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KiDS J0842+0059: SCOPERTA GALASSIA FOSSILE A TRE MILIARDI DI ANNI LUCE

Grazie a osservazioni ad altissima risoluzione con il Large Binocular Telescope in Arizona, un team guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha confermato l’esistenza di una galassia rimasta praticamente immutata per circa sette miliardi di anni: un autentico fossile cosmico che permette di studiare la formazione delle prime galassie nella storia dell’universo.

Nel corso della storia del cosmo, le galassie tendono a crescere ed evolvere attraverso la fusione con altre galassie. Ma esistono dei rari esemplari che si comportano come una capsula del tempo: queste galassie, dette fossili o relitti (in inglese, relic), si sono formate molto rapidamente nelle primissime fasi dell’universo, producendo la quasi totalità delle loro stelle in meno di tre miliardi di anni dopo il Big Bang, e da allora sono rimaste praticamente intatte. Alle osservazioni si presentano con un aspetto denso e compatto, popolate da stelle ricche di elementi pesanti, e senza alcun segno di formazione stellare in corso.

Un nuovo studio ha ora osservato la galassia relic più lontana mai scoperta: un fossile cosmico, rimasto immutato per circa 7 miliardi di anni. Si chiama KiDS J0842+0059 ed è la prima galassia fossile massiccia confermata al di fuori dell’universo locale, attraverso osservazioni spettroscopiche e immagini ad alta risoluzione.

La scoperta, realizzata da un team internazionale di ricercatori e ricercatrici guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), è stata resa possibile grazie al Large Binocular Telescope (LBT), telescopio gestito da Italia, Germania e Stati Uniti sulla sommità del Monte Graham, in Arizona. I risultati sono pubblicati nell’edizione di luglio della rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

“Abbiamo scoperto una galassia ‘perfettamente conservata’ da miliardi di anni, un vero reperto archeologico che ci racconta come nascevano le prime galassie e ci aiuta a capire come si è evoluto l’universo fino a oggi”, spiega Crescenzo Tortora, ricercatore INAF e primo autore del lavoro. “Le galassie fossili sono come i dinosauri dell’universo: studiarle ci permette di comprendere in quali condizioni ambientali si sono formate e come si sono evolute le galassie più massicce che vediamo oggi”.

La galassia, che osserviamo com’era circa tre miliardi di anni fa, era stata inizialmente identificata nel 2018 all’interno del progetto KiDS (Kilo Degree Survey), una survey pubblica dello European Southern Observatory (ESO) realizzata dal telescopio italiano VST (VLT Survey Telescope) che si trova all’Osservatorio di Paranal, in Cile. Le immagini KiDS hanno fornito una stima della massa e delle dimensioni della galassia, le cui proprietà sono state ulteriormente caratterizzate mediante osservazioni con lo strumento X-Shooter sul Very Large Telescope dell’ESO, anch’esso in Cile. Tutte le sue caratteristiche sembravano indicare che si trattasse di una galassia fossile: dalla massa stellare, pari a circa cento miliardi di masse solari, alla formazione stellare, assente per gran parte della vita della galassia, fino alle dimensioni, più compatte rispetto a quelle di galassie con pari massa stellare.

Sulle dimensioni e la struttura della galassia, tuttavia, restavano alcune incertezze. Per confermare la compattezza della galassia, sono state cruciali nuove osservazioni realizzate con il Large Binocular Telescope (LBT), in grado di ottenere immagini molto più nitide grazie al sistema SOUL di ottica adattiva, che compensa in tempo reale gli effetti della turbolenza atmosferica. Le osservazioni della galassia KiDS J0842+0059 raccolte con LBT hanno un grado di dettaglio dieci volte superiore rispetto ai dati della survey KiDS: sono le immagini più dettagliate di una galassia relic a questa distanza e consentono di studiarne forma e dimensioni come mai prima d’ora.

“I dati del Large Binocular Telescope ci hanno permesso di confermare che KiDS J0842+0059 è effettivamente compatta e quindi una vera galassia relic, con una forma simile a NGC 1277 e alle galassie compatte che osserviamo nelle prime fasi dell’universo”, spiega la coautrice Chiara Spiniello, ricercatrice all’Università di Oxford, associata INAF e principal investigator del progetto INSPIRE, che ha contribuito alla caratterizzazione delle proprietà di questa galassia. Fino ad oggi, NGC 1277 era uno dei pochi prototipi confermati di questa rara classe di galassie. “È la prima volta che riusciamo a farlo con dati di così alta risoluzione per una galassia relic così distante”.

L’esistenza di galassie relic massicce come KiDS J0842+0059 oppure NGC 1277 dimostra che alcune galassie possono formarsi rapidamente, restare compatte, e poi rimanere inerti per miliardi di anni, sfuggendo alla crescita che ha interessato la maggior parte delle loro controparti attraverso fusioni con altre galassie.

“Studiare questi fossili cosmici ci aiuta a ricostruire la storia di formazione dei nuclei delle galassie massicce odierne, che — a differenza delle galassie relic — hanno subito processi di fusione, accrescendo materia proprio attorno a quelle prime galassie (compatte) dalle quali si sono originate”, conclude Tortora. “Con tecnologie all’avanguardia come l’ottica adattiva e il supporto di telescopi come LBT, possiamo migliorare la nostra comprensione di questo tipo di galassie. Nel futuro prossimo, inoltre, faremo un passo in avanti, puntando a cercare, confermare e studiare nuove galassie relic attraverso i dati di qualità e risoluzione unica del telescopio spaziale Euclid”.

 La galassia relic KiDS J0842+0059, osservata con il VST nell’ambito della survey KiDS (a sinistra) e con il Large Binocular Telescope (a destra). Crediti: C. Tortora/INSPIRE/VST/ESO/LBT
La galassia relic KiDS J0842+0059, osservata con il VST nell’ambito della survey KiDS (a sinistra) e con il Large Binocular Telescope (a destra). Crediti: C. Tortora/INSPIRE/VST/ESO/LBT

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “INSPIRE: INvestigating Stellar Populations In RElics – IX. KiDS J0842 + 0059: the first fully confirmed relic beyond the local Universe”, di C. Tortora, G. Tozzi, G. Agapito, F. La Barbera, C. Spiniello, R. Li, G. Carlà, G. D’Ago, E. Ghose, F. Mannucci, N. R. Napolitano, E. Pinna, M. Arnaboldi, D. Bevacqua, A. Ferrè-Mateu, A. Gallazzi, J. Hartke, L. K. Hunt, M. Maksymowicz-Maciata, C. Pulsoni, P. Saracco, D. Scognamiglio e M. Spavone, è stato pubblicato sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

Testo, video e immagine dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

Grazie ai venti da loro generati, che accelerano improvvisamente a grandi distanze, i buchi neri non sono solo divoratori di materia ma veri propri architetti cosmici, giocando un ruolo chiave nell’evoluzione delle galassie

Ricerca internazionale su Nature Astronomy guidata dall’Università di Firenze e da INAF – Osservatorio Astrofisico di Arcetri

Mosaico di immagini RGB delle galassie analizzate
Mosaico di immagini RGB delle galassie analizzate

buchi neri che si trovano al centro delle galassie non sono solo divoratori di materia ma veri propri architetti cosmici.

È la conclusione a cui è giunto un gruppo di ricercatori internazionali guidati dall’Università di Firenze e da INAF – Osservatorio Astrofisico di Arcetri, protagonisti di un lavoro pubblicato su Nature Astronomy (“Evidence of the Fast Acceleration of AGN-Driven Winds at Kiloparsec Scales” https://www.nature.com/articles/s41550-025-02518-6). Lo studio ha dimostrato per la prima volta che i venti generati dai buchi neri subiscono un’improvvisa accelerazione quando si allontanano dal centro galattico, giocando un ruolo chiave nell’evoluzione delle galassie.

“Ogni galassia ospita al centro un buco nero supermassiccio”, spiegano i primi firmatari dell’articolo Cosimo Marconcini e Alessandro Marconi, rispettivamente dottorando e docente di Astrofisica del Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Firenze. “Questi nuclei galattici attivi (AGN) mentre «mangiano» materia, generano forti venti di gas che si diffondono nello spazio circostante”.

Gli scienziati hanno scoperto un comportamento sorprendente: nei primi 3.000 anni luce (1 kiloparsec) dalla sorgente, i venti si muovono a velocità costante o addirittura rallentano un po’; in seguito, subiscono una drastica espansione, si riscaldano e accelerano, raggiungendo velocità tali da espellere dalla galassia tutto il gas che incontrano lungo la strada. A questo risultato i ricercatori sono arrivati analizzando i venti di 10 galassie osservate con il Very Large Telescope (VLT – European Southern Observatory) in Cile – la più importante struttura al mondo per l’astronomia – e con un nuovo strumento per la modellizzazione 3D dei dati, chiamato MOKA3D e da loro sviluppato.

Perché questa acquisizione è così importante? Perché i buchi neri supermassivi possono spingere il gas fuori dalle galassie, fermando la formazione stellare e influenzando la loro evoluzione.

“Infatti – spiegano i due ricercatori – i venti generati dagli AGN regolano la nascita delle stelle, perché se il vento spazza via troppo gas, la galassia avrà meno «carburante» per formarne di nuove. Possono, quindi, influenzare la distribuzione del gas e degli elementi chimici e addirittura fermare la crescita della galassia: se il vento è abbastanza forte da espellere il gas nello spazio intergalattico, la galassia stessa potrebbe smettere di crescere”.

La prossima frontiera consisterà nello studiare altre galassie, anche molto lontane, per capire se nell’universo è comune questo fenomeno, che fa dei buchi neri i modellatori delle galassie in cui vivono.

Immagine RGB della galassia Circinus
Immagine RGB della galassia Circinus (un’immagine RGB è anche detta immagine a falsi colori, in cui si evidenzia l’emissione di componenti diversi della galassia con colori diversi: blu=gas ionizzato che traccia i venti emessi dai buchi neri; rosso=emissione da parte di stelle giovani e parzialmente anche i venti provenienti dai buchi neri; verde=emissione diffusa delle stelle nella galassia)

Riferimenti bibliografici:

Marconcini, C., Marconi, A., Cresci, G. et al., Evidence of the fast acceleration of AGN-driven winds at kiloparsec scales, Nat Astron (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41550-025-02518-6

 

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Unità funzionale comunicazione esterna dell’Università degli studi di Firenze

Big Wheel” (Ruota Panoramica), scoperta una galassia a disco sorprendentemente grande nell’universo primordiale

In un articolo su “Nature Astronomy”, Sebastiano Cantalupo e Weichen Wang, professore e post-doc del gruppo di ricerca “Cosmic Web” dell’Università di Milano-Bicocca, descrivono la rapida e inaspettata crescita di un enorme disco galattico nelle prime fasi di sviluppo dell’universo. Uno studio condotto grazie ai dati ricevuti dal James Webb Space Telescope e che apre una nuova finestra sulle fasi iniziali della formazione delle galassie.

La galassia Big Wheel (al centro) e il suo ambiente cosmico
La galassia Big Wheel (al centro) e il suo ambiente cosmico. La galassia è un gigantesco disco rotante a redshift z = 3,25, con chiari bracci a spirale. È finora unica per le sue grandi dimensioni del disco, che si estende per più di 30 kpc, più grande di qualsiasi altro disco di galassia confermato in questa epoca dell’universo

Milano, 17 marzo 2025 – Una galassia a disco sorprendentemente grande nell’universo primordiale, ovvero in un periodo cosmico iniziale – circa due miliardi di anni dopo il Big Bang – e che presenta quindi dimensioni più tipiche dei dischi galattici giganti dell’Universo attuale. È la scoperta del gruppo di ricerca “Cosmic Web”, nato all’interno dell’Unità di Astrofisica del dipartimento di Fisica dell’Università di Milano-Bicocca, riportata in un articolo pubblicato oggi su “Nature Astronomy” (“A giant disk galaxy two bilion years after the Big Bang”, DOI: 10.1038/s41550-025-02500-2), a firma di Weichen Wang e Sebastiano Cantalupo, rispettivamente assegnista di ricerca (post-doc) e professore ordinario dell’ateneo, oltre agli altri membri del gruppo “Cosmic Web” e collaboratori internazionali. Una scoperta basata sui dati ottenuti dai ricercatori di Milano-Bicocca dal James Webb Space Telescope (JWST), l’osservatorio spaziale più grande e potente mai costruito finora, erede di Hubble, frutto di una partnership tra la NASA, l’ESA e l’Agenzia spaziale canadese (Canadian Space Agency).

«Quando e come si formano i dischi galattici è ancora un enigma nell’astronomia moderna – afferma Sebastiano Cantalupo – I primi anni di osservazioni del James Webb Space Telescope hanno rivelato una pletora di dischi galattici nell’Universo primordiale, che corrisponde a un’epoca cosmica di undici miliardi di anni fa, o due miliardi di anni dopo il Big Bang. Prima della nostra osservazione, erano tuttavia stati scoperti da JWST solo dischi galattici molto più piccoli di quelli che vediamo nell’universo locale. Per questo motivo, si pensava fino ad ora che la formazione dei dischi più grandi avesse richiesto la maggior parte dell’età dell’universo. Per poter fare nuova luce sulla questione, abbiamo rivolto la nostra attenzione all’Universo primordiale e, in particolare, ad uno speciale ambiente cosmico».

Gli studiosi del Cosmic Web Group, hanno condotto il loro studio utilizzando nuove osservazioni dal JWST, integrate da dati provenienti da altre strutture come il telescopio spaziale Hubble, il Very Large Telescope (VLT) e l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA). Queste osservazioni erano mirate verso una specifica regione del cielo, che si trova a 11-12 miliardi di anni luce di distanza da noi e che è incorporata in una struttura su larga scala che probabilmente evolverà in un ammasso di galassie, una regione quasi unica nell’universo, eccezionalmente densa, con un’alta concentrazione di galassie, gas e buchi neri. «Un laboratorio nel quale si possono studiare i meccanismi di formazione delle galassie. Infatti, grazie alla velocità finita della luce, osservazioni e immagini del telescopio sono una foto di quella regione di cielo quando l’universo aveva “solo” 2 miliardi di anni».

«Utilizzando i dati di due strumenti – prosegue Weichen Wang – la Near-Infrared Camera e il Near-Infrared Spectrograph, a bordo del JWST, abbiamo identificato le galassie all’interno di questa regione iperdensa e abbiamo analizzato i loro redshift, la loro morfologia e la loro cinematica, tutti necessari per l’identificazione dei dischi galattici. Le osservazioni ci hanno portato alla scoperta di un disco sorprendentemente grande nella struttura su larga scala. Questa galassia, che abbiamo chiamato “Big Wheel”, o “Ruota Panoramica” in italiano date le sue enormi dimensioni (Figura 1), ha un raggio effettivo (cioè il raggio che contiene metà della luce totale) di circa 10 kiloparsec. “Big Wheel” è circa tre volte più grande delle galassie scoperte in precedenza con masse stellari e tempi cosmici simili, ed è anche almeno tre volte più grande di quanto previsto dalle attuali simulazioni cosmologiche. È invece paragonabile alle dimensioni della maggior parte dei dischi massicci visti nell’attuale Universo».

Ulteriori analisi spettroscopiche hanno confermato che “Big Wheel” è un disco che ruota come una galassia a spirale, ovvero come la Via Lattea, la nostra galassia».

La crescita precoce e rapida di questo disco potrebbe essere correlata al suo ambiente altamente sovradenso, che, a differenza di quanto dicano i modelli di formazione galattica più diffusi, potrebbe offrire condizioni fisiche favorevoli a questa formazione precoce.

«Ambienti eccezionalmente densi come quello che ospita la Big Wheel rimangono un territorio relativamente inesplorato – conclude Sebastiano Cantalupo –. Sono necessarie ulteriori osservazioni mirate per costruire un campione statistico di dischi giganti nell’Universo primordiale e aprire così una nuova finestra sulle fasi iniziali della formazione delle galassie».

Il gruppo di ricerca Cosmic Web. Il quarto da sinistra Sebastiano Cantalupo. In piedi Weichen Wang
Il gruppo di ricerca Cosmic Web. Il quarto da sinistra Sebastiano Cantalupo. In piedi Weichen Wang

Sebastiano Cantalupo, Weichen Wang e il Cosmic Web Group

Classe 1980, Sebastiano Cantalupo è professore ordinario di Astrofisica all’Università di Milano-Bicocca. Vincitore di un finanziamento ERC (European Research Council) nel 2020, rientra in Italia dopo 17 anni all’estero (Politecnico di Zurigo,Università di CambridgeUniversità della California a Santa Cruz), scegliendo l’Università di Milano-Bicocca per proseguire le sue linee di ricerca. Cantalupo guida un team chiamato “Cosmic Web”, dal nome del suo progetto di ricerca, formato da otto ricercatori e, oltre all’ERC, ha ricevuto nel 2020 un finanziamento da Fondazione Cariplo (bando “Attrattività e competitività su strumenti dell’European Research Council”) e un ulteriore supporto, nel 2021, dal bando Fare, il programma MUR (Ministero Università e Ricerca) per la ricerca di eccellenza.

Weichen Wang è nato nel 1994. Si è laureato (bachelor degree) in Fisica nel 2016 alla Tsinghua University di Pechino e ha conseguito nel 2022 un dottorato in Astrofisica alla Johns Hopkins University di Baltimora. Dal 2022 è assegnista di ricerca (post-doc) all’Università di Milano-Bicocca.

Da sinistra, Sebastiano Cantalupo e Weichen Wang
Da sinistra, Sebastiano Cantalupo e Weichen Wang

Testo e immagini dall’Ufficio stampa Università di Milano-Bicocca

EPPUR SI MUOVONO, RUOTANDO: IL PROGETTO LEWIS MOSTRA INASPETTATE PROPRIETÀ SULLE GALASSIE ULTRA DIFFUSE: MOTI DI ROTAZIONE DELLE STELLE INTORNO AL CENTRO DELLE STESSE UDG

Il progetto LEWIS a guida INAF ha permesso per la prima volta di mappare i moti delle stelle che compongono 30 galassie ultra diffuse, scoprendo che esse ruotano attorno al loro centro: un risultato inatteso che mette in crisi le attuali teorie riguardanti questa particolare classe di galassie. I risultati presentati nei due articoli appena pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics potrebbero cambiare la nostra comprensione dell’evoluzione delle UDG e del loro legame con la materia oscura.

Immagine delle galassie NGC3314 e UDG32 acquisite con la OmegaCAM installata al telescopio VST. Crediti: ESO/INAF - E. Iodice
Immagine delle galassie NGC3314 e UDG32 acquisite con la OmegaCAM installata al telescopio VST. Crediti: ESO/INAF – E. Iodice

Nuovi dettagli sulle galassie ultra diffuse, le cosiddette Ultra-Diffuse Galaxies (UDG), sono stati svelati grazie a due studi recentemente pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics. I lavori, realizzati con un contributo fondamentale di ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, hanno mappato per la prima volta la cinematica stellare di circa 30 UDG nell’ammasso galattico dell’Idra, distante oltre 160 milioni di anni luce da noi.

La scoperta inattesa di moti di rotazione delle stelle intorno al centro di queste elusive e deboli galassie potrebbe cambiare radicalmente la nostra comprensione della loro storia di formazione ed evoluzione. Questo studio è stato reso possibile grazie al progetto internazionale “Looking into the faintEst WIth MUSE” (LEWIS), guidato dalla ricercatrice INAF Enrichetta Iodice, che ha utilizzato il potente spettrografo a campo integrale MUSE, installato al Very Large Telescope (VLT) dell’ESO in Cile.

Le galassie ultra diffuse, scoperte di recente grazie ai progressi tecnologici in astronomia, sono galassie poco luminose ma molto estese e di bassa luminosità. Identificate per la prima volta in grandi quantità nel 2015, la loro natura e il loro processo di formazione sono ancora oggetto di intensa ricerca. Le nuove analisi spettroscopiche con il progetto LEWIS hanno rivelato che queste galassie si trovano in ambienti estremamente variabili, mostrando una sorprendente varietà nelle loro proprietà fisiche, come la cinematica delle stelle che le compongono e la quantità di materia oscura presente.

Rappresentazione artistica di una galassia ultra diffusa in fase di rotazione. Crediti: C. Butitta/INAF
Progetto LEWIS: scoperta inattesa di moti di rotazione delle stelle intorno al centro di queste elusive e deboli galassie ultra diffuse. Rappresentazione artistica di una galassia ultra diffusa in fase di rotazione. Crediti: C. Butitta/INAF

Uno dei risultati più significativi ed inaspettati del progetto LEWIS è l’identificazione di diverse classi cinematiche di UDG nell’ammasso dell’Idra. Quasi la metà delle galassie esaminate mostra segni evidenti di rotazione nelle stelle che le compongono. Una scoperta che contrasta con una convinzione precedente, secondo cui queste galassie non dovrebbero mostrare questo tipo di moti. Questo risultato potrebbe essere fondamentale per comprendere meglio la struttura di queste galassie e il loro legame con la materia oscura.

“I risultati che abbiamo ottenuto hanno avuto una duplice soddisfazione”, dice Chiara Buttitta, ricercatrice postdoc  INAF e prima autrice di uno dei due articoli pubblicati su Astronomy & Astrophysics. “Non solo siamo stati in grado di ricavare i moti stellari in queste galassie estremamente deboli, ma abbiamo trovato qualcosa che non ci aspettavamo di osservare”.

Le osservazioni hanno permesso in particolare di realizzare un’analisi dettagliata di UDG32, una galassia ultra diffusa che è stata scoperta all’estremità dei filamenti della galassia a spirale NGC3314A. La UDG32 è appena visibile, ed appare come una debole macchia giallastra nelle immagini. Una delle possibili origini proposte per le UDG è la formazione da nubi di gas nei filamenti di galassie come la NGC3314A. Questa è rimasta solo un’ipotesi fino a quando è stata scoperta la UDG32. In particolare, una nube di gas presente nei filamenti, se raggiunge la densità critica, sotto l’azione della forza gravitazionale può collassare e formare stelle, diventando un nuovo sistema originatosi dal materiale rilasciato dalla galassia madre. L’analisi dei dati LEWIS ha confermato che la UDG32 è associata alla coda di filamenti della galassia NGC3314A: quindi non è solo un effetto di proiezione che localizza casualmente la UDG32 nella coda di NGC3314A. Inoltre, i nuovi dati hanno mostrato che la UDG32 è caratterizzata da una popolazione stellare ricca di metalli e di età intermedia, più giovane delle altre UDG osservate nell’ammasso dell’Idra, consistente con l’ipotesi che questa galassia potrebbe essersi formata da materiale pre-arricchito nel gruppo sud-est dell’ammasso dell’Idra e quindi liberato da una galassia più massiccia.

LEWIS è il primo grande progetto dell’ESO, guidato da INAF, interamente dedicato allo studio delle UDG. Questo programma ha raddoppiato il numero di galassie ultra diffuse analizzate spettroscopicamente, fornendo per la prima volta una visione globale delle loro proprietà all’interno di un ammasso di galassie ancora in fase di formazione.

“Il progetto LEWIS è stata una sfida. Quando questo programma è stato accettato dall’ESO abbiamo realizzato che fosse una miniera di dati da esplorare. E tale si è rivelato” afferma Enrichetta Iodice, ricercatrice INAF e responsabile scientifica del progetto. “La ‘forza’ di LEWIS, grazie alla spettroscopia integrale dello strumento usato, risiede nel poter studiare contemporaneamente, per ogni singola galassia, non solo i moti delle stelle, ma anche la popolazione stellare media e, quindi, avere indicazioni sull’età di formazione e le proprietà degli ammassi globulari, traccianti fondamentali anche per il contenuto di materia oscura. Mettendo insieme i singoli risultati, come in un puzzle, si ricostruisce la storia di formazione di questi sistemi”.

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Looking into the faintEst WIth MUSE (LEWIS): Exploring the nature of ultra-diffuse galaxies in the Hydra-I cluster”, di Buttita C. Iodice E. et al. è stato pubblicato online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

L’articolo “Looking into the faintEst WIth MUSE (LEWIS): Exploring the nature of ultra-diffuse galaxies in the Hydra I cluster”, di Hartke J., Iodice E., et al. è stato pubblicato online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

La pagina web del progetto LEWIS: https://sites.google.com/inaf.it/lewis/home

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

DUE STUDI ATTORNO AGLI AMMASSI GLOBULARI DELLE GALASSIE NGC 3640, NGC 3641, NGC 5018

Nelle osservazioni di gruppi di galassie realizzate con il telescopio italiano VST in Cile, tra cui una nuova immagine del gruppo dominato dalla galassia NGC 3640, gli ammassi globulari tracciano la storia e le dinamiche galattiche. Scoperte anche 17 nuove galassie nane nel gruppo.

Gli ammassi globulari non sono solo semplici agglomerati di stelle: sono vere e proprie macchine del tempo cosmiche che permettono di tuffarsi nella storia di formazione ed evoluzione delle galassie. Con centinaia di migliaia di stelle raccolte in un unico sistema, questi antichissimi agglomerati stellari raccontano storie segrete di fusioni galattiche e di eventi cosmici che hanno scolpito l’Universo come lo conosciamo oggi. Lo ribadiscono le immagini dei gruppi di galassie NGC 3640 e NGC 5018, realizzate con il telescopio italiano VST (VLT Survey Telescope) in Cile e analizzate in due studi guidati da giovani dottorandi dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), pubblicati recentemente su Astronomy & Astrophysics.

Uno dei due lavori si focalizza sul gruppo di galassie NGC 3640, dominato dall’omonima galassia ellittica, a circa 88 milioni di anni luce da noi. Si tratta di una galassia dalla forma curiosa e perturbata, che reca i segni di passate interazioni con le vicine galassie. La nuova immagine ottenuta con il VST e pubblicata oggi svela per la prima volta la distribuzione degli ammassi globulari nella regione, visibili come puntini luminosi nei pressi delle galassie: questi non si limitano a orbitare intorno alle singole galassie, ma si estendono anche nello spazio intergalattico. La loro disposizione è il risultato di una lunga storia di interazioni e fusioni galattiche che hanno “strappato via” non solo singole stelle ma anche interi ammassi stellari dai loro sistemi originali.

“Il nostro studio offre una comprensione più approfondita dell’evoluzione e delle interazioni delle galassie nel corso della loro storia, arricchendo le conoscenze sui processi fondamentali che hanno modellato l’universo”, spiega Marco Mirabile, dottorando presso il Gran Sasso Science Institute (GSSI) con una borsa supportata da INAF d’Abruzzo e primo autore di uno dei due articoli. “Abbiamo studiato per la prima volta le proprietà degli ammassi globulari delle galassie NGC 3640 e NGC 3641 utilizzando immagini a grande campo e multi-banda, identificando un possibile nuovo modello di interazione tra le due galassie e scoprendo inoltre 17 nuove galassie nane che non erano note precedentemente in questo campo”.

Gli ammassi globulari analizzati nel lavoro, contrariamente alle aspettative, mostrano la loro massima concentrazione non intorno a NGC 3640, la galassia più massiccia del gruppo, ma intorno alla sua vicina, NGC 3641, che spicca nella metà inferiore dell’immagine. La distribuzione degli ammassi risulta peraltro allineata con la cosiddetta luce intragruppo (in inglese: intra-group light, IGL). Si tratta di una luminosità diffusa dovuta a stelle che sono state sottratte alle varie galassie durante fenomeni di merging, già studiata in questo sistema proprio grazie ai dati del VST in un lavoro guidato dalla ricercatrice INAF Rossella Ragusa nel 2023. Tutti questi indizi suggeriscono che la fusione tra queste due galassie sia ancora in corso.

Il secondo studio si concentra invece sul gruppo di galassie NGC 5018, anch’esso dominato dalla galassia ellittica che porta lo stesso nome e che si trova a circa 120 milioni di anni luce da noi. Anche NGC 5018 è ricca di segni di interazioni cosmiche: concentrazioni di stelle disposte in forma di gusci concentrici, code mareali e flussi di gas. Nelle immagini del VST, già studiate sin dal 2018, è stato ora possibile identificare, per la prima volta, una popolazione di ammassi globulari distribuita, anche in questo caso, lungo la luce intragruppo: questo evidenzia come la mutua gravità delle galassie abbia scolpito il sistema durante passate fusioni e interazioni.

“Il nostro studio suggerisce che le interazioni gravitazionali tra le galassie del gruppo NGC 5018 abbiano disperso gli ammassi globulari lungo l’asse di interazione”, nota il Pratik Lonare, dottorando presso l’Università di Roma Tor Vergata con una borsa supportata da INAF d’Abruzzo e primo autore del secondo articolo. “Questa ricerca dimostra che gli ammassi globulari non sono solo fossili della formazione iniziale delle galassie, ma vengono rimodellati dinamicamente da interazioni, fusioni e processi di accrescimento nel tempo”.

Inoltre, il team ha individuato una possibile nuova galassia nana ultra-diffusa (in inglese: ultra-diffuse galaxy, UDG) mai osservata prima in questo gruppo galattico.

I due nuovi lavori fanno parte del progetto VEGAS-SSS (VST Early-type GAlaxy Survey – Small Stellar Systems), un censimento di galassie guidato dall’INAF con il VST dedicato ai sistemi stellari più piccoli delle galassie, come ammassi globulari e galassie nane, per esplorare i processi di formazione galattica su scale cosmiche. Il telescopio VST, gestito da INAF presso l’Osservatorio ESO di Paranal, è lo strumento ideale per questo tipo di studi grazie al suo grande campo di vista di un grado quadrato, pari a circa quattro volte l’area della luna piena nel cielo. Questo permette di osservare in dettaglio non solo le galassie ma anche l’ambiente circostante, spianando la strada a progetti futuri come l’Osservatorio Vera C. Rubin, che sarà inaugurato prossimamente, sempre in Cile, per realizzare survey astronomiche con un campo di vista ancora più grande.


 

Per ulteriori informazioni:

Gli articoli “VEGAS-SSS: Tracing Globular Cluster Populations in the Interacting NGC 3640 Galaxy Group“, di Marco Mirabile, Michele Cantiello, Pratik Lonare, Rossella Ragusa, Maurizio Paolillo, Nandini Hazra, Antonio La Marca, Enrichetta Iodice, Marilena Spavone, Steffen Mieske, Marina Rejkuba, Michael Hilker, Gabriele Riccio, Rebecca A. Habas, Enzo Brocato, Pietro Schipani, Aniello Grado e Luca Limatola, e “VEGAS-SSS: An intra-group component in the globular cluster system of NGC 5018 group of galaxies using VST data“, di Pratik Lonare, Michele Cantiello, Marco Mirabile, Marilena Spavone, Marina Rejkuba, Michael Hilker, Rebecca Habas, Enrichetta Iodice, Nandini Hazra e Gabriele Riccio sono stati pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

17 febbraio 2025

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

UN ANELLO PERFETTO PER LA MISSIONE EUCLID: NGC 65o5 È LA PRIMA LENTE GRAVITAZIONALE FORTE

La missione Euclid dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) ha scoperto la sua prima lente gravitazionale forte: l’immagine di una galassia lontana che appare sotto forma di anello, grazie alla forza di gravità di una galassia molto più vicina a noi (NGC 6505) che si trova, casualmente, sulla stessa linea di vista. I risultati dello studio, guidato da una collaborazione internazionale a cui partecipano ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), dell’Università di Bologna, dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e di molti atenei italiani, sono stati pubblicati oggi su Astronomy & Astrophysics.

Immagine della galassia NGC 6505: l'anello di Einstein creato da questa lente gravitazionale si può vedere al centro dell'immagine
Immagine della galassia NGC 6505: l’anello di Einstein creato da questa lente gravitazionale si può vedere al centro dell’immagine. Crediti: ESA/Euclid/Euclid Consortium/NASA, image processing by J.-C. Cuillandre, T. Li 

Lanciata nel luglio del 2023, Euclid sta scansionando il cielo in profondità per costruire la più precisa mappa 3D mai realizzata dell’Universo, spingendosi fino a 10 miliardi di anni fa per studiare la storia cosmica e indagare i misteri delle enigmatiche materia oscura ed energia oscura. La missione, che vede un forte contributo italiano attraverso l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), l’INAF, l’INFN e numerosi atenei, deve raccogliere una enorme mole di dati per raggiungere i suoi ambiziosi obiettivi scientifici. E tra questi dati si nascondono moltissime sorprese.

Una delle prime sorprese è la galassia NGC 6505, nota sin dalla fine dell’Ottocento e relativamente vicina a noi – la sua luce è partita “appena” 590 milioni di anni fa. Grazie a Euclid si è scoperto che questa galassia agisce come lente gravitazionale, deviando la luce proveniente da un’altra galassia molto più lontana, la cui luce è partita ben 4,42 miliardi di anni fa. Il risultato è un’immagine distorta di quest’ultima galassia: distorta al punto giusto da formare un anello perfetto. La ricerca è guidata da Conor O’Riordan dell’Istituto Max Plack per l’Astrofisica (Max Planck Institute for Astrophysics) di Monaco di Baviera, Germania.

Secondo la teoria della relatività generale di Einstein, i corpi dotati di massa “piegano” il tessuto dello spaziotempo che pervade l’Universo, deflettendo il percorso di qualsiasi altro oggetto nelle vicinanze, compresa la luce. Questo fenomeno, chiamato lensing gravitazionale, produce immagini distorte dei corpi celesti, proprio come quelle create da una comune lente d’ingrandimento. La missione Euclid userà il lensing gravitazionale nella sua forma “debole” per studiare l’invisibile materia oscura attraverso la sua influenza sulle immagini leggermente deformate di miliardi di galassie. In rari casi, per esempio quando galassie a diverse distanze da noi si trovano fortuitamente allineate, il lensing gravitazionale si manifesta nella sua forma più eclatante, detta “forte”, dando luogo a immagini multiple di una stessa galassia o eccezionalmente a un intero anello, detto anello di Einstein.

Dettagli dell'anello di Einstein, immagine distorta di una galassia lontana creata dalla lente gravitazionale NGC 6505.Crediti: ESA/Euclid/Euclid Consortium/NASA, image processing by J.-C. Cuillandre, T. Li
NGC 6505 è la prima lente gravitazionale forte scoperta dalla missione Euclid, lo studio è stato pubblicato su Astronomy & Astrophysics. Dettagli dell’anello di Einstein, immagine distorta di una galassia lontana creata dalla lente gravitazionale NGC 6505.
Crediti: ESA/Euclid/Euclid Consortium/NASA, image processing by J.-C. Cuillandre, T. Li

“Questa prima lente gravitazionale forte scoperta da Euclid ha caratteristiche uniche”, spiega Massimo Meneghetti, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, associato all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, tra gli autori del nuovo studio. “È veramente raro poter trovare una galassia relativamente prossima a noi, come questa che si trova nel catalogo NGC (New galaxy catalog, uno dei cataloghi di galassie vicine), che agisca da lente gravitazionale forte. Galassie così vicine infatti non sono generalmente in grado di focalizzare la luce di sorgenti retrostanti e formare immagini multiple, a meno che non contengano enormi quantità di materia nelle loro regioni centrali. La formazione di anelli di Einstein completi come quello di NGC 6505 è un evento ancora più raro, perché richiede che la galassia lente e quella sorgente siano perfettamente allineate con il nostro telescopio. Per questi motivi, non ci aspettiamo che Euclid osserverà molte lenti come NGC 6505. Anche considerando la vasta area di cielo che verrà coperta nel corso della missione, ci aspettiamo di poter scoprire al massimo 20 lenti come questa”.

Questa lente gravitazionale è stata scoperta per caso, in una delle prime zone di cielo osservate da Euclid, analizzando i dati della fase di verifica della missione appena due mesi dopo il lancio, dall’astronomo Bruno Altieri dell’ESA: per questo il gruppo di ricerca l’ha soprannominata “lente di Altieri”. Benché la galassia NGC 6505 sia stata osservata per la prima volta nel 1884, l’anello di Einstein scoperto con Euclid non era mai stato notato prima, dimostrando le straordinarie capacità di scoperta della missione.

La distorsione indotta dal lensing gravitazionale dipende dalla distribuzione e dalla densità di materia della galassia che agisce da lente. Per questo motivo, analizzando la distorsione è possibile misurare la sua massa sia in termini di stelle che di materia oscura. In questo caso, inoltre, visto che l’anello di Einstein della lente di Altieri ha un raggio più piccolo rispetto a quello di NGC 6505, è stato possibile studiare accuratamente la composizione e la struttura delle regioni centrali, dove la materia oscura è meno prominente, e dove la galassia è dominata dalle stelle.

“Dato che il lensing gravitazionale è il metodo più preciso per misurare la massa, combinando il modello dell’anello di Einstein e della distribuzione di stelle della galassia, abbiamo potuto misurare che la frazione di massa composta da materia oscura al centro della lente è soltanto l’11 per cento”, spiega la co-autrice Giulia Despali, ricercatrice al Dipartimento di Fisica e Astronomia “Augusto Righi” dell’Università di Bologna, associata dell’INAF e dell’INFN. “Ricordiamo che la materia oscura costituisce circa l’85 per cento della materia totale del nostro Universo, quindi le regioni centrali delle galassie sono veramente particolari. Abbiamo infatti misurato le proprietà della galassia con estrema precisione, scoprendo una struttura complessa che varia con la distanza dal centro e stimando la funzione di massa iniziale, e cioè la proporzione di stelle di piccola e grande massa. Le nuove osservazioni di Euclid ci aiutano quindi a capire di più sia sull’Universo oscuro che sui processi di formazione ed evoluzione delle galassie”.

Se questa scoperta è avvenuta per caso, all’interno della collaborazione Euclid c’è un vasto gruppo dedicato alla ricerca di lenti gravitazionali, e ci si aspetta di trovarne oltre centomila nei 14mila gradi quadrati di cielo che saranno osservati nel corso della missione. Queste indagini sfruttano, da un lato, strumenti sofisticati come l’intelligenza artificiale, e dall’altro anche la citizen science, coinvolgendo il pubblico non esperto nell’ispezione visuale delle immagini, in collaborazione con la piattaforma Zooniverse. L’obiettivo è quello di realizzare una mappa dettagliata della distribuzione della materia, sia quella visibile che quella oscura, nelle galassie e negli ammassi di galassie a varie distanze dall’Universo locale per poter così studiare la natura e l’evoluzione nel tempo della materia oscura e dell’energia oscura.

Testo e immagini dagli Uffici Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna

UNA “RAPINA COSMICA” NELL’AMMASSO DI GALASSIE DELL’IDRA

Un team internazionale guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha realizzato una nuova immagine dell’ammasso di galassie dell’Idra con il telescopio italiano VST gestito da INAF in Cile, svelando il gas e le stelle “rubate” alle galassie, segno di un’evoluzione ancora in corso.

L'ammasso di galassie dell'Idra immortalato con il telescopio italiano VST (VLT Survey Telescope) in Cile. Nell'immagine spicca la galassia NGC 3312, nella parte inferiore sulla sinistra.
L’ammasso di galassie dell’Idra immortalato con il telescopio italiano VST (VLT Survey Telescope) in Cile. Nell’immagine spicca la galassia NGC 3312, nella parte inferiore sulla sinistra. Crediti: ESO/INAF/M. Spavone, E. Iodice

Gli ammassi galattici, formati da centinaia di galassie oltre a enormi quantità di plasma caldissimo e della invisibile materia oscura, sono le strutture cosmiche più grandi tenute insieme dalla gravità. Si trovano nei nodi più densi della “ragnatela cosmica” che pervade l’Universo e sono luoghi tutt’altro che tranquilli: al loro interno, le galassie si scontrano e interagiscono tra di loro, spesso in maniera turbolenta, regalando immagini spettacolari ai telescopi che scrutano le profondità del cielo.

È il caso dell’ammasso di galassie dell’Idra (Hydra I), a oltre 160 milioni di anni luce da noi, nel quale un team internazionale guidato da ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha svelato deboli strutture mai viste prima nella luce diffusa che permea lo spazio tra le galassie. Questi dettagli permettono di ricostruire la travolgente storia dell’ammasso. Il lavoro è stato possibile grazie a immagini profonde e ad alta risoluzione ottenute con il telescopio italiano VST (VLT Survey Telescope), situato presso l’Osservatorio di Paranal dello European Southern Observatory (ESO) sulle Ande cilene e gestito dal 2022 interamente da INAF.

Dettaglio sulla galassia a spirale NGC 3312, ripresa dal telescopio italiano VST (VLT Survey Telescope) in Cile. La forma della galassia, simile a quella di una medusa, tradisce il fenomeno di ram pressure stripping, attraverso il quale il gas freddo delle regioni periferiche della galassia fuoriesce a causa della frizione con il gas, più caldo, che pervade l'ammasso.
Dettaglio sulla galassia a spirale NGC 3312, ripresa dal telescopio italiano VST (VLT Survey Telescope) in Cile. La forma della galassia, simile a quella di una medusa, tradisce il fenomeno di ram pressure stripping, attraverso il quale il gas freddo delle regioni periferiche della galassia fuoriesce a causa della frizione con il gas, più caldo, che pervade l’ammasso. Crediti: ESO/INAF/M. Spavone, E. Iodice

Nell’immagine realizzata dal VST spicca NGC 3312, la più grande galassia a spirale dell’ammasso dell’Idra, nella parte bassa dell’immagine. La sua forma, che ricorda vagamente quella di una medusa con una serie di tentacoli, segnala un “furto cosmico” in atto: l’ammasso sta letteralmente “rubando” il gas dalle regioni più esterne della galassia. Questo fenomeno avviene quando una galassia attraversa un fluido denso, come il gas caldo sparso tra le galassie di un ammasso: la frizione del gas caldo contro quello più freddo alla periferia della galassia provoca la fuoriuscita di quest’ultimo, che va ad aggiungersi al materiale.

Il nuovo studio ha analizzato in dettaglio le strutture più fioche all’interno dell’ammasso, in particolare nella cosiddetta luce intra-ammasso (in inglese, intracluster light), una componente diffusa che pervade lo spazio intergalattico, prodotta da stelle che sono state anche in questo caso “sottratte” ad alcune delle galassie dell’ammasso mentre interagivano con le loro compagne. I risultati sono in corso di pubblicazione sulla rivista Astronomy and Astrophysics.

“La nostra analisi fotometrica dell’ammasso di galassie dell’Idra permette di ricostruire la sua storia di formazione ed evoluzione e di capire quale dei possibili scenari di formazione abbia formato la luce diffusa in questo particolare ammasso” spiega Marilena Spavone, ricercatrice INAF a Napoli e prima autrice del lavoro. “Le simulazioni forniscono diverse previsioni per spiegare la formazione della luce intra-ammasso negli ambienti densi degli ammassi di galassie, e per collegare la quantità di luce diffusa osservata alla fase evolutiva di un ammasso”.

Per determinare in che fase evolutiva si trova l’ammasso, il team ha analizzato la distribuzione di luce di tutte le sue galassie per poter “isolare” la luce diffusa. In questo modo, è stato possibile stimare la quantità di luce intra-ammasso e studiare le strutture dovute alle interazioni tra galassie, come ad esempio le code mareali o i tentacoli di medusa osservati nella galassia NGC 3312.

“Secondo la nostra analisi, l’ammasso dell’Idra presenta tre diverse regioni che mostrano sovradensità di galassie, e diverse strutture nel mezzo diffuso, oltre a grandi aloni stellari intorno alle galassie più brillanti”, aggiunge la coautrice Enrichetta Iodice, ricercatrice INAF a Napoli e responsabile del Centro italiano di coordinamento per VST. “Tutti questi indizi mostrano che si tratta di un ammasso ancora in fase di evoluzione”.

Le osservazioni dell’ammasso sono state raccolte nell’ambito del progetto VEGAS (VST Early-Type Galaxy Survey), un censimento cosmico ottimizzato per studiare le galassie sfruttando il grande campo di vista e la risoluzione di OmegaCam, la potente fotocamera del VST. Questa fotocamera è un vero e proprio “grandangolo cosmico” in grado di osservare una porzione di cielo di un grado quadrato, pari a circa quattro volte l’area apparente della Luna piena. Questi dati offrono un’anteprima delle osservazioni che saranno realizzate, con profondità e una risoluzione comparabili ma su porzioni del cielo ancora più grandi, dal satellite ESA Euclid, lanciato lo scorso anno, e dalla Legacy Survey of Space and Time (LSST) dell’osservatorio Vera C. Rubin, attualmente in costruzione in Cile.


 

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “Galaxy populations in the Hydra I cluster from the VEGAS survey III. The realm of low surface brightness features and intra-cluster light”, di Marilena Spavone, Enrichetta Iodice, Felipe S. Lohmann, Magda Arnaboldi, Michael Hilker, Antonio La Marca, Rosa Calvi, Michele Cantiello, Enrico M. Corsini, Giuseppe D’Ago, Duncan A. Forbes, Marco Mirabile e Marina Rejkuba, è stato pubblicato online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

JWST OSSERVA AMMASSI STELLARI NELL’UNIVERSO PRIMORDIALE: IL COSMIC GEMS ARC, UNA GALASSIA CHE VEDIAMO COM’ERA APPENA 460 MILIONI DI ANNI DOPO IL BIG BANG

Gli ammassi stellari osservati con il telescopio spaziale James Webb in una galassia a soli 460 milioni di anni dopo il Big Bang, nota come Cosmic Gems Arc, potrebbero essere i progenitori degli ammassi globulari che popolano le galassie odierne. È il risultato di un gruppo di ricerca internazionale a cui partecipano anche Eros Vanzella e Matteo Messa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, pubblicato oggi su Nature.

Lo studio delle galassie giovani, a poche centinaia di milioni di anni dal Big Bang, è una finestra per comprendere i processi che hanno modellato le galassie nell’universo primordiale. Galassie così distanti possono essere difficili da osservare, ma per fortuna l’universo stesso offre un assist attraverso le lenti gravitazionali: distribuzioni di materia così dense che curvano lo spaziotempo e deviano il percorso dei raggi luminosi, amplificando la luce proveniente dalle galassie più lontane.

This image shows two panels. On the right is field of many galaxies on the black background of space, known as the galaxy cluster SPT-CL J0615−5746. On the left is a callout image from a portion of this galaxy cluster showing two distinct lensed galaxies. The Cosmic Gems arc is shown with several galaxy clusters.
A destra, un’immagine dell’ammasso di galassie SPT-CL J0615−5746. A sinistra, lo zoom mostra due galassie di sfondo, molto più lontane rispetto alle galassie dell’ammasso, le cui immagini sono state distorte e amplificate dall’effetto di lente gravitazionale dell’ammasso stesso. La galassia Cosmic Gems Arc è la lunga striscia elongata al centro, all’interno della quale si possono riconoscere una serie di puntini luminosi: si tratta di ammassi stellari, progenitori degli odierni ammassi globulari.
Crediti: ESA/Webb, NASA & CSA, L. Bradley (STScI), A. Adamo (Stockholm University) and the Cosmic Spring collaboration

È così che si è scoperto il Cosmic Gems Arc, una giovanissima galassia che vediamo com’era appena 460 milioni di anni dopo il Big Bang. La sua forma appare distorta in forma di arco e la sua luminosità è fortemente amplificata grazie all’effetto di lente gravitazionale. Osservata per la prima volta dal telescopio spaziale Hubble nel 2018, si mostra in tutta la sua gloria in una nuova immagine del telescopio spaziale James Webb (JWST) che rivela ben cinque ammassi stellari al suo interno.

Ciascuno degli ammassi ha una dimensione di circa 3-4 anni luce: questo indica che si tratta di ammassi molto densi, mille volte di più rispetto ai tipici ammassi di stelle giovani che si possono osservare nell’universo locale. La scoperta implica che la formazione degli ammassi stellari e il feedback relativo potrebbero aver contribuito a scolpire le proprietà delle galassie durante le primissime epoche della storia cosmica. I risultati dello studio, guidato dalla ricercatrice italiana Angela Adamo dell’Università di Stoccolma e Oskar Klein Centre, in Svezia, sono stati pubblicati oggi su Nature.

“Riteniamo che queste galassie siano la fonte principale dell’intensa radiazione che ha reionizzato l’universo primordiale”, commenta Angela Adamo, prima autrice del lavoro. “La particolarità del Cosmic Gems Arc è che, grazie alla lente gravitazionale, possiamo effettivamente risolvere la galassia fino a una scala di pochi anni luce!”

Le osservazioni ad altissima risoluzione realizzate da JWST nell’infrarosso, insieme all’ampificazione fornita dalla lente gravitazionale, hanno mostrato dettagli senza precedenti: è la prima volta che si osservano le proprietà interne di una galassia così lontana. Solo così è stato possibile dimostrare il ruolo chiave degli ammassi stellari nelle galassie primordiali, sia nel contesto della formazione degli ammassi globulari e nel processo di reionizzazione dell’idrogeno dell’Universo.

“Quando vidi le immagini del Cosmic Gems Arc, la sequenza di “pallini” che replicavano in modo speculare richiamando proprio l’effetto di lente gravitazionale, rimasi sbalordito”, racconta Eros Vanzella, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) a Bologna e terzo autore dell’articolo. “Scrissi subito alla collega di Stoccolma Angela Adamo e a Larry Bradley, principal investigator delle osservazioni di JWST: ma allora gli ammassi stellari sono il modo dominante nella formazione stellare nell’Universo iniziale! Come fuochi d’artificio sconquassano la galassia ospite, la rendono un potenziale ionizzatore, per poi proseguire come ammassi globulari”.

La presenza di ammassi stellari così densi e massicci è rilevante per due aspetti. Innanzitutto, sono i precursori degli ammassi globulari che vediamo oggi, i quali sono quasi tanto antichi quanto l’Universo. Inoltre, ammassi stellari così giovani, durante la loro formazione, possono “distruggere” il mezzo interstellare della galassia ospite e, con le loro stelle giovani e massicce, giocare un ruolo chiave nel processo di reionizzazione dell’Universo. È probabile che le galassie in formazione nell’universo primordiale ospitino normalmente oggetti di questo tipo.

“Il messaggio generale, a mio parere, è che stiamo finalmente “smascherando” le origini delle prime galassie con la qualità e potenza del telescopio JWST e, grazie al lensing gravitazionale, stiamo vedendo dettagli senza precedenti”, aggiunge Vanzella. “L’Universo a quell’epoca non era come quello odierno e questo ci appare adesso come un dato di fatto”.

Nel frattempo, il team si sta preparando per ulteriori osservazioni con JWST, in programma per l’inizio del 2025; il principal investigator è lo stesso Vanzella, che conclude:

“Nel prossimo ciclo, studieremo il Cosmic Gems Arc con due strumenti, NIRSpec e MIRI: così avremo la conferma del redshift della galassia e, tramite misure con spettroscopia integrata, andremo più a fondo riguardo le proprietà fisiche degli ammassi stellari trovati, del gas ionizzato, oltre a eseguire una mappa bidimensionale del tasso di formazione stellare sull’intero arco gravitazionale”.

This image shows two panels. On the right is a field of many galaxies on the black background of space, known as the galaxy cluster SPT-CL J0615−5746. On the left is a callout image from a portion of this galaxy cluster showing two distinct lensed galaxies. The Cosmic Gems arc is shown with several galaxy clusters.
A destra, un’immagine dell’ammasso di galassie SPT-CL J0615−5746. A sinistra, lo zoom mostra due galassie di sfondo, molto più lontane rispetto alle galassie dell’ammasso, le cui immagini sono state distorte e amplificate dall’effetto di lente gravitazionale dell’ammasso stesso. La galassia Cosmic Gems Arc è la lunga striscia elongata al centro, all’interno della quale si possono riconoscere una serie di puntini luminosi: si tratta di ammassi stellari, progenitori degli odierni ammassi globulari.
Crediti: ESA/Webb, NASA & CSA, L. Bradley (STScI), A. Adamo (Stockholm University) and the Cosmic Spring collaboration

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “Bound star clusters observed in a lensed galaxy 460 Myr after the Big Bang”, di Angela Adamo, Larry D. Bradley, Eros Vanzella, Adélaïde Claeyssens, Brian Welch4, Jose M Diego, Guillaume Mahler, Masamune Oguri, Keren Sharon, Abdurro’uf, Tiger Yu-Yang Hsiao, Xinfeng Xu, Matteo Messa, Augusto E. Lassen, Erik Zackrisson, Gabriel Brammer, Dan Coe, Vasily Kokorev, Massimo Ricotti, Adi Zitrin, Seiji Fujimoto, Akio K. Inoue, Tom Resseguier, Jane R. Rigby, Yolanda Jiménez-Teja, Rogier A. Windhorst, Takuya Hashimoto e Yoichi Tamura, è stato pubblicato online sulla rivista Nature.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza
Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

AI CONFINI DELLA MATERIA OSCURA CON UNA LENTE GRAVITAZIONALE DEBOLE: LE VELOCITÀ DI ROTAZIONE DELLE GALASSIE RIMANGONO COSTANTI ANCHE A DISTANZE MOLTO GRANDI DAL LORO CENTRO

Lo studio pubblicato oggi su arXiv.org e in stampa su The Astrophysical Journal Letters aggiunge un tassello importante alla risoluzione dell’enigma della materia oscura – la cui natura è una delle grandi domande dell’astrofisica moderna tuttora senza risposta – mettendo potenzialmente in discussione i modelli cosmologici generalmente condivisi. Il gruppo di ricerca che ha firmato lo studio – di cui fa parte anche l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) – ha dimostrato che le velocità di rotazione delle galassie rimangono inaspettatamente costanti anche a distanze molto grandi dal loro centro, confermando le previsioni della teoria della gravità modificata (Modified Newtonian Dynamics – MOND, ovvero dinamica newtoniana modificata) che non contempla la presenza di materia oscura nell’universo.

 Grafico che illustra le osservazioni riportate nell’articolo: i punti rossi mostrano la curva di rotazione della galassia UGC 6614 usando osservazioni "classiche" della cinematica del gas, mentre i punti celesti mostrano il nuovo risultato statistico usando la tecnica del weak lensing. Crediti: T. Mistele et al. (2024)
Grafico che illustra le osservazioni riportate nell’articolo: i punti rossi mostrano la curva di rotazione della galassia UGC 6614 usando osservazioni “classiche” della cinematica del gas, mentre i punti celesti mostrano il nuovo risultato statistico usando la tecnica del weak lensing. Crediti: T. Mistele et al. (2024)

In questo lavoro è stata sviluppata una nuova tecnica che consente di misurare le cosiddette curve di rotazione delle galassie – ovvero le velocità di rotazione delle galassie dal loro centro – fino a grandissime distanze, pari a circa due milioni e 500 mila anni luce. La tecnica utilizzata sfrutta il fenomeno della lente gravitazionale debole (weak gravitational lensing). Le implicazioni di questa scoperta potrebbero essere potenzialmente molto ampie, portando a ridefinire la nostra comprensione della materia oscura anche tramite teorie cosmologiche alternative.

Il fenomeno della lente gravitazionale è stato previsto dalla teoria della relatività generale di Einstein e si verifica quando un oggetto massiccio, come un ammasso di galassie o anche una singola stella massiccia, devia il percorso della luce proveniente da una sorgente lontana con il suo campo gravitazionale. Questa curvatura della luce avviene perché la massa dell’oggetto deforma il tessuto dello spaziotempo che lo circonda.

Federico Lelli, primo ricercatore presso l’INAF di Arcetri, spiega i risultati dello studio:

“Abbiamo usato la tecnica del weak gravitational lensing per misurare in modo statistico la ‘curva di rotazione’ media di galassie di diversa massa, raggiungendo grandissime distanze dal centro. Troviamo che le curve di rotazione continuano a rimanere piatte per centinaia di migliaia di anni luce, possibilmente fino a qualche milione di anni luce: questo è sorprendente perché a tali distanze ci si aspetterebbe di aver raggiunto il ‘bordo’ dell’alone di materia oscura, quindi le curve di rotazione dovrebbero iniziare a mostrare una decrescita kepleriana, ma invece rimangono piatte”.

Federico Lelli (INAF), esperto di dinamica delle galassie e dei sistemi di galassie (gruppi e ammassi) come banchi di prova sia per teorie di materia oscura che per teorie gravitazionali alternative. Crediti: INAF
Federico Lelli (INAF), esperto di dinamica delle galassie e dei sistemi di galassie (gruppi e ammassi) come banchi di prova sia per teorie di materia oscura che per teorie gravitazionali alternative. Crediti: INAF

Le curve di rotazione misurano la velocità che un corpo celeste (come una stella o una nube di gas) a una certa distanza dal centro galattico deve avere per rimanere in un’orbita circolare attorno alla galassia. La presenza di materia oscura nelle galassie è stata dedotta studiando proprio le curve di rotazione, negli anni a cavallo tra il 1970 e 1980. Si ritiene le curve di rotazione delle galassie debbano diminuire con l’aumentare della distanza dal centro della galassia. Secondo la gravità newtoniana, le stelle che si trovano ai margini esterni della galassia dovrebbero essere più lente a causa di una minore attrazione gravitazionale. Poiché questa ipotesi non corrisponde alle osservazioni, gli scienziati hanno ipotizzato la presenza della cosiddetta materia oscura, che non emetterebbe radiazione elettromagnetica ma sarebbe rilevabile solo mediante gli effetti del suo campo gravitazionale. Anche supponendo l’esistenza della materia oscura però, a un certo punto il suo effetto dovrebbe affievolirsi con la distanza, e quindi le curve di rotazione delle galassie non dovrebbero rimanere costanti in modo indefinito.

Lo studio mette in dubbio questa ipotesi, fornendo una rivelazione sorprendente: l’influenza di quella che chiamiamo materia oscura si estende ben oltre le stime precedenti, ovvero per almeno un milione di anni luce dal centro galattico. Una forza così estesa potrebbe indicare paradossalmente che la materia oscura, come intesa finora, potrebbe non esistere affatto.

“Questa scoperta mette in discussione i modelli esistenti”, dichiara Tobias Mistele della Case Western Reserve University e primo autore dello studio, “suggerendo che esistono o aloni di materia oscura molto estesi o che dobbiamo rivedere radicalmente la nostra comprensione della teoria gravitazionale”.

Lelli aggiunge: “Abbiamo usato questi dati per studiare la relazione di Tully-Fisher –  una legge di scala tra la massa barionica (quella di cui sono fatte le stelle e il gas) e la velocità di rotazione delle galassie – trovando che la stessa legge persiste quando utilizziamo le velocità misurate a grandissime distanze. Tale risultato non è affatto ovvio poiché a tali distanze la velocità di rotazione è determinata interamente dalla materia oscura, non da quella barionica”. Le osservazioni “ci permettono di raggiungere distanze dal centro galattico enormemente grandi, circa venti volte maggiori rispetto a quelle raggiunte con le tecniche classiche. Con grande sorpresa, abbiamo troviamo che le curve di rotazione rimangono quasi perfettamente piatte – in altre parole, la velocità rimane costante – fino alle distanze più grandi che siamo in grado di raggiungere”.

Questo tipo di studio intende chiarire quale sia la natura della materia oscura, ovvero se questi fenomeni gravitazionali siano dovuti a un nuovo tipo di particella elementare “invisibile” ancora da scoprire, oppure se vi sia la necessità di rivedere le leggi gravitazionali di Newton ed Einstein.

Lelli prosegue: “Questo risultato non ha una spiegazione ovvia nel contesto cosmologico standard della Lambda Cold Dark Matter (LCDM) e potrebbe avere a che fare con l’ambiente della galassia, ovvero con la distribuzione degli aloni di materia oscura più piccoli che si ritiene orbitare attorno all’alone principale. Per limitare questo effetto, infatti, abbiamo selezionato le nostre galassie per essere il più isolate possibile”.

 Grafico che illustra le osservazioni riportate nell’articolo: i punti rossi mostrano la curva di rotazione della galassia UGC 6614 usando osservazioni "classiche" della cinematica del gas, mentre i punti celesti mostrano il nuovo risultato statistico usando la tecnica del weak lensing. Crediti: T. Mistele et al. (2024)
Ai confini della materia oscura vista con una lente gravitazionale debole: le velocità di rotazione delle galassie rimangono costanti. Grafico che illustra le osservazioni riportate nell’articolo: i punti rossi mostrano la curva di rotazione della galassia UGC 6614 usando osservazioni “classiche” della cinematica del gas, mentre i punti celesti mostrano il nuovo risultato statistico usando la tecnica del weak lensing. Crediti: T. Mistele et al. (2024)

Curve di rotazione piatte fino a grandi raggi erano già state predette dalla teoria della gravità modificata MOND, proposta dal fisico Mordehai Milgrom nel 1983 come alternativa alla materia oscura.

“Le nostre osservazioni sono in accordo con quanto predetto da MOND più di 40 anni fa”, conclude Lelli.

Sono ora necessari ulteriori studi per chiarire l’avvincente rompicapo cosmologico e scrivere una nuova pagina di storia dell’astrofisica moderna.


Riferimenti bibliografici:

L’articolo “Indefinitely Flat Circular Velocities and the Baryonic Tully-Fisher Relation from Weak Lensing”, di Tobias Mistele, Stacy McGaugh, Federico Lelli, James Schombert, e Pengfei Li, è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.

Testo e immagine dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

TRIPUDIO DI GALASSIE IN TRE NUOVE IMMAGINI DEL TELESCOPIO VST MOSTRANO ABELL 1689, HGC 90 ED ESO 510-G13

L’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) pubblica tre splendide immagini di galassie, gruppi e ammassi di galassie, realizzate con il telescopio italiano VST, gestito da INAF nel deserto di Atacama, in Cile. Le immagini sono state presentate oggi durante il VST Science Workshop a Napoli.

Galassie, lontane e lontanissime. Galassie interagenti, la cui forma è stata scolpita dalla reciproca influenza gravitazionale, ma anche galassie che formano gruppi e ammassi, tenute insieme dalla mutua gravità. Sono le protagoniste di tre nuove immagini rilasciate dal VLT Survey Telescope (VST) in occasione del convegno dedicato alle attività scientifiche del telescopio, in corso dal 16 al 18 aprile presso l’Auditorium nazionale dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) a Napoli.

Il VST è un telescopio ottico dal diametro di 2,6 metri, costruito completamente in Italia e operativo dal 2011 presso l’osservatorio dello European Southern Observatory (ESO) di Paranal, in Cile. Da ottobre 2022, il telescopio è gestito interamente da INAF attraverso il Centro Italiano di Coordinamento per VST presso la sede INAF di Napoli, con il 90% del tempo osservativo dedicato alla comunità astronomica italiana. Il VST è specializzato nelle osservazioni di grandi aree del cielo grazie alla sua fotocamera a grande campo, OmegaCAM, un vero e proprio “grandangolo celeste” in grado di immortalare, in ciascuna ripresa, un grado quadrato di cielo, ovvero una porzione della volta celeste larga due volte il diametro apparente della Luna piena. Oltre alle immagini raccolte per la ricerca astrofisica, che per il VST spazia dalle stelle alle galassie fino alla cosmologia, nell’ultimo anno il telescopio ha condotto un nuovo programma dedicato al grande pubblico, osservando nebulose, galassie e altri oggetti celesti iconici durante alcune notti di Luna piena, nelle quali la luminosità del nostro satellite naturale disturba l’acquisizione dei dati scientifici. Nuove immagini saranno pubblicate nei prossimi mesi.

“Oltre alla ricerca scientifica, uno degli obiettivi del centro VST è quello di disseminare la conoscenza scientifica e condividere le meraviglie dell’universo con i non-esperti del settore. In particolare, ci piacerebbe che le nuove generazioni di ragazze e ragazzi, attraverso queste fantastiche immagini, possano scoprire ed alimentare l’interesse per l’astrofisica”, commenta Enrichetta Iodice, ricercatrice INAF a Napoli e responsabile del Centro Italiano di Coordinamento per VST.

ESO 510-G13, HGC 90 e Abell 1689 nelle nuove immagini dal Telescopio VST. Gallery

ESO 510-G13 Telescopio VST galassie
Crediti: INAF/VST. Acknowledgment: M. Spavone (INAF), R. Calvi (INAF)

Una delle tre immagini rilasciate oggi ritrae ESO 510-G13, una curiosa galassia lenticolare a circa 150 milioni di anni luce da noi, in direzione della costellazione dell’Idra. Spicca il rigonfiamento centrale della galassia, su cui si staglia la silhouette scura del disco di polvere visto di taglio, che ne oscura parte della luce. La forma distorta del disco ricorda vagamente una S rovesciata, indice del passato turbolento di ESO 510-G13, che potrebbe aver acquisito la sua attuale conformazione a seguito di una collisione con un’altra galassia. Nell’angolo in basso a destra, tra le tantissime stelle della Via Lattea disseminate nell’immagine, si distingue anche una coppia di galassie a spirale a circa 250 milioni di anni luce da noi. Zoomando nell’immagine, si possono notare molte altre galassie ancora più distanti, visibili come piccole macchie di luce elongate tra i tanti puntini sullo sfondo.

Hickson Compact Group 90 HGC 90 Telescopio VST galassie
Crediti: INAF/VST. Acknowledgment: M. Spavone (INAF), R. Calvi (INAF)

La seconda immagine mostra un piccolo gruppo formato da quattro galassie, chiamato Hickson Compact Group 90 (HGC 90), che dista circa 100 milioni di anni luce di distanza dalla Terra, verso la costellazione del Pesce Australe. Le due macchie di luce rotondeggianti vicino al centro dell’immagine sono le galassie ellittiche NGC 7173 e NGC 7176. La striscia luminosa che si biforca e collega queste due galassie è la terza componente del gruppo, la galassia a spirale NGC 7174: la sua forma singolare tradisce l’interazione in corso tra i tre corpi celesti, che ha strappato loro stelle e gas, rimescolandone la distribuzione. Un alone di luce diffusa avvolge le tre galassie. Non sembra partecipare a questa danza celeste la quarta galassia appartenente al gruppo, NGC 7172, visibile nella parte superiore dell’immagine: si tratta di una galassia il cui nucleo, solcato da scure nubi di polvere, nasconde un buco nero supermassiccio che divora attivamente il materiale circostante. Il quartetto di galassie HGC 90 è immerso in una struttura molto più vasta, che comprende decine di galassie, alcune delle quali visibili in questa immagine.

Abell 1689 Telescopio VST galassie
Crediti: INAF/VST. Acknowledgment: M. Spavone (INAF), R. Calvi (INAF)

La terza immagine mostra un raggruppamento di galassie molto più ricco e ancora più distante: l’ammasso di galassie Abell 1689, che si può osservare nella costellazione della Vergine. Abell 1689 contiene più di duecento galassie, visibili per lo più come macchie di colore giallo-arancio, la cui luce ha viaggiato per circa due miliardi di anni prima di raggiungere il VST. L’enorme massa, che oltre alle galassie comprende anche enormi quantità di gas caldo e della misteriosa materia oscura, deforma lo spazio-tempo in prossimità dell’ammasso, che funge così da “lente gravitazionale” sulle galassie ancora più lontane, amplificando la  loro luce e creando immagini distorte, in modo non dissimile da quanto farebbe una comune lente ottica. Alcune di queste galassie si possono distinguere sotto forma di puntini e di minuscoli trattini dalla forma leggermente curva, in particolare intorno alle regioni centrali dell’ammasso.


 

Per ulteriori informazioni:

L’immagine di HCG 90 fa parte del progetto di ricerca VST Elliptical Galaxy Survey (VEGAS) e consiste di 266 immagini per un totale di circa 11 ore di osservazioni. Le immagini di ESO 510-G13 e di Abell 1689 fanno parte del programma GIOB, dedicato alla raccolta di immagini per il public engagement, e consistono rispettivamente di 19 immagini (1,5 h) e 66 immagini (5,5 h).

Il sito web del VST: https://vst.inaf.it/

 

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)