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ANDRENA CULUCCIAE: SCOPERTA UNA NUOVA SPECIE DI APE IN SARDEGNA DAGLI ENTOMOLOGI DI ROMA TRE

Un team di entomologi dell’Università degli Studi Roma Tre, guidato dal prof. Andrea Di Giulio, ha scoperto Andrena culucciae nella penisola di Culuccia (nord-est Sardegna). L’individuazione della nuova specie di ape rappresenta un risultato di grande rilievo scientifico e naturalistico: un avanzamento negli studi sulla fauna sarda di api selvatiche e, più in generale, sulla biodiversità dell’Italia e del Mediterraneo. Lo studio, nell’ambito della tesi magistrale di Matteo Annessi, è stato pubblicato sul “Journal of Hymenoptera Research”.

Roma, 27 ottobre 2025 – Nel corso di ricerche su insetti impollinatori della penisola di Culuccia, Sardegna nordorientale, un gruppo di entomologi dell’Università degli Studi Roma Tre ha scoperto una nuova specie di ape selvatica, Andrena culucciae, il cui nome è dedicato al luogo dove è stata trovata. Lo studio, pubblicato sul “Journal of Hymenoptera Research”, è stato condotto nell’ambito della tesi magistrale di Matteo Annessi, ex studente del corso di laurea in Biodiversità e Gestione degli Ecosistemi e attualmente dottorando sempre presso il Dipartimento di Scienze, Dipartimento di Eccellenza italiano, dell’Università degli Studi Roma Tre.

Le raccolte sul campo e le analisi morfologiche e genetiche in laboratorio sono state svolte sotto la supervisione del prof. Andrea Di Giulio, entomologo, e della dott.ssa Alessandra Riccieri, ricercatrice. La studio si inserisce in una convenzione, iniziata nel 2022, tra il Dipartimento di Scienze dell’Università Roma Tre (responsabile il prof. Andrea Di Giulio) e l’Osservatorio Naturalistico dell’Isola di Culuccia (responsabile la dott.ssa Sabrina Rossi, BIRU Srl Agricola).

“Quando ho raccolto nel maggio 2022 i primi e pochi individui di ape, ho notato alcune differenze rispetto alle specie affini” racconta Matteo Annessi, dottorando “così, speranzoso ed emozionato per una possibile nuova scoperta, sono tornato l’anno successivo per raccoglierne altri e capire, grazie a diverse analisi in laboratorio, se si trattasse davvero di una specie mai descritta prima”.

Il risultato è stato ottenuto grazie all’uso combinato di tecniche tassonomiche tradizionali e moderne, tra cui microscopia ottica, microscopia elettronica a scansione e analisi genetiche.

“L’integrazione di più tecniche è oggi fondamentale per la descrizione della biodiversità e combinare analisi molecolari e morfologiche è importantissimo” spiega Alessandra Riccieri, ricercatrice presso l’Università Roma Tre.

Andrena culucciae è un’ape solitaria, di dimensioni medio-grandi, caratterizzata da una colorazione nera in entrambi i sessi e appartenente alla famiglia delle Andrenidae (Apoidea: Anthophila). Ciò che la distingue dalle specie affini sono alcuni caratteri morfologici specifici, in particolare la struttura degli organi genitali maschili e la colorazione delle zampe nelle femmine. Andrena culucciae è stata osservata principalmente nel periodo tardo-primaverile (maggio-giugno), sui fiori di Armeria pungens nella vegetazione dunale della penisola di Culuccia, ma è stata rinvenuta anche su piante di altre famiglie ad indicare che si tratta di una specie in grado di nutrirsi su diverse specie vegetali. Ancora non sono note le strategie di nidificazione, ma è probabile che, come le altre specie dello stesso genere, A. culucciae faccia il nido nel suolo, da cui i primi ad uscire sono i maschi in tarda primavera aspettando le femmine con cui accoppiarsi. L’approfondimento di aspetti ecologici e biologici della specie è un prossimo passo della ricerca.

“La descrizione di una nuova specie è un risultato di grande rilievo scientifico e naturalistico” afferma Andrea Di Giulio, entomologo dell’Università degli Studi Roma Tre “nel caso specifico, rappresenta un avanzamento nella conoscenza della fauna della Sardegna e più in generale della biodiversità animale del Mediterraneo. Inoltre, la scoperta di un insetto così importante dal punto di vista ecologico rappresenta un’ottima notizia, in controtendenza rispetto al forte declino generale degli insetti impollinatori a causa delle attività antropiche e del cambiamento climatico”.

Andrena culucciae è una specie legata agli habitat costieri dunali, ecosistemi particolarmente vulnerabili. La sua conservazione potrebbe quindi dipendere dalla protezione di questi ambienti, fortemente minacciati dalle attività antropiche. Per questo motivo, le aree protette come la penisola di Culuccia, dove gli ambienti dunali risultano essere maggiormente conservati e non impattati dal turismo di massa, possono rappresentare dei rifugi per queste specie.

Andrena culucciae
l’ape Andrena culucciae

Riferimenti bibliografici:

Annessi M, Riccieri A, Di Giulio A, A new species of Andrena (Hymenoptera, Andrenidae) from northern Sardinia (Italy), Journal of Hymenoptera Research (2025) 98: 795-816, DOI: https://doi.org/10.3897/jhr.98.161702

 

Testo e foto dall’Ufficio Comunicazione Università Roma Tre

Parassiti del melo: approcci innovativi e sostenibili dalla ricerca internazionale da due progetti tra Alto Adige, Germania e Lussemburgo

Un gruppo di ricerca coordinato dal prof. Hannes Schuler del Centro di competenza per la salute delle piante è coinvolto in nuovi progetti internazionali di ricerca volti a individuare alternative innovative e sostenibili nella lotta contro le malattie del melo. A maggio hanno preso il via due progetti congiunti con partner in Germania e Lussemburgo. L’obiettivo? Comprendere meglio il ruolo degli insetti vettori e dei batteri simbionti nella trasmissione di patogeni che causano gli scopazzi del melo.

Gli scopazzi del melo sono una delle fitopatie più problematiche per la melicoltura altoatesina da oltre vent’anni. Causata da fitoplasmi, batteri privi di parete cellulare, la malattia si trasmette attraverso insetti fitofagi (che si nutrono della linfa o dei contenuti cellulari delle piante), in particolare le psille. Tali insetti, nutrendosi della linfa di piante infette, possono acquisire i fitoplasmi, che si replicano al loro interno e vengono poi trasmessi ad altre piante sane durante l’alimentazione.

Nel progetto VectoRise — una collaborazione tra unibz, l’Istituto di Scienza e Tecnologia del Lussemburgo (Luxembourg Institute of Science and Technology) e l’istituto tedesco RLP AgroScience — l’attenzione dei ricercatori si concentra sul ruolo della psilla del biancospino.

« In Germania, questa specie non è rilevante per la trasmissione dei fitoplasmi ma i nostri studi precedenti hanno dimostrato che in Alto Adige è in grado di acquisire e probabilmente anche trasmettere il patogeno», spiega il prof. Hannes Schuler.  «Comprendere i fattori alla base di queste differenze regionali nell’efficienza vettoriale è essenziale per sviluppare alternative più sostenibili agli insetticidi».

Nella collaborazione, il team unibz si occuperà di genomica, studiando quali geni influenzano la capacità dell’insetto di acquisire e trasmettere i fitoplasmi. I ricercatori lussemburghesi analizzeranno invece se le variazioni regionali della psilla modificano la trasmissibilità del patogeno e se l’aumento delle temperature legato al cambiamento climatico possa accelerarne la diffusione.

Struttura sperimentale di un esperimento di trasmissione del fitoplasma
Parassiti del melo: approcci innovativi e sostenibili dalla ricerca internazionale da due progetti tra Alto Adige, Germania e Lussemburgo. Struttura sperimentale di un esperimento di trasmissione del fitoplasma

Un viaggio nel tempo attraverso centinaia di milioni di anni

Un secondo progetto congiunto, sviluppato dalla Facoltà di Scienze Agrarie, Ambientali e Alimentari insieme alla Deutsche Forschungsgemeinschaft (DFG), al Max-Planck-Institut di Jena, alla Martin-Luther-Universität di Halle-Wittenberg e al Naturmuseum di Berlino, esplora la storia evolutiva della simbiosi tra psille e batteri. Questi microrganismi forniscono nutrienti essenziali agli insetti fitofagi come aminoacidi assenti nella linfa vegetale, e rappresentano un elemento chiave per la sopravvivenza degli insetti vettori.

Combinando sequenziamento genomico, ricostruzioni filogenetiche e microscopia a fluorescenza, gli scienziati studieranno oltre cento specie di psille per comprendere le dinamiche della coevoluzione con i loro simbionti batterici.

«Questo progetto – conclude Schuler – non solo approfondirà la nostra conoscenza delle interazioni insetto-microbo, ma potrà offrire strumenti concreti per bloccare la trasmissione di malattie vegetali».

il prof. Hannes Schuler
il prof. Hannes Schuler

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa e organizzazione eventi Libera Università di Bolzano – Freie Universität Bozen

PERCHÉ AMIAMO GLI INSETTI IMPOLLINATORI?

Pubblicato su People and Nature lo studio dell’Università di Padova che attraverso le risposte di oltre 4500 persone (italiani, olandesi e tedeschi) fa emergere un “obbligo morale” nel difendere tutte le specie impollinatrici e anche cosa si può fare per aiutarle a sopravvivere.

L’ape da miele non è l’unico insetto impollinatore: mosche, farfalle, coleotteri svolgono la medesima attività e, solo in Italia, esistono circa mille specie di api selvatiche.

Negli ultimi anni l’interesse per la conservazione degli impollinatori è cresciuto per via della preoccupazione destata dal loro declino che di fatto mina alla base il loro ruolo fondamentale negli ecosistemi: trasportano il polline dalla parte maschile a quella femminile dei fiori permettendo la riproduzione della stragrande maggioranza delle piante a fiore.

La ricerca dal titolo “Willingness of rural and urban citizens to undertake pollinator conservation actions across three contrasting European countries” pubblicata su People and Nature dal team scientifico guidato dall’Università di Padova – con i dipartimenti Agronomia, Animali, Alimenti, Risorse naturali, Ambiente unitamente a Territorio, Sistemi Agro-Forestali, in collaborazione con l’olandese Università di Wageningen (NL) e tedesca Università di Würzburg – ha avuto come scopo quello di capire cosa spinga una persona a desiderare la protezione degli insetti impollinatori.

Il campione dello studio

Attraverso un solido campione ampio e stratificato – che è molto raro in studi simili – di intervistati (4541) di nazionalità differenti (italiani, olandesi e tedeschi) con opposte tipologie di domicilio (ambiente agrario o territorio urbano) si è indagato da cosa dipendesse la “volontà di aiutare” gli insetti impollinatori. Nel panel di ricerca, le zone urbane avevano una densità di almeno 1500 abitanti per chilometro quadrato e popolazione superiore ai 50000 abitanti, quelle rurali erano tutte contraddistinte da una densità di popolazione minore di 300 abitanti per chilometro quadrato e un ambiente agrario intensivo. In Italia, ad esempio, è stata considerata l’area della Pianura Padana, molto antropizzata e in cui le azioni di conservazione degli impollinatori sono particolarmente importanti.

L’obbligo morale

«I nostri risultati mostrano che le persone intendono proteggere gli impollinatori quando emerge in loro un “obbligo morale” – spiega la ricercatrice Costanza Geppert del dipartimento di Agronomia, animali, alimenti, risorse naturali e ambiente dell’Università di Padova e prima firma della ricerca –. Questo obbligo morale si attiva quando si ha conoscenza del ruolo degli impollinatori negli ecosistemi e quando ci si sente parzialmente responsabili della loro diminuzione. Altri elementi importanti emersi dallo studio mostrano che la convinzione che il proprio comportamento possa avere un effetto concreto sulla conservazione degli insetti impollinatori e l’approvazione del proprio contesto sociale, della famiglia o dei propri contatti sui social media spingano il singolo a proteggere api, farfalle e mosche».

Costanza Geppert
Costanza Geppert

«Dalla ricerca emerge un altro importante risultato – dice Lorenzo Marini del dipartimento di Agronomia, animali, alimenti, risorse naturali e ambiente dell’Ateneo –, cioè che il potenziale impegno dei singoli nella conservazione degli insetti impollinatori non dipende da nazionalità, età, livello di istruzione, genere o dalla circostanza di vivere in aree urbane o rurali».

Lorenzo Marini
Lorenzo Marini

Nove modi per aiutare gli insetti impollinatori

Non solo, lo studio ha fatto emergere dal campione analizzato le nove azioni volte ad aiutare gli insetti impollinatori. Che si può fare per loro?

  1. Sostenere e/o accettare politiche nazionali, regionali o comunali che prevedono la protezione degli insetti impollinatori;
  2. Firmare petizioni che mirano a preservare la diversità degli insetti impollinatori;
  3. Partecipare con donazioni a organizzazioni che si occupano della salvaguardia degli insetti impollinatori;
  4. Acquistare prodotti da agricoltura con un uso limitato di fitofarmaci;
  5. Leggere un bollettino, una rivista o un’altra pubblicazione su come agire per contrastare il declino degli insetti impollinatori;
  6. Installare in giardino o in balcone un così detto “hotel per le api selvatiche”, ovvero una casetta in legno con fori di diversa dimensione che fornisca loro riparo;
  7. Coltivare piante a fiore ricche di nutrimento per gli insetti impollinatori nel proprio giardino/terrazzo/davanzale;
  8. Incoraggiare i conoscenti a interessarsi su motivi della diminuzione degli insetti impollinatori;
  9. Partecipare ad attività di monitoraggio di impollinatori con organizzazioni volontarie per capire quanto grave siano gli impatti sugli ecosistemi.

Altro esito dello studio è stato che in tutti e tre i paesi del campione (Italia, Germania e Olanda) l’azione di conservazione più apprezzata è stata quella di piantare fiori ricchi di nettare e polline, mentre una delle più difficili da adottare è risultata la partecipazione a monitoraggi di api, farfalle e mosche. Questo risultato potrebbe dipendere dal fatto che coltivare fiori è collegata alla pratica diffusa e amata del giardinaggio, mentre la partecipazione a monitoraggi degli impollinatori richiede l’acquisizione di una serie di nuove competenze e strumenti che ne rendono più difficile l’attuazione.

Ape selvatica amiamo gli insetti impollinatori?
Perché amiamo gli insetti impollinatori? Su People and Nature uno studio con le risposte di oltre 4500 persone

Istruzioni per l’uso

Questa ricerca ha individuato anche una serie di raccomandazioni pratiche che possono contribuire significativamente alla conservazione degli impollinatori. Una delle raccomandazioni chiave è quella di rendere prioritarie la sensibilizzazione sul ruolo cruciale degli impollinatori e le esperienze all’aria aperta che favoriscono un senso di connessione e apprezzamento per questi insetti.

«I nostri risultati – sottolineano Costanza Geppert e Lorenzo Marini – indicano che coloro che partecipano frequentemente ad attività all’aperto legate alla natura come l’escursionismo, l’osservazione della fauna selvatica o il giardinaggio sono particolarmente inclini a offrire il proprio sostegno agli impollinatori. Questo suggerisce che incoraggiare e facilitare tali esperienze può essere un modo efficace per coinvolgere attivamente il pubblico nella conservazione degli impollinatori, soprattutto durante l’infanzia. È importante sottolineare che queste strategie – concludono gli autori – non sono limitate a contesti specifici, ma possono essere adattate e implementate con successo in una varietà di contesti socio-culturali ed economici. Dalle comunità rurali alle metropoli urbane, l’adozione di queste pratiche può contribuire in modo significativo alla salvaguardia degli impollinatori».

Link alla ricerca: https://besjournals.onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/pan3.10656

Titolo dell’articolo: “Willingness of rural and urban citizens to undertake pollinator conservation actions across three contrasting European countries” – People and Nature 2024

Autori: Costanza Geppert, Cristiano Franceschinis, Thijs P.M. Fijen, David Kleijn, Jeroen Scheper, Ingolf Steffan-Dewenter, Mara Thiene, Lorenzo Marini.

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

QUEENS: LE REGINE DELLA NATURA, L’INNOVATIVA SERIE DI STORIA NATURALE TARGATA NATIONAL GEOGRAPHIC E NARRATA DA ANGELA BASSETT

La serie in 7 episodi debutterà il 5 marzo su Disney+ in Italia

Queens: le regine della natura, la docu-serie

21 febbraio 2024 – È disponibile il trailer della docu-serie QUEENS: LE REGINE DELLA NATURA che debutterà il 5 marzo 2024 su Disney+ in Italia. Sulle note del brano elettropop di Billie Eilish “you should see me in a crown”, il trailer introduce gli spettatori in sei mondi iconici governati dalle fiere matriarche del regno animale, ponendo le basi per una serie innovativa.

Con un team di produzione composto da donne provenienti da tutto il mondo – una novità assoluta nel settore della storia naturale – e narrata, nella versione originale, dalla potente voce della pluripremiata attrice Angela Bassett (Black Panther: Wakanda ForeverThe FloodGood Night Oppy), QUEENS: LE REGINE DELLA NATURA mette a fuoco per la prima volta il mondo naturale attraverso la lente femminile, raccontando storie di sacrificio e resilienza, ma anche di amicizia e amore. Dalle bonobo amanti della pace del bacino del Congo alle spietate jewel bees della Costa Rica, fino alle potenti elefantesse della Savana: osservando le loro lotte, i successi e i dolori, è possibile capire l’importanza dell’amore e la determinazione con cui una madre lotta per i propri figli, come la sete di potere possa distruggere le famiglie e come, anche di fronte alla tragedia, una madre debba andare avanti.

Realizzata in quattro anni, QUEENS: LE REGINE DELLA NATURA si avvale di tecnologie all’avanguardia per rivelare come le popolazioni femminili del mondo naturale salgano al potere, spesso affidandosi alla cooperazione e alla saggezza piuttosto che alla forza. Le telecamere hanno catturato per la prima volta molti momenti sbalorditivi, tra cui un infanticidio di iena, la prima ripresa ai bonobo tra le canopie realizzata da una piattaforma tra gli alberi, la documentazione a colori del cratere di Ngorongoro durante la notte e un time-lapse di sviluppo di una covata di api delle orchidee. L’episodio finale della serie celebra le donne che si sono spinte fino ai confini della Terra e hanno dedicato la loro vita a documentare e proteggere le regine animali.

QUEENS: LE REGINE DELLA NATURA è prodotta da Wildstar Films per National Geographic. Per Wildstar Films, Vanessa Berlowitz è produttrice esecutiva e Chloe Sarosh è showrunner e sceneggiatrice. Sophie Darlington e Justine Evans sono i direttori della fotografia della serie. Per National Geographic, Pamela Caragol è produttrice esecutiva e Janet Han Vissering è senior vice president of Development and Production.

Hashtag
#NatGeoQueens
#DisneyPlus

 

Testo, video e immagini dagli Uffici Stampa The Walt Disney Company Italia, Opinion Leader, Cristiana Caimmi.

Mosche tachinidi, che vicono nelle aree montane, guardiane della biodiversità a rischio climatico
Un nuovo studio condotto dal Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin, in collaborazione col Museo di Zoologia dell’Università Sapienza, ha evidenziato come la diminuzione di mosche tachinidi per effetto del cambiamento climatico rappresenti un rischio per l’intero ecosistema delle aree montane. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista PNAS.

Mintho compressa è una mosca della famiglia tachinidi. I tachinidi hanno uno stile di vita parassitoide: allo stadio larvale sono endoparassiti di altri insetti, da adulti invece sono a vita libera e si nutrono di nettare ed altre essenze vegetali.
Mintho compressa è una mosca della famiglia tachinidi. I tachinidi hanno uno stile di vita parassitoide: allo stadio larvale sono endoparassiti di altri insetti, da adulti invece sono a vita libera e si nutrono di nettare ed altre essenze vegetali.
Crediti: Steve A Marshall.

Il cambiamento climatico ha un impatto particolarmente rilevante sulla biodiversità montana. Infatti, le specie di alta quota sono spesso specialiste, cioè capaci di vivere in una ristretta varietà di condizioni ambientali (a volte estreme), e quindi sono anche molto sensibili ai cambiamenti climatici.

Le mosche tachinidi sono insetti parassitoidi che “sfruttano” altri insetti (specialmente bruchi) allo stadio larvale, mentre sono a vita libera e si nutrono di nettare da adulti.

“Negli ecosistemi montani – spiega Pierfilippo Cerretti, Direttore del Museo di Zoologia e autore senior dello studio – il loro ruolo è cruciale perché tengono sotto controllo le popolazioni di diversi insetti erbivori di cui sono parassiti. Alcune specie mostrano una preferenza per specifici ospiti, mentre altre sono largamente generaliste”.

Un nuovo studio, pubblicato sulla rivista scientifica PNAS e condotto dal Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin, in collaborazione col Museo di Zoologia della Sapienza, ha analizzato i dati di raccolta di oltre 60.000 campioni museali di mosche tachinidi raccolti in Europa dal 1845 a oggi, dimostrando che dalla metà del secolo scorso la percentuale di tachinidi specialisti è aumentata del 70% a bassa quota, mentre è diminuita del 20% ad alta quota, dove nello stesso periodo, invece, le specie generaliste si sono rapidamente diffuse.

“Il declino osservato nelle mosche specialiste di alta quota – aggiunge Luca Santini, coautore dello studio – comporta un aumento del rischio di diffusione degli insetti erbivori, che potrebbero ridisegnare gli ecosistemi montani”.

“I dati evidenziati dal nostro lavoro – conclude Moreno Di Marco, a capo del laboratorio Biodiversity & Global Change della Sapienza e coordinatore dello studio – mostrano un effetto dei cambiamenti climatici che va oltre le singole specie, suggerendo che l’intera composizione degli ecosistemi sta rapidamente cambiando con ricadute potenzialmente enormi sulla biodiversità montana”.

I risultati di questo studio dimostrano inoltre come il patrimonio dei musei di storia naturale, ottenuto con campagne di raccolta sul campo e piani di monitoraggio a lungo termine, sia fondamentale per la comprensione di fenomeni naturali complessi, e quanto più attuali, come il cambiamento climatico.

Riferimenti bibliografici:

Elevational homogenisation of mountain parasitoids across six decades – Moreno Di Marco, Luca Santini, Daria Corcos, Hans-Peter Tschorsnig, Pierfilippo Cerretti – Proceedings of the National Academy of Sciences (2023), DOI: https://doi.org/10.1073/pnas.2308273120

 

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

BATTERI INTESTINALI COME IL LACTIPLANTIBACILLUS PLANTARUM MIGLIORANO CRESCITA ANIMALE PRINCIPALMENTE IN QUANTO PARTNER ATTIVI (SIMBIONTI)

Pubblicato su «Scientific Reports» lo studio dell’Università di Padova in cui si dimostra per la prima volta che se i batteri intestinali (Lactiplantibacillus plantarumsono vivi e attivi entrano in simbiosi benefica con l’animale e sono fonte nutritiva

 

Il microbiota intestinale è l’insieme dei microrganismi (batteri, ma anche virus, funghi e protozoi) ospitati da ciascun essere umano o animale sin dalla nascita e per tutta la sua vita. È una popolazione composta da centinaia di specie diverse formate da cellule e geni.

Queste “comunità”, come è noto da tempo, esercitano un effetto benefico sulla nostra salute: temprano il sistema immunitario, proteggono dalle infezioni di agenti patogeni, favoriscono la digestione e prevengono malattie cardiovascolari. Negli ultimi anni è stato scoperto che specifici batteri intestinali favoriscono anche la nostra crescita in condizioni di denutrizione. Semplificando, se una dieta è povera in nutrienti come ad esempio le proteine e se sono presenti batteri intestinali benefici, questi ultimi favoriscono comunque la crescita compensando la mancanza, come si avesse una dieta standard.

È stato anche dimostrato che ceppi di batteri appartenenti alla specie Lactiplantibacillus plantarum, comunemente isolati da diverse piante e presenti nel microbiota intestinale di molti animali, sono in grado di migliorare la crescita sia di insetti che di mammiferi (ad esempio i topi) se gli animali hanno un deficit nutrizionale.

Rimane da capire, però, il perché alcuni batteri intestinali – tra cui appunto il Lactiplantibacillus plantarum – migliorino la crescita di un animale. Sono batteri simbionti, cioè colonizzano l’intestino, ma al contempo apportano un vantaggio per l’organismo? Oppure sono semplicemente una fonte nutritiva? Su questo argomento la comunità scientifica si è sempre divisa.

Lo studio dal titolo “Gut microbes predominantly act as living beneficial partners rather than raw nutrients” pubblicato su «Scientific Reports» e guidato dalla professoressa Maria Elena Martino del Dipartimento di Biomedicina Comparata e Alimentazione dell’Università di Padova ha dimostrato, per la prima volta, che i batteri intestinali esplicano la loro azione benefica migliorando la crescita animale principalmente in quanto partner attivi (simbionti) e, solo secondariamente, perché costituiscono anche una riserva energetica.

La ricerca è stata condotta sull’attività batterica intestinale nel moscerino della frutta, la Drosophila melanogaster, attraverso l’uso di batteriostatici, cioè agenti in grado di inibire o limitare la replicazione batterica senza però uccidere il microorganismo. Questa metodologia ha permesso di analizzare tre condizioni fisiologiche nei batteri per vedere e quantificare gli effetti sull’animale: la condizione naturale, cioè l’attività di batteri vivi e attivi accoppiata alla crescita; l’attività di batteri vivi, ma che non si replicano; infine l’attività di batteri morti, cioè utilizzati come sola fonte nutritiva dall’animale.

«Lo studio – dice la professoressa Maria Elena Martino – ha evidenziato due importanti risultati: il primo è che l’effetto maggiore di promozione della crescita animale si ottiene esclusivamente in presenza di batteri vivi e attivi, in particolare il 60% dell’effetto benefico esercitato dai batteri intestinali deriva dalla loro interazione attiva con l’organismo. Il secondo è che l’effetto benefico, sempre e solo con batteri vivi e attivi, sulla crescita è il risultato di due componenti: da un lato le cellule batteriche rappresentano comunque una fonte nutritiva, dall’altro vi è sia la produzione di metaboliti (amino-acidi) che una stimolazione del sistema immunitario dell’animale. Specificando ulteriormente abbiamo notato che il 60% dell’effetto benefico, come detto, è dovuto all’attività batterica (vitalità), la risorsa nutritiva è circa il 15%, mentre il resto della percentuale deriva da altri fattori minori. In conclusione, la ricerca ha permesso, per la prima volta, di dimostrare e quantificare l’effetto benefico dei batteri intestinali: esso deriva dall’interazione tra il batterio con il proprio ospite animale. Secondariamente dalla capacità dell’animale di trarre nutrienti dalla biomassa batterica. Questo studio – conclude Martino – non solo rappresenta un significativo passo in avanti nella comprensione delle relazioni tra animali e microbiota, ma determina in maniera inequivocabile il ruolo dei batteri intestinali per la crescita animale e umana».

Maria Elena Martino batteri intestinali simbionti crescita animale
Maria Elena Martino

Link alla ricerca: https://www.nature.com/articles/s41598-023-38669-7

Titolo: “Gut microbes predominantly act as living beneficial partners rather than raw nutrients” – «Scientific Reports» 2023

Autori: Nuno Filipe da Silva Soares, Andrea Quagliariello, Seren Yigitturk & Maria Elena Martino

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

L’IMPOLLINAZIONE: ANIMALE, “NATURALE” È MEGLIO

Pubblicata su «Nature Communications» una ricerca dell’Università di Padova che dimostra che i frutti impollinati da animali hanno una qualità superiore del 23%.

Gli organismi impollinatori sono fondamentali per la riproduzione di molte specie di piante, incluse molte colture utilizzate nell’alimentazione umana, come frutta e verdura.

In ambienti temperati, gli impollinatori sono soprattutto insetti come api, farfalle, molti ditteri e alcuni coleotteri, mentre nelle regioni tropicali e subtropicali gli impollinatori includono anche uccelli, pipistrelli e alcuni mammiferi.

Negli ultimi decenni si sta assistendo a un declino globale della diversità e dell’abbondanza di molte specie di impollinatori e per questo motivo gli sforzi in ambito scientifico si sono concentrati sulla quantificazione dell’importanza di questi organismi in agricoltura, con la pubblicazione di numerosi studi sperimentali sul loro effetto su resa, stabilità della produzione e qualità delle colture.

Impollinazione animale naturale
L’impollinazione: animale, “naturale” è meglio: in foto, api. Foto di Elena Gazzea

La ricerca dal titolo Global meta-analysis shows reduced quality of food crops under inadequate animal pollination, appena pubblicato sulla rivista «Nature Communications» da Elena Gazzea e Lorenzo Marini del Dipartimento di Agronomia, Animali, Alimenti, Risorse Naturali e Ambiente (DAFNAE) dell’Università di Padova si è posta l’obiettivo di quantificare, per la prima volta su scala globale, l’effetto degli impollinatori sulla qualità delle colture attraverso una meta-analisi, una tecnica statistica che permette la sintesi quantitativa della letteratura esistente su un tema.

I dati sono stati raccolti tramite una ricerca bibliografica sui principali database di pubblicazioni scientifiche: sono stati utilizzati i dati di 190 studi indipendenti condotti in 48 paesi del mondo e su 48 colture diverse. L’effetto dell’impollinazione animale è stato quantificato confrontando le differenze di qualità – forma, dimensione, aspetto, sapore e proprietà nutritive – dei frutti prodotti con e senza gli impollinatori.

Fragola. Difetti estetici di forma e dimensione derivanti da un’inadeguata impollinazione animale. Foto di Paolo Paolucci

I risultati indicano che l’impollinazione animale ha un ruolo fondamentale nel determinare la qualità delle produzioni agricole. I frutti impollinati da animali hanno in media una qualità migliore del 23%: ciò significa che quasi un quarto della qualità di un frutto dipende dalla presenza di animali impollinatori.

Questi ultimi influenzano positivamente soprattutto le caratteristiche organolettiche – come forma e dimensione – della frutta e della verdura e quelle legate alla loro durabilità dopo la raccolta, contribuendo invece in misura minore alle loro proprietà nutritive e al sapore. I benefici dell’impollinazione animale sulla qualità sono indipendenti dalle regioni geografiche e dalla specie di impollinatore. Le analisi dei dati hanno inoltre evidenziato segnali di impollinazione non ottimale, potenzialmente derivante dal declino degli impollinatori nei paesaggi agricoli, che potrebbe compromettere la qualità delle produzioni. Generalmente, però, l’utilizzo di impollinatori gestiti come l’ape mellifera, sia in campo che in colture protette, permette di mantenere la produzione di frutta e verdura della massima qualità.

Immagini esemplificative che mostrano come viene studiato l’effetto degli impollinatori sulla qualità delle colture negli esperimenti sintetizzati dalla ricerca. Da sinistra a destra: esclusione di impollinatori, impollinazione animale libera, impollinazione manuale. Foto di Elena Gazzea

«I risultati del nostro studio hanno delle implicazioni molto importanti per il settore agroalimentare – spiega Lorenzo Marini, autore dello studio –. La qualità dei prodotti alimentari non processati come frutta e verdura si basa su standard che sono legati soprattutto al loro aspetto estetico e alla loro durata di conservazione. La produzione di frutta e verdura che devia dalla normalità come conseguenza di un’impollinazione non ottimale ha delle ripercussioni su tutta la catena di produzione agricola, dal reddito degli agricoltori alla decisione del consumatore di acquistare o meno il prodotto».

Lorenzo Marini
Lorenzo Marini

La produzione di frutti imperfetti e poco durevoli, quindi, aumenta lo spreco di alimenti ricchi di sostanze nutritive e pesa sulla conversione di terre agricole che compensino la mancata produzione di qualità soddisfacente per il mercato agroalimentare.

«Il declino globale degli impollinatori minaccia non soltanto la resa e la sua stabilità spaziale e temporale, ma rischia anche di compromettere la qualità della produzione agricola. La relazione tra impollinazione animale e spreco alimentare è stata finora quasi ignorata dalle politiche agroalimentari, sebbene abbia delle importanti implicazioni economiche, sociali e ambientali, specialmente in un’epoca in cui c’è un consumo globale subottimale di alimenti ricchi di sostanze nutritive» spiega Elena Gazzea, prima autrice dello studio.

Elena Gazzea
Elena Gazzea

Lo studio ha infine rilevato delle lacune nella conoscenza scientifica attuale, evidenziando alcune opportunità di ricerca futura per comprendere meglio le relazioni tra impollinatori e produzione agroalimentare sostenibile.

Link alla ricerca: https://www.nature.com/articles/s41467-023-40231-y

Titolo: Global meta-analysis shows reduced quality of food crops under inadequate animal pollination – «Nature Communications» – 2023

Autori: Elena Gazzea, Péter Batáry & Lorenzo Marini

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

CIPROMED, IL PROGETTO DI UTILIZZO CIRCOLARE E INCLUSIVO DELLE PROTEINE ALTERNATIVE NELL’AREA MEDITERRANEA

La siccità e i deficit ecologici stanno peggiorando l’autosufficienza delle filiere proteiche tradizionali. L’iniziativa mira a ridurre il rischio per i Paesi del Mediterraneo di dipendere dalle fonti proteiche importate.

Il team del progetto CIPROMED
Il team del progetto CIPROMED

Il 5 e 6 giugno si è svolto il kickoff meeting del progetto “CIPROMED- Circular and Inclusive utilisation of alternative PROteins in the MEDiterranean value chains”, finanziato dal programma di ricerca congiunto PRIMA. Il progetto, di durata triennale (giugno 2023 – giugno 2026), vede la partecipazione di ricercatori italiani dell’Università degli Studi di Torino del Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari (DISAFA) e del Dipartimento di Scienze Veterinarie (DSV).

Il progetto, coordinato dall’Università di Thessaly (Grecia), vede la partecipazione di 17 partner appartenenti a 10 paesi diversi. Il budget totale del progetto è pari a € 4.738.918,81€, di cui 350.354,69€ destinati a UniTo. Il referente scientifico per l’Ateneo torinese è la professoressa Laura Gasco.

Gli attuali sistemi di produzione agricola europei sono fortemente dipendenti dalle importazioni di proteine per coprire il fabbisogno nutrizionale dell’acquacoltura e dell’allevamento, ma anche per il consumo umano. Questa problematica interessa in particolar modo la regione mediterranea, dove la siccità e i deficit ecologici stanno peggiorando l’autosufficienza delle filiere proteiche tradizionali. L’UE ha urgentemente bisogno di fonti proteiche alternative efficienti, praticabili e prodotte localmente.

La maggior parte dei sistemi agricoli produce un’enorme quantità di sottoprodotti e scarti agroalimentari. Si stima che ogni anno vada perso il 27% della nostra produzione agricola, che corrisponde a 1,6 miliardi di tonnellate su base globale, per un valore di 750 miliardi di dollari all’anno. Allo stesso modo, un terzo di tutto il cibo prodotto per il consumo umano va perso o sprecato. Queste perdite rappresentano un grande risorse non sfruttate e sottovalutate.

L’obiettivo principale del progetto CIPROMED è quello di aumentare la stabilità e la resilienza dei sistemi di produzione agroalimentare del Mediterraneo attraverso lo sfruttamento diretto delle colture tradizionali prodotte localmente, nonché valorizzando le proteine dei prodotti secondari agroindustriali generati a livello locale (ad esempio, i cereali esausti dei produttori di birra o i panelli di semi oleosi), l’upcycling e la bioconversione dei loro residui di estrazione in proteine prodotte da insetti, legumi e microrganismi da utilizzare ulteriormente nei settori agroalimentare e dei mangimi.

CIPROMED utilizzerà un approccio multi-soggettivo, in cui insetti e microalghe saranno prodotti sfruttando i residui agroindustriali e i flussi secondari di estrazione come substrati, applicando tecniche di allevamento e coltivazione innovative per ottenere rese proteiche più elevate. Per chiudere il cerchio, gli scarti di allevamento (denominati “frass”) degli insetti saranno utilizzate come fertilizzante per la produzione di legumi (lupini e fave). Ingredienti proteici di alta qualità da residui agroindustriali, insetti, legumi e microalghe saranno estratti per applicazioni alimentari e mangimistiche attraverso processi di estrazione sostenibili dal punto di vista economico e ambientale.

Per raggiungere la circolarità, i residui generati dai processi di estrazione saranno integrati nelle diete formulate per l’allevamento degli insetti e la coltivazione eterotrofa delle microalghe, riducendo al minimo le quantità residue. La fermentazione microbica sarà utilizzata per migliorare la gamma, la stabilità e la funzionalità salutistica delle nuove proteine. Tutti gli ingredienti proteici saranno completamente caratterizzati, in termini di valore nutrizionale, proprietà funzionali, biologiche e di sicurezza. Sulla base dei risultati ottenuti, verranno formulati e convalidati nuovi prototipi di alimenti e mangimi contenenti i nuovi ingredienti proteici, utilizzando tecnologie di lavorazione avanzate e ottimizzate.

CIPROMED mira a ridurre il rischio per i Paesi del Mediterraneo di dipendere dalle fonti proteiche importate e aiuterà i Paesi partecipanti a fare maggiore affidamento sulle fonti di nutrimento prodotte localmente. La sfida sarà adattare la produzione di nuove proteine alle condizioni uniche del Mediterraneo, creando un nuovo sistema di produzione di proteine socio-economicamente fattibile e sostenibile dal punto di vista ambientale.

CIPROMED cercherà di raccogliere le percezioni/preferenze dei consumatori sui nuovi tipi di alimenti e mangimi nella regione mediterranea, tenendo conto anche delle peculiarità religiose e delle differenze demografiche di ciascun Paese partecipante. A differenza dell’agricoltura convenzionale, la produzione delle più comuni specie di insetti e di microalghe eterotrofe allevate a livello commerciale su mangimi di sottoprodotti è caratterizzata da emissioni di gas a effetto serra notevolmente ridotte (30-50% in meno), avendo quindi un minore impatto ambientale e un contributo al riscaldamento globale.

CIPROMED si concentrerà sul miglioramento della salute umana attraverso la progettazione e la valutazione di diete alternative a base di proteine che mireranno ai sistemi metabolici e immunitari e promuoveranno la salute umana. I Paesi mediterranei dovranno passare a sistemi agricoli con un uso più efficiente delle risorse naturali.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Sciami di insetti: gli ingredienti per il volo perfetto

Abilità di muoversi nello spazio e una buona dose di ‘pigrizia’. Sono le caratteristiche necessarie per mantenere unito il gruppo. Lo evidenzia un nuovo studio sul comportamento collettivo di un sistema biologico, come gli sciami di insetti, pubblicato sulla rivista Nature Physics dal CNR-ISC e dal Dipartimento di fisica della Sapienza Università di Roma.

sciami di insetti
Traiettorie tridimensionali del volo dei moscerini all’interno di uno sciame. Crediti: Gruppo CoBBS

Sciami di moscerini e stormi di uccelli sono esempi comuni di comportamenti collettivi biologici. Sebbene gli organismi che compongono tali gruppi siano molto diversi a livello individuale, spesso i comportamenti dei gruppi hanno caratteristiche simili a livello globale. Per esempio, gli sciami di moscerini, che osserviamo nei parchi, ci appaiono tutti uguali, ma in realtà sono spesso sciami di specie diverse. Sembrerebbe dunque che, nonostante le specificità degli individui che ne fanno parte, solo alcuni ingredienti determinano le proprietà collettive di un gruppo.

Uno studio, pubblicato su Nature Physics dal gruppo CoBBS – Collective Behavior in Biological Systems – composto da ricercatori dell’Istituto dei sistemi complessi del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isc) e del Dipartimento di fisica della Sapienza Università di Roma, identifica tali ingredienti grazie ad un approccio teorico mutuato dalla fisica dei sistemi complessi interagenti, permettendo di caratterizzare per la prima volta il comportamento collettivo di un sistema biologico.

“Gli sciami sono sistemi solo apparentemente disordinati e caotici; in realtà, al loro interno, gli insetti si comportano in modo altamente coordinato e fortemente correlato. Alla base di questa coordinazione vi è un meccanismo imitativo: ogni moscerino tende a voler imitare il comportamento dei propri vicini”, spiega Stefania Melillo, ricercatrice Cnr-Isc e afferente al gruppo CoBBS. “Sotto questo punto di vista, sciami di insetti e sistemi fisici come i magneti sembrano estremamente simili: in ambedue i casi gli agenti – atomi o animali che siano – provano ad allinearsi gli uni agli altri. Nei magneti questo allineamento permette di generare un campo magnetico stabile, nel caso degli animali invece l’allineamento permette al gruppo intero di coordinarsi anche a grandi distanze”.

Setup sperimentale per l’acquisizione dei dati in vivo sul moto degli sciami di insetti. Crediti: Gruppo CoBBS

Nel nuovo studio, i ricercatori del gruppo CoBBS introducono un modello che combina la capacità degli insetti di allineare la loro velocità a due nuovi ingredienti che derivano da osservazioni sperimentali precedentemente condotte.

“Il primo ingrediente, il più intuitivo e ovvio, è l’abilità degli individui di muoversi nello spazio, che in fisica è chiamata ‘attività’; al contrario dei ferromagneti, gli insetti non sono fermi su un reticolo ma sono liberi di muoversi spinti dalla loro velocità”, afferma Mattia Scandolo del Dipartimento di Fisica, Sapienza Università di Roma. “Il secondo ingrediente è invece quella che viene detta ‘inerzia comportamentale’: questa rappresenta la resistenza degli insetti nel modificare il loro comportamento, una sorta di ‘pigrizia’ che porta i singoli moscerini a non allinearsi istantaneamente al comportamento dei vicini”.

Lo studio rivela che la combinazione di questi due ingredienti aggiuntivi, attività e inerzia, spiega in modo accurato la dinamica dei comportamenti collettivi che emergono negli sciami di moscerini, indipendentemente dalla specie in questione, facendo chiarezza sui meccanismi messi in atto.

L’innovazione della ricerca, tuttavia, sta non solo nei risultati, ma anche nel metodo usato. È infatti la prima volta che un approccio mutuato dalla fisica dei sistemi interagenti predice i comportamenti collettivi di un sistema biologico con tale accuratezza.

“L’idea di fondo di questo approccio, noto come ‘gruppo di rinormalizzazione’, è simile a quanto accade nell’occhio umano, che vede i dettagli di un oggetto sfocarsi man mano che questo si allontana; così nell’ambito della fisica teorica è possibile ‘sfocare’ i dettagli di un sistema fisico, permettendo, al contempo, di apprezzare appieno le caratteristiche collettive su scala macroscopica”, prosegue Scandolo.

Il successo nell’applicazione di uno strumento così sofisticato, come il ‘gruppo di rinormalizzazione’, suggerisce come, anche nei sistemi biologici, un ruolo decisivo può essere giocato dalla “universalità”.

“Qualsiasi sistema che condivide con gli sciami di insetti le stesse caratteristiche generali esibirà comportamenti simili a quelli ora studiati”, conclude Melillo. “Non è stato, infatti, necessario un modello che descrivesse le interazioni biologiche tra gli insetti nel minimo dettaglio, ma è bastato individuare i pochi ingredienti fondamentali per comprendere i comportamenti collettivi negli sciami di insetti”.

Riferimenti:

Natural swarms in 3.99 dimensions – Andrea Cavagna, Luca Di Carlo, Irene Giardina, Tomàas S. Grigera, Stefania Melillo, Leonardo Parisi, Giulia Pisegna & Mattia Scandolo – Nature Physics (2023) https://www.nature.com/articles/s41567-023-02028-0

 

Testo, video e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

I pipistrelli imitano i calabroni per tenere alla larga i predatori e salvarsi la vita. La scoperta è dei ricercatori federiciani Danilo Russo e Leonardo Ancillotto insieme a colleghi dell’Università di Torino, di Firenze e di Costa Rica. Lo studio pubblicato sulla rivista Current Biology.

pipistrelli calabroni
Vespertilio maggiore. Photo credits: Marco Scalisi

I pipistrelli imitano i calabroni per tenere alla larga i predatori e salvarsi la vita. La scoperta è dei federiciani Danilo Russo e Leonardo Ancillotto, del Dipartimento di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, che hanno condotto lo studio insieme ai colleghi Donatella Pafundi e Marco Gamba dell’Università di TorinoFederico Cappa e Rita Cervo dell’Università di Firenze, e Gloriana Chaverri dell’Universidad de Costa Rica.
I risultati sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista Current Biology.

Vespa crabro. Credits: Andrea Aiello

Si tratta di “mimetismo Batesiano”, ossia di una specie indifesa che ne imita una pericolosa o tossica per scoraggiare un predatoreMimetismo acustico, in questo caso, perché basato sui suoni e non sui colori, quindi relativamente raro in natura.

La potenziale preda indifesa, in tale circostanza un pipistrello, il vespertilio maggiore Myotis myotis, imita un’altra specie che rappresenta un pericolo per il predatore, come, appunto, un calabrone. Quando il pipistrello viene catturato da un uccello rapace, emette un ronzio che sconcerta il predatore e lo disorienta così può approfittare di questa frazione di secondo per fuggire.
Si tratta del primo caso conosciuto di un mammifero che imita un insetto e costituisce un elegante esempio di come l’evoluzione esprima adattamenti che spesso sono il frutto dell’interazione tra specie anche molto diverse, come, appunto, pipistrelli, gufi e insetti imenotteri.

Danilo Russo ebbe i primi sospetti già oltre vent’anni fa, quando per il suo lavoro di dottorato si trovò tra le mani uno di questi pipistrelli, e, dopo lungo tempo, il team internazionale ha potuto verificare che il suono prodotto dal pipistrello è effettivamente simile a quello emesso da questi insetti “armati”, soprattutto se si escludono le frequenze che un tipico predatore di pipistrelli come un barbagianni o un allocco non è in grado di udire.
Il passo successivo è stato verificare, usando proprio questi uccelli in cattività, quale effetto sortisse l’ascolto dei ronzii di pipistrelli, api e calabroni. Il risultato è stato sorprendente: allocchi e barbagianni si allontanano dagli altoparlanti che emettono ronzii di insetti come di pipistrelli, mentre sono attratti da altri suoni di pipistrelli, probabilmente considerati un indizio della presenza della preda.

I pipistrelli in questione non sono gli unici a emettere ronzii di questo tipo: lo fanno certi roditori, uccelli, e anche insetti totalmente indifesi. È perciò probabile che la strategia di imitazione di un insetto pericoloso come un calabrone sia molto più diffusa in natura di quanto si possa credere. La ricerca apre quindi una nuova, importante finestra sul comportamento animale e sui fenomeni di imitazione tra specie.

“Gli adattamenti espressi dagli animali in risposta alle forze della selezione naturale non smettono mai di sorprenderci”, commenta il professore Russo.

La notizia ha fatto il giro del mondo, è stata ripresa dalle più prestigiose testate internazionali, tra cui Nature, Science, New Scientist, il New York Times, il Telegraph, the Independent, The Economist, BBC, Sky News e National Geographic.

Per approfondire: Ancillotto, L., Pafundi, D., Cappa, F., Chaverri, G., Gamba, M., Cervo, R., & Russo, D. (2022). Bats mimic hymenopteran insect sounds to deter predators. Current Biology 32, PR408-R409

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Rettorato Università degli Studi di Napoli Federico II