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Il suono degli zoccoli di un cavallo in movimento è tutta una questione di ritmo

Passo, trotto e galoppo: le andature equine seguono dei veri e propri modelli ritmici. Due studi condotti dalla Sapienza e dall’Università di Torino indagano sulla loro musicalità.

La sequenza degli zoccoli di un cavallo che colpiscono il terreno sembra intuitivamente ritmica, ma lo è davvero? Un team di ricercatori guidato da Marco Gamba dell’Università di Torino e da Andrea Ravignani della Sapienza Università di Roma, finanziato dal progetto ERC The Origins of Human Rhythm (TOHR), ha risposto a questa domanda in due studi pubblicati sul Journal of Anatomy e Annals of the New York Academy of Sciences mettendo in luce le somiglianze tra i ritmi della locomozione dei cavalli e quelli musicali. Questa connessione potrebbe spiegare perché le diverse andature equine – passo, trotto e galoppo – risultino così ritmiche e riconoscibili.

Il ritmo musicale in molte culture occidentali si basa su sequenze di intervalli temporali che seguono rapporti di numeri interi, ciascuno dei quali definisce una categoria ritmica. Una nota, per esempio, può durare quanto la precedente, oppure il doppio o il triplo. Negli ultimi anni, studi su diverse specie animali hanno già rivelato che simili rapporti si trovano nelle vocalizzazioni di altre specie, confermando il ruolo chiave di queste strutture temporali nella percezione del ritmo.

Per la prima volta, i ricercatori hanno dimostrato che anche l’andatura dei cavalli condivide queste stesse strutture temporali: gli intervalli tra zoccoli successivi che colpiscono il terreno sono caratterizzati da categorie ritmiche. In particolare, il passo e il trotto dei cavalli sono isocroni,  poiché il terreno è colpito a intervalli regolari, come il ticchettio di un orologio;  il galoppo, invece, presenta una sequenza di tre intervalli in cui il terzo dura il doppio degli altri due, vale a dire un pattern 1:1:2, richiamando il ritmo base del brano “We Will Rock You” dei Queen.

“Questo pattern di 1:1:2 incidentalmente si ritrova anche nell’Overture del Guglielmo Tell di Rossini. Forse questo spiega perché spesso questo brano venga usato come colonna sonora nei film in cui si vedono cavalli al galoppo”, dichiara Andrea Ravignani.

“Questi studi proseguono un filone di ricerca che vede unite le nostre Università al fine di indagare le caratteristiche ritmiche dei comportamenti di animali e umani, cercando di scovare similarità e differenze che sono ancora da interpretare per ciò che concerne il loro significato evolutivo”, aggiunge Marco Gamba.

Oltre alle categorie ritmiche, “un altro elemento fondamentale nella distinzione tra le andature dei cavalli è il tempo, ossia la velocità con cui si susseguono i battiti in un qualsiasi pattern ritmico, analogamente a quanto osserviamo tra diversi generi musicali” spiega Teresa Raimondi, postdoc di Sapienza Università di Roma.

In particolare, passo e trotto risultano facilmente distinguibili grazie alla maggiore durata degli intervalli, e quindi un pattern ritmico più lento nel trotto rispetto al passo.

“La scoperta di schemi ritmici comuni tra musica, comunicazione animale e locomozione rafforza l’idea che locomozione e controllo motorio possano aver giocato un ruolo cruciale nell’evoluzione del ritmo, sia nella comunicazione umana che in quella di altre specie”, conclude Lia Laffi, dottoranda dell’Università di Torino in collaborazione con la Fondazione Zoom.

I risultati delle due ricerche discriminano quantitativamente le andature dei cavalli in base al ritmo, rivelando sorprendenti comunanze con la musica umana e con alcuni segnali comunicativi animali. L’andatura e la ritmicità vocale condividono caratteristiche chiave, e la prima è probabilmente precedente alla seconda. La capacità di produrre e riconoscere ritmi legati alla locomozione potrebbe infatti aver costituito un preadattamento fondamentale per lo sviluppo di ritmi vocali più complessi in una fase evolutiva successiva. In particolare, la percezione della ritmicità locomotoria potrebbe essersi evoluta in diverse specie sotto la pressione del riconoscimento dei predatori e della selezione degli accoppiamenti; in seguito potrebbe essere stata adattata alla comunicazione vocale ritmica.

A questo sforzo di ricerca internazionale, hanno partecipato anche professori e ricercatori dell’Università di Medicina Veterinaria di Vienna, dell’Università di Copenaghen e dell’Istituto Italiano di Tecnologia.

 

Riferimenti bibliografici:

Laffi, L., Raimondi, T., Ferrante, C., Pagliara, E., Bertuglia, A., Briefer, E. F., Gamba, M., & Ravignani, A. (2024). “The rhythm of horse gaits”, Ann NY Acad Sci., 1–8. DOI: https://doi.org/10.1111/nyas.15271

Laffi, L., Bigand, F., Peham, C.,Novembre, G., Gamba, M. & Ravignani, A. (2024) “Rhythmic categories in horse gait kinematics”, Journal of Anatomy, 00,1–10. DOI: https://doi.org/10.1111/joa.14200

Il suono degli zoccoli di un cavallo in movimento è tutta una questione di ritmo, secondo due studi appena pubblicati. Un cavallo (Equus ferus caballus) frisone. Foto di Andizo [1], CC BY-SA 3.0
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Nuove frontiere per il trattamento della SLA: la proteina HuD, un nuovo possibile target terapeutico
Lo studio, pubblicato su Nature Communications e coordinato dal Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, ha osservato un coinvolgimento della proteina HuD nei difetti della giunzione neuromuscolare, tra i primi segni distintivi della patologia. I risultati aprono allo sviluppo di nuove terapie mirate.

La SLA è una malattia neurodegenerativa progressivamente invalidante, dovuta alla compromissione graduale dei neuroni motori, le cellule nervose che stimolano la contrazione muscolare permettendo il movimento e altre funzioni importanti. Quando nei pazienti i neuroni motori degenerano, i muscoli volontari non ricevono più stimoli dal cervello e si atrofizzano, portando così alla paralisi completa. Attualmente, si utilizzano trattamenti capaci di ridurre i sintomi della malattia ma non esiste una cura per fermarne la progressione.

I difetti della giunzione neuromuscolare – il punto di connessione tra i neuroni motori e il muscolo – sono tra i primi segni distintivi della SLA.

Da quanto emerge dalla ricerca, condotta dal gruppo di Alessandro Rosa del Dipartimento di Biologia e biotecnologie della Sapienza in collaborazione con l’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) e l’Università di Pittsburgh, ci sarebbe un legame tra la disregolazione di una specifica proteina, denominata HuD, e i disturbi della giunzione neuromuscolare nei pazienti affetti da SLA.

“I risultati ottenuti individuano in questa proteina un ruolo cruciale in un momento precoce della malattia suggerendola quindi come un possibile target in ambito terapeutico”, ha sottolineato Alessandro Rosa.

La ricerca ha mostrato come livelli elevati di proteina HuD possano portare a difetti alla giunzione neuromuscolare con conseguente degenerazione dei neuroni motori. Riducendo quindi i livelli della proteina con terapie mirate si potrebbero limitare i disturbi della giunzione neuromuscolare nei pazienti.

Questa evidenza è stata confermata in vivo in un modello animale, il moscerino Drosophila melanogaster, in cui la sovraespressione della proteina causa difetti nella locomozione, mentre la sua riduzione migliora il fenotipo motorio.

Il progetto è stato finanziato dal PNRR nell’ambito del Centro Nazionale 3 – Sviluppo di terapia genica e farmaci con tecnologia a RNA. Per il Dipartimento di Biologia e Biotecnologie hanno contribuito al lavoro anche Alessio Colantoni e Monica Ballarino.

Riferimenti bibliografici:

“HuD impairs neuromuscular junctions and induces apoptosis in human iPSC and Drosophila ALS models” – Beatrice Silvestri, Michela Mochi, Darilang Mawrie, Valeria de Turris, Alessio Colantoni, Beatrice Borhy, Margherita Medici, Eric Nathaniel Anderson, Maria Giovanna Garone, Christopher Patrick Zammerilla, Marco Simula, Monica Ballarino, Udai Bhan Pandey & Alessandro Rosa, Nature Communications, volume 15, Article number: 9618 (2024) doi: https://www.nature.com/articles/s41467-024-54004-8

Foto di Konstantin Kolosov

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Circuiti elettrici su foglie, lenti e bucce d’arancia: a Pisa le nuove frontiere della microelettronica

Dagli scienziati del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa un dispositivo elettronico flessibile e sottile, che può essere posizionato su ogni superficie

Un dispositivo elettronico ultrasottile, dello spessore di tre micron, può essere applicato a tutti i tipi di superficie, irregolari, curve, delicate e flessibili, come foglie, lenti ottiche o bucce d’arancia.

Realizzato dal team di ingegneri elettronici del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione (DII) dell’Università di Pisa, rappresenta un grande passo avanti nelle ricerche sull’elettronica conformabile, arrivando a realizzare dispositivi funzionanti su superfici così sottili da poter essere applicate ovunque. 

La ricerca, frutto di una collaborazione tra Università di Pisa, IIT Milano e EPFL, è stata pubblicata sulla prestigiosa rivista Nano Letters.

Adattare l’elettronica perché si conformi perfettamente a superfici curve e irregolari è un obiettivo difficile, ma che al tempo stesso può aprire la strada a una serie infinita di applicazioni, sia a livello industriale che in campo medico”, spiega Gianluca Fiori, docente di elettronica al DII. “Il dispositivo che abbiamo messo a punto ha uno spessore estremamente ridotto, dell’ordine di pochi micron, e ha come substrato un polimero flessibile, che può aderire perfettamente ad ogni tipo di superficie. In un centimetro quadrato possiamo integrare moltissimi transistori e la nostra prossima sfida sarà quella di realizzare circuiti complessi, in grado di essere applicati per esempio al cibo, per monitorarne il deterioramento all’interno della catena di produzione, trasporto e vendita, in modo da ridurre gli sprechi alimentari, oppure al corpo stesso, per monitorare parametri fisiologici in modo non invasivo”.

L’applicazione di nanodispositivi flessibili e conformabili al campo biomedicale è una ricerca di frontiera che Gianluca Fiori sta portando avanti nel progetto SKIN2TRONICS, finanziato di recente dall’Unione Europea con ERC Synergy Grant, i finanziamenti più competitivi e prestigiosi per la ricerca.

“Il lavoro di produzione del dispositivo – aggiunge Federico Parenti, dottorando al DII e primo autore dell’articolo – prevede un processo complesso, e che richiede macchinari all’avanguardia, realizzati dal nostro team. In particolare, abbiamo messo a punto una stampante a getto d’inchiostro in grado di definire strutture con risoluzione micrometrica, superando i limiti delle stampanti attualmente in commercio. Il dispositivo elettronico è il risultato di una combinazione di tecniche microelettroniche standard di deposizione dei materiali e più avanzate, come appunto la deposizione per mezzo di inchiostri”

“I transistori così fabbricati – conclude Elisabetta Dimaggio, ricercatrice in elettronica al DII – riescono a raggiungere ottime prestazioni, e sono quindi perfettamente integrabili in circuiti elettronici più complessi, sia digitali che analogici. Inoltre, la nostra ricerca ha dimostrato che questi dispositivi mantengono i livelli di performance richiesti anche sotto ripetuti stress da piegamento. Questa resilienza è cruciale per l’elettronica conformabile.
Date le enormi potenzialità di sviluppo e applicazione, quella sui dispositivi elettrici flessibili è una delle ricerche di punta dei nostri laboratori dedicati alla transizione digitale delle imprese e all’industria 5.0, dove le ricerche all’avanguardia per i futuri processi industriali vengono condotte in modo integrato e interdisciplinare in diverse aree”.

Riferimenti bibliografici:

Nano Lett. 20244 Novembre, 2024
© 2024 American Chemical Society
DOI: https://doi.org/10.1021/acs.nanolett.4c04930

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa

L’RNA non codificante regola la trasmissione dei segnali nervosi, un nuovo studio chiarisce come – Una ricerca della Sapienza e dell’Istituto Italiano di Tecnologia ha descritto per la prima volta un meccanismo di controllo della morfologia dei neuroni e delle comunicazioni nervose che si basa sull’interazione tra un RNA non codificante e un RNA messaggero. Lo studio, pubblicato su Nucleic Acids Research, apre nuove interpretazioni sull’effettivo ruolo dei vari tipi di RNA nei processi biologici.

Le molecole di RNA che non producono proteine, dette non codificanti, sono state descritte nell’ultimo decennio di ricerche come fondamentali per la modulazione dell’espressione dell’informazione contenuta nei geni e dei processi che determinano lo sviluppo di tessuti e organi diversi, compreso il sistema nervoso. La loro peculiare caratteristica di agire sul singolo tessuto in maniera specifica e in momenti precisi dello sviluppo e del differenziamento cellulare rende questa classe di molecole estremamente interessante nell’ ambito della ricerca biomedica.

In un recente studio coordinato dalla Sapienza Università di Roma e dall’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT), e finanziato da un progetto ERC-Synergy, è stata scoperta una nuova molecola di RNA non codificante lungo (lncRNA), denominata CyCoNP, ed è stato descritto il meccanismo attraverso il quale regola la ramificazione dei prolungamenti neurali (neuriti) artefici della trasmissione e ricezione degli impulsi nervosi. I risultati del lavoro, pubblicati sulla rivista Nucleic Acids Research, confermano il ruolo degli RNA non codificanti nel controllo dell’omeostasi neuronale, ampliando così la lista di possibili bersagli e approcci terapeutici per il trattamento delle patologie neurologiche.

I ricercatori, coordinati da Irene Bozzoni del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza e del centro CLN2S di IIT, hanno caratterizzato il meccanismo molecolare e biologico attraverso cui questo lncRNA agisce. Nello specifico, è stato scoperto che CyCoNP è molto abbondante nei motoneuroni umani, in particolare nella fase precoce di differenziamento dove sono abbondanti cellule allo stadio di progenitori neurali. In queste cellule, il lncRNA regola in maniera puntuale i livelli di espressione di NCAM1, una proteina fondamentale per la funzionalità neuronale e specialmente per la regolazione della ramificazione dei neuriti. I ricercatori sono riusciti a dissezionare nel dettaglio il meccanismo d’azione di CyCoNP, che coinvolge l’interazione fisica tra il lncRNA, l’RNA messaggero che permette la produzione di NCAM1 e un microRNA che è in grado di bersagliare entrambe le molecole.

Il lavoro, che descrive un meccanismo di azione finora non ancora caratterizzato per gli RNA non codificanti, contribuisce in maniera significativa ad espandere le conoscenze sul funzionamento di questa eterogenea classe di molecole e di quanto queste possano avere un ruolo chiave in processi vitali delle nostre cellule, come la regolazione della trasmissione dei segnali nervosi.

Mantenere alta l’attenzione sullo studio delle molteplici modalità d’azione degli RNA non codificanti è cruciale per chiarire nuovi meccanismi attraverso i quali l’RNA funziona in specifici processi biologici.

Riferimenti bibliografici:

CyCoNP lncRNA establishes cis and trans RNA-RNA interactions to supervise neuron physiology – Desideri F, Grazzi A, Lisi M et al., Nucleic Acids Research 2024, DOI:10.1093/nar/gkae590

microscopio cellule invecchiamento RNA lungo non codificante
Un meccanismo di controllo della morfologia dei neuroni e delle comunicazioni nervose che si basa sull’interazione tra un RNA non codificante e un RNA messaggero. Foto PublicDomainPictures

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Individuato un nuovo meccanismo molecolare alla base della leucemia linfoblastica acuta, una leucemia infantile ad alta incidenza: l’interazione tra proteine recettoriali mediata da microRNA porta a compromettere funzioni immunitarie del timo

Una ricerca internazionale coordinata dalla Sapienza ha reso possibile importanti avanzamenti nella comprensione dei processi alla base dello sviluppo della leucemia linfoblastica acuta: un’interazione tra proteine recettoriali mediata da microRNA conduce alla compromissione delle funzioni immunitarie della ghiandola del timo. Questa scoperta potrebbe portare in futuro a nuove tecniche di monitoraggio e a nuove terapie.

La leucemia linfoblastica acuta (LLA) è un tumore ematologico aggressivo a rapida evoluzione che colpisce i linfociti T arrestandoli in una fase immatura. Tra le leucemie acute infantili, circa il 60% è rappresentato dalla LLA. Anomalie genetiche bloccano la differenziazione dei precursori delle cellule T nel timo, una ghiandola situata nel mediastino, davanti al cuore, e favoriscono una proliferazione cellulare anomala. Le cellule leucemiche in accumulo infiltrano poi il midollo osseo provocando la malattia.

Nel 60% dei pazienti con LLA-T si riscontrano mutazioni che portano ad un’iperattività del sistema di segnalazione Notch. La chemioterapia intensiva può curare molti dei pazienti, ma un’alta percentuale dei soggetti pediatrici e soprattutto adulti è poi soggetta a ricadute con prognosi sfavorevole. I recettori Notch possono infatti contribuire alla resistenza alla chemioterapia, rendendo necessaria la ricerca di nuovi approcci per contrastare il suo apporto alla progressione della LLA-T.

Un nuovo studio, condotto dal Dipartimento di Medicina Sperimentale della Sapienza in collaborazione con il Dipartimento di Medicina Molecolare, e frutto di una rete di collaborazioni con altri enti di ricerca, offre importanti avanzamenti per la comprensione del meccanismo tumorale. I risultati della ricerca, di recentissima pubblicazione sulla rivista Oncogene, hanno dimostrato come la proteina Notch moduli i meccanismi epigenetici di regolazione del recettore CXCR4 attraverso l’interazione con particolari microRNA. In questo modo contribuisce al blocco dello sviluppo e della differenziazione delle cellule T e sovverte completamente le funzioni del timo inducendone una precoce involuzione.

Il risultato è stato ottenuto attraverso un modello transgenico per il gene Notch3, che ha permesso di verificare molte delle caratteristiche molecolari e cellulari della LLA T, e grazie all’impiego di molteplici tecniche avanzate di citofluorimetria e di analisi molecolare. I dati epigenetici sono stati confermati mediante l’utilizzo di modelli di xenotrapianto ottenuti utilizzando campioni di pazienti affetti da LLA T trapiantati in modelli sperimentali murini.

“Il lavoro conta, non solo fra i primi nomi, nostri giovani ricercatori in Italia ed all’estero, che con professionalità hanno condotto esperimenti complessi e fondamentali per questo studio, dimostrando passione ed entusiasmo per la ricerca scientifica. La specifica competenza fornita da ogni singolo autore e dai vari centri di ricerca coinvolti ha permesso la realizzazione di questo progetto”, precisa Maria Pia Felli, autrice dell’articolo.

In particolare oltre alla Sapienza hanno partecipato la Weill Cornell Medicine di New York, l’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Roma, l’Azienda Ospedaliera dei Colli Monaldi di Napoli, l’Università di Roma Tor Vergata, l’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena di Roma, l’Università di Padova e quella di Perugia.

I risultati ottenuti avanzano la conoscenza scientifica su questo tipo di tumore e suggeriscono questi microRNA come nuovi addizionali biomarker molecolari per il monitoraggio e, nel futuro, per avanzate strategie terapeutiche contro questa patologia.

Riferimenti bibliografici:

Notch3-regulated microRNAs impair CXCR4-dependent maturation of thymocytes allowing maintenance and progression of T-ALL – Ilaria Sergio, Claudia Varricchio, Sandesh Kumar Patel, Martina Del Gaizo, Eleonora Russo, Andrea Orlando, Giovanna Peruzzi, Francesca Ferrandino, Georgia Tsaouli, Sonia Coni, Daniele Peluso, Zein Mersini Besharat, Federica Campolo, Mary Anna Venneri, Donatella Del Bufalo, Silvia Lai, Stefano Indraccolo, Sonia Minuzzo, Roberta La Starza, Giovanni Bernardini, Isabella Screpanti, Antonio Francesco Campese, e Maria Pia Felli

Oncogene – DOI: 10.1038/s41388-024-03079-0

microscopio Progeria trattamento leucemia acuta linfoblastica Philadelphia-positiva
. Foto di Konstantin Kolosov

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

SLA: nuove prospettive terapeutiche da una molecola attualmente impiegata nella sperimentazione clinica contro la leucemia

Un nuovo studio coordinato dalla Sapienza e dall’Istituto Italiano di Tecnologia di Roma e pubblicato su Nature Communications ha individuato in un farmaco impiegato in terapie sperimentali contro il cancro un possibile approccio terapeutico per il trattamento della Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA).

La Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA) è una malattia neurodegenerativa causata dalla progressiva perdita di motoneuroni, le cellule predisposte al controllo dei movimenti volontari dei muscoli.  A oggi non esiste una cura efficace per questa rara patologia.

In un recente studio coordinato dalla Sapienza Università di Roma e dall’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Roma, pubblicato sulla rivista Nature Communications e finanziato da un progetto ERC-Synergy, è stato scoperto che un farmaco già impiegato in terapie sperimentali contro il cancro potrebbe avere effetti benefici anche sulla SLA, aprendo nuove importanti prospettive terapeutiche.

I ricercatori, coordinati da Irene Bozzoni del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin della Sapienza e del centro CLNS2 di IIT di Roma, sono partiti dallo studio di specifiche condizioni che determinano la formazione nelle cellule di strutture chiamate granuli da stress. La funzione di tali strutture è quella di proteggere temporaneamente le molecole di RNA e di proteine fino alla risoluzione dello stato di stress. Circa il 10% dei casi totali di SLA sono causati da mutazioni in proteine che in molti casi sono componenti dei granuli da stress. Queste alterazioni provocano la produzione di proteine aberranti che trasformano i granuli in aggregati tossici per i motoneuroni. In particolare nella SLA, così come in altre malattie neurodegenerative, ciò che risulta alterato sono il numero, la composizione e le dinamiche di formazione e dissociazione di questi granuli.

Il gruppo di ricercatori ha scoperto che una specifica modifica chimica dell’RNA, nota come N6-metiladenosina (m6A), ha un ruolo cruciale nell’alterazione delle dinamiche di formazione e dissociazione dei granuli in forme particolarmente aggressive di SLA: la malattia è caratterizzata da livelli di m6A aumentati e il loro ripristino a livelli fisiologici è in grado di ristabilire le normali proprietà dei granuli da stress.

“Siamo riusciti a diminuire i livelli di m6A utilizzando una molecola (STM2457) attualmente impiegata nella sperimentazione clinica per la cura di tumori leucemici – spiega Irene Bozzoni – Questa scoperta apre alla possibilità di utilizzarla anche come nuovo approccio terapeutico per il trattamento della SLA”.

I risultati dello studio rappresentano un prezioso contributo per la comprensione dei meccanismi cellulari alla base della patologia e, soprattutto, individuano nelle modifiche dell’RNA promettenti target terapeutici per contrastare la SLA.

Riferimenti bibliografici:

M6A reduction relieves FUS-associated ALS granules – Di Timoteo et al.

Nature Communications – DOI: 10.1038/s41467-024-49416-5

microscopio cellule invecchiamento
Sclerosi Laterale Amiotrofica – SLA: nuove prospettive terapeutiche da una molecola attualmente impiegata nella sperimentazione clinica contro la leucemia. Foto PublicDomainPictures

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Le emozioni, non solo nel cuore ma anche nello stomaco

Una ricerca condotta da Sapienza, Istituto Italiano di Tecnologia e Fondazione Santa Lucia, esamina le influenze reciproche tra l’attività gastrointestinale e un range di emozioni generate attraverso la visione di filmati. Grazie a pillole ingeribili dotate di sensori, lo studio è stato in grado di dimostrare lo stretto rapporto tra stati d’animo percepiti e condizioni dello stomaco, con particolare riferimento al suo PH. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista internazionale eLife.

Che le emozioni forti siano in grado di farci battere il cuore più velocemente è cosa risaputa, ma quanto gli stati d’animo influiscano su altri organi o quale sia l’effetto di particolari condizioni fisiologiche sulle emozioni umane, non era stato ancora dimostrato.

Una nuova ricerca in uscita sue eLife, coordinata da Sapienza in collaborazione con l’IIT-Istituto Italiano di Tecnologia e Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma e sostenuta dal finanziamento europeo ERC Advanced Grant eHonesty, si è concentrata sull’apparato digerente e in particolare sullo stomaco. Attraverso l’uso di pillole ingeribili dotate di sensori è stato rilevato che il PH dello stomaco è fortemente legato alla percezione dei vari tipi di emozioni, aprendo la strada a future ricerche sul tema.

A ognuno dei 31 partecipanti, tutti uomini tra i 20 e i 30 anni (per ridurre la variabilità del campione), è stata fatta ingerire una capsula di dimensioni millimetriche dotata di sensori in grado di misurare PH, temperatura e pressione all’interno degli organi digerenti. L’utilizzo di questo tipo di tecnologia, sviluppata per la medicina gastrointestinale, è un’assoluta novità negli studi di tipo psicologico e si dimostra promettente per le future ricerche in tale ambito. Contemporaneamente i partecipanti sono stati monitorati anche all’esterno, attraverso la misurazione delle pulsazioni cardiache, dell’attività elettrica (e dunque nervosa) dello stomaco e osservando i battiti delle ciglia.

Successivamente sono stati mostrati loro cinque tipi di video in grado di scatenare emozioni diverse: paura, disgusto, felicità, tristezza e uno stato neutrale non specifico.

Da un questionario compilato dai volontari è emerso che gli effetti prodotti non si concentrano solo nel cuore o nei polmoni ma coinvolgono, già a un livello percepibile, direttamente lo stomaco, soprattutto nei casi di disgusto e paura.

Utilizzando i sensori delle pillole, è stato possibile acquisire in tempo reale i dati del PH. Ciò che i ricercatori hanno notato è che ai partecipanti con un PH più basso (e quindi lo stomaco più acido) si associavano valori più alti di disgusto e paura, mentre a quelli con un PH più alto, valori più alti di felicità. Questo succedeva soprattutto quando osservavano video disgustosi.  Tuttavia, è stato anche apprezzato come lo stomaco dei volontari fosse in generale più acido quando osservavano filmati disgustosi rispetto a quelli paurosi, felici e neutri e meno acido quando osservavano filmati felici.

Riguardo ai segnali elettrici dello stomaco rilevabili esternamente, non è stata individuata nessuna correlazione con l’emozione provata, a parte un incremento nella velocità del ciclo gastrico quando i partecipanti osservavano video felici.

Neanche la temperatura e la pressione misurate dalle pillole hanno fornito particolari indicazioni, ma sono state utili per chiarire la posizione del dispositivo all’interno dell’apparato digerente.

L’analisi del battito cardiaco ha mostrato invece una grande influenza delle sensazioni prodotte dai video e lo stesso vale per i battiti di ciglia, che diminuiscono per gli scenari sia positivi che negativi rispetto a quelli neutri, con l’eccezione dei filmati tristi. Questo rivela il legame dell’atto di sbattere le ciglia con l’attenzione, la necessità di rimanere vigili e l’acquisizione di informazioni.

Questa ricerca, rilevando la complessa rete di relazioni tra le funzioni gastriche e le emozioni, apre la strada a future indagini e approfondimenti sia su pazienti affetti da patologie gastrointestinali che hanno un’alterata fisiologia gastrica, sia su quelli affetti da disturbi depressivi e dello spettro autistico che mostrano invece alterazioni nella sfera emozionale. Anche l’innovativa tecnologia utilizzata, che impiega sensori inseriti in pillole ingeribili, può essere applicata in nuove ricerche sul rapporto tra gli organi interni e i vari stati d’animo.

 

Riferimenti bibliografici:

Ingestible pills reveal gastric correlates of emotions

Giuseppina Porciello, Alessandro Monti, Maria Serena Panasiti, Salvatore Maria Aglioti

eLife – doi: 10.7554/eLife.85567

https://elifesciences.org/articles/85567

Le emozioni, non solo nel cuore ma anche nello stomaco eLife
Le emozioni, non solo nel cuore ma anche nello stomaco: una nuova ricerca pubblicata sulla rivista internazionale eLife

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Un nuovo materiale sostenibile per il restauro delle barriere coralline

L’Università degli Studi di Milano-Bicocca e l’Istituto Italiano di Tecnologia, in collaborazione con l’Acquario di Genova, hanno sviluppato un nuovo materiale per restaurare le barriere coralline danneggiate dai cambiamenti climatici.

7 giugno 2024, Milano – I cambiamenti climatici stanno danneggiando le barriere coralline. In un video realizzato alle Maldive nell’aprile 2023, un gruppo di ricerca italiano mostra le proprietà di un nuovo materiale biodegradabile e indurente ideato per le operazioni sottomarine di recupero delle barriere.

Questo nuovo materiale è stato realizzato dall’Istituto Italiano di Tecnologia e l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, in collaborazione con l’Acquario di Genova, ed è stato descritto sulla rivista Advanced Sustainable Systems nel giugno 2024.

Il recupero attivo delle barriere coralline è un’operazione che consiste nel far crescere nuove colonie di corallo in ambienti protetti, di solito vivai sommersi chiamati “nurseries”, per poi trasferirli nuovamente nelle porzioni di barriera danneggiate. Per eseguire questo trapianto, vengono di norma utilizzati dei materiali che permettano l’adesione del corallo alle superfici sottomarine e, nello stesso tempo, garantiscano tempi di esecuzione ottimale. I prodotti attualmente in commercio derivano spesso dall’industria del petrolio e possono perciò risultare tossici per l’ambiente. Inoltre, il loro indurimento può richiedere tempi lunghi, da un’ora a un giorno intero, periodo nel quale il corallo deve mantenersi in posizione contro le correnti marine che potrebbero spostarlo e ridurre il successo del trapianto.

Il nuovo materiale è biodegradabile e non inquina perché composto da due componenti di origine vegetale. Una volta unite le due parti, il tempo di indurimento è di soli 20-25 minuti, caratteristica che permette di aumentare il successo del trapianto e accelerare il restauro delle barriere coralline.

Le capacità del materiale sono state verificate in esperimenti condotti all’Acquario di Genova e alle Maldive presso il MaRHE Center (Marine Research and Higher Education Center) – diretto dal prof. Paolo Galli –  dove, durante il periodo di osservazione, i coralli sono cresciuti senza che fosse rilevato alcun segnale di stress.

La ricerca del nuovo materiale, oltre che nell’importantissimo lavoro di coral restoration in natura, nasce anche dalla volontà delle strutture come l’Acquario di Genova di introdurre tecniche e procedure di mantenimento delle specie in ambiente controllato e utilizzate nei progetti di ricerca e conservazione che siano sempre più sostenibili e rispettose dell’ambiente.

Il materiale è oggetto di una domanda di brevetto depositata ed è stato sviluppato anche grazie a finanziamenti del progetto “Futuro Centro Nazionale per la Biodiversità” del PNRR.

Per approfondimenti, l’articolo online su Advanced Sustainable Systems.

Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca.

Classificare le nanoparticelle metalliche con l’intelligenza artificiale

Una ricerca del Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza ha messo a punto tecniche di intelligenza artificiale per distinguere facilmente le diverse strutture presenti in nanoparticelle di oro, argento e rame. Questo metodo migliorerà le applicazioni nell’ambito della medicina, dell’ottica e nei processi catalitici. I risultati sono pubblicati sulla rivista ACS Nano.

Classificare le nanoparticelle metalliche con l’intelligenza artificiale. Immagine di Gerd Altmann, licenza

Le nanoparticelle metalliche giocano un ruolo importante in diverse applicazioni tecnologiche, come l’ottica e i processi catalitici. Di fondamentale importanza per la loro funzionalità sono la forma e la struttura cristallina, caratteristiche che, a causa dell’elevata frazione di atomi di superficie, possono essere molto variabili e difficili da distinguere.

Uno studio pubblicato sulla rivista ACS Nano, coordinato da Alberto Giacomello e Antonio Tinti del Dipartimento di Ingegneria meccanica e aereospaziale della Sapienza, in collaborazione con l’Università di Genova, l’Università Politecnica delle Marche e l’Istituto Italiano di Tecnologia, propone una tecnica di intelligenza artificiale capace di suddividere e classificare le strutture delle nanoparticelle in maniera automatica in base alla loro somiglianza, discriminando con grande dettaglio affinità di forma delle strutture o presenza di particolari difetti cristallini.

Mediante l’utilizzo di reti neurali simili a quelle utilizzate nell’analisi delle immagini è stato possibile generare una mappa tridimensionale dei dati. In questo modo i ricercatori sono riusciti a distinguere facilmente le diverse strutture presenti in nanoparticelle d’oro, d’argento e di rame, con un livello di dettaglio senza precedenti. Inoltre, questo approccio ha consentito di seguire e comprendere i passaggi elementari di una transizione tra due specifiche strutture, aprendo la strada a nuove tecniche accelerate di simulazione.

“È stato prima di tutto necessario individuare una grandezza fisica capace di descrivere le differenze tra le varie strutture, la funzione di distribuzione radiale – spiega Giacomello – e successivamente dall’applicazione a quest’ultima di tecniche di intelligenza artificiale, nello specifico il machine learning, è stato possibile estrarre e analizzare con maggiore semplicità le informazioni contenute nella grandezza fisica di partenza. Inoltre abbiamo potuto contare su un database molto esteso di strutture proveniente da simulazioni di dinamica molecolare svolte in precedenza dal gruppo di ricerca”.

La ricerca è stata finanziata da Progetti di ricerca di rilevante interesse nazionale (Prin), bando 2017 “Understanding and Tuning Friction through nanOstructure Manipulation (UTFROM)”, coordinato da Riccardo Ferrando esperto di nanocluster metallici dell’Università di Genova mentre l’unità di ricerca della Sapienza è coordinata da Alberto Giacomello.

Riferimenti:

Charting Nanocluster Structures via Convolutional Neural Networks – Emanuele Telari, Antonio Tinti, Manoj Settem, Luca Maragliano, Riccardo Ferrando, e Alberto Giacomello – ACS Nano (2023). https://doi.org/10.1021/acsnano.3c05653

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Dalla curcuma una soluzione per salvare i coralli dai cambiamenti climatici

L’Istituto Italiano di Tecnologia – IIT e l’Università di Milano-Bicocca hanno dimostrato l’efficacia di una sostanza estratta dalla curcuma nella protezione dei coralli dai danni dei cambiamenti climatici. La molecola viene somministrata attraverso un biomateriale biodegradabile, sviluppato dagli stessi partner, e nei test svolti all’Acquario di Genova si è dimostrata efficace nel proteggere i coralli dallo sbiancamento.

Milano, 19 luglio 2023 – L’Istituto Italiano di Tecnologia – IIT e l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, in collaborazione con l’Acquario di Genova, hanno recentemente pubblicato su ACS Applied Materials and Interfaces, uno studio (“Biodegradable Zein-Based Biocomposite Films for Underwater Delivery of Curcumin Reduce Thermal Stress Effects in Corals”, DOI: 10.1021/acsami.3c01166) dove è stata dimostrata l’efficacia della curcumina, una sostanza antiossidante estratta dalla curcuma, nel ridurre lo sbiancamento dei coralli, fenomeno causato principalmente dai cambiamenti climatici. I due partner coinvolti hanno sviluppato un biomateriale biodegradabile per somministrare la molecola senza provocare danni all’ambiente marino circostante. I test eseguiti all’Acquario di Genova hanno dimostrato un’efficacia significativa nel prevenire lo sbiancamento dei coralli.

Scogliera corallina in fase di recupero nei pressi del MaRHE center, isola di Magoodhoo, Atollo di Faafu, Maldive. Crediti: Università Milano-Bicocca

Lo sbiancamento dei coralli è un fenomeno che, negli eventi estremi, determina la morte di questi organismi con conseguenze devastanti per le barriere coralline, queste ultime fondamentali per l’economia globale, la protezione delle coste dai disastri naturali e la biodiversità marina. La maggior parte dei coralli vive in simbiosi con alghe microscopiche, indispensabili per la loro sopravvivenza e responsabili dei loro colori brillanti. A causa dei cambiamenti climatici le temperature di mari e oceani sono in aumento, condizione che interrompe il rapporto tra questi due organismi. Quando ciò accade, il corallo, ormai bianco per la perdita delle alghe, rischia letteralmente di morire di fame.

Negli ultimi anni, a seguito dei cambiamenti climatici, questa condizione ha colpito la maggior parte delle barriere scogliere coralline più importanti del mondo, inclusa la Grande Barriera Corallina australiana. Tuttavia, a oggi non esistono interventi di mitigazione efficaci per prevenire lo sbiancamento dei coralli senza mettere in serio pericolo l’integrità di questi habitat e l’eccezionale biodiversità associata.

curcuma coralli
Corallo Stylophora pistillata ricoperto del biomateriale durante le prove di stress termico.
Crediti: Acquario di Genova

I ricercatori e le ricercatrici dell’Istituto Italiano di Tecnologia e dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, in collaborazione con l’Acquario di Genova, hanno dimostrato l’efficacia di una molecola, la curcumina, nel bloccare lo sbiancamento dei coralli provocato dai cambiamenti climatici. La curcumina viene somministrata in maniera controllata sul corallo applicando un biomateriale a base di zeina, una proteina derivata dal mais, che è stato sviluppato dagli stessi partner per essere sicuro per l’ambiente.

Durante i test, svolti nell’Acquario di Genova, si sono simulate le condizioni di surriscaldamento dei mari tropicali alzando la temperatura dell’acqua fino a 33°C. In questa condizione tutti i coralli non trattati sono risultati colpiti dal fenomeno dello sbiancamento come succederebbe in natura mentre, al contrario, tutti gli esemplari trattati con la curcumina non hanno mostrato segni di tale fenomeno, risultati che rendono questo metodo efficace nel ridurre la suscettibilità dei coralli allo stress termico. Per questo studio è stata utilizzata una specie di corallo (Stylophora pistillata) tipica dell’oceano Indiano tropicale e inserita nella Lista rossa IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura) tra le specie minacciate dal rischio di estinzione.

Simone Montano
Simone Montano. Crediti: Università Milano-Bicocca

«Questa tecnologia è oggetto di una domanda di brevetto depositata, infatti i prossimi passi di questa ricerca si focalizzeranno sull’applicazione in natura e su larga scala – afferma il primo autore dello studio Marco Contardi, ricercatore affiliato del gruppo Smart Materials dell’Istituto Italiano di Tecnologia e ricercatore del DISAT (Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra) dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca – allo stesso tempo, esamineremo l’utilizzo di altre sostanze antiossidanti di origine naturale per bloccare il processo di sbiancamento e prevenire così la distruzione delle barriere coralline».

Marco Contardi, Foto di D. Farina.Crediti: Istituto Italiano di Tecnologia - © IIT, all rights reserved
Marco Contardi. Foto di D. Farina. Crediti: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved

«L’utilizzo di nuovi materiali biodegradabili e biocompatibili capaci di rilasciare sostanze naturali in grado di ridurre lo sbiancamento dei coralli rappresenta una novità assoluta – dichiara Simone Montano ricercatore del DISAT e vice direttore del MaRHE Center (Marine Research and High Education Center) dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca – credo fortemente che questo approccio innovativo rappresenterà una trasformazione significativa nello sviluppo di strategie per il recupero degli ecosistemi marini».

Testo e foto dall’Ufficio stampa Università di Milano-Bicocca