Rosa, Ettore Del Monte, Laura Di Gesu, Immacolata Donnarumma, Victor Doroshenko, Michal Dovčiak, Steven R. Ehlert, Teruaki Enoto, Yuri Evangelista, Sergio Fabiani, Javier A. Garcia, Shuichi Gunji, Kiyoshi Hayashida, Wataru Iwakiri, Svetlana G. Jorstad, Fabian Kislat, Vladimir Karas, Takao Kitaguchi, Jeffery J. Kolodziejczak, Henric Krawczynski, Fabio La Monaca, Luca Latronico, Ioannis Liodakis, Simone Maldera, Alberto Manfreda, Andrea Marinucci, Alan P. Marscher, Herman L. Marshall, Giorgio Matt, Ikuyuki Mitsuishi, Fabio Muleri, Michela Negro, Stephen L. O’Dell, Nicola Omodei, Chiara Oppedisano, Alessandro Papitto, George G. Pavlov, Abel L. Peirson, Matteo Perri, Pierre-Olivier Petrucci, Maura Pilia, Andrea Possenti, Juri Poutanen, Simonetta Puccetti, Brian D. Ramsey, John Rankin, Ajay Ratheesh, Oliver Roberts, Roger W. Romani, Gloria Spandre, Fabrizio Tavecchio, Roberto Taverna, Yuzuru Tawara, Allyn F. Tennant, Nicholas E. Thomas, Francesco Tombesi, Alessio Trois, Sergey S. Tsygankov, Roberto Turolla, Kinwah Wu, Fei Xie, Silvia Zane è stato pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal.

 

Testo e immagine dagli Uffici Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e Agenzia Spaziale Italiana (ASI).

LA PIÙ ACCURATA MAPPA VULCANICA DEL SATELLITE GIOVIANO IO

Grazie ai dati raccolti dallo stumento JIRAM a bordo della missione NASA Juno, un team di ricerca a guida INAF ha identificato 242 “hot spot”, ovvero zone calde che indicano la presenza di vulcani, di cui 23 non osservati precedentemente sul satellite più interno di Giove. I dati indicano una maggiore concentrazione di punti vulcanici caldi nelle regioni polari rispetto alle latitudini intermedie. Si tratta della mappatura migliore mai ottenuta da remoto.

La più accurata mappa vulcanica del satellite gioviano Io
La più accurata mappa vulcanica del satellite gioviano Io, grazie allo strumento JIRAM. Insieme di figure chiamate “super immagini”, ottenute calcolando la media di più osservazioni JIRAM acquisite in un lasso di tempo di pochi minuti. Questo approccio riduce la possibilità di falsi positivi. Le immagini ritraggono gli hot spot di Io nel corso degli anni. Crediti: F. Zambon et al. / Geophysical Research Letters

L’infernale luna Io (la più interna fra quelle regolari del sistema gioviano) è il corpo vulcanicamente più attivo dell’intero Sistema solare. Un recente articolo pubblicato sulla rivista Geophysical Research Letters (GRL) fa nuova luce sulle proprietà vulcaniche di questo satellite, in particolare grazie a nuovi dati raccolti da JIRAM (Jovian InfraRed Auroral Mapper), uno degli otto strumenti a bordo della sonda NASA Juno. Finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e realizzato da Leonardo, lo strumento vede la responsabilità scientifica dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). L’articolo delinea la mappa più recente della distribuzione degli hot spot (punti vulcanici caldi) di Io prodotta con dati JIRAM da remoto alla migliore scala spaziale attualmente disponibile. I ricercatori, guidati dall’INAF, sono riusciti a ottenere, inoltre, una migliore copertura delle regioni di Io prossime ai poli rispetto al passato.

Francesca Zambon, membro del gruppo JIRAM, ricercatrice dell’INAF di Roma e prima autrice dell’articolo pubblicato su GRL, spiega:

“La mappa degli hot spot presentata nel nostro lavoro è la più aggiornata tra quelle basate su dati di telerilevamento spaziale. Analizzando le immagini infrarosse acquisite da JIRAM, abbiamo individuato 242 punti vulcanici caldi, di cui 23 non presenti in altri cataloghi e localizzati nella maggior parte dei casi nelle regioni polari, grazie alla peculiare orbita della sonda Juno”.

La ricercatrice sottolinea: “Il confronto tra il nostro studio e il catalogo più recente rivela che JIRAM ha osservato l’82% degli hot spot più potenti precedentemente individuati, e la metà degli hot spot di potenza intermedia, dimostrando quindi che questi sono ancora attivi. Tuttavia, JIRAM ha rilevato solo circa la metà degli hot spot più deboli precedentemente segnalati. Le spiegazioni sono due: o la risoluzione di JIRAM non è sufficiente per rilevare questi deboli punti caldi, oppure l’attività di questi centri effusivi potrebbe essersi sbiadita o interrotta”.

Quando la sonda spaziale NASA Voyager 1 avvicinò Io, il più interno dei satelliti galileiani di Giove, nel marzo 1979, le immagini inviate alla Terra rivelarono che la sua superficie appariva punteggiata da una moltitudine di centri vulcanici caldi, con imponenti colate laviche e pennacchi alti fino a qualche centinaio chilometri. In seguito, l’esplorazione condotta soprattutto dalla missione NASA Galileo chiarì che questi punti caldi sono moltissimi: alcune centinaia, molti dei quali con attività pressoché costante.

 

La luna Io mostra molti centri vulcanici, innescati principalmente dalle potenti forze mareali esercitate da Giove. Lo studio dell’attività vulcanica di questo satellite gioviano è la chiave per comprendere la natura dei suoi processi geologici e la sua evoluzione interna. La distribuzione degli hot spot e la loro variabilità spaziale e temporale sono importanti per definire le caratteristiche del riscaldamento delle maree e i meccanismi attraverso i quali il calore fuoriesce dall’interno.

 

Alessandro Mura, leader del gruppo JIRAM e ricercatore dell’INAF di Roma, prosegue:

“Uno dei maggiori punti aperti nella comprensione della struttura interna di Io è se l’attività vulcanica osservabile in superficie sia dovuta a un oceano di magma globale presente nel mantello, oppure a camere magmatiche che si insinuano nella crosta a minori profondità. Le osservazioni di JIRAM sono tuttora in corso, e le future immagini a maggiore definizione saranno fondamentali per meglio evidenziare i punti caldi deboli e per chiarire la struttura interna di Io”.

Giuseppe Sindoni, responsabile del progetto JIRAM per l’ASI, aggiunge:

“La superficie della luna gioviana Io è molto dinamica, con vulcani ed emissioni laviche in continua evoluzione, come dimostrato da questo importante risultato ottenuto dal nostro strumento JIRAM e dall’ottimo lavoro svolto dal team. L’estensione della missione Juno fino al 2025 ci permetterà di monitorare questa evoluzione e di comprendere meglio i processi fisici che guidano un corpo così complesso e dalle fattezze simili alla nostra Terra primordiale, anche in previsione di future missioni dedicate.”

La sonda Juno è stata lanciata ad agosto 2011 dalla base di Cape Canaveral ed è in orbita attorno a Giove dal luglio del 2016. Da allora ha percorso 235 milioni di chilometri. Juno è tuttora la sonda in orbita planetaria più distante della NASA, e continuerà le sue indagini sul pianeta più grande del Sistema solare fino a settembre 2025.

Alla fine dell’anno, il 30 dicembre 2023, durante la 57ma orbita attorno a Giove, la sonda Juno effettuerà il suo passaggio più ravvicinato in assoluto a Io, a una distanza minima di circa 4800 chilometri. Le missioni Europa Clipper della NASA e JUICE di ESA, che opereranno nel sistema di Giove negli anni 2030, non potranno mai avvicinarsi a simili distanze. Sarà quindi cruciale che Juno possa condurre osservazioni anche con JIRAM durante tutte le prossime opportunità previste nel 2023.


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Io hot spot distribution detected by Juno/JIRAM”, di F. Zambon, A. Mura, R. M. C. Lopes, J. Rathbun, F. Tosi, R. Sordini, R. Noschese, M. Ciarniello, A. Cicchetti, A. Adriani, L. Agostini, G. Filacchione, D. Grassi, G. Piccioni, C. Plainaki, G. Sindoni, D. Turrini, S. Brooks, C. Hansen-Koharcheck, S. Bolton, è stato pubblicato su Geophysical Research Letters.

Testo e immagine dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF sulla mappa vulcanica di Io prodotta dallo strumento JIRAM

IXPE RIVELA NUOVI INDIZI SUI MECCANISMI ALLA BASE DELLA LUMINOSITÀ DEI BLAZAR

A poco meno di un anno dal suo lancio, la missione Imaging X-Ray Polarimetry Explorer (IXPE), frutto della collaborazione tra NASA e Agenzia Spaziale Italiana, continua a fornire nuovi fondamentali contributi per la comprensione delle caratteristiche delle più esotiche sorgenti astrofisiche. Grazie ai dati raccolti dai suoi tre telescopi, che si avvalgono di particolari rivelatori per lo studio della polarizzazione della luce nella banda X sviluppati e realizzati dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare – INFN e dall’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF, IXPE ha infatti consentito di appurare che dietro l’accelerazione – a velocità prossime a quelle della luce – delle particelle di cui sono composti i poderosi getti emessi dai blazar, oggetti appartenenti alla famiglia dei nuclei galattici attivi tra i più luminosi del cielo, potrebbero celarsi delle potenti onde d’urto. A rivelarlo, uno studio pubblicato oggi, 23 novembre, sul sito web della rivista Nature dal team internazionale di scienziati della collaborazione IXPE, di cui fanno parte ricercatrici e ricercatori di ASI, INFN, INAF e delle università di Siena, Torino, Pisa, Firenze, Roma Tre, Roma Tor Vergata e Padova, che ha preso in esame i dati relativi a Markarian 501, un blazar situato in direzione della costellazione di Ercole, confrontandoli con quelli ottenuti in altre lunghezze d’onda da alcuni telescopi da Terra e dallo spazio.

IXPE blazar
Schema dell’osservazione del blazar Markarian 501 da parte del satellite IXPE. Nel circolo sono evidenziate le particelle di alta energia presenti nel getto (in blu). Quando le particelle si scontrano con l’onda d’urto, indicata dalla barra bianca, acquistano energia ed emettono raggi X. Allontanandosi dalla zona d’impatto, emettono radiazione di energia più bassa: dapprima luce visibile, poi infrarossa e infine onde radio. A grande distanza dall’onda d’urto le linee del campo magnetico sono più aggrovigliate, provocando una maggiore turbolenza nel fascio di particelle. Crediti:Pablo Garcia (NASA/MSFC)

Costituiti da buchi neri supermassicci molto attivi di milioni o forse miliardi di masse solari, che attraggono continuamente nella loro orbita il materiale responsabile della formazione dei cosiddetti dischi di accrescimento, i blazar sono caratterizzati dall’emissione di due potenti getti di particelle, perpendicolari ai dischi stessi, uno dei quali indirizzato verso la Terra, rendendoli così particolarmente luminosi. Studiando nel dettaglio la polarizzazione della luce nella banda X proveniente da Markarian 501, ovvero la direzione in cui oscilla il campo elettrico a essa associato, IXPE ha consentito di mappare il campo magnetico all’interno del quale le particelle vengono accelerate emettendo fotoni, e di comprendere per la prima volta che la causa più probabile della loro energia così elevata è attribuibile al propagarsi di un’onda d’urto all’interno del getto.

“Abbiamo risolto un mistero che dura da 40 anni”, ha dichiarato Yannis Liodakis, autore principale dello studio e astronomo presso il FINCA, il centro astronomico finlandese dell’ESO. “Finalmente abbiamo completato il puzzle e il quadro che ne emerge è piuttosto chiaro”.

Le osservazioni effettuate da IXPE nel marzo 2022, insieme a quelle condotte nello stesso periodo in direzione dello stesso oggetto da altri telescopi, hanno quindi consentito di studiare la radiazione emessa in un’ampia gamma di lunghezze d’onda, tra cui quella radio, ottica e, per la prima volta, X, e di dimostrare come proprio la radiazione X emessa dal blazar fosse più polarizzata di quella ottica, che a sua volta è risultata più polarizzata di quella radio.

Dopo aver confrontato le informazioni con i modelli teorici, il team di astronomi si è reso conto che i dati corrispondevano maggiormente a uno scenario in cui un’onda d’urto accelera le particelle del getto. Un’onda d’urto si genera quando qualcosa si muove più velocemente della velocità del suono del materiale circostante, come quando un jet supersonico vola nell’atmosfera terrestre.

Le discrepanze riscontrante nel grado di polarizzazione della luce alle diverse frequenze possono perciò essere spiegate supponendo che, una volta superato il luogo di origine dell’onda d’urto, le particelle che compongono il getto dei blazar attraversino regioni caratterizzate da campi magnetici turbolenti, in maniera analoga a ciò che accade a un flusso d’acqua dopo aver superato una cascata. La turbolenza ha infatti l’effetto di ridurre la polarizzazione della luce. La radiazione X risulterebbe perciò più polarizzata poiché viene emessa da particelle più energetiche, appena accelerate nella zona dell’onda d’urto, al contrario della luce emessa nella banda ottica e in quella radio.

“Le prime misure di polarizzazione nei raggi X di questa classe di sorgenti hanno consentito, per la prima volta, un confronto diretto con i modelli elaborati nell’ambito del complesso quadro evidenziato dalle osservazioni multifrequenza, dalla banda radio fino alle altissime energie. Nuove evidenze verranno fornite da IXPE grazie all’analisi dei dati in corso e di quelli da acquisire in futuro”, commenta Immacolata Donnarummaproject scientist di IXPE per l’Agenzia Spaziale Italiana.

“IXPE è stato progettato per funzionare in una banda di energia, ‘i raggi X molli’, che permette, tra l’altro, di sondare la fisica di diverse classi di Blazar. Nel caso di Mrk 501 abbiamo potuto sondarne una in cui i raggi X sono emessi da elettroni che si muovono a velocità molto prossime a quelle della luce intorno al campo magnetico. Altri Blazar di diversa tipologia verranno studiati durante la prossima fase osservativa della missione”, osserva Paolo Soffitta, ricercatore INAF e principal investigator italiano di IXPE.

“Grazie ad un rivelatore innovativo, il Gas Pixel Detector, interamente sviluppato e realizzato in Italia, IXPE ha permesso finalmente di aggiungere uno dei tasselli mancanti alla comprensione dell’Universo ad alta energia, e questo studio dimostra appieno il potenziale scientifico di questa nuova finestra osservativa”, conclude Luca Baldini, dell’INFN di Pisa e co-principal investigator  italiano di IXPE.

Ulteriori campagne di osservazione si concentreranno nel prossimo futuro su Markarian 501, allo scopo di comprendere se il grado polarizzazione vari nel tempo. Indagini che vedranno impegnato anche IXPE, che durante i prossimi due anni, IXPE studierà inoltre altre sorgenti simili, fornendo un nuovo strumento capace di esplorare sempre più da vicino le proprietà delle regioni di spazio che ospitano sorgenti astrofiche esotiche quali buchi neri, stelle di neutroni e resti di supernovae.

 

Testo e immagine dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

Ovospace: l’esperimento della Sapienza in collaborazione con la Nasa e l’ASI per svelare gli effetti della microgravità sui meccanismi legati alla fertilità e alla riproduzione

L’esperimento è stato lanciato tramite razzo vettore sulla International Space Station per osservare gli effetti della microgravità sulle funzioni endocrine di cellule ovariche bovine. I risultati serviranno a comprendere alcuni aspetti della riproduzione sulla Terra, ma anche in vista di missioni spaziali di lunga durata ed eventuali insediamenti umani in altri pianeti.

Il 7 novembre alle ore 5.35 del mattino sulla costa est degli USA, è stato lanciato con successo il razzo NG-18/Antares dalla base NASA Wallops Flight Facility (Virginia).

Il razzo vettore ha lanciato la navicella Cygnus che ha portato sulla International Space Station rifornimenti e alcuni esperimenti scientifici. Fra questi, l’esperimento del progetto OVOSPACE, finanziato e coordinato dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e ideato da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Medicina sperimentale della Sapienza guidati da Mariano Bizzarri.

OVOSPACE ha l’obiettivo di studiare l’effetto della microgravità sulle funzioni endocrine di due tipi di cellule ovariche bovine: cellule della teca e cellule della granulosa, responsabili della produzione di androgeni e della loro trasformazione in estrogeni, allo scopo di supportare la maturazione dell’ovocita e quindi la fertilità. Nei laboratori messi a disposizione dalla Eastern Virginia Medical School (EVMS) di Norfolk, Virginia, il team Sapienza composto da Andrea Fuso e da Valeria Fedeli, Noemi Monti e Tiziana Raia ha allestito l’esperimento collocando le cellule in un “MiniLab” in grado di garantire la sopravvivenza delle cellule in maniera automatizzata. Il MiniLab, ovvero il cosiddetto “hardware di volo”, è stato sviluppato da Aerospace Laboratory for Innovative Components S.c.a.r.l. (ALI Scarl) i cui tecnici erano anche presenti presso l’EVMS per l’assemblaggio ed i controlli. Dopo 72 ore dall’arrivo sulla ISS, le cellule saranno “fissate” sempre grazie al MiniLab in attesa del loro rientro sulla terra, a gennaio, per eseguire le analisi molecolari previste.

L’esperimento in orbita aiuta a comprendere il coinvolgimento di fattori biofisici sul processo di maturazione dell’ovocita. I risultati di OVOSPACE avranno un ruolo chiave per la salute e la riproduzione umana sulla terra ma anche in ottica di missioni spaziali di lunga durata e insediamenti umani in altri pianeti.

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

SOLAR ORBITER RISOLVE IL MISTERO DEGLI “SWITCHBACK”

L’osservatorio spaziale vicino ai segreti del Sole

Hanno partecipato alla ricerca coordinata da Daniele Telloni dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – Osservatorio Astrofisico di Torino ricercatori dell’Università di Padovadell’Istituto Nazionale di Astrofisica, dell’Agenzia Spaziale Italiana, delle Università di Firenze e di Urbino, del Consiglio Nazionale delle Ricerche, dell’Università dell’Alabama a Huntsville e di altri prestigiosi atenei stranieri.

ESA NASA Solar Orbiter Sole switchback

Il 25 marzo 2022 Metis, il coronografo italiano a bordo della sonda ESA/NASA Solar Orbiter, ha osservato per la prima volta nella corona, cioè nello strato più esterno dell’atmosfera del Sole, una struttura magnetica a forma di S, il cosiddetto switchback, che si propaga nello spazio interplanetario. Comprendere l’origine degli switchback è di particolare rilevanza in quanto il meccanismo che li forma potrebbe spiegare anche l’origine dell’accelerazione del vento solare, cioè del flusso di particelle cariche emesse costantemente dal Sole che viaggia verso l’esterno nel Sistema Solare e che, investendo la magnetosfera e l’atmosfera terrestre, dà origine alle bellissime aurore boreali e australi.

«Finora gli switchbacks erano stati misurati solo in situ, cioè da sonde poste a bordo di satelliti che ne sono state attraversate, ma non erano mai stati realmente “visti”, cioè non ne erano mati state scattate delle foto – spiega il Prof. Giampiero Naletto del Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Padova e che ha avuto il ruolo di experiment manager nella fase di realizzazione di Metis –. Metis è uno strumento a guida italiana molto complesso, la cui realizzazione ha dovuto superare varie difficoltà e che ha richiesto molti anni di lavoro di un team internazionale. Ma questi risultati unici che ci permettono di avanzare significativamente nella conoscenza del mondo che ci circonda e che avranno sicuramente in futuro ricadute nel progresso scientifico, tecnologico e sociale, compensano largamente lo sforzo profuso e stimolano tutti noi e in particolare i giovani ricercatori a perseguire nello sviluppo della ricerca».

Giampiero Naletto
Giampiero Naletto

«È grazie alla qualità dello strumento Metis, alla circostanza che stiamo osservando il Sole da molto vicino e anche ad un po’ di fortuna, che si è potuto ottenere per la prima volta una immagine di questo particolare fenomeno solare – confermano i dottorandi Chiara Casini e Paolo Chioetto del CISAS, il Centro di Ateneo di Studi e Attività Spaziali “G. Colombo” dell’Ateneo».

L’indagine, coordinata da Daniele Telloni dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – Osservatorio Astrofisico di Torino che ha riconosciuto l’evento associandolo a uno studio sugli switchbacks proposto nel 2020 dal Prof. Gary Zank dell’Università dell’Alabama a Huntsville, sarà pubblicata oggi sulla rivista «The Astrophysical Journal Letters» e presentata nel corso dell’8th Solar Orbiter Workshop a Belfast in Irlanda. Hanno firmato l’articolo dal titolo “Observation of a magnetic switchback in the solar corona” ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, dell’Agenzia Spaziale Italiana, delle Università di Firenze, di Padova e di Urbino, del Consiglio Nazionale delle Ricerche, dell’Università dell’Alabama a Huntsville e di altri prestigiosi Atenei stranieri.

Le misure in situ degli switchbacks realizzate negli anni precedenti avevano consentito a un team internazionale di scienziati di interpretarne l’origine sulla base dell’interchange reconnection e di un modello matematico che ne descrive dettagliatamente genesi e sviluppo. Tuttavia questa interpretazione non era mai stata confermata da un’osservazione diretta di uno switchback.

«La prima immagine scattata da Metis che Daniele Telloni mi ha mostrato – racconta Gary Zank – ha suggerito da subito una corrispondenza con il modello matematico che abbiamo sviluppato tempo fa. Ma entrambi abbiamo dovuto frenare il nostro entusiasmo fino a quando la comparazione di analisi più dettagliate prodotte dal coronografo ha confermato l’ipotesi attraverso risultati assolutamente spettacolari!».

 «La prima immagine di uno switchback nella corona solare ha svelato senz’altro il mistero della sua origine – commenta Daniele Telloni –. Continuando a studiare il fenomeno potremmo riuscire a far luce sui processi che accelerano il vento solare e lo riscaldano a grandi distanze dal Sole».

Lo studio del Sole e del vento solare prosegue, quindi, grazie a Solar Orbiter: la prima sonda a portare sia strumenti di telerilevamento, sia in situ a un terzo della distanza Terra-Sole.

«Questo è esattamente il tipo di risultato che speravamo di ottenere con Solar Orbiter – conclude Daniel Müller, ESA Project Scientist per Solar Orbiter –. Grazie ai dieci strumenti che si trovano a bordo della sonda spaziale, raccogliamo una quantità di dati sempre maggiore e, sulla base di risultati come quello appena raggiunto, perfezioniamo le osservazioni pianificate per la sonda. Quello appena effettuato è infatti solo il primo passaggio ravvicinato di Solar Orbiter al Sole, durante i prossimi proveremo a capire in che modo la nostra stella si collega al più ampio ambiente magnetico del Sistema Solare, insomma prevediamo di ottenere molti altri risultati entusiasmanti».

Testo, video e foto dall’Università degli Studi di Padova

Giove: pianeta in costante movimento

Le misure di gravità effettuate dalla sonda Juno della Nasa hanno rivelato che le masse gassose di Giove si muovono, provocando sulla superficie del pianeta oscillazioni simili a onde marine con ampiezze tra i 15 e gli 80 metri. I risultati dello studio, coordinato dal Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza, sono stati pubblicati sulla rivista Nature Communications.

Giove pianeta in costante movimento
Rappresentazione artistica della sonda Juno attorno a Giove, pianeta in costante movimento. Crediti: Nasa/JPL-Caltech

Giove è un pianeta gassoso e le sue masse interne possono muoversi, generando oscillazioni simili per certi versi alle onde marine e ai terremoti terrestri. Questi spostamenti di masse provocano piccole variazioni della gravità del pianeta.

Un nuovo studio, coordinato da Daniele Durante del Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza, ha rivelato, grazie alle misurazioni della sonda spaziale Juno della Nasa, come il campo di gravità di Giove sia perturbato dalle oscillazioni interne, ovvero vere e proprie onde che si propagano da una parte all’altra del pianeta. In particolare, gli strumenti altamente sensibili della sonda spaziale in orbita intorno al pianeta hanno permesso di misurare i periodi di oscillazione dei modi più energetici, che risultano dell’ordine dei 15 minuti e che generano onde di ampiezza compresa tra i 15 e gli 80 metri sulla superficie.

I risultati della ricerca, realizzata da un team internazionale e finanziata in parte dall’Agenzia spaziale italiana, sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista scientifica Nature Communications.

Giove pianeta in costante movimento
Rappresentazione artistica di Juno in orbita intorno a Giove, pianeta in costante movimento. Essendo il pianeta un gigante gassoso, il suo campo di gravità è perturbato dalla presenza di oscillazioni interne, che muovono grandi quantità di massa. Crediti, immagine di Juno: NASA/JPL-Caltech.
Crediti, immagine di Giove: NASA, ESA, A. Simon (Goddard Space Flight Center), and M. H. Wong (University of California, Berkeley) and the OPAL team

La missione della sonda Juno, in orbita intorno a Giove dal 5 luglio 2016, ha come obiettivi principali lo studio dei processi di formazione della struttura interna, del campo magnetico e dell’atmosfera del pianeta. Giove, che da solo ha una massa due volte e mezzo maggiore rispetto a quella di tutti gli altri pianeti messi assieme, è composto quasi esclusivamente da idrogeno ed elio. Il suo interno non è direttamente osservabile e per comprenderne la struttura più profonda si ricorre a misurazioni accurate del campo gravitazionale, espressione della distribuzione delle masse interne del pianeta.

“Circa ogni 52 giorni – spiega Daniele Durante, primo autore dello studio – la sonda Juno compie passaggi ravvicinati del pianeta, a circa 4,000 km dal limite delle nubi. A queste distanze Juno subisce piccole ma misurabili accelerazioni esercitate dalle oscillazioni interne del pianeta”.

Lo strumento di radio scienza KaT (Ka-Band Translator, realizzato da Thales Alenia Space Italy e finanziato dall’Agenzia spaziale italiana), presente a bordo della sonda, è il cuore dell’esperimento di gravità che ha permesso di misurare le perturbazioni al campo gravitazionale causato dalle oscillazioni interne a Giove. Il KaT riceve e ritrasmette il segnale radio inviato da una speciale antenna di terra ubicata nel deserto della California, permettendo di misurare la velocità della sonda con precisioni di centesimi di millimetro al secondo e variazioni di gravità 60 milioni di volte più piccole della gravità terrestre.

Profilo della velocità radiale dello strato superiore di Giove in funzione della frequenza di oscillazione dei modi normali interni. Ogni linea rappresenta un modello diverso la cui opacità è proporzionale alla probabilità del modello stesso: linee più scure indicano modelli più probabili, mentre linee più chiare indicano modelli via via meno probabili. La dispersione delle linee fornisce un’indicazione dell’incertezza del profilo di ampiezza ottenuto

Le misure di gravità effettuate da Juno avevano già portato ad altre importanti scoperte relative alla struttura interna del pianeta, tra cui la profondità dei forti venti est-ovest (con velocità fino a 360 km/h), che si spingono fino a circa 3,000 km al di sotto del livello delle nubi. Inoltre, le misure di gravità effettuate durante due sorvoli ravvicinati della Grande Macchia Rossa di Giove hanno permesso di determinarne per la prima volta la profondità, pari a circa 300 km, assai inferiore a quella dei venti est-ovest.

Nelle 22 orbite dedicate allo studio del campo gravitazionale di Giove, durante i primi 5 anni della missione, la sonda Juno ha sorvolato il pianeta fino a 4-5,000 km al di sopra del livello delle nubi (poiché Giove non ha una vera e propria superficie), misurando molto accuratamente il campo di gravità del pianeta ad ogni passaggio. Si è così potuto osservare che la gravità del gigante gassoso cambiava leggermente nel tempo.

“Per il nostro team scientifico – continua Daniele Durante – l’interpretazione di gran lunga più convincente è la presenza di fenomeni dinamici quali i modi di oscillazione. Le misure mostrano quindi un pianeta in costante movimento, non solo intorno al suo asse di rotazione, attorno cui compie un giro completo in 10h e 55m, ma anche al suo interno”.

Gli strati più esterni oscillano verticalmente per 15–80 metri ogni circa 15 minuti, in maniera simile a ciò che avviene per le maree terrestri. Questi modi di oscillazione sono chiamati ‘di tipo p’, poiché la forza di richiamo è la pressione interna.

“Analogamente a quanto è avvenuto per il sole con quel vasto campo di ricerca noto come eliosismologia, la misura di queste oscillazioni con strumenti dedicati potrà fornire in futuro – conclude Durante – una descrizione della struttura interna del pianeta assai più dettagliata di quanto sia possibile al giorno d’oggi”.

Riferimenti:
Juno spacecraft gravity measurements provide evidence for normal modes of Jupiter – Daniele Durante, Tristan Guillot, Luciano Iess, David J. Stevenson, Christopher R. Mankovich, Steve Markham, Eli Galanti, Yohai Kaspi, Marco Zannoni, Luis Gomez Casajus, Giacomo Lari, Marzia Parisi, Dustin R. Buccino, Ryan S. Park, Scott J. Bolton – Nature Communications (2022) https://doi.org/10.1038/s41467-022-32299-9

Articoli correlati:

Giove, il pianeta più grande del sistema solare

Testo, video e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma