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Cancro al colon-retto: la scoperta che facilita l’inibizione del gene “incurabile”

 

Pubblicato sulla rivista “Cancer Discovery” lo studio che suggerisce come aggredire clinicamente i tumori con la mutazione G12C del gene KRAS utilizzando farmaci contro il Recettore del Fattore di Crescita Epidermico 

cancro colon-retto gene
Immagine di Elionas2

È stato pubblicato, sulla rivista scientifica Cancer Discovery, lo studio dal titolo “EGFR blockade reverts resistance to KRASG12C inhibition in colorectal cancer”, condotto da un team internazionale di esperti guidato da Alberto Bardelli, direttore del Laboratorio di Oncologia Molecolare all’IRCCS Candiolo e docente del Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino e coordinato da Sandra Misale, dottorata dell’Università di Torino, e attualmente ricercatrice associata al Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York. Il team ha esaminato su modelli cellulari gli effetti di AMG510, un farmaco sperimentale contro il cancro che agisce da inibitore del gene KRAS G12C.

KRAS è uno dei geni mutati più comuni nei tumori umani, come il cancro ai polmoni, al colon-retto e al pancreas. Questo gene è stato considerato incurabile per decenni, fino al recente sviluppo di una nuova classe di inibitori covalenti, tra cui il promettente AMG510, capaci di inibire una delle versioni mutanti del KRAS, la G12C. Tale mutazione è presente in una frazione di pazienti affetti da cancro ai polmoni e al colon-retto. L’utilizzo dell’inibitore AMG510 del gene KRAS G12C, seppur in una fase ancora sperimentale, ha mostrato risultati promettenti sui pazienti colpiti da cancro ai polmoni. Tuttavia, per i pazienti affetti da cancro al colon-retto i risultati sono stati meno positivi.

Lo studio, che ha come primi autori il dottorando dell’Università di Torino Vito Amodio e la ricercatrice Pamela Arcella, ha provato a spiegare i meccanismi di resistenza agli inibitori del gene KRAS G12C nel cancro al colon-retto. Usando modelli in vitro preclinici, hanno dimostrato che, nonostante la presenza della stessa mutazione del gene KRAS, le linee cellulari del cancro ai polmoni e del cancro al colon-retto rispondevano in modo differente all’inibizione del gene KRAS G12C. Le cellule del cancro ai polmoni subivano un’inibizione forte e duratura, mentre la crescita delle cellule del cancro al colon-retto veniva ostacolata solo marginalmente e per un breve periodo di tempo.

“In questo lavoro, abbiamo cercato di comprendere i meccanismi alla base delle differenze di lignaggio nelle cellule del cancro ai polmoni e del cancro al colon-retto”, dichiara Sandra Misale. “I dati ci dicono che, nonostante ospitino la stessa mutazione, ci sono differenze intrinseche nel manifestarsi tra i due tipi di cancro, che si traduce in sensibilità diverse dell’inibizione del gene KRAS G12C. Queste scoperte hanno una rilevanza immediata per i pazienti affetti da cancro al colon-retto con un tumore causato dalla mutazione del gene KRAS G12C”.

 Alla base di questa differenza ci sono vari livelli di attivatori del gene KRAS nei due diversi tipi di tumore. I recettori presenti sulla superficie delle cellule, in particolare i recettori del fattore di crescita epidermico, sono proteine coinvolte nella fisiologica attivazione del gene KRAS nelle cellule. Questo studio ha dimostrato che, nel cancro al colon-retto, tale meccanismo di attivazione è responsabile della limitata risposta all’inibizione di KRAS G12C.

Attaccando i recettori del fattore di crescita epidermico con medicinali mirati, i ricercatori hanno dimostrato che i modelli di cancro al colon-retto trattati con inibitori del gene KRAS G12C possono bloccare la proliferazione e indurre la morte delle cellule tumorali. Questi medicinali mirati – anticorpi monoclonali – sono già approvati per il trattamento di altri sottotipi di cancro al colon-retto. Il gruppo di ricerca ha testato questa combinazione farmacologica in modelli preclinici derivati da pazienti affetti da cancro al colon-retto, fra cui organoidi tumorali, riscontrando una riduzione della crescita del cancro in alcun i casi completa regressione del tumore.​

Nel futuro, grazie a questo studio sperimentale, che necessita di conferme sull’uomo, si potrebbero aprire nuove prospettive per l’approccio ai malati con tumore del colon-retto.

Testo dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino

COVID-19: dall’analisi di 59 genomi emerge la netta prevalenza in Italia di un unico ceppo

Un nuovo studio del team di ricercatori del dipartimento di Scienze biomediche della Statale evidenzia la prevalenza del ceppo virale “Europeo” B1.
COVID COVID-19 ceppo Italia coronavirus
COVID-19: dall’analisi di 59 genomi emerge la netta prevalenza in Italia di un unico ceppo. Foto di Tumisu

Nuovo studio sul COVID-19 dell’equipe guidata dalla ricercatrice Alessia Lai e dai docenti dell’Università Statale di Milano, Massimo Galli, Claudia Balotta e Gianguglielmo Zehender del dipartimento di Scienze Biomediche e Cliniche “Luigi Sacco” e del Centro di Ricerca Coordinata Epidemiologia e Sorveglianza Molecolare delle Infezioni dell’Università Statale di Milano (EpiSoMI). Dalla caratterizzazione di 59 nuovi genomi virali italiani, emerge la schiacciante prevalenza del ceppo virale “Europeo” B1 nella nostra epidemia (arrivato in Germania da Shanghai). Un solo genoma deriva invece dalla linea evolutiva di diretta importazione da Wuhan.
I nuovi dati incrementano significativamente il numero delle sequenze ottenute in Italia finora.

La nuova ricerca, frutto di un’estesa collaborazione tra il Laboratorio di Malattie Infettive dell’Università Statale di Milano e più di 10 tra Centri Clinici e Università del Centro e Nord Italia (tra cui Bergamo, Brescia, Cremona, Milano, Padova, Ancona, Siena) definisce con un numero maggiore di sequenze, su un’area geografica non limitata alla Lombardia e una temporizzazione più ampia, la dinamica evolutiva e le caratteristiche epidemiologico molecolari del virus SARS-CoV-2 in Italia.

Nel corso dello studio è stato possibile effettuare la caratterizzazione molecolare di 59 nuovi genomi virali ottenuti da pazienti Italiani dai primi giorni dalla manifestazione dell’epidemia fino alla seconda metà di aprile, quando la curva epidemica ha iniziato a declinare. I nuovi genomi virali studiati, che vengono messi a disposizione della comunità scientifica nelle banche dati pubbliche, incrementano significativamente il numero delle sequenze ottenute in Italia da infezioni autoctone disponibili ad oggi.

Dall’indagine emerge la netta prevalenza in Italia di un singolo lignaggio virale (e di suoi lignaggi discendenti) ascrivibile, secondo uno dei sistemi di classificazione più largamente impiegati, al lignaggio B.1 e correlabile al primo cluster Europeo, che ha avuto luogo in Germania attorno al 20 gennaio ed è stato causato dalla documentata importazione di un ceppo circolante a Shanghai.

Un po’ misteriosamente, un solo isolato, ottenuto da un paziente italiano residente in Veneto, che non ha riferito viaggi recenti o contatti con persone provenienti dalla Cinasi è rivelato appartenere invece al lignaggio ancestrale B, simile quindi all’isolato giunto in Italia alla fine di gennaio per diretta importazione dalla città di Wuhan con i due turisti cinesi poi assistiti allo Spallanzani.

La divergenza tra gli isolati B.1 è risultata relativamente modesta, con differenza nucleotidica media di soli 6 nucleotidi, con alcune eccezioni.

Tutti i genomi ‘italiani’ mostrano la mutazione 614G nella proteina Spike, che caratterizza ormai la gran parte dei genomi virali isolati in Europa e al mondo, non solo quelli del ceppo B1 ma anche l’unico appartenente al ceppo B. La mutazione di Spike del lignaggio B era peraltro stata rintracciata in alcuni isolati in Thailandia, Turchia, Romania, Olanda ed Israele.

L’approccio filodinamico, che attraverso l’analisi della forma dell’albero filogenetico consente di stimare il tasso di crescita esponenziale o il numero riproduttivo effettivo (Re), ha mostrato che il virus era già presente in Italia i primi di febbraio, anche se la crescita esponenziale si è verificata tra la fine di febbraio e la metà di marzo, quando l’Re è passato da un valore iniziale prossimo a 1 a più di 2.3 e il tempo di raddoppiamento dell’epidemia si è ridotto da 5 a 3 giorni.

Solo nella seconda metà di marzo, l’analisi ha potuto evidenziare una lieve flessione dei valori di Re, probabilmente in relazione alla adozione delle misure di distanziamento sociale.

Lo studio dei ricercatori della Statale estende le osservazioni preliminari attuate nelle primissime fasi dell’epidemia ad un numero di sequenze e ad un periodo più ampio e permette di ipotizzare la diffusione largamente prevalente in Italia di un ceppo di SARS-CoV-2 originato verosimilmente da un’unica fonte iniziale di contagio e la sua successiva ulteriore differenziazione in sotto-lignaggi attualmente largamente diffusi in tutto il mondo. Il ruolo, anche se probabilmente minoritario o marginale, sostenuto da ceppi diversi dal prevalente merita tuttavia una più approfondita indagine su un più ampio campione, anche al fine di comprenderne l’origine e la reale diffusione in Italia.

 

 Testo sulla prevalenza in Italia del ceppo “Europeo” di COVID-19 dall’Università Statale di Milano

Mutazioni BRCA: un rischio anche per gli uomini. Caratterizzazione dello spettro dei tumori negli uomini con mutazioni nei geni BRCA1 e BRCA2

Foto di Ryan McGuire

Un nuovo studio internazionale coordinato dal Dipartimento di Medicina molecolare della Sapienza e sostenuto anche da Fondazione AIRC, ha fatto luce sullo spettro dei tumori che insorgono negli uomini con mutazioni nei geni BRCA1 e BRCA2. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista JAMA Oncology

Le mutazioni nei geni BRCA1 e BRCA2 rappresentano un rilevante esempio di medicina di genere, pur essendo ereditate in ugual misura dai due sessi. Il loro ruolo nella suscettibilità alle forme ereditarie di neoplasie prettamente femminili, come tumori della mammella e dell’ovaio, è ben conosciuto ed è entrato di routine nella pratica clinica; al contrario, l’impatto sul rischio oncologico delle stesse mutazioni nei soggetti di sesso maschile è meno noto.

Uno studio coordinato da Laura Ottini del Dipartimento di Medicina molecolare della Sapienza, in collaborazione con il consorzio internazionale CIMBA (Consortium for Investigators of Modifiers of BRCA1/2), ha evidenziato importanti e peculiari caratteristiche nello spettro dei tumori che insorgono negli uomini con queste mutazioni. I risultati della ricerca sostenuta anche da Fondazione AIRC sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista JAMA Oncology.

“Grazie alla collaborazione di oltre 50 gruppi di ricerca in tutto il mondo, abbiamo ottenuto e analizzato i dati clinici di circa 7000 uomini portatori di mutazioni BRCA1 e BRCA2” – spiega Valentina Silvestri del Dipartimento di Medicina molecolare, responsabile dell’analisi dei dati. “Mentre nelle donne è noto che i due geni BRCA hanno un impatto diverso sul rischio oncologico, poco si sapeva su eventuali analoghe differenze negli uomini. Lo studio ci ha permesso di confrontare le caratteristiche cliniche degli uomini con mutazioni di BRCA1 con quelle degli uomini con mutazioni di BRCA2 in un’ampia casistica, a oggi la più numerosa in letteratura, in modo da mettere in luce eventuali differenze”.

 I risultati mostrano che, a differenza di quanto accade nelle donne, dove è BRCA1 a conferire un maggior rischio, gli uomini con mutazioni di BRCA2 hanno una probabilità circa tre volte maggiore di avere un tumore rispetto a quelli con mutazioni di BRCA1. In particolare, i tumori alla mammella, alla prostata e al pancreas sono significativamente più frequenti negli uomini con mutazioni di BRCA2 rispetto a BRCA1, come pure più comuni in questo gruppo sono più neoplasie nel corso della vita e un’età più giovane di insorgenza della malattia. Di contro, lo spettro di tumori negli uomini con mutazioni di BRCA1 è risultato più eterogeneo, con una maggiore frequenza di cancro al colon.

“Per migliorare l’efficacia dei programmi di screening e sorveglianza oncologica negli uomini con mutazioni BRCA si dovranno prendere in considerazione queste differenze” – afferma Laura Ottini. “In generale, i risultati di questo studio potranno aiutare gli oncologi a sensibilizzare gli uomini con mutazioni BRCA nella percezione del loro rischio oncologico personale, e non più solo delle loro familiari di sesso femminile. Inoltre, questi dati contribuiranno a orientare i prossimi studi, su cui stiamo già lavorando, al fine di sviluppare linee guida sempre più personalizzate e specifiche per genere, in modo da garantire una migliore gestione clinica a tutti i pazienti”.

Riferimenti:
Characterization of the cancer spectrum in men with germline BRCA1 and BRCA2 pathogenic variants: Results from the Consortium of Investigators of Modifiers of BRCA1/2 (CIMBA) – Silvestri V, Leslie G, Barnes DR, … Ottini L. – JAMA Oncology (2020) DOI 10.1001/jamaoncol.2020.2134

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Dalla mula Tuona e dall’asino Lampo è nato Quarantena, un caso rarissimo, scienziati dell’Ateneo di Perugia al lavoro per dare una spiegazione dell’evento

Quarantena

Una mula fecondata da un asino Amiatino ha dato alla luce un puledro maschio nella zona rurale di Tuscania in provincia di Viterbo: i ricercatori Stefano Capomaccio, genetista del Centro di Ricerca del Cavallo Sportivo, e Maurizio Monaci, ginecologo del Dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Perugia, hanno avviato uno studio per comprendere come sia stato possibile.

 “Si tratta infatti di un fenomeno molto raro – sottolinea il professor Monaci – : il mulo è la prole ibrida tra una cavalla e un asino e dovrebbe essere sterile, ma non in questo caso”.

 Il lieto e straordinario evento è avvenuto lo scorso 17 aprile, durante l’emergenza Coronavirus, a Tuscania, nella Fattoria di Redelmo e Luca Mattioli, appassionati allevatori di cavalli e muli da più generazioni.

Redelmo Mattioli e Quarantena

La mula Tuona e il suo puledro Quarantena (è nato durante l’emergenza COVID-19, da qui la scelta del nome) insieme al padre Lampo sono diventati un’attrazione locale e sono stati tanti i curiosi che hanno voluto rendere omaggio alla nascita della rara creatura.

 “Un cavallo ha 64 cromosomi e un asino ne ha 62, quindi un mulo rimane con 63, un numero irregolare che non può essere diviso in coppie: ciò dovrebbe impedire a un mulo di riprodursi  – aggiunge il professor Capomaccio -.  Stiamo dunque indagando, con tecnologie all’avanguardia, le cause della inusuale gravidanza a livello molecolare. Forse la scienza riuscirà a spiegarci il perché Quarantena somiglia un po’ a un asino e un po’ a un mulo, ma non esattamente ad uno di essi”.

 “L’evento è così raro che i latini avevano coniato un proverbio Cum mula peperit, che significa appunto quando una mula potrà partorire – ha spiegato dottoressa Alessia Ciaramelli, ippiatra e specialista in neonatologia che ha assistito madre e figlio nelle fasi del post partum – . Quando accadde in Marocco, le popolazioni locali temevano che segnasse l’inizio della fine del mondo o, come in un villaggio dell’Albania, che l’evento fosse la progenie del diavolo”.

mula asino
Tuona e Quarantena

La nascita è stata dunque un piccolo ‘miracolo’, un fenomeno molto raro notato per la prima volta dal filosofo e scienziato Aristotele.

Ci sono stati pochissimi casi comprovati di un mulo che ha partorito negli ultimi quaranta anni: in Marocco nel 1984 e nel 2002, in Cina nel 1988, in Albania nel 1994 e in Colorado nel 2007. Dal 1527, per nostra conoscenza, ci sono stati solo un totale di 60 casi di mule che hanno partorito.

mula asino
Quarantena

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Perugia

Redelmo Mattioli e Quarantena

Ibridazione lupo-cane in Europa: un rischio per la biodiversità

 

Un nuovo studio internazionale richiama l’attenzione dei paesi europei sul rischio di perdita dell’identità genetica delle popolazioni di lupo per effetto dell’ibridazione con il cane e promuove l’adozione di misure adeguate per la corretta gestione del fenomeno. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Biological Conservation

ibridazione lupo cane
Photo credits: L. Boitani – “Gli ibridi tra lupo e cane sono il prodotto dell’ibridazione antropogenica, un fenomeno che interessa anche altre specie animali e vegetali e causa rilevante della perdita di biodiversità”

Il cane è un animale domestico associato all’uomo ma in condizioni ecologiche degradate può accoppiarsi con il lupo e produrre ibridi fertili. Questo fenomeno, se diffuso e con frequenza elevata, potrebbe portare alla perdita dell’identità genetica delle popolazioni di lupo, rischiando di condizionare l’ecologia, l’aspetto esteriore e il comportamento della specie, nonché i valori socioculturali e di conservazione a essa associati.

Grazie agli sforzi di conservazione che si sono susseguiti negli ultimi decenni, come la protezione legale e la tutela degli habitat naturali, il lupo ha spontaneamente ricolonizzato molte aree in Europa da cui era scomparso all’inizio del secolo scorso. Tale espansione però sta portando il lupo a stabilirsi in aree rurali in cui le probabilità d’interazione con i cani sono più elevate. Allo stesso tempo, il bracconaggio e il controllo numerico delle popolazioni di lupo, nei paesi dove consentito, possono portare alla dissoluzione sociale dei branchi, aumentando la probabilità di accoppiamenti misti.

La ricerca, guidata da Valeria Salvatori dell’Istituto di Ecologia applicata di Roma e supervisionata da Paolo Ciucci del Dipartimento di Biologia e biotecnologie della Sapienza, ha coinvolto anche diversi esperti internazionali che hanno documentato, nei paesi di propria competenza, l’eventuale presenza di ibridi e le risposte gestionali attuate. Lo studio, pubblicato sulla rivista Biological Conservation, ha evidenziato che ibridi tra lupo e cane sono presenti in tutte le popolazioni lupine d’Europa e che molti paesi, compresa l’Italia, non stanno intervenendo per monitorare né contrastare il fenomeno, come invece prescritto da trattati legalmente vincolanti a livello internazionale, come la Direttiva Habitats e la Convenzione di Berna.

Nella maggior parte dei paesi presi in esame, gli ibridi rappresentano ancora una piccola porzione della popolazione di lupo e ciò rende possibile programmare e realizzare interventi efficaci di prevenzione e controllo. Ciò che la ricerca ha però messo in luce è la mancanza di protocolli o standard operativi di riferimento a livello internazionale, che sono invece necessari per indirizzare gli interventi.

Dallo studio sono emersi ulteriori aspetti che destano preoccupazione negli esperti. In primo luogo, la mancanza di un monitoraggio sistematico dell’ibridazione in molti paesi europei, Italia inclusa, rende difficile la rilevazione dei casi e gli eventuali interventi per evitarne la diffusione su ampia scala.

In secondo luogo, la mancanza di tecniche di analisi confrontabili tra laboratori per identificare geneticamente gli ibridi fa sì che, ad oggi, lo stesso individuo potrebbe essere riconosciuto come ibrido o come lupo a seconda del laboratorio in cui vengono svolte le analisi sui campioni biologici. Questa eterogeneità non facilita un’adeguata analisi e mitigazione del fenomeno, sia a livello nazionale che comunitario.

“Gli ibridi tra lupo e cane – spiega Paolo Ciucci – sono fertili e a loro volta possono reincrociarsi con i lupi, diffondendo, con il progredire delle generazioni di reincrocio, varianti genetiche tipiche del cane all’interno del genoma lupino. Questo pone la questione di come stabilire una soglia oltre la quale gli ibridi non sono più da considerare come tali. In questi termini, non esiste ad oggi una definizione di ibrido che sia stata accettata a livello internazionale ed è questa la cosa più urgente da cui partire per poter dare risposte concrete sul fronte gestionale”.

In conclusione, gli autori della ricerca suggeriscono di includere nei trattati internazionali indicazioni più chiare sulla gestione degli ibridi e dei cani vaganti, evidenziando che gli ibridi tra lupo e cane vanno comunque protetti per legge e la loro gestione affidata alle sole autorità competenti: il fine è di evitare che avvengano casi di bracconaggio sul lupo, camuffati da interventi gestionali sulla base dell’incerta identificazione di individui ritenuti ibridi.

Riferimenti:

 

European agreements for nature conservation need to explicitly address wolf-dog hybridization – Valeria Salvatori, Valerio Donfrancesco, Arie Trouwborst, Luigi Boitani, John D.C.Linnell, Francisco Alvares, Mikael Åkesson, Vaidas Balysh, Juan Carlos Blanco, Silviu Chiriac, Dusko Cirovic, Claudio Groff, Murielle Guinot Ghestem, Djuro Huber, Ilpo Kojola, Josip Kusak, Miroslav Kutal, Yorgos Iliopulos…Paolo Ciucci – Biological Conservation (2020) https://doi.org/10.1016/j.biocon.2020.108525

 

Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Il topolino domestico delle Isole Eolie: uno straordinario modello evolutivo risultato di una amicizia millenaria con l’uomo 

Lo studio firmato Sapienza identifica nel patrimonio genetico del piccolo animale il segreto per la comprensione degli intricati meccanismi legati alla comparsa di nuove specie I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Molecular Biology and Evolution

topolino domestico delle Isole Eolie
Vista di Vulcano dall’osservatorio di Lipari. Foto Flickr di Andrea Pacelli, CC BY-SA 2.0

Secondo il calendario cinese, il 2020 è l’anno del Topo e la rivista Molecular Biology and Evolution ha voluto celebrare questo avvenimento dedicando una particolare attenzione scientifica agli studi sulla genetica evolutiva di ratti e topi.

Fra questi, è stato selezionato e pubblicato il lavoro del gruppo di ricerca coordinato da Riccardo Castiglia del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, riguardante l’evoluzione in Mus domesticus, anche detto topolino delle case o topo domestico, nell’arcipelago delle Isole Eolie (Sicilia).

Lo studio, per mezzo di tecniche di sequenziamento genetico di ultima generazione (Next Generation Sequencing, NGS), ha analizzato da un nuovo punto di vista la straordinaria diversità cromosomica delle popolazioni del topolino delle case che vivono nell’arcipelago. La particolarità genetica di questo animale è il risultato di una millenaria convivenza con l’uomo che avrebbe avuto quindi un ruolo determinate nel suo processo evolutivo.

Il topolino domestico ha origine nel corso del Neolitico in Medio Oriente, come commensale dell’uomo che, a quel tempo, iniziava a vivere in comunità stanziali. Da lì, insieme al suo compagno di viaggio si è spostato arrivando nel Mediterraneo centrale circa 3.000 anni fa, durante l’Età del Ferro. Le Isole Eolie rappresentavano in quel periodo storico un crocevia di passaggio delle navi mercantili, una delle principali vie commerciali dell’ossidiana, il prezioso vetro nero vulcanico.

“Le isole – commenta Emanuela Solano, autrice dello studio – sono una fabbrica di variabilità genetica e rappresentano un vero paradiso per il biologo evoluzionista. Grazie alla collaborazione con l’Università di Konstanz, nel nostro lavoro abbiamo affiancato per la prima volta all’analisi dell’evoluzione cromosomica in Mus domesticus, che è il nostro ambito di ricerca da svariati anni, un approccio genome wide, basato sull’indagine dell’intero genoma”.

Così i ricercatori hanno osservato come il Mus domesticus abbia sviluppato, nel tempo e in molte delle aree che ha “colonizzato”, diverse mutazioni cromosomiche (dette traslocazioni Robertsoniane) da cui sono derivate le cosiddette razze cromosomiche, ovvero numerose popolazioni con numero cromosomico variabile. Nello specifico è stato evidenziato che tale diversità cromosomica si è originata all’interno dell’arcipelago e non deriva da colonizzazioni multiple da aree limitrofe, come invece si riteneva in precedenza.

Inoltre, sono stati dimostrati complessi meccanismi di ibridazione che hanno “rimescolato” le razze cromosomiche presenti sulle diverse isole per arrivare a nuove combinazioni cromosomiche.

“La presenza di razze cromosomiche – aggiunge Solano – rende il topolino un modello per gli studi volti a comprendere i meccanismi legati all’origine di nuove specie (la speciazione) e il ruolo delle mutazioni cromosomiche nella fertilità degli ibridi”.

“La risoluzione di questo complesso modello di evoluzione cromosomica – conclude Riccardo Castiglia – ha dimostrato che il topolino ha grandi “capacità evolutive” e che nella sua veste selvatica può rappresentare un occhio sull’evoluzione in tempi brevi, evidenziando, ogni volta che si va a fondo su questo argomento, aspetti sorprendenti. Rappresenta, quindi, un validissimo strumento per la comprensione degli intricati meccanismi che portano alla comparsa di nuove specie rappresentando un proxy per lo studio della biodiversità del pianeta”.

Riferimenti:

Reconstructing the evolutionary history of chromosomal races on islands: a genome-wide analysis of natural house mouse populations – Paolo Franchini,  Andreas F Kautt,  Alexander Nater,  Gloria Antonini,  Riccardo Castiglia, Axel Meyer,  Emanuela Solano – Molecular Biology and Evolution https://doi.org/10.1093/molbev/msaa118

 

Testo sul topolino domestico delle Isole Eolie (Sicilia) dal Settore Ufficio stampa e comunicazione dell’Università Sapienza di Roma

DMD: cellule muscolari e regolazione della formazione adiposa

Su “Cell Reports”, un lavoro delle Università di Leuven e Statale di Milano fa luce sui meccanismi di rigenerazione dei muscoli distrofici.
DMD cellule dei muscoli muscolari
Un ricercatore al lavoro
Uno studio di un gruppo di ricercatori dell’Università di Leuven, guidati dal professore Maurilio Sampolesi, e Università degli Studi di Milano e Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, con il team di Yvan Torrente, docente e direttore del Laboratorio di Cellule Staminali del Centro Dino Ferrari, ha evidenziato una popolazione cellulare del muscolo scheletrico sano in grado di inibire la formazione di grasso e la sua quasi totale assenza in muscoli distrofici. Lo studio, recentemente pubblicato su Cell Reports  offre un importante contributo per chiarire i meccanismi e il ruolo delle cellule staminali muscolari, le cui proprietà rigenerative sono note, nella sostituzione adiposa dei muscoli distrofici.

La fibrosi e la sostituzione del grasso nel muscolo scheletrico sono, infatti, tra le principali cause della perdita di mobilità dei pazienti affetti da distrofia muscolare. La distrofia muscolare di Duchenne, o DMD, è la più grave tra le distrofie muscolari causata da mutazioni del gene della distrofina ed è caratterizzata da una degenerazione progressiva ed irreversibile del tessuto muscolare scheletrico, compresi i muscoli respiratori ed il cuore, per la quale non esiste ancora alcuna cura. Il tessuto muscolare degenerato viene sostituito da tessuto fibrotico e adiposo con conseguente debolezza muscolare che porta a problemi prima nella deambulazione che progrediscono fino alla perdita dell’autonomia. Diversi studi hanno messo in evidenza le proprietà rigenerative delle cellule staminali muscolari. Tuttavia, il ruolo di queste cellule nella sostituzione adiposa dei muscoli distrofici rimane ancora da chiarire; aspetto su cui ha indagato lo studio pubblicato su Cell Reports.

“In questo lavoro – spiega Yvan Torrente –, è stato sequenziato l’RNA delle singole cellule al fine di dirimere eventuali differenze tra le popolazioni di cellule interstiziali isolate da muscoli sani e distrofici. I risultati ottenuti hanno permesso di identificare delle cellule in grado di regolare la formazione di grasso nel muscolo scheletrico, migliorando la nostra conoscenza dell’eziopatogenesi della sostituzione adiposa presente nei muscoli distrofici ed aprendo la strada a nuovi trattamenti in grado di contrastare la degenerazione in pazienti con distrofia muscolare”.

Foto e testo sulle cellule dei muscoli e regolazione della formazione adiposa nella DMD dall’Università Statale di Milano

Uno studio della Sapienza in collaborazione con l’Istituto Italiano di Tecnologia fornisce nuove informazioni sulla parte meno conosciuta del nostro corredo genetico mettendo sotto i riflettori il meccanismo di azione di una molecola di RNA non codificante sulla formazione dei tessuti muscolari. L’articolo è stato pubblicato sulla rivista EMBO Reports, che gli ha dedicato una creativa copertina per il numero di giugno.

Il nostro genoma può essere paragonato a un “manuale di istruzioni” che regola lo sviluppo e il funzionamento del nostro organismo. Per molti anni la comunità scientifica non ha approfondito quella parte consistente del suo contenuto che non essendo destinata alla produzione di proteine, era ritenuta meno importante. Per tale ragione, le informazioni presenti al suo interno, ovvero il ruolo funzionale di questi elementi, non codificanti”, è rimasto a lungo sconosciuto.

Nell’ambito della cosiddetta “materia oscura” del genoma, ci sono migliaia di sequenze di RNA non codificanti (ncRNA), che si sono rivelate invece centrali nel controllo di tutti quei processi che sottintendono al corretto differenziamento di cellule e tessuti del nostro organismo, e che, se alterate, possono causare numerose malattie. La loro funzione si esplica sia nel nucleo che nel citoplasma dove regolano rispettivamente la produzione degli RNA messaggeri (mRNA) e il successivo processo di traduzione in proteine.

Un team di ricercatori del Dipartimento di Biologia e biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza e dei centri CLNS e CHT dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT), ha scoperto in un RNA non codificante, lnc-SMaRT, un interessante meccanismo d’azione attraverso il quale la molecola riesce a controllare lo sviluppo delle cellule muscolari.

Il nuovo studio ha svelato come lnc-SMaRT sia capace di regolare negativamente la traduzione di un RNA messaggero, MLX-g, che ricopre un ruolo fondamentale nella formazione dei tessuti muscolari. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista EMBO Reports, che ha dedicato allo studio la copertina del numero di giugno.

“Questo RNA – spiega Irene Bozzoni, coordinatrice del team di ricerca – presenta al suo interno una struttura G-quadruplex, una sorta di nodo, che ha bisogno di essere sciolta da un enzima, DHX36, affinchè l’informazione contenuta al suo interno possa essere efficientemente tradotta e quindi convertita in proteina. In questo meccanismo raffinato, abbiamo visto che lnc-SMaRT va a inserirsi come antagonista rispetto a DHX36, bloccando la sequenza su cui l’enzima opera”.

I ricercatori hanno dimostrato come lnc-SMaRT, legandosi alla struttura G-quadruplex dell’RNA messaggero MLX-g, riesca ad abbassare i livelli della corrispondente proteina e a scandire in maniera precisa le tempistiche che portano al corretto differenziamento muscolare.

“I risultati – conclude Bozzoni – aggiungono un importante tassello alla comprensione dell’utilità di strutture complesse dell’RNA come le G-quadruplex e, grazie all’identificazione di un nuovo meccanismo di regolazione, contribuiscono a gettare nuova luce sul repertorio funzionale degli RNA non codificanti, la parte “oscura” dei trascritti delle nostre cellule.

Lo studio di questi meccanismi d’azione è parte integrante di progetti finanziati dal programma H2020 Synergy Grants (SyG) dell’European Research Council (ERC).

genoma muscoli

 

Riferimenti:

 

SMaRT lncRNA controls translation of a Gquadruplexcontaining mRNA antagonizing the DHX36 helicase – Julie Martone, Davide Mariani, Tiziana Santini, Adriano Setti, Sama Shamloo, Alessio Colantoni, Francesca Capparelli, Alessandro Paiardini, Dacia Dimartino, Mariangela Morlando, Irene Bozzoni – EMBO Rep (2020) https://doi.org/10.15252/embr.201949942

 

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa Università La Sapienza di Roma