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Sotto la superficie: l’energia solare nel mondo subacqueo con le celle solari a perovskite

Una ricerca pubblicata sulla rivista Energy & Environmental Materials ha dimostrato che le celle solari a perovskite possono funzionare in modo efficiente anche in ambiente acquatico, aprendo la strada a tecnologie energetiche innovative per l’uso subacqueoLo studio è frutto della collaborazione tra due Istituti di ricerca del CNR, l’Università degli studi di Roma Tor Vergata e la società BeDimensional SpA.

L’energia solare potrebbe presto trovare una nuova e sorprendente applicazione: il fondo del mare. Una ricerca pubblicata sulla rivista Energy & Environmental Materials ha, infatti, dimostrato che le celle solari a perovskite possono funzionare in modo efficiente anche in ambiente acquatico, aprendo la strada a tecnologie energetiche innovative per l’uso subacqueo.

Lo studio è frutto della collaborazione tra il Consiglio nazionale delle ricerche – coinvolto con l’Istituto di struttura della materia (CNR-ISM) e l’Istituto per i processi chimico-fisici (CNR-IPCF) –   l’università di Roma Tor Vergata e la società BeDimensional SpA, leader nella produzione di materiali bidimensionali.

Sotto i 50 metri di profondità, solo la luce blu-verde riesce a penetrare efficacemente: le celle solari a perovskite, già note per la loro efficienza e versatilità, si sono dimostrate particolarmente adatte a sfruttare questa luce residua. I test condotti con una specifica perovskite di composizione FAPbBr₃, hanno mostrato prestazioni sorprendenti: immerse nei primi centimetri d’acqua, queste celle producono più energia rispetto a quando sono esposte all’aria.

“Merito delle caratteristiche ottiche dell’acqua e del suo effetto rinfrescante, che migliora l’efficienza del dispositivo”, spiega Jessica Barichello, ricercatrice del CNR-ISM che ha coordinato lo studio. “Un ulteriore test di durata ha verificato anche l’aspetto ambientale: grazie all’efficace incapsulamento, basato su un adesivo polimerico idrofobico sviluppato da BeDimensional, dopo 10 giorni di immersione in acqua salata, le celle solari hanno rilasciato quantità minime di piombo, ben al di sotto dei limiti imposti per l’acqua potabile”.

“Grazie alla collaborazione con il CNR-ISM e BeDimensional e alla tecnologia disponibile nel nostro laboratorio Chose, abbiamo validato l’intero processo per l’applicazione del materiale fotovoltaico in perovskite in ambienti subacquei dove vengono sfruttate efficacemente le sue proprietà. Una nuova sperimentazione per noi – commenta Fabio Matteocci, professore associato del dipartimento di Ingegneria elettronica dell’università di Roma Tor Vergata –  dal momento che il nostro studio parte dallo sviluppo di nuovi dispositivi fotovoltaici semitrasparenti tramite processi industriali facilmente scalabili per applicazione su edifici”.

Oggi troviamo pannelli solari su tetti, serre, edifici, persino nello spazio, ma l’ambiente marino è ancora una frontiera poco esplorata.

“Questo lavoro pionieristico non solo mostra che le perovskiti possono operare anche in condizioni umide, ma apre nuove possibilità per l’utilizzo sostenibile dello spazio subacqueo, sempre più impiegato in attività come l’agricoltura marina, l’invecchiamento del vino e altre applicazioni innovative”, conclude Barichello.

Roma, 16 luglio 2025

Perovskite nella foto di Andrew Silver, USGS (https://library.usgs.gov/photo/#/item/51dc1900e4b0f81004b77ee6), in pubblico dominio

Riferimenti bibliografici:

Jessica Barichello, Peyman Amiri, Sebastiano Bellani, Cosimo Anichini, Marilena Isabella Zappia, Luca Gabatel, Paolo Mariani, Farshad Jafarzadeh, Francesco Bonaccorso, Francesca Brunetti, Matthias Auf der Maur, Giuseppe Calogero, Aldo Di Carlo, Fabio Matteocci, Beneath the Surface: Investigating Perovskite Solar Cells Under Water, Energy & Environmental Materials e70069, DOI: https://doi.org/10.1002/eem2.70069 – https://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/eem2.70069

 

Testo dagli Uffici Stampa dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata e del Consiglio Nazionale delle Ricerche

Cambiamenti climatici: oscillazioni termiche ed eventi estremi mettono a rischio gli ecosistemi marini, ecco come il biofilm reagisce alle variazioni di temperatura dell’aria

Lo studio condotto a Calafuria (Livorno) dall’Università di Pisa e dalla Scuola Superiore Sant’Anna pubblicato su Nature Communications.

Gli scogli di Calafuria in provincia di Livorno sono stati il laboratorio naturale al centro di uno studio dell’Università di Pisa e della Scuola Superiore Sant’Anna per capire come i cambiamenti climatici stiano alterando gli ecosistemi marini. La ricerca, pubblicata sulla rivista Nature Communications, ha analizzato come il biofilm – una sottile pellicola vivente formata da microalghe e batteri fondamentale per la vita delle scogliere – reagisce alle variazioni di temperatura dell’aria.

I ricercatori hanno condotto un esperimento sul campo esponendo il biofilm a due diversi regimi termici: un riscaldamento costante e uno caratterizzato da forti oscillazioni, che simula le condizioni imprevedibili destinate a diventare sempre più comuni nel prossimo futuro a causa del cambiamento climatico. I risultati hanno mostrato che un regime costante di riscaldamento favorisce la presenza di specie con funzioni simili, capaci di “darsi il cambio” in caso di difficoltà. Questo meccanismo permette al biofilm di resistere meglio agli eventi estremi. Al contrario, forti oscillazioni di temperatura riducono la diversità favorendo specie a crescita rapida, capaci di riprendersi velocemente dopo uno shock termico, ma più vulnerabili funzionalmente nel lungo periodo.

L’area di Calafuria, nei pressi di Livorno, caratterizzata da piattaforme rocciose di arenaria esposte all’aria durante la bassa marea, ha fornito un ambiente ideale per studiare il biofilm marino in condizioni naturali. Per simulare l’aumento delle temperature, i ricercatori hanno utilizzato speciali camere di metallo riscaldate con piccole stufe, controllando le variazioni di calore con sensori elettronici. Per valutare la risposta del biofilm, è stata usata una fotocamera a infrarossi in grado di rilevare la quantità di clorofilla. Infine, grazie alla collaborazione con l’Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, è stato analizzato il DNA dei microrganismi con tecniche avanzate di sequenziamento, simili a quelle utilizzate per studiare il genoma umano, per capire quali funzioni svolgono le diverse specie e come il loro patrimonio genetico le rende più o meno adatte a rispondere agli eventi estremi.

“Il cambiamento climatico non si manifesta solo attraverso l’aumento medio delle temperature, ma anche con una crescente variabilità termica, cioè oscillazioni imprevedibili tra picchi di calore e periodi meno caldi– dice il professore Luca Rindi dell’Università di Pisa, primo autore dello studio – In un mondo che si prospetta sempre più caldo e instabile, i microrganismi marini potrebbero, da un lato, reagire più rapidamente agli shock, ma dall’altro diventare più vulnerabili di fronte a eventi estremi ripetuti nel tempo. In vista delle sfide che il clima ci riserva, lo studio apre una finestra sul futuro, aiutandoci a capire come questo importante elemento dell’ecosistema costiero reagirà ai cambiamenti climatici.”

“Il successo di questa collaborazione dimostra ancora una volta il valore del sistema universitario pisano – dice il professore Matteo Dell’Acqua, direttore dell’Istituto di Scienze delle Piante della Scuola Sant’Anna e coautore dello studio – l’unione delle competenze uniche presenti sul nostro territorio ci permette di esplorare la frontiera della ricerca sugli effetti del cambiamento climatico”

L’Università di Pisa ha avuto un ruolo centrale nello studio, in particolare attraverso il Dipartimento di Biologia, dove hanno operato alcuni degli autori principali, come i professori Luca Rindi e Lisandro Benedetti-Cecchi. L’ateneo ha inoltre fornito supporto scientifico e logistico per la progettazione e la realizzazione degli esperimenti sul campo, oltre a contribuire all’analisi dei dati ecologici e microbiologici grazie al supporto fornito dal Green Data Center.

Il progetto è stato finanziato in parte dal programma europeo ACTNOW (Advancing understanding of Cumulative Impacts on European marine biodiversity, ecosystem functions and services for human wellbeing), che si occupa di studiare gli impatti cumulativi dei cambiamenti climatici sugli ecosistemi marini.

gli scogli di Calafuria cambiamenti climatici ecosistemi marini biofilm
Cambiamenti climatici: oscillazioni termiche ed eventi estremi mettono a rischio gli ecosistemi marini, ecco come il biofilm reagisce alle variazioni di temperatura dell’aria; lo studio pubblicato su Nature Communications. In foto, gli scogli di Calafuria

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

Progetto LIFE OASIS: proteggere le tartarughe marine dalla “pesca fantasma”

Il Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa è partner di LIFE OASIS, un progetto europeo che punta a salvaguardare la biodiversità marina riducendo il rischio intrappolamento che deriva da attrezzi da pesca abbandonati o smarriti.

Ogni anno, in Mediterraneo molte tartarughe marine possono rimanere intrappolate in attrezzi da pesca persi o abbandonati. Proteggere gli ecosistemi del ‘Mare Nostrum’ richiede un’azione coordinata e una responsabilità condivisa, fra i diversi paesi e le diverse flotte che operano al suo interno, per proteggere la nostra biodiversità, ma anche la sostenibilità della pesca e la sicurezza marittima. LIFE OASIS è stato istituito per affrontare questo problema, un progetto pionieristico che combina tecnologia, ricerca e collaborazione diretta con il settore della pesca e marittimo a livello internazionale e che vede il Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa fra i partner. Il progetto durerà cinque anni e punta a mitigare gli impatti negativi della pesca e dei rifiuti marini sulla biodiversità del Mediterraneo, con particolare attenzione alle tartarughe Caretta caretta, una specie prioritaria, censita anche nella Direttiva Habitat e classificata nella Lista Rossa della IUCN come specie “Vulnerabile” a livello globale.

Reti, lenze, nasse lasciate in mare e lasciate incustodite si possono infatti trasformare in trappole mortali e possono continuare a catturare pesci e altre specie per mesi o addirittura anni, un fenomeno noto come “pesca fantasma”.

In particolare, il Progetto LIFE OASIS svilupperà di un modello intelligente di aFAD (intelligent anchored Fish Aggregating Device) cioè di dispositivi ancorati sul fondale marino usati per pescare in modo controllato e sostenibile. Gli strumenti saranno dotati di sensori avanzati per monitorare le l’ecosistema circostante e raccogliere dati sulla presenza di pesci e specie protette come le tartarughe marine. Verrà inoltre realizzata una mappatura degli attrezzi da pesca abbandonati, persi o scartati nel Mediterraneo.

“Il progetto coniuga innovazione tecnologica e ricerca scientifica, promuovendo la sinergia tra pescatori, operatori del settore e ricercatori con azioni che si svolgono in continuità con le azioni di progetti finanziati in passato come LIFE MEDTURTLES o TARTALIFE. L’obiettivo è triplice: prevenire la cattura accidentale delle tartarughe marine, promuovere la sostenibilità della pesca e tutelare la biodiversità – spiega il professor Paolo Casale dell’Università di Pisa, referente scientifico del progetto ed esperto nella conservazione delle tartarughe marine e nelle loro interazioni con la pesca.

“Le iniziative che intraprenderemo – conclude Casale – avranno un impatto positivo sulla salute degli ecosistemi marini, contribuendo a limitare i danni alla biodiversità e riducendo il rischio di cattura accidentale di specie protette”.

LIFE OASIS (Mitigating the negative interactions of protected species with marine litter and pelagic fisheries of the Mediterranean) è un’iniziativa co-finanziata dall’Unione Europea nell’ambito del Programma LIFE (GA n. 101148343 – LIFE23-NAT-ES-LIFEOASIS). Il progetto è coordinato da Alnitak Research Institute (una ONG spagnola) e vede la collaborazione di prestigiosi partner, tra cui il Consiglio superiore delle ricerche scientifiche spagnolo (CSIC) e, fra quelli italiani, la Stazione Zoologica Anton Dhorn e l’Associazione Filicudi Wildlife Conservation.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

Tre volte il diametro del loro corpo, a questa profondità nuotano gli animali marini per ridurre al minimo il dispendio energetico nei lunghi spostamenti

L’Università di Pisa partner dello studio pubblicato sulla rivista PNAS.

I rettili marini, gli uccelli e i mammiferi viaggiano a profondità ottimizzate lungo il percorso e quando non si nutrono
I rettili marini, gli uccelli e i mammiferi viaggiano a profondità ottimizzate lungo il percorso e quando non si nutrono

Per ridurre al minimo il dispendio energetico duranti i lunghi spostamenti, gli animali marini non nuotano in superficie, ma a una profondità che corrisponde a circa tre volte il diametro del loro corpo. La scoperta di questo stratagemma che accomuna uccelli, mammiferi e rettili arriva da uno studio coordinato dalle università di Swansea in Gran Bretagna e Deakin in Australia pubblicato sulla rivista PNAS – Proceedings of the National Academy of Sciences USA, al quale hanno partecipato i professori Paolo Luschi Paolo Casale del Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa.

“Molte specie semiacquatiche, compreso l’uomo, spesso nuotano nell’interfaccia aria-acqua ma in questo modo generano onde superficiali che provocano un dispendio energia – spiega Luschi – Gli animali marini che nel corso della loro vita percorrono grandi distanze hanno invece elaborato una strategia per evitare questo spreco e che consiste nel nuotare poco sotto la superficie, è un po’ come fanno gli atleti nuotatori subito dopo la partenza, quando rimangono il più a lungo possibile sott’acqua prima di effettuare la prima emersione”.

Piccoli pinguini. Crediti: parchi naturali di Phillip Island
Piccoli pinguini. Crediti: parchi naturali di Phillip Island

La ricerca ha analizzato i dati ottenuti da profondimetri applicati su tartarughe marine e pinguini durante fasi di movimento attivo, che sono stati poi integrati con dati già disponibili nella letteratura  scientifica sulle balene. I risulatai hanno quindi rivelato che animali così diversi impiegano la medesima strategia, che consiste nel nuotare ad una profondità corrispondente a tre volte il loro diametro, al di là delle loro dimensioni che possono variare da 50 centimetri a 20 metri.

“Ci sono ovviamente casi in cui la profondità di nuoto è determinata da altri fattori, come ad esempio la ricerca di prede – sottolinea Luschi – ma i dati generali confermano il modello e questo ha importanti implicazioni a livello di conservazione, contribuendo a diminuire le collisioni con le imbarcazioni e le catture accidentali durante la pesca”.

nuotano gli animali marini Tartaruga Caretta caretta con sistema di rilevamento. Crediti: DEKAMER Archive
Tartaruga Caretta caretta con sistema di rilevamento. Crediti: DEKAMER Archive

In particolare, l’Università di Pisa ha contribuito alla ricerca fornendo i dati sulle tartarughe Caretta caretta nidificanti in Turchia.

“Dati di questo tipo sono estremamente difficili da ottenere – aggiunge Casale – perché sono troppo dettagliati per essere trasmessi tramite satellite e sono quindi necessarie speciali procedure sperimentali per recuperare gli strumenti applicati sugli animali in libertà”.

nuotano gli animali marini Tartaruga verde. Crediti: R. D. and B. S. Kirkby
Tartaruga verde. Crediti: R. D. and B. S. Kirkby

Il gruppo di ricerca dei professori Luschi e Casale da tempo impiega avanzate tecniche di telemetria animale per studiare il comportamento delle tartarughe marine durante i loro estesi movimenti, che comprendono migrazioni anche di centinaia di chilometri.

Riferimenti bibliografici:

K.L. Stokes, N. Esteban, P. Casale, A. Chiaradia, Y. Kaska, A. Kato, P. Luschi, Y. Ropert-Coudert, H.J. Stokes, G.C. Hays, Optimization of swim depth across diverse taxa during horizontal travel, Proc. Natl. Acad. Sci. U.S.A. (2024) 121 (52) e2413768121, link: https://doi.org/10.1073/pnas.2413768121

 

Testo, video e foto dall’Ufficio stampa dell’Università di Pisa.

Inquinamento da farmaci: gli effetti degli antinfiammatori sull’ambiente marino

L’ibuprofene, il cui uso è cresciuto molto durante la pandemia di COVID-19, può ridurre la capacità delle piante marine di rispondere a stress ambientali. La ricerca dell’Università di Pisa pubblicata sul Journal of Hazardous Materials.

Una cura per noi, un pericolo per l’ambiente. Per la prima volta una ricerca dell’Università di Pisa, appena pubblicata sul Journal of Hazardous Materials, ha esaminato l’impatto di diverse concentrazioni di ibuprofene, un comune antinfiammatorio molto utilizzato durante la pandemia di COVID-19, sulle angiosperme marine.

“Le angiosperme marine svolgono ruoli ecologici cruciali e forniscono importanti servizi ecosistemici, ad esempio proteggono le coste dall’erosione, immagazzinano carbonio e producono ossigeno, supportano la biodiversità, e costituiscono una nursery per numerose specie animali”, spiega la professoressa Elena Balestri del dipartimento di Biologia dell’Ateneo pisano.

In particolare, la ricerca si è focalizzata su Cymodocea nodosa (Ucria, Ascherson), una specie che cresce in aree costiere poco profonde, anche in prossimità della foce dei fiumi, zone spesso contaminate da molti inquinanti, farmaci compresi.

La sperimentazione è avvenuta in mesocosmi all’interno dei quali le piante sono state esposte per 12 giorni a concentrazioni di ibuprofene rilevate nelle acque costiere del Mediterraneo. È così emerso che la presenza di questo antinfiammatorio a concentrazioni di 0,25 e 2,5 microgrammi per litro causava nella pianta uno stress ossidativo ma non danni irreversibili. Se invece la concentrazione era pari a 25 microgrammi per litro, le membrane cellulari e l’apparato fotosintetico erano danneggiate, compromettendo in tal modo la resilienza della pianta a stress ambientali.

“Il nostro è il primo studio che ha esaminato gli effetti di farmaci antinfiammatori sulle piante marine – dice Elena Balestri – Attualmente, si stima che il consumo globale di ibuprofene superi le 10.000 tonnellate annue e si prevede che aumenterà ulteriormente in futuro, e poiché gli attuali sistemi di trattamento delle acque reflue non sono in grado di rimuoverlo completamente anche la contaminazione ambientale aumenterà di conseguenza”.

“Per ridurre il rischio di un ulteriore aggravamento del processo di regressione delle praterie di angiosperme marine in atto in molte aree costiere – conclude Balestri – sarà quindi necessario sviluppare nuove tecnologie in grado di ridurre l’immissione di ibuprofene e di altri farmaci negli habitat naturali, stabilire concentrazioni limite di questo contaminante nei corsi d’acqua e determinare le soglie di tolleranza degli organismi, non solo animali ma anche vegetali”.

Complessivamente, le strutture dell’Ateneo pisano coinvolte nello studio sono i dipartimenti di Biologia, di Farmacia e di Scienze della Terra, il Centro per l’Integrazione della Strumentazione scientifica (CISUP) e il Centro Interdipartimentale di Ricerca per lo Studio degli Effetti del Cambiamento Climatico (CIRSEC).

In particolare, la ricerca è stata realizzata grazie alla collaborazione di tre team di ricerca. Il gruppo di Ecologia, costituito dalla professoressa Elena Balestri, dal professore Claudio Lardicci e dalla dottoressa Virginia Menicagli, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Biologia, si occupa da anni dello studio degli impatti di contaminanti, tra cui plastiche, microplastiche, nanoplastiche e filtri solari, e dei cambiamenti climatici sugli organismi vegetali marini e terrestri tipici della fascia costiera. Il gruppo di Botanica, con la professoressa Monica Ruffini Castiglione e quello di Fisiologia Vegetale, con le dottoresse Carmelina Spanò, Stefania Bottega e il dottor Carlo Sorce, studiano invece le risposte delle piante all’inquinamento da metalli e da micro e nanoplastiche. Inoltre, conducono ricerche sulla biologia delle piante degli ambienti costieri, in particolare sui meccanismi di risposta agli stress causati dai fattori ambientali, sia naturali, sia di origine antropica.  Il gruppo di Biologia Farmaceutica, infine, costituito dalla professoressa Marinella De Leo e dalla dottoressa Emily Cioni, dottoranda del Dipartimento di Farmacia, si occupa dello studio chimico di prodotti naturali prodotti dalle piante.

Prateria di Cymodocea nodosa in regressione
Inquinamento da farmaci: gli effetti degli antinfiammatori sull’ambiente marino; uno studio pubblicato sul Journal of Hazardous Materials. In foto, prateria di Cymodocea nodosa in regressione

Riferimenti bibliografici:

Virginia Menicagli, Monica Ruffini Castiglione, Emily Cioni, Carmelina Spanò, Elena Balestri, Marinella De Leo, Stefania Bottega, Carlo Sorce, Claudio Lardicci, Stress responses of the seagrass Cymodocea nodosa to environmentally relevant concentrations of pharmaceutical ibuprofen: Ecological implications,
Journal of Hazardous Materials, Volume 476, 2024, 135188, ISSN 0304-3894, DOI: https://doi.org/10.1016/j.jhazmat.2024.135188

 

Testo e foto dall’Ufficio stampa dell’Università di Pisa.

I fossili raccontano la fine dell’era glaciale del tardo Paleozoico, 294 milioni di anni fa

Un team internazionale di scienziati di cui fanno parte l’Università degli Studi di Milano e l’Università Sapienza di Roma, analizzando fossili di brachiopodi ha dimostrato come nel Paleozoico l’incremento di anidride carbonica (CO2), dovuto a un’intensa attività vulcanica, sia risultato concomitante alla riduzione dei ghiacciai e a un incremento della temperatura superficiale media degli oceani fino a 4 gradi centigradi. Questo studio pubblicato su Nature Geoscience ci può aiutare a comprendere meglio i cambiamenti climatici attualmente in atto e le loro conseguenze.

1. Ricostruzione artistica della deglaciazione avvenuta nel Permiano Inferiore causata da un rapido incremento della CO2, avvenuta circa 294 milioni di anni fa (realizzato da Dawid Adam Iurino)
1. Ricostruzione artistica della deglaciazione avvenuta nel Permiano Inferiore causata da un rapido incremento della CO2, avvenuta circa 294 milioni di anni fa (realizzato da Dawid Adam Iurino)

Studiare il riscaldamento globale del passato per capire i cambiamenti climatici del presente. Durante la sua lunga storia, la Terra ha sperimentato condizioni climatiche molto diverse, alternando fasi glaciali a periodi di riscaldamento globale che hanno plasmato il pianeta e influenzato l’evoluzione degli organismi. Ancor prima della comparsa dei dinosauri, durante il tardo Paleozoico (circa 300 milioni di anni fa) ebbe luogo una delle glaciazioni più estese, terminata con una fase di riscaldamento che portò alla scomparsa quasi completa dei ghiacciai e delle calotte polari con importanti conseguenze sulla biodiversità.

2. Variazioni della concentrazione di CO2 in atmosfera prima, durante e dopo la deglaciazione di fine Paleozoico
2. Variazioni della concentrazione di CO2 in atmosfera prima, durante e dopo la deglaciazione di fine Paleozoico

Un team internazionale di scienziati, tra cui ricercatori dell’Università Statale di Milano, dell’Università la Sapienza di Roma e dell’Università di St. Andrews in Scozia, ha preso in esame la glaciazione del tardo Paleozoico e il suo declino, seguito da un considerevole aumento delle temperature, per comprendere meglio l’attuale emergenza climatica.

I risultati di questo studio, pubblicati sulla rivista internazionale Nature Geoscience, ricostruiscono per la prima volta i livelli atmosferici di CO2 lungo un arco temporale di 80 milioni di anni.

L’atmosfera del passato viene spesso studiata attraverso l’analisi di piccole bolle d’aria inglobate nelle calotte polari, grazie alle quali siamo capaci di ricostruire con precisione le variazioni climatiche fino a circa 800 mila anni fa. Ma la sfida affrontata da questo studio è stata quella di sviluppare metodologie in grado di risalire a un intervallo compreso tra 340 e 260 milioni di anni fa. Sono stati così presi in oggetto i fossili brachiopodi, invertebrati marini con una conchiglia costituita da carbonato di calcio, molto abbondanti durante il Paleozoico e tuttora rappresentati da alcune specie viventi. Dalle analisi è emerso come i livelli di CO2 fossero intimamente connessi all’evoluzione della glaciazione e alla sua fine. I ricercatori hanno infatti misurato bassi livelli di anidride carbonica concomitanti alla formazione di estese calotte polari. Viceversa, l’incremento di CO2, che fu il prodotto di un’intensa attività vulcanica, è risultato contemporaneo a una riduzione globale dei ghiacciai e a un incremento della temperatura superficiale media degli oceani fino a 4 gradi centigradi. E oggi, proprio come è avvenuto 300 milioni di anni fa, il riscaldamento dell’atmosfera, causato dall’aumento della presenza di CO2 e di gas metano, ha innescato una evidente riduzione dei ghiacciai e delle calotte polari.

“I fossili e le caratteristiche geochimiche dei loro resti sono una preziosa fonte di informazioni, che ci permette di ricostruire il clima e gli ambienti in cui questi organismi sono vissuti, anche nel tempo profondo, e confrontare questi dati con i cambiamenti attualmente in atto” afferma Lucia Angiolini, docente del Dipartimento di Scienze della Terra Ardito Desio dell’Università degli Studi di Milano.

3. La prof. Lucia Angiolini osserva e campiona materiale fossile da alcuni affioramenti rocciosi del Carbonifero in Scozia
3. La prof. Lucia Angiolini osserva e campiona materiale fossile da alcuni affioramenti rocciosi del Carbonifero in Scozia

“Mentre l’organismo cresce, la sua conchiglia si espande ed incorpora numerosi elementi e composti chimici che vanno a costituire una sorta di archivio per tutto il suo ciclo vitale. Infatti è noto come le conchiglie siano legate alla composizione dell’acqua marina e alla variazione di molteplici parametri tra cui la temperatura e l’acidità (pH)”, sottolinea Claudio Garbelli, docente dell’Università Sapienza di Roma.

“Alcuni elementi presenti nel carbonato di calcio delle conchiglie sono determinati dai valori di pH dell’acqua marina che, a sua volta, dipende dalla quantità di CO2 atmosferica”, aggiunge Hana Jurikova, ricercatrice dell’Università di St. Andrews in Scozia e prima autrice dello studio. “Misurando alcuni degli elementi contenuti nelle conchiglie fossili (quali ad esempio il boro e lo stronzio) e con l’ausilio di sofisticati modelli matematici, siamo stati in grado di ricostruire con una certa precisione la quantità di CO2 presente in atmosfera lungo un arco temporale di 80 milioni di anni, tra 340 e 260 milioni di anni fa”, conclude Jurikova.

Studi come questo, oltre ad evidenziare l’importanza dei fossili come archivi di informazioni utili per comprendere le dinamiche dei cambiamenti climatici e ambientali avvenuti nel passato, rappresentano una fonte di dati indispensabile per sviluppare modelli predittivi dei fenomeni attualmente in atto e del loro impatto sulla biodiversità.

4. Un brachiopode fossile del Permiano, chiamato Pachycyrtella, proveniente dal Permiano inferiore dell’Oman
4. I fossili raccontano la fine dell’era glaciale del tardo Paleozoico: un brachiopode fossile del Permiano, chiamato Pachycyrtella, proveniente dal Permiano inferiore dell’Oman

 

Riferimenti bibliografici:

Jurikova, H., Garbelli, C., Whiteford, R. et al. Rapid rise in atmospheric CO2 marked the end of the Late Palaeozoic Ice Age, Nat. Geosci. (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41561-024-01610-2

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma e dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

Riscaldamento globale: entro 2100 pericolo estinzione per alghe e foreste marine

L’Università di Pisa partner dello studio pubblicato sulla rivista Nature Communications, secondo il team di ricerca le regioni polari potrebbero essere l’ultimo rifugio per queste specie

Se non ci saranno interventi per mitigare subito le emissioni di gas serra, le foreste macroalgali e le fanerogame (fra cui Posidonia oceanica, una pianta superiore endemica del Mediterraneo) sono a rischio estinzione entro il 2100. Il riscaldamento globale rischia di provocare a livello mondiale una riduzione fra l’80 e il 90% degli ambienti adatti alla sopravvivenza di queste specie che potranno trovare rifugio solo nelle regioni polari. Lo scenario emerge da uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications e condotto dalle Università di Helsinki e di Pisa, dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) e dal Centro di eccellenza australiano per la Biodiversità e il patrimonio naturale (CABAH).

Attraverso modelli statistici, la ricerca ha mappato la distribuzione di 207 specie, 185 macroalghe brune e 22 fanerogame, a partire dal 2015 con proiezioni annuali sino alla fine del secolo. Questi organismi, presenti attualmente in grande quantità sulle coste (le macroalghe occupano 2,63 milioni di km2 e le fanerogame 1,65), sono essenziali per la vita marina in quanto producono ossigeno attraverso la fotosintesi, immagazzinano anidride carbonica, contribuiscono a mantenere una elevata biodiversità, fanno da ‘nursery’ a numerose specie di pesci e crostacei di interesse commerciale e proteggono dall’erosione costiera.

“La questione è globale, le foreste macroalgali popolano le coste rocciose di tutto il mondo, dalla battigia ad alcune decine di metri di profondità – spiega il professore Lisandro Benedetti-Cecchi del dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa – Nel Mediterraneo queste sono costituite prevalentemente da alghe brune arborescenti del genere Cystoseira, piante le cui “chiome” si innalzano dal fondo per alcune decine di centimetri formando delle vere e proprie foreste in miniatura. Insieme a Posidonia oceanicale alghe arborescenti sono una riserva di energia che alimenta il funzionamento dell’intero sistema marino costiero e in ultima analisi la nostra vita sulla terraferma”.

L’impatto del cambiamento climatico non sarà comunque uniforme a livello globale, con zone che potranno perdere o guadagnare in termini di biodiversità, in un bilancio complessivo comunque negativo. Secondo la stime, le foreste di macroalghe e le fanerogame diminuiranno soprattutto in Europa, nel Mar Baltico, nel Mar Nero, nella costa pacifica del Sud America, nella penisola coreana e nelle coste nord-occidentali e sud-orientali dell’Australia.

Gli studi sul cambiamento climatico di solito riguardano l’ambiente terrestre, mentre il mare resta di solito relativamente inesplorato – conclude il professore Lisandro Benedetti-Cecchi – questo lavoro vuole ribaltare la prospettiva, e quantificare i cambiamenti globali che riguardano l’ecosistema marino”.

Riferimenti bibliografici:

Manca, F., Benedetti-Cecchi, L., Bradshaw, C.J.A. et al. Projected loss of brown macroalgae and seagrasses with global environmental change, Nat Commun 15, 5344 (2024), DOI: https://www.nature.com/articles/s41467-024-48273-6

Riscaldamento globale: entro 2100 pericolo estinzione per alghe e foreste marine; lo studio è pubblicato sulla rivista Nature Communications. Nell’immagine, Posidonia oceanica. Foto di Frédéric Ducarme, CC BY-SA 4.0

Testo e foto (ove non indicato diversamente) dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa

DIMINUZIONE DEL GHIACCIO MARINO E BIODIVERSITÀ: Anche l’Università di Padova nel progetto WOBEC. Insieme a undici partner guidati dall’Istituto Alfred Wegener valuterà la biodiversità nel Mare di Weddell in Antartide

Le profondità del Mare di Weddell ospitano diverse comunità biotiche composte da spugne, coralli e innumerevoli altri organismi adattati all’ambiente freddo. Con il progredire dei cambiamenti climatici, questa regione polare potrebbe offrire un rifugio per organismi vegetali e animali che dipendono dal ghiaccio, dal krill alle foche di Weddell. Nell’ambito del nuovo progetto europeo “Weddell Sea Observatory of Biodiversity and Ecosystem Change” (WOBEC) l’Istituto Alfred Wegener, in qualità di coordinatore di un consorzio di undici istituzioni europee e statunitensi, tra le quali il Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova, getterà le basi per osservazioni sistematiche a lungo termine dei potenziali cambiamenti in questo ecosistema unico. Il progetto, che ha ottenuto un finanziamento di circa 1,9 milioni di euro e si baserà sulle più recenti scoperte scientifiche, svilupperà una strategia per monitorare i cambiamenti nel Mare di Weddell, una regione candidata come area marina protetta su proposta dell’UE e di altri Stati. La riunione di avvio del WOBEC si terrà a Bremerhaven dall’11 al 14 giugno.

Il Mare di Weddell è il più grande mare dell’Oceano Meridionale ed è ricchissimo di biodiversità. Qui foche e pinguini imperatore partoriscono i loro piccoli, il krill si nutre di microalghe sotto le banchise attirando pesci, balene e uccelli marini. Sul fondo del mare si riproducono milioni di pesci-ghiaccio (“icefish”), pesci senza emoglobina, circondati da giardini sottomarini di spugne di vetro (“glass sponges”), anemoni e lumache di mare. Alcuni di questi luoghi raggiungono un livello di biodiversità paragonabile a quello delle barriere coralline tropicali.

Chiara Papetti con pesce
Chiara Papetti

Undici istituti di otto Paesi si sono uniti nel progetto WOBEC e nei prossimi tre anni le ricercatrici e i ricercatori partecipanti determineranno lo stato della comunità biotica del Mare di Weddell, stabilendo uno scenario iniziale di riferimento per un monitoraggio a lungo termine dell’ecosistema nell’Oceano Meridionale in trasformazione. WOBEC è uno dei 33 progetti dell’importante programma dell’Unione Europea BiodivMon, sotto l’egida di Biodiversa+, il partenariato europeo per la biodiversità. Il progetto è partito ad aprile 2024 con una riunione di apertura a Tallinn, in Estonia. Ai partner del progetto è stato assegnato un budget di circa 1,9 milioni di euro di sostegno finanziario.

Il team del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova, sostenuto dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR) con un contributo di quasi 200 mila euro, è coordinato dalla prof.ssa Chiara Papetti e include la prof.ssa Isabella Moro, il dr. Alessandro Vezzi e i giovani ricercatori dr. Luca Schiavon, Alessia Prestanti e Federica Stranci.

«Ci aspettiamo che i pesci antartici, per i loro adattamenti peculiari all’ambiente polare e per i loro cicli vitali strettamente connessi a quelli degli altri numerosi componenti della comunità marina antartica, possano fungere da indicatori dei cambiamenti nell’abbondanza e distribuzione della biodiversità nel Mare di Weddell» aggiunge Chiara Papetti che, con i suoi collaboratori, si occupa di studiare la connessione tra popolazioni di pesci antartici nell’Oceano Meridionale.

Chiara Papetti progetto WOBEC
Chiara Papetti

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

Coste toscane, studio sulla presenza di microplastiche nelle telline

La ricerca coordinata dall’Università di Pisa in collaborazione con l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Lazio e della Toscana, Università degli Studi di Messina, Istituto per i Processi Chimico-Fisici (IPCF) del CNR.

Strumentazione per analisi microplastiche
Strumentazione per analisi microplastiche

Pisa, 28 maggio 2024 – Il FishLab dell’Università di Pisa ha condotto uno studio sulla presenza di microplastiche nelle telline (specie Donax trunculus) sulle coste toscane da cui non emergono rischi legati al consumo di questo alimento. La ricerca è stata realizzata in collaborazione con l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Lazio e della Toscana, l’Università degli Studi di Messina e l’Istituto per i Processi Chimico-Fisici (IPCF) del CNR di Messina.

I ricercatori hanno esaminato cinque siti lungo la costa toscana, da Viareggio a Tirrenia, da febbraio a dicembre 2021. Nei campioni analizzati, sono stati trovati 85 frammenti riconducibili a microplastiche. Successivamente, un’analisi più approfondita ha confermato la natura plastica solo per una parte di essi. In base a questa stima, i consumatori di telline potrebbero essere esposti ad una quantità molto esigua rispetto a quella che ingerirebbero consumando altre tipologie di alimenti; ad esempio, è stato dimostrato che il sale e l’acqua stessa  ne contengono una quantità decisamente più elevata.

Le microplastiche sono ubiquitarie in ogni ambiente, per assumerle basta lasciare un bicchiere su un tavolo prima di berlo – spiega il professore Andrea Armani del dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Pisa – in base ai dati emersi e alle conoscenze attualmente disponibili, non ci sono rischi legati al consumo di telline, anche per le basse quantità di consumo di questo alimento”.

La presenza di microplastiche è stata documentata a tutti in tutti gli habitat marini, dagli oceani aperti ai mari chiusi, dalle spiagge, alle acque superficiali, in tutta la colonna d’acqua fino ai fondali più profondi. Le dimensioni ridotte che le caratterizzano facilitano il loro trasporto a lunga distanza attraverso le correnti. Si tratta infatti di particelle di polimeri plastici di dimensioni comprese tra 0,1 µm e 5 mm, prodotte tal quali a livello industriale (microplastiche primarie) o derivate dalla frammentazione di oggetti in plastica più grandi (microplastiche secondarie) a seguito del loro utilizzo (es. tessuti, vernici, pneumatici) o per opera di agenti atmosferici (raggi UV, temperature). Una volta fatto il loro ingresso nell’ecosistema marino possono essere facilmente ingerite da molti organismi, entrando così nella catena alimentare, sino agli esseri umani. I molluschi bivalvi (come mitili, ostriche, vongole e capesante), essendo filtratori, sono spesso utilizzati per valutare l’inquinamento da microplastiche negli ambienti marini. Se consumati come alimenti, possono pertanto rappresentare una fonte di esposizione alle microplastiche per l’uomo.

“L’esposizione umana alle microplastiche è molto diversa tra paese e paese a causa delle differenze geografiche e culturali legate al consumo dei molluschi bivalvi – conclude Armani – Un rischio elevato, calcolato sulla base del consumo annuo di molluschi bivalvi e della quantità media di microplastiche per grammo, è stato riscontrato in Cina e Corea del Sud, mentre a livello europeo sono stati riscontrati rischi maggiori in Francia e Grecia”.

La ricerca pubblicata sulla rivista Animals è stata finanziata dal Ministero della Salute italiano, dall’Unione Europea grazie al fondo NextGeneration EU e attraverso il progetto SAMOTHRACE del Ministero dell’Università e della Ricerca.

Il FishLab dell’Ateneo pisano è impegnato da anni in attività di ricerca che affrontano problematiche inerenti la sicurezza e la tracciabilità dei prodotti della pesca. La ricerca si inserisce nella visione One Health che vede uomo, animali e ambiente strettamente interconessi.

Foto di gruppo:da sinistra Gabriele Spatola, Andrea Armani, Giusti Alice e Tinacci Lara
Foto di gruppo:da sinistra Gabriele Spatola, Andrea Armani, Giusti Alice e Tinacci Lara

 

Testo e immagine dall’Unità Comunicazione Istituzionale dell’Università di Pisa.

“Ciottoli smart”  con trasmittenti per salvare la Proménade des Anglais a Nizza

L’innovativo metodo delle Università di Pisa e Padova contro l’erosione delle spiagge sperimentato anche a Marina di Pisa e in altre località europee

dettaglio dei ciottoli smart
dettaglio dei ciottoli smart

“Smart Pebbles” o “Ciottoli smart” dotati di trasmittente per contrastare l’erosione delle spiagge e programmare efficaci interventi di salvaguardia. L’innovativo sistema è stato messo a punto dai professori Duccio Bertoni e Giovanni Sarti del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa in collaborazione con Alessandro Pozzebon del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Padova. Negli ultimi 15 anni gli “smart pebbles” sono stati sperimentati in diverse località europee da Marina di Pisa sino alla Proménade des Anglais a Nizza.

“Si tratta di ciottoli al cui interno è inserita una trasmittente in modo da renderli rintracciabili a distanza di tempo grazie all’utilizzo di un’apposita antenna – spiega Bertoni – questo ci consente di mappare gli spostamenti della massa di ghiaia e di intervenire nel modo migliore”.

Il gruppo di lavoro pisano è stato chiamato a Nizza da Rémi Dumasdelage e Julien Larraun, gli ingegneri costieri responsabili della gestione del litorale della Municipalità di Nizza (Francia). A causa della ripida pendenza dei fondali, la spiaggia ghiaiosa della Proménade des Anglais ha infatti da sempre sofferto di un’intensa perdita di sedimenti, ma fin tanto che gli apporti del Fiume Var riusciva a bilanciarla, la spiaggia riusciva a mantenere l’equilibrio. Tuttavia, a seguito di interventi invasivi sul territorio da parte dell’uomo (ad esempio la costruzione dell’aeroporto di Nizza), il bilancio sedimentario è gradualmente diventato negativo. I ripascimenti artificiali sono stati l’unica misura realmente efficace per mitigare la perdita: tra il 1969 e il 2015 sono stati riversati circa 600.000 m3 di sedimento, con costi enormi sostenuti dalla Municipalità, senza contare l’impatto ambientale.

Ricerca ciottoli smart con antenna
Ricerca ciottoli smart con antenna

Gli esperti del dipartimento di Scienze della Terra dell’Ateneo pisano sono stati chiamati proprio per ottimizzare questi interventi. L’esperimento nella zona della Plage Fabron è durato complessivamente 48 ore e ha permesso di individuare alcune tendenze per quanto riguarda il trasporto di ciottoli in condizioni di lieve moto ondoso.

“Il movimento non è esclusivamente diretto verso il largo ma i sedimenti vengono trasportati lungo la riva definendo cicli di distruzione e ricostruzione – racconta Bertoni –, indipendentemente dalla massa, che non ha influenza è poi fondamentale la forma dei ciottoli, quelli sferici escono infatti più rapidamente dal sistema spiaggia rispetto a quelli discoidali, semplicemente perché la gravità, unita ai moti delle onde, ne favorisce il rotolamento in profondità”.

Sulla base dei risultati evidenziati, pubblicati in aprile sulla rivista Ocean & Coastal Management, i manager costieri della Municipalità di Nizza hanno quindi pianificato i futuri ripascimenti favorendo l’utilizzo di ciottoli discoidali rispetto a quelli sferici. A fronte di un lieve aumento dei costi legati alla selezione del materiale corretto, il risparmio in termini di manutenzione ed integrazioni future è stato comunque valutato vantaggioso.

“Ma il contatto con la Municipalità di Nizza non finisce qui – conclude Sarti – e sono già allo studio ulteriori esperimenti volti a definire le caratteristiche di trasporto sedimentario su periodi più lunghi e su fasce più ampie del litorale”.

Testo e foto dall’Unità Comunicazione Istituzionale dell’Università di Pisa.