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Due mutazioni genetiche alla base della straordinaria resistenza al freddo dei Fuegini, gli antichi abitanti della Terra del Fuoco 

L’analisi dei resti scheletrici e l’analisi genomica dei Fuegini, conservati presso il Museo di Antropologia Giuseppe Sergi della Sapienza, ha mostrato che l’adattamento alle basse temperature di questa popolazione era determinato da due particolari varianti genetiche che determinano una attivazione del grasso bruno. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Scientific Reports da un gruppo di ricercatori dei Dipartimenti di Medicina Sperimentale, Biologia ambientale e di Medicina molecolare dell’Ateneo romano.

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Stampa che ritrae un gruppo di Fuegini nel loro ambiente naturale

Nel 1881 Science pubblicava un articolo sulle testimonianze dei viaggi dei primi esploratori nella Terra del Fuoco, incluse quelle di Charles Darwin che nel 1871 aveva descritto gli abitanti dell’estremo sud della Patagonia nel libro The Descent of Man. Uno dei tratti distintivi degli uomini che vivevano in quella terra lontana e inospitale era una incredibile resistenza al freddo, anche a fronte di sistemi di protezione insufficienti. La peculiarità di questi uomini, detti Fuegini, di essere spesso nudi o al massimo coperti da un pezzo di pelle gettato sopra le spalle, colpì infatti i primi viaggiatori europei.

I Fuegini, decimati dalle malattie e ormai quasi estinti già dai primi decenni del Novecento, hanno lasciato molti interrogativi senza risposta, primo fra tutti come riuscissero a sopportare le basse temperature cui erano esposti, senza una adeguata protezione.

Oggi, grazie a una ricerca internazionale coordinata dai Dipartimenti di Medicina sperimentale, Biologia ambientale e Medicina molecolare della Sapienza e pubblicata sulla rivista Scientific Reports, emergono dati che potrebbero far luce sull’elevata capacità di adattamento al freddo di questi antichi abitanti della Terra del Fuoco.

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Scheletri di Fuegini conservati al Museo di Antropologia Giuseppe Sergi della Sapienza

Il team di scienziati, sotto la guida di Lucio Gnessi e Giorgio Manzi della Sapienza ha analizzato alcuni resti scheletrici dei Fuegini conservati presso il Museo di Antropologia Giuseppe Sergi dell’Ateneo. Dall’analisi dei reperti ci si sarebbe aspettati di rilevare una certa fragilità ossea, data l’esposizione di questi antichi abitanti alle basse temperature; è stata osservata invece una densità minerale ossea simile a quella di coloro che vivono in un clima temperato.

Diverse, le domande che si sono posti i ricercatori in questo studio: che cosa ha protetto, dunque, le ossa dei Fuegini dagli effetti negativi del freddo? Esiste una correlazione tra condizioni dell’osso e resistenza alle basse temperature?

Grazie alla collaborazione con esperti genetisti e bioinformatici, interrogando le banche dati che raccolgono informazioni sul patrimonio genetico di molte popolazioni, i ricercatori hanno individuato due piccole varianti genetiche mai descritte prima, presenti solo nei Fuegini e non in altri popoli esposti anch’essi al freddo estremo. Queste varianti sono collegate a uno dei meccanismi più importanti di adattamento metabolico al freddo, ovvero allo sviluppo e all’attivazione del grasso bruno, un particolare tipo di grasso la cui funzione principale è quella di produrre calore in risposta alle basse temperature, bruciando energia.

Il grasso bruno ha, inoltre, un effetto protettivo sullo scheletro. Nell’uomo, la sua quantità è proporzionale alla densità ossea; è noto, peraltro, che topi privati del grasso bruno perdono massa ossea, se esposti al freddo.

“Oggi è possibile predire gli effetti potenziali di varianti genetiche molto piccole o anche non codificanti, ricorrendo alla cosiddetta analisi in silico – spiega Lucio Gnessi della Sapienza, coordinatore della ricerca – che sfrutta simulazioni matematiche tramite l’utilizzo di software sofisticati e algoritmi complessi”.

“L’analisi in silico ha costantemente mostrato un effetto causale di alta probabilità tra le mutazioni identificate nel genoma dei Fuegini e lo sviluppo, l’accumulo e l’attivazione del grasso bruno” – conclude Giorgio Manzi della Sapienza, altro coordinatore del lavoro.

Dopo oltre un secolo dalle testimonianze degli esploratori dell‘800, questi dati possono finalmente confermare l’ipotesi che lo straordinario adattamento al freddo dei Fuegini sia stato il risultato di varianti genetiche responsabili di un eccezionale accumulo di tessuto adiposo bruno.

La ricerca è stata condotta in collaborazione con altri centri internazionali come il Centre for Neuropsychiatric Genetics and Genomics di Cardiff, l’Unità di Medicina Nucleare dell’IRCCS Regina Elena di Roma, il Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze, l’Unità di Endocrinologia e Diabete dell’Università Campus Biomedico di Roma e il Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università Politecnica delle Marche di Ancona.

Riferimenti:

Bone density and genomic analysis unfold cold adaptation mechanisms of ancient inhabitants of Tierra del Fuego – Mikiko Watanabe, Renata Risi, Mary Anne Tafuri, Valentina Silvestri, Daniel D’Andrea, Domenico Raimondo, Sandra Rea, Fabio Di Vincenzo, Antonio Profico, Dario Tuccinardi, Rosa Sciuto, Sabrina Basciani, Stefania Mariani, Carla Lubrano, Saverio Cinti, Laura Ottini, Giorgio Manzi & Lucio Gnessi – Scientific Reports 2021 DOI: https://doi.org/10.1038/s41598-021-02783-1

 

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

I mammiferi invasivi minacciano la biodiversità nel Vecchio Continente

Grido d’allarme dei ricercatori internazionali sulla crescente presenza in Europa di mammiferi introdotti da altri continenti, quali il visone, la nutria e lo scoiattolo. Le specie invasive rappresentano un rischio per la sopravvivenza di numerose specie native e anche per la salute dell’uomo.

Un gruppo congiunto di ricercatori internazionali provenienti da Italia, Austria e Portogallo ha recentemente messo in luce nella review “Introduction, spread, and impacts of invasive alien mammals in Europe”, pubblicata su Mammal Review, che i mammiferi alieni invasivi stanno espandendo i loro areali in Europa, minacciando la biodiversità nativa.

La presenza di queste specie, introdotte – in territori diversi dal loro habitat naturale – intenzionalmente come “animali da compagnia o da pelliccia” o accidentalmente, ha conseguenze negative, non solo sull’ambiente, ma anche sulla potenziale trasmissione di patogeni, inclusi quelli zoonotici che possono essere trasmessi dagli animali all’uomo. Il team di ricerca ha evidenziato che questo rischio è associabile all’81% delle specie aliene invasive studiate.

Il lavoro, coordinato da ricercatori del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza e dell’Università di Vienna, in collaborazione con l’Università di Lisbona, ha evidenziato come, nonostante l’implementazione di appositi accordi internazionali, in Europa le segnalazioni di mammiferi alieni invasivi siano in forte aumento a scapito delle specie autoctone. La ricerca consiste in una review sistematica della letteratura finora pubblicata su 16 specie aliene invasive, integrata con informazioni aggiornate ed estratte dai database globali.

L’Unione Europea per far fronte al fenomeno, ha adottato nel 2014 il Regolamento n. 1143/2014 con l’obiettivo di controllare o eradicare le specie aliene invasive prioritarie e prevenirne ulteriori introduzioni e insediamenti. Il cuore del regolamento è la Union List, una lista di specie verso cui indirizzare misure di prevenzione, gestione, individuazione precoce ed eradicazione veloce. Nonostante l’interesse comunitario al problema, nessuno studio finora aveva affrontato specificamente l’ecologia dei mammiferi alieni invasivi della lista.

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Il cane procione (Nyctereutes procyonoides). Foto di Piotr Pkuczynski

Secondo gli autori della Review, le specie invasive più diffuse in Europa sono il cane procione (Nyctereutes procyonoides) originario della Siberia orientale, il topo muschiato (Ondatra zibethicus), il visone (Neovison vison) e il procione (Procyon lotor), queste ultime di origine nordamericana, che hanno invaso almeno 19 paesi e sono presenti da 90 anni nel territorio europeo. L’ampia distribuzione di questi mammiferi può essere attribuita a diversi fattori, tra cui adattabilità, capacità di colonizzare ambienti diversi e grande capacità riproduttiva.

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I mammiferi invasivi minacciano la biodiversità nel Vecchio Continente. Il visone americano (Neovison vison). Foto di Ryzhkov Sergey

Inoltre è stato visto come tutte e cinque le specie di Sciuridi (la famiglia di roditori che comprende, tra gli altri, marmotte, petauri e scoiattoli arboricoli) sono state introdotte in Europa almeno una volta come “animali da compagnia” o per svago: vengono spesso rilasciate illegalmente nei parchi urbani quando non si è più disposti a tenerle, oppure a scopo ornamentale, sebbene tale attività, grazie alle campagne di sensibilizzazione, stia cadendo in disuso.

Altre specie come la nutria (Myocastor coypus), il procione o il visone americano sono state, invece, ripetutamente introdotte per essere allevate come animali da pelliccia: le fughe dagli allevamenti, frequenti, non sempre accidentali e ripetute negli anni, hanno permesso che si stabilissero vere e proprie popolazioni in natura.

“Nonostante negli ultimi 50 anni si sia registrata una diminuzione nelle nuove introduzioni di mammiferi alieni – spiega Lisa Tedeschi della Sapienza, prima autrice dello studio – questi continuano a espandere i loro areali in Europa, aiutati dal rilascio illegale di individui in natura, minacciando gravemente la biodiversità nativa”.

Un altro aspetto importante riguarda il coinvolgimento delle specie studiate nei cicli di trasmissione di patogeni zoonotici: alcune malattie infettive associate a mammiferi invasivi (come echinococcosi, toxoplasmosi e bailisascariasi) possono minacciare la salute umana. Basti pensare agli outbreaks del virus SARS-CoV-2 registrati negli allevamenti di visoni americani di Paesi Bassi e Danimarca nel 2020, nonostante non sia ancora chiaro il ruolo epidemiologico dei visoni (e di altri mammiferi invasivi) nel ciclo del virus.

Oltretutto, il visone americano esercita un effetto negativo anche attraverso la predazione su altre specie, come l’arvicola eurasiatica (Arvicola amphibius). Anche il patrimonio genetico delle specie autoctone può essere minacciato dai mammiferi invasivi, attraverso l’ibridazione (cioè l’incrocio tra specie animali diverse): nel Regno Unito, per esempio, il cervo sika (Cervus nippon) sta mettendo a rischio l’integrità genetica della sottospecie scozzese di cervo rosso (Cervus elaphus scoticus).

“I mammiferi invasivi possono contribuire all’estinzione delle specie autoctone attraverso diversi meccanismi, tra cui competizione, predazione e trasmissione di malattie – dichiara Carlo Rondinini della Sapienza, coordinatore del lavoro insieme a Franz Essl dell’Università di Vienna. “Lo scoiattolo rosso eurasiatico (Sciurus vulgaris), per esempio, in Italia si è estinto in più della metà del suo areale ed è stato sostituito dallo scoiattolo grigio orientale (Sciurus carolinensis), mentre il visone americano ha colonizzato l’area occupata dal visone europeo (Mustela lutreola) confinando questa specie nativa, nonchè in grave pericolo di estinzione, in poche aree della Spagna”.

Poiché l’eradicazione di mammiferi alieni che hanno una così ampia distribuzione è difficile da ottenere, sarebbe opportuno invece gestire in maniera ottimale le popolazioni delle specie che sono diventate invasive e che potrebbero essere problematiche.

“In questo contesto – conclude Lisa Tedeschi – l’identificazione di popolazioni problematiche o di aree più invase di altre può aiutare a mitigare gli impatti futuri”.

Riferimenti:

Introduction, spread, and impacts of invasive alien mammal species in Europe – Tedeschi L, Biancolini D, Capinha C, Rondinini C, Essl F.  Mammal Review  https://doi.org/10.1111/mam.12277

 

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

La ciber-genetica sincronizza gli orologi delle cellule. Lo rivela la ricerca targata Federico II e Tigem appena pubblicata su Nature Communications

Lo studio, che fa capo ai professori Diego di Bernardo e Mario di Bernardo, dimostra che le cellule possono essere indotte a sincronizzare il proprio ciclo cellulare da un computer attraverso una apposita “interfaccia”. Ciò consentirà, ad esempio, di studiare i meccanismi biologici alla base del ciclo cellulare, la cui regolazione è il principio di molti farmaci antitumorali.

Le cellule, quindi, diventano smart grazie alla ciber genetica.

ciber genetica cellule
Cellule di lievito osservate al microscopio durante un esperimento di sincronizzazione. I segnali in basso mostrano che tutte le cellule osservate crescono all’unisono grazie alla nuova tecnologia sviluppata

I risultati di questa nuova ricerca sono stati pubblicati sulla rivista Nature Communications dal gruppo di ricercatori guidato dal professore Diego di Bernardo del Dipartimento di Ingegneria Chimica, dei Materiali e della Produzione Industriale dell’Università degli Studi di Napoli Federico II – DICMAPI e del TIGEM in collaborazione con il gruppo del professore Mario di Bernardo del Dipartimento di Ingegneria Elettrica e delle Tecnologie dell’Informazione -DIETI della Federico II, nell’ambito del progetto europeo FET-OPEN H2020 “COSYBIO” (www.cosy-bio.eu).
La ricerca fortemente inter-disciplinare ricade nell’ambito della “ciber-genetica”, una nuovissima disciplina che integra l’ingegneria biomedica e la teoria dei sistemi nonlineari e dei controlli automatici con la biologia molecolare e cellulare al fine di costruire controllori automatici di processi biologici. Nello specifico i ricercatori hanno dimostrato che è possibile sincronizzare la replicazione cellulare in una popolazione di cellule interfacciandole con un computer, utilizzando tecniche di controllo simili a quelle utilizzate per la sincronizzazioni di reti e circuiti in ingegneria.
Questi nuovi sistemi “cibergenetici” potranno rivoluzionare nelle biotecnologie l’efficienza della produzione di farmaci biologici da cellule. Inoltre in un futuro non troppo lontano le stesse tecnologie potranno essere miniaturizzate per regolare processi biologici e dar vita a veri e proprio “ciberfarmaci” o smart drugs.
Alla ricerca hanno preso parte, tra gli altri, Sara Napolitano dottoranda presso il DICMAPI e Davide Fiore del Dipartimento di Matematica e Applicazioni sempre dell’Università Federico II.

 

L’articolo completo:
Automatic synchronisation of the cell cycle in budding yeast through closed-loop feedback control | Nature Communications

 Testo e immagine dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Napoli Federico II

Non di rado sentiamo parlare di anoressia nervosa (AN), anche grazie alle tante campagne di sensibilizzazione che si sono succedute negli ultimi anni. Molti, però, si interrogano su quale sia la sua origine, da cosa nasca e perché. Alcuni minimizzano, facendo ricadere la colpa sulla persona con anoressia nervosa o su uno dei genitori, altri invece focalizzano la loro attenzione sui media e, in particolare, sulle modelle scelte per le sfilate o per i cartelloni pubblicitari. In realtà, la storia è molto più complessa e trova le sue radici anche nella genetica. Partiamo quindi da una chiara definizione di questo disturbo, che possa fungere da base per analizzare in maniera chiara tutte le sue componenti.

L’anoressia nervosa è un disturbo del comportamento alimentare che si caratterizza per una restrizione di calorie, un abbassamento del peso corporeo al di sotto della normalità, una paura di prendere peso o di ingrassare, un’alterata percezione del peso e della forma del corpo o di parti di esso (American Psychiatric Association, 2013).

È un disturbo cronico che colpisce più le femmine che i maschi con un rapporto di 8 a 1 e ha quindi un rischio di mortalità molto alto. Le persone con anoressia nervosa, infatti, hanno un altissimo rischio di incorrere in complicazioni mediche gravi o di mettere in atto il suicidio (Zipfel et al., 2015). 

Riguardo l’esordio e lo sviluppo dell’anoressia nervosa, si pensa siano coinvolti un insieme di fattori di rischio psicologici, sociali e biologici

Fattori di rischio genetici

I ricercatori non sono concordi nel definire quali geni siano coinvolti in questo disturbo, essendo questi moltissimi. Quello che si sa è che la componente genetica è molto forte e sembra contribuire allo sviluppo dell’anoressia nervosa nel 50 – 75% dei casi (Paolacci et al., 2020). In realtà, questa percentuale è una media approssimativa di quanto riportato dai vari studi, dato che – anche in questo caso – i ricercatori non sono del tutto concordi.

In ricerche che non hanno studiato il DNA, ma l’ereditarietà e familiarità dei disturbi del comportamento alimentare, è emerso che – ad esempio – se uno dei genitori ha avuto nella sua storia un disturbo del comportamento alimentare, vi è un aumento del rischio che il figlio sviluppi un disturbo simile o uguale a quello del genitore. In particolare, se uno dei due genitori nella sua storia clinica ha avuto anoressia nervosa, il rischio del figlio di sviluppare a sua volta AN sarà di 10 – 11 volte superiore alla norma (Strober et al., 2000; Thornton et al., 2018). 

Studi su omozigoti, invece, hanno trovato che se uno dei due gemelli ha un disturbo del comportamento alimentare, nel 48-75% dei casi, lo ha anche l’altro (Bulik et al., 2006; Thornton et al., 2018). Questo suggerisce che una base genetica ci sia, ma questa, come potrete chiaramente notare, non è l’unica a influenzare lo sviluppo dell’anoressia nervosa, non sarebbe un fattore di rischio per il 100% dei casi.

Ad esempio, ci sono persone predisposte geneticamente all’anoressia nervosa che non la svilupperanno mai, come lo si spiegano questo gli studi? Con l’ambiente.

Immagine di Joseluissc3, CC BY-SA 4.0

Fattori di rischio ambientali

Per ambiente si intende tutto ciò che non è geneticamente determinato , mettiamola così. Nella parola “ambiente” rientra il contesto sociale ed economico, la cultura, le relazioni e le iterazioni che si hanno nel corso della vita. 

Fattori ambientali di rischio per lo sviluppo di anoressia nervosa sono: esperienze traumatiche, come anche le violenze di qualsiasi tipo; un ambiente familiare disorganizzato o in cui ci sono tensioni e conflitti; uno stile di attaccamento maladattivo e anche la presenza di rigide regole alimentari adottate dai genitori, deleterie poi per lo sviluppo di una buona relazione con il cibo da parte del bambino. 

Alcune persone, quando pensano alle problematiche dell’anoressia nervosa, tendono a dare un grado di “colpa” al padre o alla madre della persona. In realtà, non esistono evidenze che dicano con assoluta certezza che “è solo colpa della madre” o “è solo colpa del padre”. In generale, se vi è una disfunzione nella famiglia la colpa non è da ricercarsi nel singolo membro, ma nelle dinamiche, nelle relazioni che ci sono fra i vari membri della famiglia. 

Le famiglie di persone con anoressia nervosa, nella gran parte dei casi (non in tutti), sono disorganizzate, vi sono conflitti continui o questi vengono sepolti, generando un crescente ambiente di tensione e ostilità. Questo tipo di ambiente familiare asseconda lo sviluppo dell’anoressia nervosa e ostacola, profondamente, la buona riuscita della terapia (Criuscolo et al., 2020; Williams, Wood e Plath, 2020). Ci sono anche quei casi, però, in cui la persona con anoressia nervosa si trova in un ambiente familiare sano, equilibrato, dove vi sono comunicazione e grandi capacità di risolvere i problemi. In questi casi, la famiglia è un fattore protettivo e non di rischio: le persone con AN che hanno queste famiglie sono anche quelle che aderiscono più alle cure, affrontano il percorso terapeutico nella sua totalità e hanno un bassissimo rischio di ricadute (Criuscolo et al., 2020; Williams, Woods e Plath, 2020).

Un altro fattore di rischio è lo stile di attaccamento. Lo stile di attaccamento può essere definito come il modo in cui la persona si relaziona e si lega agli altri e regola i suoi comportamenti, pensieri ed emozioni di conseguenza (Bowlby, 1980; Mikulincer e Shaver, 2007). Gli stili di attaccamento sono studiati sia nei bambini che negli adulti e si sviluppano nei primi anni di vita, a partire proprio dalla relazione che si ha con i propri genitori. In entrambi i casi, abbiamo due categorie di stili di attaccamento: sicuro e insicuro. Lo stile di attaccamento sicuro è quello comunemente definito come il più adattivo, in cui vi è un buon equilibrio nelle relazioni e una buona comunicazione e interazione con l’altro. Gli stili di attaccamento insicuri, invece, sono più di uno e si caratterizzano per la loro maladattività (Bowlby, 1980; Main, Goldwyn e Hesse, 2003; Mikulincer e Shaver, 2007). 

Nelle persone con anoressia nervosa, nel 70% circa dei casi (anche qui le stime sono un po’ discordanti tra di loro) è presente uno stile di attaccamento insicuro di tipo evitante o preoccupato (Tasca e Balfour, 2014). Negli adulti, lo stile di attaccamento evitante è caratterizzato da una paura o dall’ansia di farsi coinvolgere emotivamente all’interno delle relazioni interpersonali e l’adozione di una posizione difensiva rispetto agli altri, volta a prevenire delusioni o rifiuti; mentre lo stile di attaccamento preoccupato si caratterizza per continue preoccupazioni, aumento del perfezionismo, che influenza le strategie di comportamento e di regolazione di esso. 

Questi due stili di attaccamento insicuri all’interno del quadro generale dell’anoressia nervosa vanno ad influenzare: i sintomi, rispetto il numero e la gravità; la terapia, rispetto alla buona riuscita e l’adesione ad essa da parte del paziente; il rischio di ricadute. In particolare, lo stile di attaccamento evitante è rischioso per la terapia in quanto vi è un aumento di abbandono. Lo stile di attaccamento preoccupato, invece, può aumentare i comportamenti di ipercontrollo e, quindi, può essere un fattore di rischio per un quadro clinico molto grave (Tasca e Balfour, 2014).

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Foto di Gerd Altmann

Conclusioni

L’anoressia nervosa, così come tutti i disturbi del comportamento alimentare (e non solo), non nasce da un solo fattore di rischio, ma nasce dall’interazione della genetica con l’ambiente.

Come abbiamo visto, infatti, da una parte abbiamo una base genetica molto vasta, che ancora non si conosce nella sua totalità. Dall’altra abbiamo fattori ambientali, quali la disfunzionalità della famiglia o le esperienze traumatiche, che possono modificare profondamente la psiche della persona. 

anoressia nervosa fattori di rischio genetici ambientali
Foto di StockSnap

Bibliografia

  • American Psychiatric Association (2013), Manuale diagnostico e statistico dei disturbi Mentali, Quinta edizione (DSM-5), trad. it. Raffaello Cortina, Milano 2014.
  • Bowlby J. (1980) Attachment and loss, New York: Basic Books
  • Bulik C.M., Sullivan P.F., Tozzi F., Furberg H., Lichtenstein P., Pedersen N.L (2006) Prevalence, heritability, and prospective risk factors for anorexia nervosa, Arch. Gen. Psychiatry 63:305–312, https://doi.org/10.1001/archpsyc.63.3.305
  • Criscuolo M. et al. (2020) Family functioning, Coparenting, and Parents’ ability to Manage Conflict in Adolescent Anorexia Nervosa Subtypes, Families Systems & Health, American Psychological Associations, 38:2, 151-162
  • Lauren T. Williams , Cath Wood & Debbie Plath (2020) Parents’ Experiences of Family Therapy for Adolescent Anorexia Nervosa, Australian Social Work, 73:4, 408-419, DOI: 10.1080/0312407X.2019.1702707
  • Main M., Goldwyn R. e Hesse E. (2003) Adult attachment classification system version 7.2, Berkeley: University of California
  • Mikulincer M. e Shaver P.R. (2007) Attachment in adulthood: structure, dynamics and change, New York: The Guildford Press
  • Paolacci et al. (2020) Genetic contributions to the etiology of anorexia nervosa: new perspectives in molecular diagnosis in treatment, Mol Genet Genomic Med, 8:e1244
  • Strober M., Freeman R., Lampert C., Diamond J., Kaye W.(2000) Controlled family study of anorexia nervosa and bulimia nervosa: evidence of shared liability and transmission of partial syndromes, Am. J. Psychiatry 157:393–401, https://doi. org/10.1176/appi.ajp.157.3.393 
  • Tasca G.A. e Balfour L. (2014)Attachment and Eating Disorders: a review of Current Research, Intern Jou of Eating disor, 47:710-717
  • Thornton et al.(2018) The Anorexia Nervosa Genetics Initiative (ANGI): Overview and methods, Contemporary Clinical Trials, 74:61-69, https://doi.org/10.1016/j.cct.2018.09.015
  • Zipfel S., Giel K.E., Bulik C.M, Hay P., Schmidt U. (2015) Anorexia nervosa: aetiology, assessment, and treatment, Lancet Psychiatry, 2:1099-111

ERC 2020  – LA RICERCATRICE DI UNITO CHIARA AMBROGIO SI AGGIUDICA IL CONSOLIDATOR GRANT

Alla ricercatrice Chiara Ambrogio del Centro di Biotecnologie Molecolari dell’Università di Torino un finanziamento di 2 milioni di euro per lo studio sulle mutazioni del gene KRAS, tra le principali cause del cancro ai polmoni, al pancreas e al colon

Chiara Ambrogio gene KRAS consolidator grant ERC 2020
La ricercatrice UniTO Chiara Ambrogio, che si è aggiudicata il Consolidator Grant per lo studio del gene KRAS

Mercoledì 9 dicembre 2020, lo European Research Council (ERC), organismo dell’Unione Europea che attraverso finanziamenti competitivi sostiene l’eccellenza scientifica, ha pubblicato la lista dei progetti vincitori dei Consolidator Grant. Tra i lavori finanziati c’è quello di Chiara Ambrogio, ricercatrice del Centro di Biotecnologie Molecolari dell’Università di Torino, che ha presentato il progetto dal titolo “KARMA – Dalla comprensione delle dinamiche della membrana KRAS-RAF alle nuove strategie terapeutiche nel cancro”. Il grant, riservato ai ricercatori che vantano tra i 7 e i 12 anni di esperienza dal completamento del dottorato di ricerca e un ricco curriculum scientifico, consiste in un finanziamento del valore di 2 milioni di euro.

Il progetto della Dott.ssa Ambrogio si concentra sullo studio delle mutazioni del gene KRAS. Tali mutazioni possono innescare una crescita cellulare anomala che, a sua volta, può causare il cancro ai polmoni, al pancreas e al colon. Sebbene le mutazioni KRAS siano state scoperte più di 30 anni fa, una comprensione dettagliata delle proprietà biologiche dei tumori causati da questo gene mutato è ancora lontana. Chiara Ambrogio utilizzerà il suo nuovo finanziamento dell’ERC per indagare i processi che innescano l’iperattivazione di KRAS sulla membrana cellulare. La conoscenza approfondita di questi meccanismi sarà fondamentale per scoprire nuove strategie per trattare i pazienti con tumori causati da mutazioni nel gene KRAS.

La carriera della Dott.ssa Ambrogio ha un interessante profilo internazionale. Dopo una laurea in biotecnologie mediche e un dottorato in immunologia e biologia cellulare all’Università di Torino, si è trasferita a Madrid nel 2009 per lavorare al Centro Nacional de Investigaciones Oncológicas (CNIO). Nel 2016 si è spostata negli Stati Uniti, al Dana Farber Cancer Institute (DFCI) di Boston, per completare la sua formazione traslazionale. Nel 2019, grazie alla vittoria del grant Career Development Award della Fondazione Giovanni Armenise Harvard, che promuove la ricerca di base in campo biomedico finanziando giovani scienziati che dall’estero vogliono lavorare in Italia, ha creato un gruppo di ricerca presso il Centro di Biotecnologie Molecolari dell’Università di Torino (MBC), tornando a svolgere la sua attività scientifica nel nostro Paese.

“Questa è un’enorme opportunità per portare avanti progetti di ricerca di valenza internazionale nel nostro Centro – dichiara Chiara Ambrogio – oltre a essere un’occasione per dare visibilità a tutto l’Ateneo”.

“La centralità della ricerca scientifica – dichiara Stefano Geuna, Rettore dell’Università di Torino – è uno dei valori fondamentali del nostro Ateneo. Il prestigioso riconoscimento ottenuto dalla Dott.ssa Ambrogio è la conferma che stiamo lavorando nella giusta direzione, supportando i giovani scienziati e i loro progetti. Il nostro obiettivo è continuare ad attrarre talenti, nella ferma convinzione che solo così potremo contribuire allo sviluppo e al progresso in campo scientifico, in Italia e in Europa”.

Testo e foto dall’Università degli Studi di Torino

Futuro Remoto 2020 – XXXIV edizione – Pianeta, tra cambiamenti epocali e sfide globali

La ricerca scientifica e tecnologica rappresenta un punto cardine con cui preservare e migliorare il benessere dell’uomo, degli animali e dell’ambiente. Il suo ruolo indiscusso non è sempre in connessione con i cittadini, a discapito di un sapere scientifico che dovrebbe essere accessibile a tutti, soprattutto in un momento storico nel quale le informazioni scorrono in maniera disordinata e rapida, distorcendo spesso la realtà. Quest’anno più di qualsiasi altro ci ha dimostrato uno degli effetti dei cambiamenti che il Pianeta Terra sta subendo, ovvero la pandemia da Covid-19, un fenomeno altamente ripetibile in futuro.

Mostra Missione Antartide alla XXXIV edizione di Futuro Remoto

Futuro Remoto, giunto alla XXXIV edizione, ha come filo conduttore quello di creare una rete di conoscenze tra scienza e pubblico, con più di 300 eventi in programma, tra mostre, rubriche speciali ed incontri internazionali in streaming per discutere dei cambiamenti climatici, della salute del Pianeta e della pandemia da Covid-19. Il festival è promosso da Città della Scienza di Napoli, con il sostegno della Regione Campania, la co-organizzazione delle sette Università della Campania e la collaborazione dell’Istituto Nazionale di Astrofisica-Inaf, del Consiglio Nazionale delle Ricerche-CNR, del Programma Nazionale di Ricerca in Antartide, dell’Ambasciata italiana in Messico, del consolato Generale Usa di Napoli e dell’Unione Industriali di Napoli.

Futuro Remoto XXXIV edizione
La locandina della XXXIV edizione di Futuro Remoto

 

L’evento inaugurale tenutosi il 20 Novembre ha dato inizio, a pieno ritmo, al festival con una diretta tenuta da Riccardo Villari, Presidente Fondazione IDIS – Città della Scienza, che introduce il saluto del Ministro MIUR Gaetano Manfredi e di Valeria Fascione, assessore alla ricerca, innovazione e startup della Regione Campania, i quali ricordano lo spirito di Futuro Remoto come luogo dove far crescere la cultura nella collettività con l’incontro tra scienza e pubblico.

 

Città della Scienza propone da anni il festival come una realtà che possa trasferire il sapere e la conoscenza scientifica ai cittadini, creando una vetrina per la ricerca, affinché si abbia una maggiore consapevolezza sulla salute dell’uomo e, in questo caso, del Pianeta Terra.

È seguito il talk introdotto da Luigi Nicolais – Coordinatore CTS Fondazione IDIS – Città della Scienza – e moderato da Luca Carra – direttore di Scienzainrete – in cui sono intervenuti illustri studiosi. Da Piero Genovesi, zoologo, ecologo specializzato in biodiversità a Filippo Giorgi, fisico e climatologo parte del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPPC). Sono intervenuti poi Roberto Danovaro, ecologo e biologo marino presidente della Stazione zoologica Anton Dohrn, Patrizia Caraveo, astrofisica la quale mette in risalto il tema dell’inquinamento luminoso, e Paolo Vineis, medico epidemiologo e docente all’Imperial College di Londra in salute globale. Egli risponde al tema dell’emergenza ambientale come fattore influente sulla salute dell’uomo insieme alle diseguaglianze sociali.

Al termine dell’inaugurazione, sono intervenuti i rettori delle Università della Campania insieme a Marcella Marconi – Direttore Osservatorio Astronomico di Capodimonte, Luisa Franzese – Ufficio scolastico regionale per la Campania e Massimo Inguscio – Presidente CNR.

 

La settimana successiva è iniziata ancor più a pieno ritmo, con nomi noti al grande pubblico, come Ilaria Capua. La virologa di fama mondiale per gli studi sull’influenza aviaria e i dibattiti riguardo la scienza open-source, ha partecipato alla live moderata da Luca Carra, discutendo su approcci atti a migliorare le metodiche con cui affrontare eventi tra cui quelli pandemici. Durante il talk si sono proposti temi contenuti del suo libro “Salute circolare: una rivoluzione necessaria”, come l’importanza dell’interdisciplinarietà nella ricerca scientifica utile a creare equilibri nuovi e virtuosi rendendola più sostenibile e convergente. Il concetto di salute è da considerare come un punto di connessione tra uomo, animali ed ambiente e le conoscenze trasversali virando l’approccio verticale alla complessità dei problemi.

Nel pomeriggio di Lunedì 23 è seguito un talk di approfondimento a ricordi dei 40 anni dal terremoto dell’Irpinia-Lucania, uno dei più forti che si ricordino in Italia. Giorgio Della Via a moderare insieme a Maddalena De Lucia, addetta alla divulgazione presso l’Osservatorio vesuviano, hanno introdotto gli argomenti trattati ed i relatori, i quali si sono tutti trovati a vivere in prima persona il fenomeno sismico ed in un secondo momento a studiarlo. Mario Castellano, dirigente tecnologo dell’Osservatorio Vesuviano sezione Napoli dell’ INGV, Girolamo Milano, ricercatore geofisico dell’Osservatorio Vesuviano e Giuliana Alessio, ricercatore presso l’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia, hanno raccontato il tipo di sisma, come fu studiato, le cause e gli aspetti tecnici del terremoto dell’Irpinia. La rete sismica del Meridione era composta da una serie di stazioni il cui numero fu ampliato sul territorio per aumentare le informazioni da raccogliere ed analizzare meglio il fenomeno anche ai finiti studi successivi riguardo la dinamica sismica. Il terremoto del 1980 è stato un momenti di svolta per capire i meccanismi alla base e per confermare, il termini di prevenzione, l’aspetto edile come unica chiave per limitare i danni.

 

Nella mattina di Martedì 24 si è tenuta una live molto interessante, dal titolo “Istruzione, Ricerca e Medicina in Africa” durante la quale sono intervenuti Pasquale Maffia, professore associato in immunologia presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, Mayowa Ojo Owolabi, Preside della Facoltà di Medicina di Ibadan in Nigeria, Ntobeko Ntusi, Preside della Facoltà di Medicina presso l’Università di Cape Town e Wilson Mandala Oda, Professore alla Malawi University of Science and Technology e al College of Medicina dell’Università del Malawi. Si è discusso sul tema pandemia da Covid-19 in Africa, su come è stata affrontata e sul suo andamento in associazione ad un approccio più precario riguardo le campagna di vaccinazione, oltre all’importanza dell’istruzione e dell’università nella risoluzione di problematiche sanitarie, ricerca scientifica e medicina.

Per giovedì 26 gli appuntamenti sono stati tanti, tra cui alle ore 15:00 un talk dal titolo “+Innovation +Green +Future. Tecnologie digitali e processi Industriali Virtuosi di sostenibilità ambientale”. Luigi Nicolais introduce Riccardo Villari, Presidente della Fondazione IDIS, Valeria Fascione, assessore alla ricerca, innovazione e startup della Regione Campania e Maurizio Manfellotto, presidente Unioni Industriali Napoli, i quali hanno riflettuto sul tema della sostenibilità con un richiamo all’assetto politico e sociale che la gestisce.

Il primo intervento è stato di Reimung Neugebauer, Presidente del Fraunhofer – Gesellschaft, la più grande organizzazione di ricerca applicata in Europa. Illustrata la diffusione dei centri in Europa ed in Italia, tra cui con l’Università degli studi di Napoli Federico II, e l’aspetto strategico ed economico del “Fraunhofer model”. Si è sottolineato come sia fondamentale realizzare la sostenibilità e mirare a creare strategie innovative per raggiungere quest’obiettivo, coinvolgendo le industrie.

A seguire Pietro Palatino, Presidente di MediTech Competence Centre I4.0, che ha richiamato il concetto di economia circolare applicata all’industria. Sono intervenuti anche Marco Zigon, Presidente di GETRA, azienda che appartiene alla filiera di produzione e distribuzione dell’energia elettrica; Massimo Moschini, Presidente e Amministratore Delegato Laminazione Sottile e Maria Cristina Piovesana, Vicepresidente Confindustria per l’Ambiente, la Sostenibilità e la Cultura.

Nel pomeriggio di Giovedì 26, un altro appuntamento ha visto come protagonista Barbara Gallavotti, biologa ed autrice di programmi come SuperQuark e Ulisse. La giornalista scientifica ha discusso la paura che l’uomo ha di non poter controllare la scienza, insieme a Giulio Sandini, bioingegnere dell’IIT, a Claudio Franceschi, immunologo dell’Istituto di Scienze Neurologiche di Bologna, a Maurizio Mori, professore di bioetica presso l’Università di Torino e a Gennaro Carillo, filosofo dell’Università SuorOrsola Benincasa di Napoli.

Nella live del titolo “Da Frankenstein al futuro”, la Gallavotti ha raccontato di Mary Shelley e di Frankestein, un corpo che da vita alla paura che la scienza non sia sotto il controllo dell’uomo. Nel talk si è affrontato in maniera interdisciplinare come queste paure siano traslate alla nostra epoca ed al futuro, toccando punto come l’aspettativa di vita, la trasmissione della vita umana ed il non adattamento dell’uomo al mondo.

A cornice dei vari eventi, Venerdì 20, Domenica 22, Lunedì 23, Mercoledì 25 e Sabato 28 il pirata Barbascura X ha tenuto live con ospiti importanti, tutte visionabili sul suo canale Twitch o su YouTube.

Tanti altri eventi si sono articolati in rubriche speciali, mostre virtuali, laboratori virtuali e talk, disponibili sulla pagina Facebook o sul canale YouTube.

Lidar e rifugio, foto dalla mostra Missione Antartide alla XXXIV edizione di Futuro Remoto. Foto copyright B. Healey, ESA, IPEV, PNRA

 

Si ringrazia Futuro Remoto – Città della Scienza per le foto.

Un team di ricercatori della Sapienza ha identificato uno degli orologi molecolari che regolano la maturazione degli organi nelle piante. Lo studio, pubblicato sulla rivista Current Biology, getta nuova luce sui meccanismi utili a migliorare l’adattamento delle piante alle variazioni ambientali

orologio molecolare piante orologi
Foto Sapienza Università di Roma

La maturazione degli organi presuppone, sia negli animali che nelle piante, cambiamenti nelle loro forme e nella loro anatomia. Tali cambiamenti avvengono nel corso del tempo, motivo per cui esistono dei veri e propri orologi molecolari che mediano e scandiscono l’interazione di specifici geni, in determinati momenti, affinché sia assunta la corretta morfologia.

Un nuovo studio del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, ha identificato nella pianta modello Arabidopsis thaliana l’orologio molecolare coinvolto nella regolazione della formazione della radice. Nello specifico, il team di ricercatori coordinato da Raffaele Dello Ioio ha indagato nella pianta il funzionamento di uno dei meccanismi che regola la divisione asimmetrica del tessuto, a cui consegue l’incremento del numero di strati da uno a due.

“Questo lavoro, appena pubblicato sulla rivista Current Biology, ha permesso di identificare uno di questi orologi, necessario alle piante per adattarsi all’ambiente esterno e alle sue variazioni – spiega Raffaele Dello Ioio. “Otto giorni dopo la germinazione, il momento in cui l’embrione che è nel seme inizia a uscire dalla fase di quiescenza, si verifica una riduzione dell’espressione di alcune piccole molecole di Rna, i microRNA 165 e 166. La divisione asimmetrica della cortex, una componente della struttura della radice, risulta dipendere proprio dalla minore espressione dei microRNA, che esercitano un controllo positivo sui livelli del fitormone gibberellina e uno negativo su quelli del fattore di trascrizione PHABULOSA”.

Conclude poi Raffaele dello Ioio, insignito nel 2019 dall’Accademia dei Lincei del premio “Antonio Feltrinelli giovani” per i suoi studi sui circuiti genetico-molecolari che regolano il corretto sviluppo degli organi delle piante, che “identificare questi meccanismi non solo permette di comprendere come avviene la maturazione degli organi, ma potrà essere di aiuto agli scienziati per capire come manipolare tali meccanismi per migliorare l’adattamento delle piante alle variazioni ambientali”.

Riferimenti:

A PHABULOSA-Controlled Genetic Pathway Regulates Ground Tissue Patterning in the Arabidopsis Root – Gaia Bertolotti, Simon Josef Unterholzner, Daria Scintu, Elena Salvi, Noemi Svolacchia, Riccardo Di Mambro, Veronica Ruta, Francisco Linhares Scaglia, Paola Vittorioso, Sabrina Sabatini, Paolo Costantino, Raffaele Dello Ioio – Current Biology, 2020.https://doi.org/10.1016/j.cub.2020.10.038

 

Testo e foto dalla Sapienza Università di Roma

Uno studio internazionale, coordinato dalla Sapienza, identifica un nuovo gene capace di contrastare l’invasione dei patogeni fungini e in particolare di Botrytis cinerea, responsabile della muffa grigia in numerose specie vegetali tra le quali la vite, il pomodoro e la fragola. I risultati del lavoro, pubblicati sulla rivista Molecular Plant Pathology, aprono a nuove possibilità in ambito agronomico per lo sviluppo di varietà più resistenti senza l’uso di pesticidi pericolosi

muffa grigia
Foto Sapienza Università di Roma

Nel settore agronomico i patogeni delle piante rappresentano un grave problema in quanto causano ingenti perdite dei raccolti e in alcuni casi intossicano i cibi di origine vegetale secernendo micotossine potenzialmente pericolose anche per la salute dell’uomo.

Fra gli invasori più comuni e conosciuti vi è la botrite o anche detta la muffa grigia per la peluria cenerina che ricopre la superficie delle foglie facendole seccare e appassire rapidamente.

Per limitare i danni causati da questi patogeni, l’approccio maggiormente utilizzato è il trattamento estensivo con pesticidi, purtroppo con gravi conseguenze sull’inquinamento del suolo e delle falde acquifere. Una soluzione eco-compatibile sono le tecniche di manipolazione genetica mirate a ottenere una maggiore resistenza delle piante ai microbi ambientali, il cosiddetto miglioramento genetico, il cui limite applicativo consiste però nella scarsità di conoscenze sui geni che le piante sfruttano per attivare i meccanismi di difesa immunitaria.

In questo ambito, un importante tassello è stato aggiunto grazie alla sinergica attività di ricerca genetica, molecolare e biochimica che ha coinvolto i dipartimenti di Biologia e biotecnologie Charles Darwin e di Scienze biochimiche della Sapienza insieme con altre università ed enti francesi.

Nello studio pubblicato sulla rivista Molecular Plant Pathology, il team di ricercatori coordinato da Vincenzo Lionetti e Daniela Bellincampi ha identificato nella pianta arabetta comune (Arabidopsis thaliana) un nuovo gene di difesa contro i patogeni fungini e in particolare Botrytis cinerea, un fungo necrotrofo in grado di provocare gravi perdite di raccolto in più di 200 specie vegetali, incluse quelle di grande rilevanza agronomica, quali vite, pomodoro e fragola.

“Il gene, chiamato AtPME17, si è visto avere un ruolo centrale nei meccanismi di difesa immunitaria della pianta – spiega Vincenzo Lionetti del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin. L’enzima che codifica, la Pectina Metilesterasi17, è in grado di modulare lo stato di metilazione delle pectine, componenti importanti della parete cellulare, dove avviene il primo contatto tra pianta e patogeni. L’attività enzimatica rafforza localmente la parete cellulare favorendo nella pianta l’attivazione della risposta immunitaria e bloccando, in corrispondenza del sito di infezione, l’invasione del fungo”.

I risultati dello studio trovano considerevoli applicazioni in ambito biotecnologico: il gene identificato può infatti essere impiegato nel miglioramento genetico di piante d’interesse agronomico per lo sviluppo di varietà più resistenti a un gran numero di malattie infettive, senza l’uso di pesticidi pericolosi per la salute umana e per l’ambiente.

Riferimenti:

AtPME17 is a functional Arabidopsis thaliana pectin methylesterase regulated by its PRO region that triggers PME activity in the resistance to Botrytis cinerea – Daniele Del Corpo, Maria R. Fullone, Rossella Miele, Mickaël Lafond, Daniela Pontiggia, Sacha Grisel, Sylvie Kieffer‐Jaquinod, Thierry Giardina, Daniela Bellincampi and Vincenzo Lionetti. Molecular Plant Pathology  https://doi.org/10.1111/mpp.13002

Testo e foto dalla Sapienza Università di Roma

ERCOLANO – Trovare del tessuto cerebrale in resti archeologici dell’antichità è una cosa molto rara. Nel cervello i processi di morte cellulare sono molto rapidi, essendo costituito per l’80% di acqua. La decomposizione, quindi, inizia dopo 36-75 ore e la scheletrizzazione (cioè l’ultima fase della decomposizione) si ha tra circa i 5 e i 10 anni dopo la morte.  Sempre che non sia stato sottoposto a tecniche di mummificazione, come quelle utilizzate in Egitto, è difficile che questo delicato tessuto possa sopravvivere per anni, se non millenni. Trovare, poi, questo tessuto vetrificato, è una cosa ancor più rara.

Collegio degli Augustali. Foto: Pier Paolo Petrone, Università Federico II di Napoli. Copyright 2020

È quello che è accaduto durante alcune indagini paleoforensi nel sito archeologico di Ercolano a opera di un team di studiosi, guidati dall’antropologo forense Pier Paolo Petrone, responsabile del Laboratorio di Osteobiologia Umana e Antropologia Forense presso la sezione dipartimentale di Medicina Legale dell’Università “Federico II” di Napoli. Durante la loro ricerca, i membri del team hanno rinvenuto del materiale vetroso tra le ossa craniche di una vittima dell’eruzione del Vesuvio del 79 a.C. Tale materiale, in parte incrostato sul cranio della vittima, è stato successivamente analizzato, per poter accertare potesse trattarsi realmente di tessuto cerebrale vetrificato.

Frammento di cervello vetrificato. Foto: Università Roma Tre

La vetrificazione è un processo durante il quale un liquido, esposto a un’elevata temperatura, viene velocemente e bruscamente raffreddato, trasformandosi in un materiale simile al vetro. Gli autori dello studio spiegano che il tessuto cerebrale in questione, inizialmente esposto al caldo estremo della nube piroclastica del Vesuvio, ha poi ricevuto uno shock termico, con un abbassamento brusco di temperatura, che ha determinato la sua trasformazione in un materiale vitreo.

tessuto cerebrale Ercolano Pier Paolo Petrone
Collegio degli Augustali, il luogo del ritrovamento. Foto: Pier Paolo Petrone, Università Federico II di Napoli. Copyright 2020

A seguito di questo ritrovamento, si è proceduto a studiare il campione sfruttando un approccio multidisciplinare, coinvolgente esperti specializzati in diversi ambiti. Tramite l’uso del Microscopio elettronico a scansione e specifici strumenti di elaborazione delle immagini, il team è giunto alla  conclusione che non solo il materiale vetrificato apparteneva al sistema nervoso centrale della vittima, ma anche che al suo interno risultano preservate strutture tubulari simili agli assoni neuronali.

In seguito, il campione è stato sottoposto all’analisi proteomica, che consente di individuare specifici tipi di proteine, le quali sono sintetizzate da diversi geni del DNA. Grazie a questa tecnica, il team ha riscontrato una forte espressione di alcuni geni, presenti in abbondanza nel cervello, oltre che in altri distretti.

tessuto cerebrale Ercolano
Pier Paolo Petrone in laboratorio. Pier Paolo Petrone, Università Federico II di Napoli. Copyright 2020

Questa scoperta e future analisi più approfondite del campione, potranno dirci molto più rispetto alle caratteristiche del tessuto e delle proteine al suo interno, oltre che fornirci informazioni utili su proprietà tipiche dell’espressione genica nella popolazione di Ercolano.

Abbiamo intervistato il dott. Pier Paolo Petrone dell’Università “Federico II” di Napoli, e la dott.ssa Maria Giuseppina Miano del CNR di Napoli, che hanno risposto alle domande di ScientifiCult sul tessuto cerebrale da Ercolano.

tessuto cerebrale Ercolano Pier Paolo Petrone
Assoni, tessuto cerebrale dalla vittima di Ercolano. Foto: Università Roma Tre

Vedendo il profilo dell’espressione genica, si nota come tutte le strutture da voi indicate siano molto vicine a cavità cerebrali in cui è presente il liquido cerebrospinale. Come pensate che questo possa aver influito sul processo di vetrificazione? Pensate che la posizione più centrale e, quindi, più protetta, abbia giocato a sua volta qualche ruolo?

Pier Paolo Petrone: Osservazione interessante, ma non abbiamo al momento evidenze in questo senso. Tutto il cervello sembra aver reagito allo stesso modo, dando luogo a questo materiale dalla consistenza e apparenza vetrosa. Qualcosa di assolutamente unico, mai visto prima né negli altri siti sepolti dall’eruzione, né in eruzioni vulcaniche recenti.

Nel vostro studio avete analizzato l’espressione di alcuni geni le cui mutazioni sono presenti in alcune patologie importanti (Disturbo di Alzheimer, disabilità intellettiva, ipoplasia ponto-cerebellare). Pensate che un’analisi più approfondita di queste espressioni geniche possa dirci di più sullo stato del ragazzo vittima del Vesuvio?

Maria Giuseppina Miano: I dati da noi raccolti non ci consentono di avere informazioni di questo tipo. Non abbiamo dati sulle sequenze amminoacidiche delle proteine identificate né della sequenza nucleotidica dei geni corrispondenti. Ma non possiamo escludere che ulteriori studi possano darci altre importanti informazioni.

Il guardiano nel suo letto. Pier Paolo Petrone, Università Federico II di Napoli. Copyright 2020

Con l’analisi proteomica sono emerse espressioni di geni presenti in gran quantità nel cervello. Questi geni, però, si esprimono allo stesso modo in molti altri distretti del nostro organismo (ad esempio nelle ossa, come il MED13L o ATP6V1F). Con quali modalità avete escluso la possibilità che il campione possa essere stato contaminato nei secoli?

Pier Paolo Petrone: La contaminazione in questo caso è da escludere, in quanto il corpo della vittima era immerso nella cenere vulcanica, e così è rimasto per quasi duemila anni, fino alla sua scoperta negli anni ‘60 e quella, più recente, del  tessuto vetrificato nel cranio. Peraltro, le analisi biochimiche hanno mostrato la presenza di acidi grassi dei capelli umani e di sette proteine altamente rappresentate in tutti i distretti cerebrali, confermando l’appartenenza univoca di questo tessuto al cervello della vittima.

Neurone dal midollo spinale. Foto: Università Roma Tre

Come spiegate nell’articolo, il tessuto non è stato alterato in alcun modo dopo la vostra manipolazione. Pensate quindi di ritornare a fare ulteriori analisi biochimiche? Nel caso in cui pensiate di fare ulteriori analisi, quali ulteriori risultati ipotizzate di poter ottenere? (Es. Alterazioni della struttura proteica che suggeriscono un’anomalia genetica).

Maria Giuseppina Miano: Sono varie le linee di ricerca in corso e tutte molto promettenti. Ulteriori indagini sono in programma per poter identificare la sequenza amminoacidica delle proteine sinora rinvenute, e stabilire la presenza di eventuali varianti polimorfiche che potrebbero “raccontarci” qualcosa in più sulle caratteristiche genetiche degli abitanti di Ercolano a quel tempo.

Pier Paolo Petrone: Altre informazioni le stiamo già avendo dalla sperimentazione in corso su questo cervello, con l’obiettivo di stabilire la temperatura cui è stato esposto e i tempi di raffreddamento del deposito di cenere vulcanica. Informazioni, queste, cruciali per la valutazione del rischio vulcanico al Vesuvio, che incombe su Napoli e i suoi tre milioni di abitanti. Lo studio di un cervello di 2000 anni fa in futuro potrebbe salvare vite umane.

 

Riferimenti bibliografici sul tessuto cerebrale da Ercolano:

Petrone, P., Giordano, G., Vezzoli, E., Pensa, A., Castaldo, G., Graziano, V., Sirano, F., Capasso, E., Quaremba, G., Vona, A., Miano, M. G., Savino, S., & Niola, M. (2020). Preservation of neurons in an AD 79 vitrified human brain. PloS one15(10), e0240017. https://doi.org/10.1371/journal.pone.0240017

Petrone, P., Pucci, P., Niola, M., Baxter, P. J., Fontanarosa, C., Giordano, G., Graziano, V., Sirano, F., & Amoresano, A. (2020). Heat-Induced Brain Vitrification from the Vesuvius Eruption in c.e. 79. The New England journal of medicine382(4), 383–384. https://doi.org/10.1056/NEJMc1909867

CoVID-19 e Sindrome di Down, mortalità fino a 10 volte più elevata

Le persone con Sindrome di Down sono state al centro di uno studio congiunto ISS-Università Cattolica che ha tracciato un profilo clinico e demografico di questi pazienti durante la pandemia da CoVID-19, calcolando tra essi livelli di mortalità ben più alti rispetto a quelli della popolazione generale

Foto di Pete Linforth

La mortalità per CoVID-19 tra le persone con Sindrome di Down (SD) potrebbe essere stata fino a 10 volte maggiore rispetto a quella della popolazione generale. A questa conclusione sono giunti i ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) che, insieme a quelli dell’Università Cattolica, Campus di Roma, hanno analizzato 3.438 grafici, elaborati dallo stesso ISS dal 22 febbraio 2020 all’11 giugno 2020, identificando 16 decessi in persone con SD. Persone più giovani rispetto a quelle senza SD decedute con CoVID-19 (52 contro 78 anni) e con un rischio maggiore di complicanze non respiratorie come sepsi (31% vs. 13%).

Lo studio, pubblicato sull’American Journal of Medical Genetics, è in linea con le conclusioni di un altro studio retrospettivo condotto negli Stati Uniti sui pazienti ospedalizzati con CoVID-19, che ha descritto un aumento di nove volte la percentuale prevista di pazienti con SD ospedalizzati rispetto alla popolazione generale.

La prevalenza di persone con Sindrome di Down nel nostro campione è stata dello 0,5% (16 individui). Questo porta ad una stima di 100-130 individui con SD deceduti con CoVID-19 in Italia fino all’11 giugno scorso. La prevalenza di SD nella popolazione generale italiana è circa lo 0,05%, suggerendo che la mortalità da CoVID-19 in questa popolazione potrebbe essere fino a 10 volte maggiore della popolazione generale – spiega Graziano Onder, direttore del Dipartimento di malattie cardiovascolari, endocrino-metaboliche e dell’invecchiamento dell’ISS – Questi pazienti sono più suscettibili alle infezioni, sperimentano l’invecchiamento precoce di più organi e sistemi, sviluppano un ampio spettro di comorbidità, comprese endocrinopatie, malattie neurologiche, reumatiche, muscoloscheletriche. Inoltre, presentano spesso diverse anomalie anatomiche delle vie aeree superiori che aumentano la probabilità di ostruzione delle medesime vie aeree, una condizione che può predisporre all’ipertensione polmonare, che a sua volta può aumentare la gravità dell’infezione da CoVID-19”.

In sintesi, le persone adulte con SD rappresentano una popolazione fragile e vulnerabile alle infezioni e pertanto da tutelare con estrema attenzione in questa fase epidemica – dichiara Emanuele Rocco Villani, dottorando di ricerca in Scienze dell’invecchiamento all’Università Cattolica e primo autore della ricerca – Le persone con SD rientrano dunque nella fascia di popolazione per cui l’accesso al vaccino per SARS-COV2 dovrà essere prioritario, nel momento in cui esso sarà finalmente disponibile”.

Le caratteristiche cliniche e demografiche dei pazienti con Sindrome di Down

Gli individui con SD erano più giovani di quelli senza SD (52 contro 78 anni), mentre la distribuzione del sesso era simile (femmine 38% vs. 33%). Le malattie autoimmuni come tiroidite di Hashimoto e psoriasi (44% vs. 4%), l’obesità (38% vs. 11%), e la demenza (38% vs. 16%) erano però significativamente più diffuse negli individui con SD. Queste condizioni sono noti fattori di rischio, in quanto associate ad uno stato proinfiammatorio, che sembra avere un ruolo nell’insorgenza di gravi complicazioni di CoVID-19. Tutti e 16 i soggetti inoltre hanno sviluppato, come complicanza, la sindrome da distress respiratorio acuto.

Anche le superinfezioni batteriche, come le infezioni del sangue (sepsi) e la polmonite batterica, sono state più comuni tra i soggetti con SD morti con CoVID-19 rispetto alla popolazione generale (31% contro il 13%), un dato in linea con l’osservazione che gli individui con SD presentano una maggiore suscettibilità alle infezioni per la presenza di deficit immunitari.

Inoltre, i 16 pazienti esaminati avevano un’alta prevalenza di demenza, il che è coerente con ciò che si vede nella popolazione con SD, nella quale possono verificarsi danni cognitivi progressivi a partire dall’età di 45 anni, raggiungendo una prevalenza complessiva di demenza fino al 68-80% a 65 anni. Anche questo è in linea con l’osservazione che le caratteristiche dell’invecchiamento si verificano in genere prima rispetto alla popolazione generale e coinvolgono soprattutto il cervello e il sistema immunitario. L’età media di morte nei soggetti con DS è stata stimata intorno a 60 anni.

Relativamente alla terapia farmacologica, la prescrizione di antibiotici (81% e 86%, rispettivamente), antivirali/antimalarici (63% e 60%, rispettivamente) e tocilizumab (6% vs. 4%) è stata simile in entrambi i gruppi. Al contrario, l’uso di steroidi sistemici era più prevalente tra gli individui con DS (75% vs. 38%).

Testo dall’Ufficio Stampa Istituto Superiore di Sanità
www.iss.it