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Fossili di grandi squali e mammiferi marini raccontano come è cambiato il Mediterraneo dopo la Crisi di Salinità del Messiniano

L’Università di Pisa ha partecipato a uno studio sulle conseguenze del “gigante salino” formatosi oltre cinque milioni di anni fa

Tra 7,2 e 5,3 milioni di anni fa, nell’intervallo di tempo che i geologi chiamano Messiniano, le specie marine del Mediterraneo furono decimate da un aumento vertiginoso di sale nelle acque del mare, con una perdita di biodiversità che riuscì a ricostituirsi solo nel corso di oltre un milione e mezzo di anni.  In uno studio appena pubblicato sulla rivista scientifica Science, un gruppo internazionale di geologi e paleontologi composto da 29 scienziati di 25 università e istituti di ricerca europei è stato in grado di quantificare tale perdita di biodiversità nel Mar Mediterraneo in corrispondenza della Crisi di Salinità del Messiniano e il successivo recupero biotico.

Guidato da Konstantina Agiadi dell’Università di Vienna, tale team di ricerca ha visto la partecipazione dell’Università di Pisa nelle persone del professor Giovanni Bianucci e del ricercatore Alberto Collareta, paleontologi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa.

Sulla base di un estensivo censimento del registro fossile risalente al Miocene Superiore e al Pliocene Inferiore (da 12 a 3,6 milioni di anni fa), il team ha scoperto che i due terzi delle specie marine del Mar Mediterraneo del Pliocene Inferiore era differente da quelle presenti nel bacino precedentemente alla Crisi di Salinità del Messiniano. Solo 86 delle 779 specie endemiche del Mediterraneo (presenti, cioè, esclusivamente in tale bacino) sopravvissero agli sconvolgimenti ambientali conseguenti alla separazione dall’Oceano Atlantico.

In particolare, i due ricercatori dell’Università di Pisa hanno analizzato le evidenze paleontologiche dei popolamenti a squali e mammiferi marini del Mar Mediterraneo a cavallo di questo grande evento geologico.

“Mentre il registro fossile, nel suo complesso, suggerisce un drastico impatto della Crisi di Salinità del Messiniano sulle forme di vita presenti nel Mediterraneo – spiega Alberto Collareta – i fossili di squali offrono delle informazioni diverse e complementari. In particolare, il rinnovamento faunistico che si osserva nel Pliocene Inferiore – con la comparsa nel Mar Mediterraneo di forme moderne come lo squalo bianco (Carcharodon carcharias) e il declino di altri predatori apicali più tipici del Miocene (ad esempio il famoso ‘Megalodon’) – riflette fenomeni evolutivi e turnover faunistici osservabili alla scala globale più che eventi relativi dalla portata regionale. In questo senso, il biota mediterraneo che rinacque dalle ceneri della crisi messiniana fu dunque necessariamente altro rispetto a quello che aveva caratterizzato il bacino nel corso del Miocene”.

“Una dinamica simile si osserva anche nell’evoluzione della fauna a cetacei del Mediterraneo – osserva Giovanni Bianucci – con l’emergere e la rapida diversificazione dei delfini oceanici (famiglia Delphinidae) nel Pliocene Inferiore, come testimoniato da un eccezionale record fossile rinvenuto in Toscana, Piemonte ed Emilia-Romagna. Analogamente a quanto osservato per gli squali, la comparsa di forme moderne coincide con il declino di specie tipicamente mioceniche, come i grandi capodogli macropredatori. Il fatto che anche questo turnover tra i cetacei abbia avuto una portata globale suggerisce che la coincidenza temporale degli eventi non sia casuale: un fenomeno regionale, ma comunque catastrofico, come la Crisi di Salinità Messiniana, potrebbe infatti aver avuto ripercussioni su scala mondiale sugli ecosistemi marini”.

Nella foto: i due ricercatori, a sinistra Giovanni Bianucci, a destra Alberto Collareta
Nella foto: i due ricercatori, a sinistra Giovanni Bianucci, a destra Alberto Collareta

Questo nuovo studio apre a nuove prospettive sulla Crisi di Salinità Messiniana e provvede, per la prima volta, a una quantificazione sinottica delle conseguenze di tale crisi su molti gruppi di organismi marini. Allo stesso tempo, esso fornisce uno stimolo per ulteriori questioni di ricerca: dove si rifugiarono le poche specie endemiche del Mediterraneo miocenico che furono in grado di sopravvivere alla Crisi di Salinità Messiniana? Quale fu l’impatto dei molti altri “giganti salini” che punteggiano la crosta terrestre? Quale sono le lezioni che questo evento può insegnarci nell’attuale contesto di crisi biologica?

La Crisi di Salinità del Messiniano

Da oltre cinquant’anni la comunità scientifica si interroga sulle cause e le conseguenze della Crisi di Salinità del Messiniano, e soprattutto sull’impatto di un evento tanto eccezionale sugli ecosistemi mediterranei. Ipotesi contrastanti si sono confrontate – e talvolta scontrate – nel corso dei decenni: alcuni ricercatori hanno ipotizzato la quasi completa sterilizzazione di un Mar Mediterraneo divenuto eccessivamente salino, mentre altri hanno argomentato a favore della persistenza locale di corpi d’acqua a salinità normale e di ecosistemi francamente marini per tutta la durata della Crisi di Salinità del Messiniano.

Riconosciuto nelle sue proporzioni titaniche nei primi anni ’70 del secolo scorso, questo “gigante salino” si formò in un bacino in via di disseccamento a seguito dell’emersione dei corridoi marini che fino ad allora avevano connesso il Mediterraneo all’Oceano Atlantico nell’area ispano-marocchina garantendo l’afflusso costante di acque marine di origine atlantiche nell’arida regione mediterranea. Tali condizioni estreme si protrassero alcune centinaia di migliaia di anni: il ritorno a condizioni marine normali avvenne soltanto 5,3 milioni di anni fa, all’inizio dell’epoca pliocenica, in conseguenza dell’apertura dello Stretto di Gibilterra e a seguito di una breve fase in cui le acque mediterranee divennero salmastre.

Fossili di grandi squali e mammiferi marini raccontano come è cambiato il Mediterraneo dopo la Crisi di Salinità del Messiniano
Fossili di grandi squali e mammiferi marini raccontano come è cambiato il Mediterraneo dopo la Crisi di Salinità del Messiniano

 

Testo e immagini dal Polo Comunicazione CIDIC – Centro per l’innovazione e la diffusione della cultura dell’Università di Pisa.

Nasce MedGermDB, la prima banca dati che raccoglie le informazioni sulle condizioni per far germinare oltre 300 piante native del Mediterraneo

L’Università di Pisa ha coordinato il lavoro, l’obiettivo è conservare la biodiversità di questo fragile hotspot

 

È nato MedGermDB, la prima banca dati che raccoglie le informazioni sulle condizioni sperimentali per far germinare i semi di oltre 300 piante native del Mediterraneo. Il lavoro coordinato dall’Università di Pisa ha come obiettivo la conservazione di questo fragile hotspot di biodiversità.

“Questo strumento ci consente di predire la germinazione di piante nel bacino Mediterraneo – racconta Angelino Carta, professore di Botanica sistematica nel dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa – la sua creazione è un passo fondamentale per comprendere il rischio di estinzione delle specie native e per prevenire gli inconvenienti che possono derivare dalla perdita di questo capitale naturale”.

Le informazioni raccolte nella banca dati riguardano oltre 4500 esperimenti di germinazione, in parte ricavati da un’analisi sistematica della letteratura esistente, in parte frutto di esperimenti ad hoc condotti dal gruppo di Pisa. A livello generale, la germinazione delle piante mediterranee è favorita da temperature fresche e da un periodo di post-maturazione in ambiente secco prima della germinazione. Il database è consultabile liberamente mediante una applicazione che consente di visualizzare le informazioni disponili per ogni specie.

“In questi mesi stiamo calibrando i modelli per predire la rigenerazione delle piante da seme in uno scenario di cambiamenti climatici e identificare quelle più adatte al restauro di ecosistemi mediterranei”,

aggiunge Diana Cruz, dottoranda presso il Dipartimento di Biologia che ha seguito tutte le fasi del lavoro.

Lo studio su MedGermDB è stato pubblicato sulla rivista Applied Vegetation Science. Al progetto hanno partecipato Alessio Mo collaboratore presso il Dipartimento di Biologia ed alcuni esperti internazionali: Eduardo Fernández-Pascual dell’Università di Oviedo (Spagna) ed Efisio Mattana dei Royal Botanical Gardens, Kew (UK). MedGermDB è parte integrante dell’archivio globale di dati della germinazione che è stato lanciato un paio di anni fa da un team internazionale che include anche Angelino Carta.

Lavandula stoechas. Foto di Sten, CC BY-SA 3.0

Testo dall’Unità Comunicazione Istituzionale dell’Università di Pisa.

Cambiamento climatico: le aree marine protette difendono la fauna ittica dalle ondate di calore, nel Mediterraneo tasso di riscaldamento triplo rispetto agli oceani

Il lavoro coordinato dall’Università di Pisa pubblicato su Nature Communications

Un drammatico innalzamento della temperatura dell’acqua di 4 o 5 gradi per almeno cinque giorni. Sono queste le ondate di calore che interessano sempre più i mari del nostro pianeta mettendo a rischio la fauna ittica e la sopravvivenza di alcune specie. Le aree marine protette sono però una risposta in grado di mitigare questo fenomeno dovuto al cambiamento climatico. La notizia arriva da uno studio internazionale pubblicato sulla rivista Nature Communications coordinato dall’Università di Pisa.

“È noto che le aree marine protette, se ben gestite e con opportuna sorveglianza, hanno effetti positivi sulla fauna marina eliminando o riducendo gli effetti diretti della pesca – spiega il professore Lisandro Benedetti-Cecchi del dipartimento di Biologia dell’Ateneo pisano primo autore dell’articolo – per la prima volta grazie a questo studio abbiamo dimostrato che sono anche in grado di mitigare l’impatto delle ondate di calore”.

La ricerca ha riguardato 2269 specie di pesci costieri che vivono in 357 siti interni alle aree marine protette e 747 siti esterni. I dati provengono da oltre 70mila osservazioni ottenute su intervalli temporali che vanno da un minimo di 5 a un massimo di 28 anni. Le aree marine protette studiate sono sparse in tutto il globo, nel Mediterraneo soprattutto in prossimità delle coste spagnole, poi in Australia, California e Indopacifico. Tutta questa mole di informazioni è stata messa insieme anche grazie alla cosiddetta “citizen science”, la scienza che si realizza con il contributo dei cittadine e cittadini.

“Le proiezioni suggeriscono che i cambiamenti nel clima oceanico, di cui le ondate di calore sono espressione, si acutizzeranno nei prossimi decenni e che gli attuali tassi di riscaldamento supereranno presto il margine di sicurezza termica di molte specie – sottolinea Benedetti-Cecchi – L’allarme è ancora maggiore per il Mar Mediterraneo, che si sta riscaldando a un ritmo allarmante di tre volte quello dell’oceano globale”.

A subire le conseguenze delle ondate di calore è la stabilità dell’intero ecosistema e delle popolazioni, con i pesci erbivori che tendono ad aumentare e i carnivori, come squali, barracuda, cernie o dentici, che invece sono più minacciatiIl risultato può essere il collasso dell’intero sistema sino all’estinzione locale di alcune specie. Questi effetti sono però molto mitigati dalle aree marine protette. Qui le popolazioni di pesci sono più abbondanti e funzionalmente strutturate rispetto alle aree non protette, conferendo stabilità alle comunità anche in presenza di eventi climatici estremi.

“Il nostro lavoro – conclude Benedetti Cecchi – vuole enfatizzare l’importanza delle aree marine protette per salvaguardare la fauna marina fornendo supporto alle politiche di conservazione, articolate nelle varie direttive internazionali, come ad esempio la Convention for Biological Diversity, secondo le quali entro il 2030 almeno il 10% della superficie degli oceani dovrebbe essere sottoposta a protezione”.

fauna ittica aree marine protette ondate di calore
Cambiamento climatico: le aree marine protette difendono la fauna ittica dalle ondate di calore, nel Mar Mediterraneo tasso di riscaldamento triplo rispetto agli oceani

 

Riferimenti Bibliografici:

Benedetti-Cecchi, L., Bates, A.E., Strona, G. et al. Marine protected areas promote stability of reef fish communities under climate warming, Nat Commun 15, 1822 (2024), DOI: https://doi.org/10.1038/s41467-024-44976-y

 

Testo e foto dall’Unità Comunicazione Istituzionale dell’Università di Pisa.

ALLA SCOPERTA DELLA BALENOTTERA AZZURRA, E IN PARTICOLARE SULLE OSSA UDITIVE, PER COMPRENDERE LO SVILUPPO DELLE POPOLAZIONI MARINE

Una ricerca in collaborazione con l’Università di Torino indaga sull’origine del più grande animale vivente, il cui ruolo è fondamentale per la salvaguardia degli ecosistemi oceanici

L’origine della balenottera azzurra, il più grande animale vivente sul nostro pianeta, rappresenta un problema ancora irrisolto. Questa particolare specie, che può superare i 30 m di lunghezza e le 70 tonnellate di peso, ha la capacità di organizzare e strutturare le catene alimentari oceaniche. Grazie ai fanoni, una sorta di filtro con cui questi animali estraggono grandi quantità di invertebrati dall’enorme mole d’acqua che entra nella loro bocca, migliaia di prede vengono catturate e ingurgitate. I prodotti della digestione vengono poi immessi nell’acqua sotto forma di feci ricche di minerali in grado di stimolare la crescita del plancton marino. In questo modo riescono a coordinare, sia pure involontariamente, lo sviluppo delle popolazioni marine, da cui dipende gran parte della vita negli oceani.

Per comprendere l’origine della balenottera azzurra il Dott. Michelangelo Bisconti e il Prof. Giorgio Carnevale del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università degli Studi di Torino, insieme a un team internazionale di ricercatori, hanno concentrato i propri sforzi sullo studio di un particolare distretto scheletrico di questo animale: le ossa uditive. Nei cetacei infatti le ossa uditive comprendono due grandi elementi chiamati periotico e bulla timpanica, nei quali si trovano gli organi dell’udito e un certo numero di nervi che possono fornire informazioni circa i rapporti evolutivi che intercorrono tra specie diverse.

scheletro della balenottera azzurra di Bruxelles. Crediti per la foto: Olivier Lambert
scheletro della balenottera azzurra di Bruxelles. Crediti per la foto: Olivier Lambert

L’anatomia e le caratteristiche dello scheletro pongono questa specie tra le più primitive balenottere viventi. Le ossa uditive di uno scheletro di balenottera azzurra conservata a Bruxelles dalla seconda metà del XIX secolo sono state sottoposte a scansione 3D e a TAC rivelando dettagli mai osservati prima, permettendo la ricostruzione della morfologia degli organi dell’udito che si trovano all’interno del periotico. La modellizzazione 3D ha consentito la determinazione delle frequenze che questo animale può udire. I risultati sono stati confrontati con dati simili provenienti da altri studi e basati su specie differenti contribuendo così ad una analisi dei rapporti evolutivi della balenottera azzurra.

Con questo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista internazionale The Anatomical Record, si conferma lo status di primitività della balenottera azzurra e si suggerisce una particolare affinità con la balenottera comune che abita anche il Mediterraneo. Inoltre, lo studio dettagliato del periotico ha rivelato che in questa specie esistono caratteristiche peculiari mai osservate prima, che permettono l’identificazione di specie strettamente imparentate con essa nella documentazione fossile.

“Capire l’origine della balenottera azzurra – dichiara il Dott. Bisconti – significa comprendere in che modo il meccanismo di gestione della colonna alimentare oceanica si sia posto in essere nel corso degli ultimi milioni di anni. A partire da questi risultati è forte la speranza di poter ricostruire il percorso evolutivo che ha condotto all’origine del più gigante degli animali e alla strutturazione delle catene alimentari oceaniche, rimaste in auge fino a quando la caccia ai grandi cetacei non le ha radicalmente alterate”.

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

STUDIO INTERNAZIONALE GUIDATO DA UNITO: PERCHÉ L’ITALIA È UNA “PENISOLA FELICE” PER RANE E SALAMANDRE

Il lavoro dei paleontologi mette in relazione i cambiamenti climatici avvenuti negli ultimi milioni di anni con la distribuzione di rettili e anfibi nell’Europa meridionale. È necessario monitorare con attenzione la salute degli anfibi italiani e concentrare gli sforzi di conservazione sulla nostra penisola, anche considerata l’elevatissima sensibilità di questi animali al cambiamento climatico in atto.

 

Un lavoro frutto di una collaborazione internazionale che vede coinvolti esperti paleontologi delle Università di Torino e di Firenze, ma anche dell’Università di Helsinki e dell’Istituto Catalano di Paleontologia Miquel Crusafont, ha messo in luce le correlazioni tra gli eventi climatici degli ultimi 3-4 milioni di anni e la distribuzione odierna di rettili e anfibi nell’Europa mediterranea. Secondo il recente studio, pubblicato su Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology, la maggiore umidità relativa avrebbe permesso ad anfibi come le salamandre di trovare nella Penisola Italiana un rifugio accogliente in cui poter sopravvivere. Al contrario, eventi di freddo estremo non hanno permesso la sopravvivenza di alcuni rettili che oggi troviamo ancora nella Penisola Iberica e nei Balcani, ma non più in Italia.

Il gruppo di paleoerpetologi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino, guidato dal Prof. Massimo Delfino, si occupa da anni di ricostruire la biogeografia del passato delle diverse specie di anfibi e rettili che vivono nel nostro territorio (e non solo).

Una solida conoscenza del record fossile è l’unica base possibile per avere accesso diretto alla storia passata degli organismi che ci circondano – spiega il Prof. Delfino – e di conseguenza indagare le loro reazioni ai cambiamenti climatici già avvenuti sulla Terra”.

Lo studio ha evidenziato come la Penisola Italiana abbia perso nel periodo di tempo considerato numerose specie di rettili che in passato la abitavano e che oggi si ritrovano ancora nelle penisole Balcanica e Iberica. Tra questi, lo pseudopo (Pseudopus apodus) e lo stellione (Stellagama stellio) o un loro parente stretto. Questo è dovuto ad alcuni intervalli di poche decine di migliaia di anni caratterizzati da un clima particolarmente inadatto a questi rettili nella nostra penisola, laddove invece le aree più meridionali di Balcani e Iberia hanno mantenuto condizioni meno avverse.

Diversamente dai rettili, la distribuzione degli anfibi, e in particolare delle salamandre, è maggiormente controllata dai livelli di precipitazioni e quindi di umidità. Il maggior grado di umidità ricostruito dagli autori per il territorio italiano ha, pertanto, determinato la presenza di un rifugio particolarmente ospitale per gli anfibi durante i periodi “difficili” degli ultimi 3 milioni di anni.

Queste condizioni più umide sono testimoniate sia da analisi di modellizzazione della nicchia climatica sia da indagini parallele fondate sull’utilizzo del record fossile di altri gruppi (come i mammiferi e le piante) per ricostruire i livelli di precipitazione del passato.

Quanto si osserva per la distribuzione degli anfibi è valido anche per alcune specifiche piante del passato, che richiedevano la presenza di estati umide”, osservano i paleobotanici Prof. Edoardo Martinetto (Università di Torino) e Prof.ssa Adele Bertini (Università di Firenze). “E non è escluso che pattern simili si possano osservare anche in gruppi diversi, soprattutto di organismi legati ad ambienti di acqua dolce”, aggiunge il Prof. Giorgio Carnevale (Università di Torino).

Ho creduto molto in questo lavoro, perché penso che il record fossile abbia molto da dirci e che guardando al passato possiamo mettere in prospettiva gli eventi che accadono sotto i nostri occhi”, sottolinea la Dott.ssa Loredana Macaluso, prima autrice dell’articolo e attualmente ricercatrice alla Università Martin Luther University Halle-Wittenberg in Germania, che ha svolto il suo dottorato su questo tema presso il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino. “Il contributo di diverse branche della paleontologia e la collaborazione tra diversi esperti sono stati fondamentali per avere il quadro completo, consentendo l’unione di tutti i pezzi del puzzle. Proprio in considerazione della loro particolare storia evolutiva e biogeografica, le salamandre dovrebbero essere fra i nostri simboli e orgogli naturalistici, visto che la loro biodiversità nel nostro paese rappresenta un unicum a livello europeo e mondiale, con molte specie endemiche (e dunque esclusive del nostro territorio). Dovremmo capire che abbiamo una responsabilità molto alta riguardo la loro conservazione e che dovremmo iniziare a preoccuparcene seriamente”.

Italia, “penisola felice” per rane e salamandre. Gallery

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

CIPROMED, IL PROGETTO DI UTILIZZO CIRCOLARE E INCLUSIVO DELLE PROTEINE ALTERNATIVE NELL’AREA MEDITERRANEA

La siccità e i deficit ecologici stanno peggiorando l’autosufficienza delle filiere proteiche tradizionali. L’iniziativa mira a ridurre il rischio per i Paesi del Mediterraneo di dipendere dalle fonti proteiche importate.

Il team del progetto CIPROMED
Il team del progetto CIPROMED

Il 5 e 6 giugno si è svolto il kickoff meeting del progetto “CIPROMED- Circular and Inclusive utilisation of alternative PROteins in the MEDiterranean value chains”, finanziato dal programma di ricerca congiunto PRIMA. Il progetto, di durata triennale (giugno 2023 – giugno 2026), vede la partecipazione di ricercatori italiani dell’Università degli Studi di Torino del Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari (DISAFA) e del Dipartimento di Scienze Veterinarie (DSV).

Il progetto, coordinato dall’Università di Thessaly (Grecia), vede la partecipazione di 17 partner appartenenti a 10 paesi diversi. Il budget totale del progetto è pari a € 4.738.918,81€, di cui 350.354,69€ destinati a UniTo. Il referente scientifico per l’Ateneo torinese è la professoressa Laura Gasco.

Gli attuali sistemi di produzione agricola europei sono fortemente dipendenti dalle importazioni di proteine per coprire il fabbisogno nutrizionale dell’acquacoltura e dell’allevamento, ma anche per il consumo umano. Questa problematica interessa in particolar modo la regione mediterranea, dove la siccità e i deficit ecologici stanno peggiorando l’autosufficienza delle filiere proteiche tradizionali. L’UE ha urgentemente bisogno di fonti proteiche alternative efficienti, praticabili e prodotte localmente.

La maggior parte dei sistemi agricoli produce un’enorme quantità di sottoprodotti e scarti agroalimentari. Si stima che ogni anno vada perso il 27% della nostra produzione agricola, che corrisponde a 1,6 miliardi di tonnellate su base globale, per un valore di 750 miliardi di dollari all’anno. Allo stesso modo, un terzo di tutto il cibo prodotto per il consumo umano va perso o sprecato. Queste perdite rappresentano un grande risorse non sfruttate e sottovalutate.

L’obiettivo principale del progetto CIPROMED è quello di aumentare la stabilità e la resilienza dei sistemi di produzione agroalimentare del Mediterraneo attraverso lo sfruttamento diretto delle colture tradizionali prodotte localmente, nonché valorizzando le proteine dei prodotti secondari agroindustriali generati a livello locale (ad esempio, i cereali esausti dei produttori di birra o i panelli di semi oleosi), l’upcycling e la bioconversione dei loro residui di estrazione in proteine prodotte da insetti, legumi e microrganismi da utilizzare ulteriormente nei settori agroalimentare e dei mangimi.

CIPROMED utilizzerà un approccio multi-soggettivo, in cui insetti e microalghe saranno prodotti sfruttando i residui agroindustriali e i flussi secondari di estrazione come substrati, applicando tecniche di allevamento e coltivazione innovative per ottenere rese proteiche più elevate. Per chiudere il cerchio, gli scarti di allevamento (denominati “frass”) degli insetti saranno utilizzate come fertilizzante per la produzione di legumi (lupini e fave). Ingredienti proteici di alta qualità da residui agroindustriali, insetti, legumi e microalghe saranno estratti per applicazioni alimentari e mangimistiche attraverso processi di estrazione sostenibili dal punto di vista economico e ambientale.

Per raggiungere la circolarità, i residui generati dai processi di estrazione saranno integrati nelle diete formulate per l’allevamento degli insetti e la coltivazione eterotrofa delle microalghe, riducendo al minimo le quantità residue. La fermentazione microbica sarà utilizzata per migliorare la gamma, la stabilità e la funzionalità salutistica delle nuove proteine. Tutti gli ingredienti proteici saranno completamente caratterizzati, in termini di valore nutrizionale, proprietà funzionali, biologiche e di sicurezza. Sulla base dei risultati ottenuti, verranno formulati e convalidati nuovi prototipi di alimenti e mangimi contenenti i nuovi ingredienti proteici, utilizzando tecnologie di lavorazione avanzate e ottimizzate.

CIPROMED mira a ridurre il rischio per i Paesi del Mediterraneo di dipendere dalle fonti proteiche importate e aiuterà i Paesi partecipanti a fare maggiore affidamento sulle fonti di nutrimento prodotte localmente. La sfida sarà adattare la produzione di nuove proteine alle condizioni uniche del Mediterraneo, creando un nuovo sistema di produzione di proteine socio-economicamente fattibile e sostenibile dal punto di vista ambientale.

CIPROMED cercherà di raccogliere le percezioni/preferenze dei consumatori sui nuovi tipi di alimenti e mangimi nella regione mediterranea, tenendo conto anche delle peculiarità religiose e delle differenze demografiche di ciascun Paese partecipante. A differenza dell’agricoltura convenzionale, la produzione delle più comuni specie di insetti e di microalghe eterotrofe allevate a livello commerciale su mangimi di sottoprodotti è caratterizzata da emissioni di gas a effetto serra notevolmente ridotte (30-50% in meno), avendo quindi un minore impatto ambientale e un contributo al riscaldamento globale.

CIPROMED si concentrerà sul miglioramento della salute umana attraverso la progettazione e la valutazione di diete alternative a base di proteine che mireranno ai sistemi metabolici e immunitari e promuoveranno la salute umana. I Paesi mediterranei dovranno passare a sistemi agricoli con un uso più efficiente delle risorse naturali.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

L’INQUINAMENTO MARINO DA PLASTICA AL CENTRO DEL REPORTAGE E MOSTRA FOTOGRAFICA ESPLORAZIONI NELLA PLATISFERA 

Domanigiovedì 25 maggio, alle ore 17.00, presso l’Orto della Scuola di Management ed Economia (C.so Unione Sovietica n. 218 bis) si terrà l’inaugurazione di “Esplorazioni nella plastisfera”, la nuova mostra fotografica promossa dal Dipartimento di Economia, Studi Sociali, Matematica Applicata e Statistica dell’Università di Torino.

Esplorazioni nella platisfera Locandina
la locandina del reportage e mostra fotografica Esplorazioni nella platisfera

Organizzata dal team di ricerca della Prof.ssa Chiara Certomà, la mostra propone una prospettiva non convenzionale su uno dei temi più cogenti del nostro tempo, ovvero l’inquinamento marino da plastica, indagando visivamente le nuove ecologie ibride che emergono sulla “plastisfera”, un insieme di organismi che colonizzano la plastica (biofilm, organismi che si attaccano tra loro e altre cose), inclusi batteri e funghi ed ecosistemi complessi, che si sono evoluti per vivere su microplastiche, e vari detriti antropici in ambienti marini (tra cui relitti, reti fantasma, infrastrutture e siti inquinati).

Esplorazioni nella platisfera

Durante una spedizione fotografica subacquea, il fotografo Giuseppe Lupinacci/Raw News, con il supporto tecnico del video-maker indipendente Federico Fornaro, direttore della Lega Navale Italiana-Anzio e dell’agenzia di stampa Raw-News, e Davide Rinaldi, direttore del diving center “Capo D’Anzio”, ha prodotto un reportage fotografico in 16 sorprendenti scatti che documenta le ecologie emergenti e le biologie ricombinanti della plastifera nel Mediterraneo, un bacino semichiuso circondato da sorgenti di plastica con concentrazioni di plastica e paragonabile alle più grandi zone di accumulo del mondo.

La documentazione visiva supporta il lavoro emergente dei geografi critici su come nuovi assemblaggi ibridi stiano rimodellando e risignificando i sistemi ecologici di supporto alla vita costruendo sulla semiotica materiale di assemblaggi più che umani.

Gli scatti di Lupinacci saranno esposti in sedi nazionali e internazionali, in concomitanza con la presentazione del lavoro di ricerca della Prof.ssa Certomà condotto presso l’Università di Torino.

La mostra infatti si trasferirà a Palma de Mallorca, Milano, Londra, Anzio per poi ritornare nel 2024 nella sede del Dipartimento di Economia, Studi Sociali, Matematica Applicata e Statistica di UniTo.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Dall’Istria alle isole e coste italiane fino alle Baleari: ridisegnata la mappa di distribuzione della foca monaca dall’Università di Milano-Bicocca

Grazie alla nuova tecnica basata sul DNA ambientale e a un monitoraggio durato due anni, i ricercatori dell’ateneo milanese, in collaborazione con il Gruppo Foca Monaca e con il supporto di nove associazioni, hanno individuato sei “hot spot” di presenza della specie nel Mediterraneo centrale. I dati sono stati pubblicati sulla rivista “Scientific Reports”.

Milano, 15 Febbraio 2023 – Alto Adriatico tra Istria e la laguna di VeneziaSalento-Golfo di Taranto, le isole minori sicilianeSardegna orientale-Canyon di CapreraArcipelago Toscano e l’arcipelago delle Baleari. Sono i sei “hot spot” di presenza della foca monaca individuati dai ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca, grazie alla tecnica basata sul DNA ambientale, in collaborazione con il Gruppo Foca Monaca APS e con il supporto di nove associazioni ed enti di ricerca impegnati nelle operazioni di campionamento.

A rivelarlo è l’articolo “Playing hide and seek with the Mediterranean monk seal (trad.: “Giocando a nascondino con la foca monaca del Mediterraneo”), pubblicato sulla rivista Scientific Reports (DOI: http://doi.org/10.1038/s41598-023-27835-6) e nel quale sono raccolti i dati della vasta campagna di monitoraggio effettuata lungo le coste italiane e nei tratti di mari limitrofi tra il 2020 e 2021 per tracciare la presenza della foca monaca del Mediterraneo (Monachus monachus), una delle specie più rare al mondo.

Con un rivoluzionario sistema di rilevamento non invasivo, basato sulla ricerca di DNA ambientale in campioni di acqua di mare, i ricercatori hanno analizzato 135 campioni prelevati in 120 punti del Mar Mediterraneo centro-occidentale, alla ricerca di tracce molecolari della foca monaca: l’analisi ha rivelato così la presenza del raro pinnipede in aree dove mancano osservazioni dirette da decenni, come ad esempio in molti tratti di mare che circondano la nostra Penisola, dalle acque sovrastanti il canyon di Caprera all’Alto Adriatico fino alle isole Baleari.
Ridisegnata la mappa di distribuzione della foca monaca dall’Università di Milano-Bicocca
Ridisegnata la mappa di distribuzione della foca monaca dall’Università di Milano-Bicocca. Le linee continue blu delimitano le sei zone calde («hot-spot» ad alta incidenza di rilevamenti positivi) identificate nello studio, mentre le linee tratteggiate fucsia mostrano i tratti di mare monitorati ma che non hanno restituito dati molecolari suggestivi della presenza della foca monaca, almeno durante la campagna Spot the Monk 2021, a cui si riferisce l’articolo appena pubblicato. Le aree delimitate in arancione (arcipelago Toscano e delle Pelagie) segnalano le «zone calde» identificate precedentemente dagli stessi autori, utilizzando la stessa metodologia, e riportate nell’articolo su “Biodiversity and Conservation”

La ricerca ha fornito una nuova “visione” della distribuzione territoriale della foca monaca, individuando sei aree di grande interesse (“hot spot”) dove saranno concentrate da subito le attività di monitoraggio dei prossimi anni. Altro dato rilevante è la “positività” di alcuni siti storicamente noti per la presenza della specie e anche di aree vicine alle piccole isole e alle Aree Marine Protette.

Il metodo di rilevamento è stato messo a punto da Elena Valsecchi, ecologa molecolare del dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra dell’Università di Milano-Bicocca, autrice principale dell’articolo e coordinatrice del gruppo di DNA ambientale marino (Marine eDna Group) dell’ateneo milanese, che da alcuni anni promuove il progetto “MeD for Med – Marine environmental DNA for the Mediterranean”, sistema di monitoraggio della biodiversità marina basato proprio sul prelievo di campioni d’acqua e sull’analisi del DNA ambientale in essi contenuto.

Nel 2020 il gruppo di ricerca milanese ha lanciato il progetto Spot the Monk” in collaborazione con il Gruppo Foca Monaca, per lo studio “focalizzato” su questo pinnipede. Emanuele Coppola, presidente del Gruppo Foca Monaca APS e coautore della pubblicazione, si è occupato di individuare i siti di campionamento al fine di stimare il passaggio stagionale dei pinnipedi e il grado di fedeltà alle singole aree. Siti costieri che, per esperienza diretta o valutazione geo-morfologica, costituivano i potenziali habitat di elezione della foca monaca.

Foto realizzate dall’equipaggio di One Ocean Foundation, una delle associazioni partner nella raccolta di campioni per Spot the Monk. Gallery

La campagna Spot the Monk” 2021, che ha portato alla individuazione dei sei “hot spot”, è stata realizzata anche grazie al coinvolgimento di diversi programmi di citizen science, facenti capo a nove tra associazioni ed enti di ricerca (in ordine alfabetico: Centro Ricerca Cetacei, Circolo Nautico Rimini, Filicudi Wildlife Conservation, Fondazione Cetacea, IMEDEA (CSIC-UIB), One Ocean Foundation, Progetto Mediterranea, Progetto Manaia e Sailing for Blue Life), che si sono adoperati a raccogliere i campioni, consentendo la raccolta simultanea in distretti marini differenti, strategia che ha consentito di delineare meglio la mappa di presenza o assenza del pinnipede.

«È importante che questi monitoraggi siano svolti in modo omogeneo e scientificamente certificato – dichiarano i team leader della ricerca, Elena Valsecchi e Emanuele Coppola –. Solo così potremo avere dati confrontabili che consentiranno di seguire nei prossimi anni il tanto sperato ritorno della specie nel Mediterraneo centrale. Un lieto evento atteso non solo dal nostro Paese, ma anche da Francia, Spagna, Marocco e Tunisia».

Foto realizzate dall’equipaggio di Progetto Mediterranea, una delle associazioni partner nella raccolta di campioni per Spot the Monk. Gallery

Questa ricerca integra i risultati, ottenuti con lo stesso approccio, pubblicati un anno fa dai ricercatori su“Biodiversity and Conservation” (DOI: https://doi.org/10.1007/s10531-022-02382-0). L’obiettivo finale è quello di stimare gli spostamenti stagionali e l’utilizzo che la specie fa dei vari habitat marini, grazie anche all’integrazione di altri campioni raccolti in alto mare, come quelli prelevati da traghetti in navigazione lungo le rotte commerciali (come descritto in un altro articolo a cura di Elena Valsecchi, pubblicato su “Frontiers in Marine Science” , DOI: https://doi.org/10.3389/fmars.2021.704786).

Infine, la collaborazione tra Università di Milano-Bicocca e il Gruppo Foca Monaca ha visto il coinvolgimento anche di realtà accademiche straniere: l’IMEDEA (Instituto Mediterráneo de Estudios Avanzados) con sede nell’isola di Maiorca e l’Università di Edimburgo, coinvolta nel più recente monitoraggio svolto lo scorso autunno tra il golfo di Taranto, Salento e le coste albanesi.
Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca sulla mappa di distribuzione della foca monaca.

Inaugurato nel Museo Archeologico nazionale “Domenico Ridola” il nuovo allestimento “Giuliana degli Abissi”

Giuliana degli Abissi
Giuliana degli Abissi

È stato inaugurato oggi nel Museo Archeologico nazionale “Domenico Ridola” il nuovo allestimento “Giuliana degli Abissi”, a cura di Annamaria Mauro e Laura D’Esposito, dedicato al fossile della Balena Giuliana, scoperto nel 2006 sulle sponde del Lago di San Giuliano, a 8 km da Matera. All’inaugurazione hanno preso parte la Direttrice del Museo nazionale di Matera, arch. Annamaria Mauro, il Direttore generale Musei, prof. Massimo Osanna, il sindaco di Matera, Domenico Bennardi.

Il percorso espositivo dedicato alla Balena Giuliana si compone di quattro sale. La prima è dedicata alla scoperta del fossile e alle fasi del difficile recupero. Dopo lo scavo, completato nel 2011, i resti dell’animale furono consolidati, frazionati in blocchi, protetti con camicie di gesso e collocati all’interno di casse lignee costruite su misura e protette da un imballaggio di argilla espansa e schiuma di poliuretano. Tutte le casse furono trasportate presso la sede materana dell’allora Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici della Basilicata dove rimasero fino al 2013 quando vennero trasferite al Museo Archeologico nazionale “D. Ridola” di Matera.

Nella seconda sala il visitatore è accompagnato in un viaggio di grande impatto visivo attraverso una videoinstallazione immersiva ideata dal visual artist Silvio Giordano e realizzata da ETT SpA, azienda del Gruppo SCAI. Al fine di creare un flusso emotivo dinamico, le varie sezioni che compongono il filmato sono state realizzate utilizzando tecniche differenti, dall’animazione 2D al 3D fotorealistico, passando per il compositing, le riprese video live e la motion graphic. Alle riprese reali da drone, inoltre, si affiancano parti prevalentemente documentaristiche. La sala è caratterizzata dalla presenza di una proiezione immersiva su due lati che si attiva all’ingresso del visitatore, rendendo l’esperienza coinvolgente grazie anche alla grande parete specchiata. Un ruolo estremamente importante rivestono il suono e le musiche, che accompagnano lo spettatore in una dimensione acquatica. Alla voce del narratore Christian Iansante è affidato il racconto della vita marina, dalla genesi fino alla caccia violenta alla balena che, in tutta la letteratura, da Moby Dick a Giona della Bibbia, rappresenta una tappa verso la salvezza, recando con sé la possibilità del rinnovamento.

La terza sala è dedicata al paleoambiente, con l’esposizione di alcuni reperti riconducibili alla fauna e alle piante acquatiche dell’ecosistema in cui la balena è stata ritrovata. Attraverso un monitor il visitatore può inoltre seguire i lavori di restauro del fossile, eseguiti dalla ditta Lithos s.r.l, in corso nel laboratorio allestito nella Ex Palazzina Fio del Museo “Ridola”. Le notevoli dimensioni e la giacitura sulla spiaggia sommersa in cui l’animale si era arenato prima che fosse ricoperto dal sedimento sabbioso hanno infatti causato la perdita di gran parte dello scheletro; a questi si aggiungono i danni provocati dalle variazioni di temperatura e umidità che hanno interessato il reperto negli anni intercorsi dal suo recupero ad oggi. Pertanto, grazie ad una proficua collaborazione tra diversi enti coinvolti, è stato possibile individuare una metodologia di intervento che prevede, attraverso diversi step, la messa in sicurezza/consolidamento dei reperti osteologici. Tali operazioni, che si svolgeranno con la supervisione del paleontologo, in alcuni casi permetteranno il recupero dei frammenti e, ove possibile, le integrazioni che agevoleranno la lettura morfologica del fossile e il ristabilimento della coesione delle parti superstiti.

restauro

Nella quarta sala sono esposti i primi due reperti ossei integralmente restaurati: la bulla timpanica e l’omero dell’arto destro. Grazie ad un lungo e delicato intervento infatti, è stato possibile recuperare tutte le parti del cetaceo fossile giunte sino a noi: dodici vertebre toraciche, diverse costole, di cui una lunga oltre 3 metri, la pinna pettorale e gran parte del cranio. Proprio il rinvenimento della bulla timpanica ha consentito di attribuire con sicurezza l’animale al genere Balenoptera la cui lunghezza presunta è di 26 metri e che può essere assimilata all’odierna specie della balenottera azzurra. Gli specialisti confermano che la Balena Giuliana, probabilmente il più grande esemplare che abbia mai solcato le acque del mare che oggi chiamiamo Mediterraneo, visse nel Pleistocene inferiore, fra 1,5 e 1,25 milioni di anni fa ed aveva un peso compreso tra 130 e 150 tonnellate, contro le circa 100 tonnellate del più grande fossile dei dinosauri. Il rinvenimento di questa balena, quindi, risulta di grande importanza per l’approfondimento delle conoscenze sulla storia biologica del Mediterraneo.

Il racconto dell’allestimento viene completato dal fumetto d’autore “La Regina degli abissi” (Osanna Edizioni) realizzato dall’illustratore e fumettista Giulio Giordano. La semi dea Talassa, figlia del possente Nettuno, è stata incaricata dal padre di risolvere un enigma nei pressi della diga di San Giuliano. “La Regina degli abissi” riaffiora dagli oceani del tempo. Porta con sé l’eco di un mondo primitivo e selvaggio. Finalmente libera dalla prigione di sabbia che intrappolava i suoi resti, la Balena Giuliana racconterà la sua storia a chi vorrà ascoltarla. L’allestimento “Giuliana degli Abissi” viene introdotto dal nuovo visitor center, che prende spunto dagli scatti di alcuni reperti realizzati dal fotografo Mario Cresci, per offrire un’anticipazione delle principali sezioni archeologiche del rinnovato Museo “Ridola”.

«Il nuovo percorso espositivo “Giuliana degli Abissi” – sottolinea il Direttore generale Musei, prof. Massimo Osanna – è il frutto di un lungo e complesso lavoro che oggi rappresenta un grande traguardo non solo per il museo archeologico “Domenico Ridola” e per il Museo nazionale di Matera, ma per tutto il Sistema museale nazionale, in cui l’allestimento ben si inserisce sia per l’importanza scientifica del rinvenimento del fossile sia per le potenzialità che questo offre nel campo della valorizzazione. Un progetto che si è caratterizzato sin dal primo momento per la multidisciplinarietà che ha composto la squadra e che dimostra come proprio attraverso questa modalità operativa si ottengono risultati straordinari».

«Oggi è una giornata importante per il territorio materano e per l’intera Basilicata, ma credo anche per il mondo scientifico internazionale, perché apriamo al pubblico un esempio virtuoso di percorso espositivo dove si uniscono tutela, conservazione, restauro e valorizzazione insieme – evidenzia la Direttrice Annamaria Mauro -. Il visitatore verrà immerso nel racconto del fossile Giuliana, dal suo ritrovamento fino all’allestimento dei reperti già restaurati, ma potrà visitare anche il cantiere in fieri, ponendo domande ai restauratori e ammirando la grandezza e l’unicità di questo reperto che man mano dalle casse diventa uno scheletro vero. Accompagnerà la vista una videoinstallazione immersiva emozionante che racconta l’identità della Balena nell’immaginario collettivo».

«Come sindaco di Matera, Capitale Europea della Cultura, esprimo soddisfazione e felicità per l’apertura dell’allestimento dedicato alla Balena Giuliana, con la possibilità di vedere il restauro del fossile all’interno del Museo “Ridola” – spiega il sindaco Domenico Bennardi -. Una grande emozione, ricordando i primi mesi di insediamento del mio mandato, quando ho voluto aprire fortemente quelle casse che da tanti anni tenevano relegata la Balena Giuliana, un fossile che è tra i più grandi al mondo mai trovati per massa e che può diventare un potenziale nuovo attrattore culturale e scientifico per la città. Un plauso al Museo nazionale di Matera che ha permesso il restauro, con l’auspicio che si possa avere una collaborazione proficua con l’Amministrazione comunale nella progettazione dei percorsi turistico- culturali».

Testo e foto dall’Ufficio Stampa e Comunicazione Museo Archeologico nazionale “Domenico Ridola” di Matera

Mediterraneo, Milano-Bicocca sulle tracce della foca monaca: mappare il suo ritorno grazie al DNA ambientale

Attraverso il prelievo e il rilevamento di campioni molecolari dal mare, i ricercatori dell’ateneo milanese rilevano il passaggio del pinnipede lungo le coste italiane e in alto mare. Il metodo, descritto in un articolo appena pubblicato su “Biodiversity and Conservation”, favorirà il monitoraggio e la salvaguardia della specie.

foca monaca DNA
Foca adulta nuota in superficie. È molto raro osservare una foca monaca perché questi animali trascorrono gran parte del tempo in immersione. In alcune specie affini alla foca monaca è stato calcolato che circa l’80% tempo è trascorso in immersione. Infatti in apnea le foche mangiano, si accoppiano e dormono profondamente. Foto: E. Coppola/GFM

Milano, 22 febbraio 2022 – Da decenni la foca monaca, tra i pinnipedi più rari al mondo e l’unico presente nel Mar Mediterraneo, era considerata estinta nelle acque dei mari italiani, fino ai recenti avvistamenti nel Mar Tirreno e Ionio, che hanno fatto ipotizzare un suo ritorno. Per mapparne la presenza, i ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca hanno realizzato un metodo di rilevazione innovativo e non invasivo, basato sul recupero e analisi del DNA ambientale (eDNA) dai campioni di acqua prelevati nel Mare Nostrum. I primi test e i risultati delle azioni di monitoraggio hanno dato riscontro positivo, anticipando alcune delle recenti segnalazioni del mammifero marino al largo delle coste toscane e siciliane, in tratti di mare poco frequentati.

 

Il metodo è stato descritto in un articolo dal titolo “A species-specific qPCR assay provides novel insight into range expansion of the Mediterranean monk seal (Monachus monachus) by means of eDNA analysis”, appena pubblicato dalla rivista scientifica “Biodiversity and Conservation” (DOI: https://doi.org/10.1007/s10531-022-02382-0). Prima autrice Elena Valsecchi, ecologa molecolare del dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra dell’Università di Milano-Bicocca e docente di Marine Vertebrate Zoology.

foca monaca DNA
La foca nuota in immersione. Le foche hanno un corpo perfettamente adattato al nuoto, con le pinne posteriori utilizzate esattamente come la coda di un pesce e le pinne anteriori tenute aderenti al corpo o usate solo per migliorare l’assetto e per i rapidi spostamenti laterali. In foto, una foca monaca (Monachus monachus) del Mediterraneo, femmina adulta Riserva Naturale di Kamenjak, Istria meridionle, Croazia 12-2011. Foto: E. Coppola/GFM

Alla base del metodo, un assunto: ogni organismo vivente lascia una traccia del proprio passaggio e questa viene rivelata dal suo DNA rimasto nell’ambiente. Per esempio per la foca monaca, dal DNA che resta nella massa d’acqua in cui si muove. Elena Valsecchi coordina il gruppo di DNA ambientale marino (Marine eDna Group) dell’ateneo milanese, che da due anni ha promosso il progetto “MeD for Med – Marine environmental DNA for the Mediterranean”, sistema di monitoraggio della biodiversità marina basato proprio sull’analisi del DNA ambientale contenuto in campioni d’acqua raccolti da traghetti lungo le rotte commerciali. Un progetto nato grazie al cofinanziamento del programma Bicocca Università del Crowdfunding dell’Università di Milano-Bicocca e descritto in un articolo pubblicato lo scorso agosto su “Frontiers in Marine Science” (DOI: https://doi.org/10.3389/fmars.2021.704786).

Per mettere a punto una strategia molecolare in grado di intercettare, dall’analisi di semplici campioni d’acqua marina, la presenza della foca monaca, una volta diffusa in tutto il bacino centro-orientale del Mediterraneo ma oggi concentrata principalmente nel Mar Egeo, Elena Valsecchi ha identificato regioni “informative” del DNA mitocondriale del pinnipede, ovvero sequenze target che si trovano solo in questa specie. I ricercatori hanno così potuto sviluppare sonde specifiche per poter “pescare” all’interno di un miscuglio di milioni di molecole di DNA provenienti dagli animali più disparati – come quello presente all’interno di un campione di DNA ambientale prelevato dal mare – il DNA della foca monaca: una sorta di “calamita molecolare”.

 

Foche. La presenza delle foche viene immortalata dal sistema automatizzato di monitoraggio fotografico che scatta una foto ogni ora in punti frequentati dalle foto. Questa foto è stata scattata alla stessa data ed ora in cui un campione è stato prelevato in mare, a 70 metri dalla battigia

In collaborazione con Antonia Bruno, microbiologa del dipartimento di Biotecnologie e bioscienze, si è passati allo screening di “veri” campioni ambientali. Le sonde molecolari sono quindi state testate sul campo, attraverso il confronto con un ampio spettro di campioni, alcuni dei quali (campioni positivi) contenenti il DNA della foca monaca, come quelli prelevati nelle acque dell’Oceano Atlantico intorno dell’arcipelago portoghese di Madera, dove si trova una piccola popolazione stanziale di una trentina di esemplari di foca monaca, grazie alla collaborazione dell’Instituto das Florestas e Conservação da Natureza di Madera.

Campionamento. Mauricio Pereira, ranger del Instituto das Florestas e Conservação da Natureza di Madera, raccoglie un campione d’acqua in prossimità della Isola Grande Deserta (Madera) dove le foche monache hanno trovato riparo per dare alla luce i piccoli

I test hanno dimostrato l’efficienza delle sonde nell’intercettare la presenza del mammifero marino e hanno convinto i ricercatori a sperimentarle in campioni di DNA ambientale raccolti nel Mediterraneo, nell’ambito di altri progetti di ricerca portati avanti dal Marine eDna Group. Questi i risultati:

«Abbiamo rilevato la presenza della specie – afferma Elena Valsecchi – in circa il 50 per cento dei campioni prelevati al largo dell’isola di Lampedusa nell’estate 2020 e in alcuni campioni prelevati tra il 2018 e il 2019 da traghetto al largo dell’arcipelago Toscano nell’ambito del progetto Med for Med, lungo la rotta Livorno-Golfo Aranci (Corsica Sardinia Ferries)».

L’efficacia del test ha avuto una conferma nella realtà. «L’analisi di circa 50 campioni di acqua prelevati nei mari italiani sia sotto costa che in alto mare – prosegue l’ecologa molecolare – ha anticipato alcune delle più importanti segnalazioni e avvistamenti di foca monaca avvenute di recente in Toscana e in Sicilia e ne hanno svelato la presenza in tratti di Mediterraneo finora inesplorati».
da sinistra, Emanuele Coppola e Andrea Parmegiani, laureato all_Università di Milano-Bicocca (corso di laurea magistrale in Marine Sciences), in un campionamento. Foto: E. Coppola/GFM
Le applicazioni di questo sistema di rilevazione molecolare sono molteplici.
«Si potranno monitorare aree dove è già nota la presenza della foca monaca – osserva Emanuele Coppola, documentarista che si è occupato di foca monaca per decenni, nonché presidente del Gruppo Foca Monaca APS e coautore nella pubblicazione – al fine di stimare il passaggio stagionale dei pinnipedi e il grado di fedeltà al sito, anche durante le stagioni invernali o in orari notturni, e tenere sotto osservazione, in modo assolutamente non invasivo, siti costieri che, per conformazione fisica, costituiscono i potenziali habitat di elezione per la foca monaca, quali grotte riparate dalla forza del mare e con spiagge interne ideali per il parto».
foca monaca DNA
Femmina adulta in grotta. Le foche partoriscono a terra e per questo scelgono ambienti molto riparati, come grotte marine con ingresso subacqueo. In foto, una foca monaca (Monachus monachus) del Mediterraneo, femmina adulta Riserva Naturale di Kamenjak, dopo la muta, animale in grotta, Colombarica, Istria meridionale, Croazia 05-2013. Foto: E. Coppola/GFM
Ciò favorirà lo studio e la ricerca sulla specie, la conservazione dei siti e la tutela della foca monaca. 

da sinistra, Emanuele Coppola, Elena Valsecchi, Antonia Bruno. Foto scattata alla mostra IllusiOcean ospitata all_Università di Milano-Bicocca. Foto: E. Coppola/GFM
In questo senso, Università di Milano-Bicocca, Gruppo Foca Monaca APS e numerosi altri partner sono ora impegnati nell’iniziativa “Spot the Monk”, un ambizioso piano di campionamento del Mediterraneo che vede coinvolti anche diversi programmi di citizen science, con diversi equipaggi e imbarcazioni coinvolti nella raccolta dei campioni.
da sinistra, Emanuele Coppola ed Elena Valsecchi. Foto scattata alla mostra IllusiOcean ospitata all_Università di Milano-Bicocca. Foto: E. Coppola/GFM
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca