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Dalla curcuma una soluzione per salvare i coralli dai cambiamenti climatici

L’Istituto Italiano di Tecnologia – IIT e l’Università di Milano-Bicocca hanno dimostrato l’efficacia di una sostanza estratta dalla curcuma nella protezione dei coralli dai danni dei cambiamenti climatici. La molecola viene somministrata attraverso un biomateriale biodegradabile, sviluppato dagli stessi partner, e nei test svolti all’Acquario di Genova si è dimostrata efficace nel proteggere i coralli dallo sbiancamento.

Milano, 19 luglio 2023 – L’Istituto Italiano di Tecnologia – IIT e l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, in collaborazione con l’Acquario di Genova, hanno recentemente pubblicato su ACS Applied Materials and Interfaces, uno studio (“Biodegradable Zein-Based Biocomposite Films for Underwater Delivery of Curcumin Reduce Thermal Stress Effects in Corals”, DOI: 10.1021/acsami.3c01166) dove è stata dimostrata l’efficacia della curcumina, una sostanza antiossidante estratta dalla curcuma, nel ridurre lo sbiancamento dei coralli, fenomeno causato principalmente dai cambiamenti climatici. I due partner coinvolti hanno sviluppato un biomateriale biodegradabile per somministrare la molecola senza provocare danni all’ambiente marino circostante. I test eseguiti all’Acquario di Genova hanno dimostrato un’efficacia significativa nel prevenire lo sbiancamento dei coralli.

Scogliera corallina in fase di recupero nei pressi del MaRHE center, isola di Magoodhoo, Atollo di Faafu, Maldive. Crediti: Università Milano-Bicocca

Lo sbiancamento dei coralli è un fenomeno che, negli eventi estremi, determina la morte di questi organismi con conseguenze devastanti per le barriere coralline, queste ultime fondamentali per l’economia globale, la protezione delle coste dai disastri naturali e la biodiversità marina. La maggior parte dei coralli vive in simbiosi con alghe microscopiche, indispensabili per la loro sopravvivenza e responsabili dei loro colori brillanti. A causa dei cambiamenti climatici le temperature di mari e oceani sono in aumento, condizione che interrompe il rapporto tra questi due organismi. Quando ciò accade, il corallo, ormai bianco per la perdita delle alghe, rischia letteralmente di morire di fame.

Negli ultimi anni, a seguito dei cambiamenti climatici, questa condizione ha colpito la maggior parte delle barriere scogliere coralline più importanti del mondo, inclusa la Grande Barriera Corallina australiana. Tuttavia, a oggi non esistono interventi di mitigazione efficaci per prevenire lo sbiancamento dei coralli senza mettere in serio pericolo l’integrità di questi habitat e l’eccezionale biodiversità associata.

curcuma coralli
Corallo Stylophora pistillata ricoperto del biomateriale durante le prove di stress termico.
Crediti: Acquario di Genova

I ricercatori e le ricercatrici dell’Istituto Italiano di Tecnologia e dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, in collaborazione con l’Acquario di Genova, hanno dimostrato l’efficacia di una molecola, la curcumina, nel bloccare lo sbiancamento dei coralli provocato dai cambiamenti climatici. La curcumina viene somministrata in maniera controllata sul corallo applicando un biomateriale a base di zeina, una proteina derivata dal mais, che è stato sviluppato dagli stessi partner per essere sicuro per l’ambiente.

Durante i test, svolti nell’Acquario di Genova, si sono simulate le condizioni di surriscaldamento dei mari tropicali alzando la temperatura dell’acqua fino a 33°C. In questa condizione tutti i coralli non trattati sono risultati colpiti dal fenomeno dello sbiancamento come succederebbe in natura mentre, al contrario, tutti gli esemplari trattati con la curcumina non hanno mostrato segni di tale fenomeno, risultati che rendono questo metodo efficace nel ridurre la suscettibilità dei coralli allo stress termico. Per questo studio è stata utilizzata una specie di corallo (Stylophora pistillata) tipica dell’oceano Indiano tropicale e inserita nella Lista rossa IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura) tra le specie minacciate dal rischio di estinzione.

Simone Montano
Simone Montano. Crediti: Università Milano-Bicocca

«Questa tecnologia è oggetto di una domanda di brevetto depositata, infatti i prossimi passi di questa ricerca si focalizzeranno sull’applicazione in natura e su larga scala – afferma il primo autore dello studio Marco Contardi, ricercatore affiliato del gruppo Smart Materials dell’Istituto Italiano di Tecnologia e ricercatore del DISAT (Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra) dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca – allo stesso tempo, esamineremo l’utilizzo di altre sostanze antiossidanti di origine naturale per bloccare il processo di sbiancamento e prevenire così la distruzione delle barriere coralline».

Marco Contardi, Foto di D. Farina.Crediti: Istituto Italiano di Tecnologia - © IIT, all rights reserved
Marco Contardi. Foto di D. Farina. Crediti: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved

«L’utilizzo di nuovi materiali biodegradabili e biocompatibili capaci di rilasciare sostanze naturali in grado di ridurre lo sbiancamento dei coralli rappresenta una novità assoluta – dichiara Simone Montano ricercatore del DISAT e vice direttore del MaRHE Center (Marine Research and High Education Center) dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca – credo fortemente che questo approccio innovativo rappresenterà una trasformazione significativa nello sviluppo di strategie per il recupero degli ecosistemi marini».

Testo e foto dall’Ufficio stampa Università di Milano-Bicocca

Dall’RNA nuovi possibili trattamenti per i tumori: con la scoperta di una nuova correlazione tra le molecole di RNA circolari e il tumore pediatrico rabdomiosarcoma, saranno possibili nuovi innovativi approcci terapeutici; lo studio pubblicato su Nature Communications.

Scoperta una nuova correlazione tra le molecole di RNA circolari e il tumore pediatrico rabdomiosarcoma. I risultati di questa ricerca aprono una nuova strada nell’identificazione di innovativi approcci terapeutici contro questa forma di cancro.

ospedale RNA circolari e rabdomiosarcoma
Foto di djedj

Un gruppo di ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Italiano di Tecnologia – IIT e della Sapienza Università di Roma guidato da Irene Bozzoni, coordinatrice del laboratorio Non coding RNAs in Physiology and Pathology, ha scoperto una nuova correlazione tra le molecole di RNA circolari e il tumore pediatrico rabdomiosarcoma. I risultati, pubblicati sulla rivista Nature Communications, rappresentano un importante contributo per lo sviluppo di innovativi approcci terapeutici.

L’RNA rappresenta, insieme al DNA e alle proteine, uno dei principali componenti di cui la cellula dispone per rispondere in maniera efficace ai continui stimoli a cui è sottoposta. L’RNA ha recentemente acquisito una popolarità anche nel pubblico di non addetti ai lavori in quanto ha rappresentato la tecnologia adottata per il vaccino per il Covid-19, strumento indispensabile nella prevenzione dei contagi dovuti all’ormai noto virus SARS-CoV-2.

Esistono classi di RNA diversi per struttura e funzione. Tra queste, c’è quella degli RNA circolari (circRNA), così chiamati in quanto presentano una struttura chiusa, ad anello, che fornisce alcuni vantaggi, primo fra tutti una elevata stabilità rispetto agli RNA lineari.

Questi rappresentano una classe da poco riscoperta in quanto, fino a circa dieci anni fa, il loro studio era fortemente limitato dall’assenza di tecniche appropriate per la loro identificazione in campioni biologici.

I circRNA svolgono molteplici funzioni all’interno della cellula e per questo sono coinvolti in processi fisiologici fondamentali ma anche nello sviluppo di diverse patologie, tra cui il cancro.

Il gruppo di ricercatori e ricercatrici della Sapienza e dell’Istituto Italiano di Tecnologia ha studiato il ruolo degli RNA circolari nel rabdomiosarcoma, un tumore pediatrico ad alta diffusione, classificato tra i cosiddetti sarcomi dei tessuti molli che origina da cellule staminali da cui derivano numerosi tessuti, tra cui il muscolo scheletrico. Per questo motivo, tale tumore può presentarsi in tutte le sedi in cui sono presenti i muscoli.

Gli autori dello studio pubblicato su Nature Communications hanno caratterizzato l’espressione degli RNA circolari in questo tumore, scoprendo che alcuni di questi mostrano livelli più alti rispetto al contesto sano.

Cercando i meccanismi alla base di questo effetto, gli autori hanno scoperto che il responsabile sarebbe un gruppo di proteine che operano la deposizione e la lettura dell’N6-metiladenosina (m6A) sull’RNA. Tali proteine presentano livelli decisamente alti sia in biopsie che in linee di rabdomiosarcoma. Inoltre, lo studio ha dimostrato che l’aumento di m6A promuove la proliferazione e l’attività metastatica delle cellule tumorali di rabdomiosarcoma. Questo effetto potrebbe essere in parte riconducibile alle molecole di RNA circolare direttamente regolate da tale modifica.

Nel processo sarebbe coinvolta anche l’elicasi DDX5, una proteina nota per i molteplici ruoli nel metabolismo dell’RNA. DDX5 è in grado di stimolare la produzione di un gruppo di circRNA e interagisce con YTHDC1, una proteina che lega gli RNA che contengono m6A e che è stata precedentemente descritta dallo stesso gruppo di Sapienza come promotore della produzione di una classe di RNA circolari.

I risultati di questo studio, finanziato dalla Fondazione AIRC, rappresentano un prezioso contributo per la comprensione dei meccanismi molecolari alla base di questo tumore e per lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici laddove le strategie tradizionali hanno fallito.

Riferimenti:

The m6A reader YTHDC1 and the RNA helicase DDX5 control the production of rhabdomyosarcoma-enriched circRNAs – Dario Dattilo, Gaia Di Timoteo, Adriano Setti, Andrea Giuliani, Giovanna Peruzzi, Manuel Beltran Nebot, Alvaro Centrón-Broco, Davide Mariani, Chiara Mozzetta and Irene Bozzoni –

Nature Communications 2023. doi: 10.1038/s41467-023-37578-7

https://www.nature.com/articles/s41467-023-37578-7

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Scoperto un nuovo meccanismo di attivazione del nostro sistema immunitario cerebrale
Le ricercatrici e i ricercatori della Sapienza e dell’IIT svelano un meccanismo fondamentale per l’attivazione della microglia, un gruppo di cellule del sistema nervoso ancora poco compreso. Queste scoperte gettano le basi per possibili nuovi trattamenti contro il dolore neuropatico, spesso riscontrato in seguito alla chemioterapia.

sistema immunitario cerebrale microglia
Scoperto un nuovo meccanismo di attivazione del nostro sistema immunitario cerebrale. Nell’immagine, una microglia. Credits: Istituto Italiano di Tecnologia

Un team di ricercatori e ricercatrici guidato da Silvia Di Angelantonio del Dipartimento di Fisiologia e farmacologia “V. Erspamer” della Sapienza e del laboratorio Nanotechnologies for neurosciences, coordinato da Giancarlo Ruocco dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT), in collaborazione con la Columbia University, ha pubblicato un articolo sulla rivista Cell Reports dove ha messo in luce un nuovo meccanismo di attivazione della microglia, una tipologia di cellule che costituisce la prima linea di difesa nel cervello. Questa scoperta potrebbe costituire la base di nuovi approcci da impiegare contro il dolore neuropatico, spesso riscontrato in seguito ai trattamenti chemioterapici, in cui la microglia è coinvolta.

La microglia è una tipo di cellula presente nel cervello, dove svolge funzione immunitaria, ossia difende il sistema nervoso da ciò che potrebbe danneggiarlo, come patogeni, cellule tumorali o infiammazione. Quando non sono presenti minacce, le cellule della microglia sono presenti nel cosiddetto “stato non attivato” o “di sorveglianza” caratterizzato da un gran numero di ramificazioni che vengono sfruttate proprio per sorvegliare l’ambiente del cervello alla ricerca di segnali di pericolo che, una volta trovati, faranno acquisire alla microglia il suo “stato attivato” passando da una forma ramificata a una forma tondeggiante, conformazione con il quale può svolgere la sua funzione di difesa.

Il gruppo ha scoperto il ruolo fondamentale che hanno i microtubuli, elementi fondamentali per dare la forma alle cellule, in questa conversione da stato non attivato a stato attivato.

Nella microglia non attivata i microtubuli si allineano parallelamente, mentre in quella attivata si dispongono a raggiera, simile a una ruota di bicicletta. Questa riorganizzazione dei microtubuli è fondamentale per l’attivazione della microglia, infatti, bloccando questo processo nel corso dei loro esperimenti, il team ha notato che la microglia non riusciva più ad attivarsi.

Mentre la microglia ramificata non attivata e quella tondeggiante attivata sono entrambe essenziali per la salute del cervello, la microglia che rimane bloccata nello stato attivato contribuisce all’infiammazione cerebrale e alla progressione di malattie neurodegenerative come Parkinson e Alzheimer.

Inoltre, la microglia è implicata nello sviluppo del dolore neuropatico, spesso riscontrato in pazienti trattati con la terapia chemioterapica. Ciò è dovuto al fatto che alcuni farmaci chemioterapici vanno ad attaccare i microtubuli per distruggere le cellule cancerogene. Il problema è che spesso questi farmaci colpiscono non solo le cellule tumorali, ma anche quelle sane, generando quindi il dolore.

“Il futuro sarà lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici mirati a modulare in maniera specifica i cambiamenti dei microtubuli della microglia, senza andare a intaccare le altre cellule – conclude Silvia Di Angelantonio, coordinatrice dello studio – Questo nell’ottica di prevenire o contrastare l’attivazione patologica della microglia. Siamo solo all’inizio di questo percorso, ma ci stiamo muovendo in questo senso”.

Riferimenti:

Microglia reactivity entails microtubule remodeling from acentrosomal to centrosomal arrays – Rosito M, Sanchini C, Gosti G, Moreno M, De Panfilis S, Giubettini M, Debellis D, Catalano F, Peruzzi G, Marotta R, Indrieri A, De Leonibus E, De Stefano ME, Ragozzino D, Ruocco G, Di Angelantonio S, Bartolini F. – Cell Reports 2023 Feb 28 42(2): 112104. DOI: https://doi.org/10.1016/j.celrep.2023.112104

Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

“Ho le farfalle nello stomaco” non è solo una metafora: a dircelo sono le pillole furbe
Un nuovo studio italiano, coordinato dal Dipartimento di Psicologia della Sapienza e dal laboratorio IIT Neuroscience and Society, ha dimostrato, attraverso pillole intelligenti dotate di un termometro, un manometro e un sensore di acidità miniaturizzati e ingerite come normali compresse, l’esistenza di una correlazione tra lo stato fisiologico dell’apparato gastrointestinale e la consapevolezza del proprio corpo. La ricerca è pubblicata sulla rivista iScience.

farfalle nello stomaco pillole furbe intestino
Monti, Aglioti et al., iScience

Un nuovo studio interamente italiano pubblicato su iScience ha rilevato come la consapevolezza di avere un corpo e risiedere all’interno di esso, sia una sensazione fortemente correlata a parametri fisiologici del nostro corpo come temperatura, pressione arteriosa e acidità dello stomaco e dell’intestino.

Lo studio è stato sviluppato nei laboratori del Dipartimento di Psicologia della Sapienza in collaborazione con il laboratorio Neuroscience and Society del centro dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Roma, CLN2S@Sapienza. La ricerca ha evidenziato che gli organi più profondi del nostro corpo, come quelli appartenenti al tratto gastro intestinale, sono gli unici in grado, attraverso segnali mandati ai nervi periferici, di captare sempre tutto ciò che ci circonda.

“Il problema – afferma Salvatore Maria Aglioti, Professore alla Sapienza e Ricercatore Senior presso IIT – è che una cosa è studiare il ruolo dell’attività cardiaca o respiratoria nella consapevolezza corporea, come abbiamo fatto in precedenza, una cosa è studiare l’attività del tratto gastrointestinale. Stomaco e intestino sono organi profondi e contorti, che normalmente vengono indagati per mezzo di sonde molto invasive: chiunque abbia fatto una gastroscopia o una colonscopia lo sa per esperienza”.

Per superare questo ostacolo, i ricercatori e le ricercatrici hanno esplorato il collegamento tra stomaco, intestino e percezione del proprio corpo per mezzo di una tecnologia altamente progredita e mai impiegata prima nel campo delle neuroscienze cognitive: le pillole furbe, dotate di un termometro, un manometro e un sensore di acidità miniaturizzati e ingerite come normali compresse.

Attraverso questi dispositivi sono stati in grado di registrare a intervalli regolari, temperatura, pressione e acidità gastrointestinale. I dati una volta raccolti venivano trasmessi a una ricetrasmittente esterna, il tutto collegato senza fili.

Per capire se veramente ci fosse una correlazione tra lo stato fisiologico dell’apparato gastrointestinale e la consapevolezza del proprio corpo, i partecipanti dovevano ingerire una di queste pillole intelligenti e mediante un visore 3D osservare un corpo virtuale.

Questo avatar poteva presentarsi in due situazioni differenti: la prima in cui tale personaggio aveva un aspetto simile al paziente, si trovava nella sua stessa posizione e respirava come lui; la seconda situazione in cui il personaggio era differente dal partecipante. Alla fine di questa esperienza il paziente doveva descrivere quanto si sentiva “incorporato” al corpo virtuale appena mostrato. Tale procedura doveva essere ripetuta tre volte, a seconda della posizione della pillola furba: la prima in prossimità dello stomaco, la seconda dell’intestino tenue e l’ultima nell’intestino crasso.

Si tratta di uno studio all’avanguardia – chiosa Alessandro Monti, primo autore dello studio- che ha permesso ai ricercatori di capire come consapevolezza e attività del tratto gastrointestinale siano collegate tra di loro, infatti, quando presentiamo una forte consapevolezza del nostro corpo i nostri organi interni si presentano più attivi rispetto a quando questa sensazione viene a mancare.

Giuseppina Porciello e Maria Serena Panasiti, neuroscienziate cliniche e co-autrici dello studio, fanno notare che la nuova scoperta ha implicazioni per una serie di condizioni patologiche. Potrà ad esempio servire ai ricercatori per capire se è vero che i segnali del tratto gastrointestinale hanno un ruolo cruciale nei disturbi alimentari e nei disturbi di depersonalizzazione e derealizzazione. Non solo, tramite la metodologia delle pillole ‘furbe’ si potrà capire se la fisiologia del tratto gastrointestinale possa interferire sulle emozioni e il ragionamento morale dell’individuo.

“Ho le farfalle nello stomaco” non è solo una metafora: a dircelo sono le pillole furbe. Bozzetto, autore Alessandro Monti

Riferimenti:

Monti, A., Porciello, G., Panasiti, M.S., Aglioti, S.M. (2022). Gut markers of bodily self-consciousness in men. iScience, in press.doi: https://doi.org/10.1016/j.isci.2022.105061

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Comunicazione cervello-ambiente: il ruolo dei microrganismi intestinali

Un nuovo studio, coordinato dal Dipartimento di Fisiologia e farmacologia Vittorio Erspamer della Sapienza, ha individuato alcuni ceppi batterici che mediano gli effetti benefici di un ambiente arricchito sulla plasticità del sistema nervoso centrale

cervello ambiente microrganismi intestinali
Comunicazione cervello-ambiente: il ruolo dei microrganismi intestinali. Foto di 政徳 吉田

Negli ultimi anni è stato dimostrato che un ambiente arricchito dal punto di vista motorio, sensoriale e sociale può avere un effetto benefico sul sistema nervoso centrale, poiché ne favorisce la plasticità cerebrale e la funzione cognitiva.

Tuttavia, non era ancora stato indagato il possibile ruolo dei microrganismi intestinali nel mediare questi effetti benefici.

Un nuovo studio, coordinato da Cristina Limatola del Dipartimento di Fisiologia e farmacologia Vittorio Erspamer della Sapienza, ha analizzato in un modello sperimentale murino le modifiche indotte dagli stimoli ambientali – di un ambiente arricchito rispetto alle condizioni standard dello stabulario – sul microbiota intestinale e sui suoi metaboliti. Questa ricerca ha permesso di identificare alcuni ceppi batterici e i prodotti del loro metabolismo – in particolare, gli acidi grassi a catena corta – che mediano gli effetti benefici dell’ambiente arricchito sulla plasticità del sistema nervoso centrale.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Communications Biology, nasce dalla collaborazione dei dipartimenti di Fisiologia e farmacologia Vittorio Erspamer, di Chimica, di Biologia ambientale e l’NMLab della Sapienza con l’Istituto Pasteur Italia, l’Istituto italiano di tecnologia, il Cnr, l’Università di Trieste e l’IRCCS Neuromed di Pozzilli.

“Il nostro lavoro – spiega Cristina Limatola, coordinatrice dello studio – aggiunge alle attuali conoscenze due elementi fondamentali. Il primo è che le cellule microgliali – cioè le cellule del sistema nervoso centrale con funzione immunitaria – rappresentano l’interfaccia tra ambiente e segnali provenienti dal microbiota intestinale. La seconda è che i cambiamenti dell’ambiente in cui viviamo e gli stimoli che da esso riceviamo contribuiscono in modo cruciale a determinare la composizione del nostro microbiota”.

Per ottenere questi risultati è stato necessario un approccio multidisciplinare, che ha unito le competenze di neurofisiologia e metabolomica – la scienza che studia il metaboloma, ovvero l’insieme di tutti i metaboliti che partecipano ai processi biochimici di un organismo – con la metagenomica – cioè la branca della genomica che studia le comunità microbiche nel loro ambiente naturale – e la bioinformatica.

“Questa ricerca – conclude Cristina Limatola – evidenzia il ruolo del microbiota, del metaboloma, delle cellule dell’immunità innata e degli acidi grassi a catena corta nei meccanismi di comunicazione tra cervello e ambiente e apre la strada a nuove interpretazioni di questo cross-talk bidirezionale”.

Riferimenti:
Short-chain fatty acids promote the effect of environmental signals on the gut microbiome and metabolome in mice – Francesco Marrocco, Mary Delli Carpini, Stefano Garofalo, Ottavia Giampaoli, Eleonora De Felice, Maria Amalia Di Castro, Laura Maggi, Ferdinando Scavizzi, Marcello Raspa, Federico Marini, Alberta Tomassini, Roberta Nicolosi, Carolina Cason, Flavia Trettel, Alfredo Miccheli, Valerio Iebba, Giuseppina D’Alessandro, Cristina Limatola – Communications Biology (2022) https://doi.org/10.1038/s42003-022-03468-9

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Differenziamento dei motoneuroni: il ruolo degli RNA non codificanti

Un nuovo studio, frutto di una collaborazione tra il Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, l’Istituto italiano di tecnologia e il Cnr, rivela la sinergia tra RNA codificanti e non codificanti nel regolare la formazione dei motoneuroni e apre la strada a nuovi approcci terapeutici per la cura delle malattie neurodegenerative. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista The EMBO Journal.

Differenziamento dei motoneuroni: il ruolo degli RNA non codificanti
Foto di  Gerd Altmann

Il ruolo fondamentale degli RNA non codificanti – che non sono tradotti in proteine – nella regolazione dei programmi di sviluppo e funzionamento dei tessuti, in particolare del sistema nervoso, è emerso soprattutto negli ultimi anni.

Sebbene molte funzioni specifiche siano ancora poco conosciute, gli RNA non codificanti hanno un ruolo biologico cruciale, che li rende di notevole interesse soprattutto nell’ambito della ricerca biomedica.

Un nuovo studio, coordinato da Irene Bozzoni, del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza e del Clns dell’Istituto italiano di tecnologia, in collaborazione con Pietro Laneve del Cnr, ha permesso di caratterizzare l’attività di uno specifico gene (MN2) che dirige la produzione di molteplici RNA non codificanti strutturalmente diversi, sia lunghi (lncRNA) che corti (microRNA).

In particolare, tecniche avanzate di biologia molecolare e cellulare hanno permesso ai ricercatori di chiarire il meccanismo attraverso cui il dialogo tra lncRNA e microRNA controlla l’espressione di geni codificanti per proteine fondamentali nel differenziamento dei motoneuroni, ovvero di quei neuroni che veicolano i segnali nervosi dal sistema nervoso centrale ai muscoli.

La ricerca, nata dalla collaborazione tra la Sapienza, l’Istituto italiano di tecnologia e il Cnr, è stata finanziata da ERC-2019-SyG e pubblicata sulla prestigiosa rivista internazionale The EMBO Journal.

“Il lavoro – spiega Irene Bozzoni, coordinatrice del gruppo di ricerca – ci aiuta a capire meglio le funzioni attribuite al genoma non codificante. In particolare, abbiamo evidenziato per la prima volta come un meccanismo basato sul sequestro di microRNA da parte di un lncRNA – detto “spugna molecolare” – contribuisca alla generazione dei motoneuroni.”

 I motoneuroni, oltre a essere mediatori dei segnali nervosi responsabili della contrazione muscolare, sono anche bersagli di gravi patologie degenerative e di lesioni invalidanti.

 “L’auspicio – conclude Irene Bozzoni – è che la comprensione dei processi di formazione dei motoneuroni possa consentire lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici in medicina neurodegenerativa”.

Riferimenti:
A multifunctional locus controls motor neuron differentiation through short and long non coding RNAs – Andrea Carvelli, Adriano Setti, Fabio Desideri, Silvia Galfrè, Silvia Biscarini, Tiziana Santini, Alessio Colantoni, Giovanna Peruzzi, Matteo J Marzi, Davide Capauto, Silvia Di Angelantonio, Monica Ballarino, Francesco Nicassio, Pietro Laneve, Irene Bozzoni- The EMBO Journal (2022) https://doi.org/10.15252/embj.2021108918

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Grafene e semiconduttori 2D: il binomio perfetto per lo sviluppo di dispositivi opto-elettronici all’avanguardia

Un nuovo studio, coordinato dal Dipartimento di Fisica della Sapienza, ha scoperto il meccanismo di scambio di energia tra il grafene e i semiconduttori bidimensionali. I risultati del lavoro, pubblicati sulla rivista PNAS, aprono la strada all’ottimizzazione di rivelatori di luce di ultima generazione

grafene semiconduttori 2D dispositivi opto-elettronici
Grafene e semiconduttori 2D: il binomio perfetto per lo sviluppo di dispositivi opto-elettronici all’avanguardia. Modello molecolare del grafene. Immagine di AlexanderAlUS, CC BY-SA 3.0

I materiali che utilizziamo nella vita di tutti i giorni hanno una struttura tridimensionale.

Nel 2004 è stato realizzato per la prima volta un solido bidimensionale, il grafene, isolando un singolo strato di atomi di carbonio. La scoperta ha aperto la strada alla realizzazione di una larga classe di materiali cristallini bidimensionali, le cui proprietà fisiche differiscono drasticamente da quelle dei materiali tridimensionali. Più recentemente è stato osservato come, unendo singoli strati 2D di una coppia di diversi materiali, sia possibile combinare le proprietà uniche e complementari dei costituenti di base, permettendo la realizzazione di dispositivi innovativi nel campo della fotonica e dell’elettronica.

Una delle soluzioni di maggior impatto applicativo per questa famiglia di solidi, dette “eterostrutture”, è stata ottenuta combinando il grafene con alcuni semiconduttori bidimensionali (i dicalcogenuri dei metalli di transizione). La loro implementazione permette di realizzare rivelatori di luce che, grazie all’elevatissima mobilità elettronica del grafene e all’ottima capacità di assorbimento del semiconduttore, sono estremamente più rapidi ed efficienti delle tecnologie attualmente utilizzate.

Il meccanismo fisico alla base della conversione e del trasferimento della luce catturata dal semiconduttore in un segnale elettrico nel grafene, sebbene sia cruciale per una progettazione ottimale di questi rivelatori di luce, è tutt’ora oggetto di un acceso dibattito.

 

Oggi il team di ricerca Femtoscopy diretto da Tullio Scopigno del Dipartimento di Fisica della Sapienza, in collaborazione con l’Istituto di fisica e chimica dei materiali di Strasburgo e l’Istituto italiano di tecnologia che partecipa grazie al supporto del progetto Europeo Graphene Flagship, è giunto a risultati fondamentali per la comprensione dei processi microscopici alla base dei dispositivi che interagiscono con la luce e convertono i segnali elettrici in segnali ottici e viceversa.

 

Lo studio, pubblicato sulla rivista PNAS, ha stabilito innanzitutto che il trasferimento di energia tra i due materiali avviene in un tempo rapidissimo, quantificato in pochi picosecondi (un picosecondo è la millesima parte di un miliardesimo di secondo).

Inoltre i ricercatori, monitorando la temperatura degli elettroni del grafene, hanno descritto i meccanismi dello scambio energetico tra i due materiali durante questa piccolissima frazione di secondo.

Inizialmente si riteneva che la conversione della luce assorbita dal semiconduttore in una corrente elettrica nel grafene richiedesse un trasferimento di carica netta positiva o negativa.

L’esperimento ha dimostrato che l’energia luminosa assorbita dal semiconduttore viene convertita in agitazione termica delle cariche elettriche nel grafene. In particolare, nei primissimi istanti successivi all’assorbimento della luce da parte del semiconduttore, ciò che viene trasferito al grafene è un pacchetto di energia associato a un eccitone neutro (costituito da una coppia di cariche positive e negative legate tra loro) e non una carica netta.  È l’intero eccitone a essere trasferito al grafene (quindi elettricamente neutro) e non un singolo frammento carico come si pensava inizialmente.

 

“Questi risultati sono stati possibili grazie a un’innovativa tecnica spettroscopica – spiega Tullio Scopigno – che impiega coppie impulsi di luce ultracorti della durata di un picosecondo.  Il primo impulso deposita energia nel materiale semiconduttore, mentre il secondo, misurando la temperatura degli elettroni nel grafene, permette di sondare il trasferimento di energia e/o carica attraverso i due materiali”.

Comprendere come avvengono gli scambi di energia tra il grafene e gli altri materiali bidimensionali rappresenta un passo chiave per implementare dispositivi opto-elettronici all’avanguardia e dal design razionale, come celle solari, LED, touchscreen e photodetectors.

Riferimenti:
Picosecond energy transfer in a transition metal dichalcogenide–graphene heterostructure revealed by transient Raman spectroscopy – Carino Ferrante, Giorgio Di Battista, Luis E. Parra López, Giovanni Batignani, Etienne Lorchat, Alessandra Virga, Stéphane Berciaud, Tullio Scopigno – Proceedings of the National Academy of Sciences (2022) https://doi.org/10.1073/pnas.2119726119

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Spot di luce usati come cani da pastore per radunare i “greggi” di batteri 

Un nuovo studio, coordinato dal Dipartimento di Fisica della Sapienza, rivela come controllare la distribuzione spaziale di batteri geneticamente modificati puntandoli con minuscoli riflettori. I risultati del lavoro sono stati pubblicati su Nature Communications

Molti batteri motili, come Escherichia coli, esplorano continuamente lo spazio circostante alla ricerca delle migliori condizioni di crescita.

Come animali da pascolo, se lasciati in uno spazio aperto, i batteri diffondono e si distribuiscono uniformemente sui “prati” ovunque il cibo sia disponibile. Radunarli è una delle responsabilità più difficili, soprattutto quando questi sono numerosi e corrono velocemente.

Spot di luce batteri

Un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Fisica della Sapienza ha dimostrato che microscopici spot di luce, come migliaia di cani pastore, possono radunare anche i batteri più veloci in un’area ristretta. Ciò è possibile solo se i batteri sono geneticamente modificati per produrre proteorodopsina, una pompa protonica che, come un mini pannello solare, sfrutta l’energia luminosa per muovere i flagelli (appendici cellulari lunghe e sottili con funzione motoria). Lo studio, pubblicato su Nature Communications, è frutto della collaborazione della Sapienza con il CNR-Nanotec e l’Istituto italiano di tecnologia.

“Questi batteri – spiega Helena Massana-Cid, ricercatrice del Dipartimento di Fisica della Sapienza e primo nome dello studio – si muovono velocemente quando la luce è intensa e più lentamente nelle zone buie. Quindi, per radunarli è stato utilizzato un proiettore di luce controllato dal computer e costituito da minuscoli riflettori puntati sulle singole cellule, in grado di spegnere rapidamente la luce sui batteri che cercavano di fuggire dall’area di raccolta”.

Grazie a una fotocamera digitale associata al microscopio i ricercatori hanno ottenuto le immagini delle sospensioni di batteri, che sono state elaborate in tempo reale attraverso trasformazioni geometriche, per poi essere proiettate sul campione con un ritardo temporale fissato. Così, muovendosi illuminati da questa immagine deformata del loro passato, migliaia di batteri possono dirigersi insieme, come un branco, verso una specifica regione.

Le particelle in grado di consumare energia per muoversi attivamente, come i batteri motili, fanno parte di un’ampia classe di sistemi di non-equilibrio, sia sintetici che biologici, chiamati collettivamente “materia attiva”. Sebbene prevedere e controllare il comportamento di questi sistemi risulti una sfida ancora aperta a cavallo tra fisica e biologia, questo esperimento aggiunge sicuramente apre la strada per sviluppi interessanti sia negli aspetti fondamentali della fisica del non-equilibrio, che nelle sue applicazioni.

“A livello fondamentale – conclude Roberto Di Leonardo del Dipartimento di Fisica della Sapienza e coordinatore dello studio – siamo riusciti a stabilire una relazione matematica tra le proprietà geometriche dei pattern di luce proiettati e il modo in cui i batteri rispondono distribuendosi nello spazio. Riguardo invece le future applicazioni, la luce potrebbe essere utilizzata per intrappolare e trasportare nuvole di particelle attive in laboratori miniaturizzati, che sfruttano l’energia meccanica per azionare micro-macchine con componenti sia biologiche e che sintetiche”.[FV1]

Riferimenti:
Rectification and confinement of photokinetic bacteria in an optical feedback loop – Helena Massana-Cid, Claudio Maggi, Giacomo Frangipane, Roberto Di Leonardo – Nature Communications (2022) https://doi.org/10.1038/s41467-022-30201-1

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Alzheimer: un approccio machine learning per individuare le predisposizioni genetiche 

Un nuovo studio Sapienza, realizzato con l’Istituto italiano di tecnologia (IIT) e altri centri di ricerca internazionali, ha valutato la possibilità di predirre con metodi di apprendimento automatico le varianti genetiche associate a un alto rischio di malattia. I risultati del lavoro sono stati pubblicati su Alzheimer’s & Dementia: Diagnosis, Assessment & Disease Monitoring.

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Alzheimer: machine learning per individuare le predisposizioni genetiche. Immagine di Chen (chenspec)

L’Alzheimer fa parte di quelle malattie genetiche causate da mutazioni a livello di un singolo gene, ovvero in cui una variante a livello di singolo nucleotide (SNV Single-Nucleotide Variants) è sufficiente per causare la patologia genetica. Ad oggi si conoscono il gene e la mutazione coinvolti nell’insorgenza di solo la metà di queste malattie.

Diversi studi di larga scala (chiamati in inglese GWAS, Genome-wide association studies) hanno portato alla luce informazioni su singole varianti associate alla propensione di un paziente di contrarre l’Alzheimer, ma gli SNV non posso essere utilizzati efficacemente a scopo predittivo senza considerare le relazioni fra di essi e i potenziali rapporti con altri elementi del genoma.

Basti pensare che molti soggetti con una determinata variante genica associata all’Alzheimer (come per esempio la mutazione nel gene APOE), non sviluppano la patologia.

Per comprendere come ciò possa accadere, un team di ricercatori del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, insieme con l’Istituto italiano di tecnologia (IIT) e altri centri di ricerca internazionali, ha utilizzato un approccio di machine learning per analizzare l’intero profilo genomico di pazienti con malattia di Alzheimer e individuare le predisposizioni genetiche alla base dell’insorgenza della patologia. I risultati dello studio, condotto dalla giovane ricercatrice Magdalena Arnal nel laboratorio Sapienza di Gian Gaetano Tartaglia, sono stati pubblicati sulla rivista Alzheimer’s & Dementia: Diagnosis, Assessment & Disease Monitoring.

In particolare, per costruire i profili genomici, è stato utilizzato un subset di dati costruito a partire da due dei più grandi database esistenti: UK Biobank e ADNI.

“Le combinazioni ottenibili sono innumerevoli, abbiamo quindi sviluppato un approccio informatico di tipo machine learning per semplificare l’analisi – spiega Magdalena Arnal. “Senza questa svolta computazionale la nostra analisi non sarebbe stata possibile”.

In questo modo i ricercatori hanno identificato sei varianti SVN in una zona del genoma, il cromosoma 19, che permettono di identificare un gran numero di individui come potenziali casi di Alzheimer.

“Quello che abbiamo scoperto è definito epistasi, una forma di interazione genica per cui una variazione genica può mascherare o contribuire all’espressione fenotipica di altri geni – aggiunge Gian Gaetano Tartaglia. “Questa è la chiave per comprendere l’organizzazione del genoma: a seconda di come gli SNV si combinano, un individuo può sviluppare la malattia di Alzheimer o meno”.

Il prossimo step per i ricercatori sarà quello di identificare nuovi patterns coinvolti in altre malattie.

Riferimenti:

Machine learning methods applied to genotyping data capture interactions between single nucleotide variants in late onset Alzheimer’s disease – Alzheimer’s & Dementia: Diagnosis, Assessment & Disease Monitoring http://doi.org/10.1002/dad2.12300

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Trattamento dei tumori infantili: nuove possibilità di cura grazie ai meccanismi di regolazione basati sull’RNA

Un gruppo di ricercatori della Sapienza Università di Roma, in collaborazione con l’Istituto italiano di tecnologia (IIT), ha scoperto come l’interazione tra due specifiche molecole di RNA favorisca in laboratorio la crescita di cellule di rabdomiosarcoma, uno dei tumori maligni più ricorrenti in età pediatrica. I risultati dello studio sostenuto da Fondazione AIRC sono stati pubblicati sulla rivista Molecular Cell e aprono nuove strade al trattamento di tumori maligni infantili.

tumori infantili RNA
Trattamento dei tumori infantili: nuove possibilità di cura grazie ai meccanismi di regolazione basati sull’RNA. Foto di RyanMcGuire

L’interesse della scienza per gli RNA circolari (circRNA) è in crescita per le caratteristiche peculiari di questa classe emergente di molecole e per il loro ruolo in diverse condizioni patologiche tra cui il cancro.

In uno studio del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza Università  di Roma e dell’Istituto italiano di tecnologia (IIT), i ricercatori hanno individuato un inedito meccanismo molecolare alla base della regolazione dell’espressione di diverse proteine. Si tratta dell’interazione tra molecole di RNA (in particolare tra un RNA circolare, circZNF609, e alcuni RNA messaggeri). In esperimenti di laboratorio i ricercatori hanno scoperto che, in un caso specifico, l’interazione con l’mRNA che contiene le istruzioni per la proteina CKAP5, a sua volta coinvolta nel controllo della duplicazione cellulare, regola la capacità proliferativa delle cellule di rabdomiosarcoma, un tumore maligno pediatrico.

I risultati dello studio sostenuto dalla Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro sono stati pubblicati sulla rivista Molecular Cell e rappresentano un ulteriore progresso nella comprensione delle diverse funzioni che l’RNA svolge nelle cellule. In particolare, è stata così chiarita una nuova rilevante funzione delle molecole di RNA circolari.

Nello specifico, i ricercatori hanno dimostrato come questo meccanismo di regolazione genica sia capace di regolare la crescita delle cellule di rabdomiosarcoma, uno dei tumori maligni più ricorrenti in età pediatrica e che fa parte dei cosiddetti sarcomi dei tessuti molli, tumori che si sviluppano nei muscoli, nel grasso e nel tessuto connettivo.

Spiega Irene Bozzoni della Sapienza, coordinatrice dello studio: “Impedendo l’interazione tra le due molecole di RNA, siamo riusciti a rendere le cellule tumorali in coltura più sensibili a diversi trattamenti chemioterapici generalmente usati nella cura del rabdomiosarcoma, ma spesso inefficaci nei casi più gravi”.

Si è inoltre evidenziato che questo meccanismo è presente anche in altri tipi di tumore, come la leucemia mieloide cronica e il neuroblastoma, rendendo questo circuito molecolare un interessante candidato per nuove terapie mediche basate sull’RNA.

Tali risultati sottolineano l’importanza dello studio delle interazioni tra RNA non codificanti e mRNA per l’identificazione di nuovi meccanismi di regolazione di importanti processi cellulari.

Riferimenti:

Circular RNA ZNF609/CKAP5 mRNA interaction regulates microtubule dynamics and tumorigenicity – Francesca Rossi, Manuel Beltran, Michela Damizia, Chiara Grelloni, Alessio Colantoni, Adriano Setti, Gaia Di Timoteo, Dario Dattilo, Alvaro Centrón-Broco, Carmine Nicoletti, Maurizio Fanciulli, Patrizia Lavia, Irene Bozzoni – Mol. Cell 2021 https://doi.org/10.1016/j.molcel.2021.11.032

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma