Ritrovato a Roma il fossile del primo lupo d’Europa
L’enigmatico fossile ritrovato nei pressi di Ponte Galeria (Roma) è stato analizzato da un gruppo di paleontologi e geologi del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza Università di Roma e dell’Università Statale di Milano. La ricostruzione 3D dei resti ha permesso di identificare il fossile come il più antico esemplare adulto di lupo (Canis lupus) in Europa, databile a circa 400.000 anni fa. I risultati dello studio, che gettano nuova luce sulle dinamiche di diffusione del lupo nel nostro continente, sono stati pubblicati sulla rivista Scientific Reports.
Ritrovato a Roma il fossile del primo lupo d’Europa
Il lupo è una delle specie più emblematiche della biodiversità europea, animale simbolo delle foreste del nostro continente, così radicato nel nostro immaginario da entrare a far parte della cultura, del folklore e della tradizione di tutti i popoli europei. Sebbene l’uomo conviva con il lupo da migliaia di anni, la storia evolutiva di questo predatore iconico è ancora fonte di dibattito nella comunità scientifica, con punti interrogativi sul momento in cui questo animale si è diffuso nel nostro continente.
Ritrovato a Roma il fossile del primo lupo d’Europa
Un gruppo di paleontologi e geologi del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza Università di Roma e del Dipartimento di Scienze della Terra “Ardito Desio” dell’Università Statale di Milano, ha esaminato un enigmatico cranio fossile di canide di grandi dimensioni sono stati ritrovati nei pressi di Roma, più precisamente a Ponte Galeria. La scansione 3D dei resti frammentari ha permesso di identificare il cranio fossile come il più antico esemplare adulto di lupo (Canis lupus), risalente a circa 400.000 anni fa (Pleistocene Medio). I risultati dello studio sono stati pubblicati su Scientific Reports, rivista scientifica internazionale del gruppo Nature.
“In particolare i frammenti fossili sono stati scansionati tramite TAC e poi uniti digitalmente per ricreare l’assetto originale del cranio, il quale è stato poi analizzato, misurato e comparato con altre scansioni di canidi moderni come lo sciacallo, o il lupo appenninico che popola attualmente la penisola italiana”, spiega Dawid A. Iurino, primo autore dello studio.
Poiché l’area di Ponte Galeria è ricca di giacimenti di diverse datazioni, il gruppo di ricerca ha analizzato il sedimento vulcanico che ricopriva e riempiva i frammenti fossili per stabilire l’età precisa del reperto.
“Prima di questa ricerca i resti fossili più antichi di lupo erano quelli datati intorno ai 300.000 anni ritrovati in Francia (Lunel-Viel) e in Italia (Polledrara di Cecanibbio, di cui però manca una descrizione formale del reperto) – commenta Raffaele Sardella, coordinatore dello studio. “Questo nuovo studio ha permesso quindi di individuare nel lupo di Ponte Galeria il resto fossile di questa specie più antico rinvenuta fino ad ora in Europa”.
Le nuove analisi hanno dimostrato come la dispersione del lupo sia avvenuta durante il “Mid-Brunhes Event”, una fase del Pleistocene caratterizzata dall’aumento dell’ampiezza dei cicli/interglaciali, che diventano più lunghi e più intensi. Questo cambiamento climatico ebbe una forte ripercussione sugli ecosistemi terrestri favorendo probabilmente la diffusione di nuove specie in Europa tra cui il lupo.
Riferimenti:
A Middle Pleistocene wolf from central Italy provides insights on the first occurrence of Canis lupus in Europe – Dawid A. Iurino, Beniamino Mecozzi, Alessio Iannucci, Alfio Moscarella, Flavia Strani, Fabio Bona, Mario Gaeta & Raffaele Sardella – Scientific Reportshttps://doi.org/10.1038/s41598-022-06812-5
Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
L’IMPATTO DEL PRECARIATO SUI PROGETTI DI VITA DEI GIOVANI IN EUROPA
Presentazione del volume “Social exclusion of youth in Europe”, pubblicato nel 2021, che raccoglie dati, statistiche ed esperienze dei giovani europei.
L’impatto del precariato sui progetti di vita dei giovani in Europa. Foto di Gerd Altmann
Mercoledì 16 febbraio 2022, dalle 9 alle 13, in diretta streaming dal Campus Luigi Einaudi dell’Università di Torino, si tiene la presentazione del volume“Social exclusion of youth in Europe, the multifaceted consequences of labour market insecurity”, a cura di Sonia Bertolini,docente di sociologia dei processi economici e del lavoroalDipartimento di Culture, Politica e SocietàUniTo, Michael Gebel (Università di Bamberg), Vasiliki Deliyanni-Kouimtzis (Università di Salonicco) e Dirk Hofäcker (Università di Duisburg-Essen). Modera il giornalista Paolo Volpato.
Il volume raccoglie dati, statistiche ed esperienze dei giovani europei raccolti attraverso Horizon Except, il progetto che dal 2016 ha cercato risposte a una serie di interrogativi: Cosa significa diventare autonomi in un mondo precario? Come si vive la progettualità e il percorso del divenire adulti in questo contesto? Quali sono le conseguenze dell’insicurezza sul benessere e sulla scelta di uscire dalla famiglia di origine? Che ruolo ha il significato del lavoro, in questo processo, e come si declinano questi aspetti in paesi diversi, quando diverso è il mercato del lavoro, il sistema di welfare, la cultura?
Social exclusion of youth in Europe rende conto di un lavoro interdisciplinare, comparativo e multi-metodo, fatto di analisi e lettura delle dinamiche tra lavoro e progetti di vita che riguardano i giovani in Europa. Un’iniziativa che ha coinvolto 9 paesi (Bulgaria, Estonia, Germania, Grecia, Italia, Polonia, Svezia, Ucraina e Regno Unito), con 386 interviste e 117 fotografie in tema di “divenire adulti oggi”.
In alcuni paesi come Italia, Polonia e Bulgaria emerge una doppia esclusione dei giovani: si può parlare di una sorta di “insicurezza istituzionalizzata” per indicare quando la precarietà lavorativa produce una serie di esclusioni a catena, ad esempio dal sostegno al reddito (in Italia fino allo scorso anno) o dall’accesso al credito bancario, che in questo Paesi è impossibile da ottenere senza un contratto fisso o la garanzia dei genitori, indipendentemente dal reddito.
In Italia l’insicurezza istituzionalizzata riguarda numeri considerevoli, se pensiamo che il 30% della popolazione giovanile è disoccupata e il 50% ha un contratto precario. La ricerca mette in luce le conseguenze negative sul benessere psicosociale e sull’autonomia psicologica, economica e abitativa: far fronte a questa insicurezza è un compito arduo, perché le strategie individuali e sociali non sono sufficienti per contrastare un sistema fortemente strutturato sull’insicurezza.
I dati degli ultimi anni ci dicono che la pandemia da Covid-19 ha avuto conseguenze sproporzionate su giovani e donne. Questo libro, fornendo una fotografia articolata e comparata della situazione prepandemica, aiuta a comprendere su quali premesse e su quali meccanismi abbia trovato terreno fertile quest’ultima ondata di precarietà ed esclusione.
Il team italiano di Horizon Except all’Università di Torino è composto da Sonia Bertolini, Magda Bolzoni, Chiara Ghislieri, Valentina Goglio, Antonella Meo, Valentina Moiso, Rosy Musumeci, Roberta Ricucci e Paola Torrioni.
Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino
Uno studio internazionale condotto da un ricercatore della Sapienza in collaborazione con le Università di Cardiff, Louvain e Pavia, mostra che la penetrazione della banda larga ha causato una diminuzione dell’impegno e della partecipazione civica e politica, senza però compromettere le relazioni con parenti e amici.
Sono numerosi gli studi che documentano che gli indicatori di fiducia, partecipazione civica e interazioni sociali sono in declino in molti paesi almeno a partire dalla seconda metà degli anni 1990.
La pandemia da Coronavirus ha messo ulteriormente a dura prova le relazioni interpersonali. Da due anni il distanziamento sociale ostacola molte forme di partecipazione alla vita pubblica, minando la fiducia nelle istituzioni e la coesione sociale e incrementando una fase di per sé già difficile per il capitale sociale in Europa.
Alcuni autori hanno attribuito il declino iniziale del capitale sociale in Europa all’uso sempre più pervasivo della televisione. Sembra plausibile che l’effetto di Internet, un mezzo di comunicazione più interattivo della televisione e in grado di fornire contenuti on demand, possa essere stato ancora più forte. Questa possibilità è stata indagata da un team internazionale di ricercatori formato da Fabio Sabatini del Dipartimento di Economia e diritto della Sapienza[MOU1] , Andrea Geraci (Università di Pavia), Mattia Nardotto (KU Leuven) e Tommaso Reggiani (Cardiff University), che si sono chiesti se il tempo speso online possa spiazzare la nostra partecipazione politica e sociale, rendendoci più concentrati su noi stessi e meno disponibili a preoccuparci del benessere della comunità in cui viviamo.
Per rispondere a questa domanda, i ricercatori hanno combinato informazioni sulla topologia della vecchia rete telefonica del Regno Unito con dati campionari geolocalizzati raccolti annualmente dal 1998 al 2018 dall’Institute for Social and Economic Research, mostrando in che misura l’uso di Internet ad alta velocità ha colpito varie dimensioni del capitale sociale: mentre la partecipazione civica e politica sono più vulnerabili alla pressione dei nuovi media sulle scelte di allocazione del tempo degli utenti, le relazioni con i familiari e gli amici sembrano invece in grado di resistere all’impatto delle nuove tecnologie della comunicazione. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Journal of Public Economics.
L’analisi empirica ha dimostrato in particolare come le attività orientate al bene comune che richiedono un significativo dispendio di tempo, quali il coinvolgimento nelle iniziative delle associazioni volontarie (capitale sociale di tipo bridging) abbiano risentito maggiormente dell’effetto “spiazzamento” della banda larga. L’effetto è statisticamente significativo e di dimensioni rilevanti. Una riduzione di 1,8 km della distanza tra l’abitazione e il nodo della rete telefonica più vicino, corrispondente a un significativo aumento della velocità della connessione, ha causato una diminuzione della probabilità di partecipare ad attività associative del 4,7% tra il 2005 e il 2017. Per le associazioni di volontariato, la probabilità di partecipare si è ridotta del 10,3%. Nel caso dei partiti politici, l’accesso alla banda larga ha causato una riduzione della probabilità di partecipazione del 19%.
L’effetto spiazzamento non ha intaccato invece le relazioni con i familiari e gli amici (forma di capitale sociale di tipo bonding) basate sui legami già esistenti, che tendono a rafforzare l’attenzione degli individui su obiettivi particolaristici.
“È un risultato poco confortante che, con la dovuta cautela, potrebbe fornire una chiave di interpretazione di fenomeni sociali recenti come il crescente distacco del pubblico dalla politica” – commenta Fabio Sabatini. “Tuttavia, l’evidenza empirica osservata nel Regno Unito non è necessariamente valida ovunque: l’impatto economico e sociale della penetrazione della banda larga potrebbero variare in base allo stock iniziale di capitale sociale, al contesto istituzionale e all’uso che gli utenti fanno della rete veloce”.
Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare: tra credenze e evidenze
Anche io, almeno fino a qualche tempo fa, cadevo nella facile conclusione che ci fosse una connessione tra Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) e Vegetarianismo. D’altronde, entrambe condividono una tendenza a orientare le proprie scelte alimentaria favore di vegetali e frutta, cibi tendenzialmente ipocalorici. Poi a un certo punto, come mi accade per molte credenze, mi è venuta voglia di sbirciarci dentro e ho deciso di approfondire il tema, un po’ per curiosità personale, un po’ per “dovere” professionale.
Spoiler per chi non vuole leggere fino in fondo: la letteratura scientifica esistente su questo argomento è molto intricata, un po’ per le diverse metodiche utilizzate, un po’ a causa della complessità nel definire il “vegetarianismo” in modo chiaro e ineluttabile. Insomma, trarre una conclusione univoca è difficile. Per chi invece si è incuriosito e vorrebbe saperne di più, andate avanti e godetevi la lettura, la ricompensa sarà l’averci capito qualcosa in più rispetto a chi si ferma qui!
Intanto, cosa sono i Disturbi del Comportamento Alimentare?
I DCA sono una serie di disturbi psichiatrici accomunati da due sintomi principali: l’alterazione delle abitudini alimentari e l’eccessiva preoccupazione per il peso e per la forma del corpo. Insorgono prevalentemente durante l’adolescenza e ne soffrono soprattutto le donne. Sebbene ognuno di noi possa utilizzare strategie comportamentali o cognitive per cercare di limitare l’ingestione di cibo o controllare il proprio peso corporeo, non tutti soffrono di un DCA: ci sono infatti dei criteri diagnostici ben precisi che chiariscono cosa è patologico e cosa no, e sono ben descritti nel DSM-5 [1] e nell’ICD-11 [2].
I 3 principali DCA sono i) l’anoressia nervosa, caratterizzata da una costante ricerca della magrezza, da una paura patologica di prendere peso e da una distorta immagine corporea, le quali determinano un’assunzione di calorie insufficiente rispetto alle richieste fisiologiche, con conseguente perdita di peso che si attesta sotto la norma; ii) la bulimia nervosa, caratterizzata da abbuffate a cui seguono sensi di colpa legati alle preoccupazione per il peso e quindi condotte di eliminazione/compensatorie (vomito autoindotto, uso di lassativi, diuretici, pratica sportiva eccessiva ecc.) che dovrebbero placare l’ansia di prendere peso e iii) il disturbo da alimentazione incontrollata (o binge eating disorder) in cui sono presenti abbuffate e sensi di colpa, ma mancano le condotte eliminatorie che caratterizzano la bulimia nervosa; spesso si associa a un peso sopra la norma.
Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di StockSnap
E invece il vegetarianismo cos’è?
Qui iniziano i problemi, perché la prima vera difficoltà con cui si scontra la letteratura che indaga il rapporto tra vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare è la definizione stessa di vegetarianismo e il modo in cui questa variabile viene declinata nei diversi studi.
Partiamo col dire che il vegetarianismo (o vegetarianesimo o vegetarismo) è un insieme di pratiche alimentari accomunate dal prevalente consumo di alimenti vegetali. Il fatto è che è possibile distinguere molti sottogruppi di vegetariani: i latto-ovo-vegetariani sono le persone che non assumono carne animale e prodotti della pesca, ma che assumono altri derivati animali come latticini e uova (esistono però anche i latto-vegetariani e gli ovo-vegetariani); i vegani, evitano anche tutti gli altri derivati animali come appunto latte e uova; i semi-vegetariani invece evitano solo alcune tipologie di carne oppure mangiano pesce ma non carne (pescetariani) oppure possono consumare carne, ma in modo saltuario (flexitariani).
Molti studi, per semplicità, raggruppano i “vegetariani” in un unico gruppo, confrontandoli con i non vegetariani; altri studi si sono sforzati di suddividerli nei vari sottogruppi, in modo da confrontarli tra di loro, oltre che con gli onnivori. Quest’ultimo approccio, probabilmente il migliore, è stato usato di rado, a causa della difficoltà a reclutare un numero sufficientemente grande di individui con i vari tipi di vegetarianismo, ma la comprensione della relazione tra alimentazione a base vegetale e DCA sembra passare di qui.
Come se non bastasse, la decisione di diventare vegetariani può originare da una infinità di motivi: ci sono persone che sono vegetariane perché richiesto dalla loro religione (in India, ad esempio, il vegetarianismo è una questione storicamente religiosa), vegetariani che semplicemente non possono permettersi la carne o vegetariani che rifiutano di consumare carne solo per le proprietà gustative.
Ciononostante, nelle società industrializzate e secolarizzate occidentali possiamo distinguere fondamentalmente tre motivazioni che spingono una persona a diventare vegetariana. La prima motivazione è quella di stampo etico-animalista, cioè i vegetariani che affermano di seguire una dieta a base vegetale allo scopo di ridurre lo sfruttamento e le pratiche crudeli che subiscono gli animali d’allevamento. Un’altra parte di vegetariani riferisce di evitare carne e derivati animali per ragioni salutistiche e nutrizionali, ed in effetti una dieta a base vegetale – se ben bilanciata – sembra ridurre l’incidenza di disturbi cardiovascolari e cancro (Campbell, 1998; Hart, 2009). Infine, una terza motivazione è quella etico-ecologista, legata alla problematiche che gli allevamenti determinano a livello ambientale, causate dal sovraconsumo di acqua o dall’eccessiva emissione di gas inquinanti.
Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di Daniel Reche
Ora, quali sono le motivazioni più spesso addotte da chi ha deciso di seguire una dieta a base vegetale? Klopp e colleghi (2003) suggeriscono che la ragione più di frequente riportata da chi intraprende una dieta vegetariana è quella relativa alla maggior salubrità rispetto alla dieta onnivora (37,5%), Timko e collaboratori (2012) invece hanno trovato che le motivazioni più spesso richiamate dai vegetariani sono quelle di natura etico-animalista (50% del campione). A complicare il panorama ci pensa la ricerca di Baş e collaboratori (2005) che riportava come ragione più comune semplicemente le preferenze gustative (cioè il 58,1% del campione ha dichiarato di essere vegetariano semplicemente perché non apprezza a livello gustativo carne e/o derivati animali).
Queste differenze sono in parte spiegate dalle caratteristiche sociodemografiche dei partecipanti, in prevalenza statunitensi sia nello studio di Klopp che in quello di Timko, ma in quest’ultimo caso più adulti (età media 26 contro i 19 del campione di Klopp). Nello studio di Baş invece i partecipanti erano turchi con un’età media di 21 anni. Queste differenze ci indicano che è fondamentale considerare gli aspetti sociodemografici, ma è invece trasversale la constatazione che molti dei vegetariani che parlano di motivazioni salutistiche/nutrizionali dietro alle loro scelte alimentari, fanno riferimento più o meno esplicito anche alla possibilità di poter controllare più facilmente il proprio peso e la forma del proprio corpo, escludendo i grassi animali dalla propria dieta (Bardone-Cone et al., 2012). Ed in effetti i vegetariani presentano un più accentuato tratto di ortoressia (fissazione sull’alimentazione salutare) rispetto agli onnivori (Barthels et al., 2018). È qui che nasce un primo collegamento con i DCA.
Partiamo dagli stili alimentari…
Come abbiamo detto sopra, per fare diagnosi di DCA si deve soddisfare una serie di criteri. Questo non vuol dire che però ognuno di noi non possa presentare stili alimentari più o meno disfunzionali, senza per forza sfociare nella patologia. Uno di questi stili è il Restrained Eating, che potremmo tradurre come restrizione alimentare o dietetica. Per restrizione dietetica si intende il ricorso sistematico a diete o il tentativo di limitare il consumo di cibo in generale, al fine di controllare il proprio peso corporeo. Nella realtà dei fatti, le restrizioni dietetiche si manifestano come il ricorso a digiuni o, più frequentemente, come una riduzione nel consumo di specifici prodotti o macronutrienti, senza un reale riscontro sul peso, che è esattamente ciò che accade nel vegetarianismo. Inoltre, poiché a restrizioni croniche conseguono spesso abbuffate, elevati tratti di “restrained eating” sembrano predire la manifestazione di diversi DCA (Stiche, 2002; Polivy & Herman, 2002).
Dato che è possibile misurare le restrizioni dietetiche come fossero un tratto di personalità utilizzando specifici questionari, molti studi si sono concentrati su questo stile, per vedere se è più accentuato nei vegetariani che negli onnivori. I dati ci dicono che vegani e latto-ovo-vegetariani non si differenziano per questo tratto rispetto agli onnivori, ed anzi qualcuno suggerisce che una dieta vegana sia collegata a minori livelli di restrizioni alimentari (Janelle & Bar, 1995; Kahleova et al., 2013). Al contrario flexitariani e semi-vegetariani, che evitano quindi specifici tipi di carne o che cercano di limitare il consumo, mostrano un restrained eating più pronunciato rispetto agli onnivori (Forrestell et al., 2013; Timko et al., 2012). Questo lascerebbe ipotizzare che il vegetarianismo abbracciato da latto-ovo-vegetariani e vegani sia di fatto più di tipo morale ed etico, rispetto a quello dei flexitariani e semi-vegetariani, probabilmente più legato ad aspetti salutistici e di peso. Di conseguenza, questi ultimi sarebbero più a rischio di sviluppare un DCA o comunque comportamenti alimentari disfunzionali.
Altri stili alimentari misurabili sono l’Emotional Eating (o alimentazione emotiva) ovvero la tendenza più o meno pronunciata a sovralimentarsi, in risposta ad emozioni stressanti e l’External Eating (o alimentazione disinibita), cioè la tendenza a cedere o meno a delle tentazioni alimentari che provengono dall’ambiente, indipendentemente dal nostro appetito fisiologico. Ad oggi non ci sono confronti tra vegetariani e onnivori in questi specifici tratti. D’altra parte alcuni studi hanno riportato una maggiore tendenza ad abbuffarsi da parte dei vegetariani rispetto agli onnivori (Robinson-O’Brien et al., 2009; MacLean et al., 2021). Questo risultato potrebbe avere tre cause: i) i vegetariani potrebbe essere più indulgenti con loro stessi in relazione alla quantità di cibo da consumare, essendo verdura e frutta prodotti sani; ii) una dieta a base vegetale non sempre potrebbe fornire un senso di pienezza o un apporto equilibrato di macronutrienti e questo potrebbe innescare episodi di abbuffate; iii) i vegetariani potrebbero anche avere una soglia più bassa relativa al concetto di “abbuffata” rispetto agli onnivori, a causa delle loro abitudini alimentari più ponderate.
Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di RitaE
Ma i vegetariani presentano più spesso un DCA rispetto agli onnivori?
Gli studi che hanno utilizzato domande dicotomiche non standardizzate, per rilevare la presenza di DCA tra i vegetariani, non sono arrivati a conclusioni definitive. Tre revisioni retrospettive (Hadigan et al., 2000; O’Connor et al., 1987; Kadambari et al., 1986), hanno rilevato che circa la metà delle persone con diagnosi di anoressia nervosa riferiva di aver aderito a una dieta vegetariana. Purtroppo, in nessuno di questi studi era specificato il sottotipo di vegetarianismo. Al contrario, un altro studio non ha trovato differenze nella distribuzione di vegetariani e onnivori in partecipanti con diagnosi di DCA e partecipanti sani (Estima et al., 2012). Infine, una ricerca, ha rilevato la maggiore propensione da parte dei vegetariani ad abbuffarsi ed utilizzare misure di controllo del peso non salutari, come il vomito autoindotto o l’uso di lassativi (Robinson-O’Brien et al., 2009).
Atteggiamenti alimentari disfunzionali nei vegetariani: i campanelli d’allarme
Un altro metodo per capire se il vegetarianismo è più o meno correlato ai Disturbi del Comportamento Alimentare è quello di valutare i punteggi ottenuti ai questionari self-report che indagano aspetti comportamentali o cognitivi che caratterizzano i DCA. Se è vero che il vegetarianismo è collegato ai Disturbi del Comportamento Alimentare, allora i vegetariani dovrebbero ottenere punteggi maggiori (che corrispondono a tratti più pronunciati) nelle varie scale e sottoscale che valutano la sintomatologia DCA rispetto agli onnivori. Gli studi che hanno utilizzato questo metodo d’indagine sono stati condotti prevalentemente su studenti universitari, ed hanno mostrato che i vegetariani avevano punteggi più alti (rispetto agli onnivori) nelle sottoscale che valutano le preoccupazioni relative all’alimentazione, alla forma e al peso corporeo, ma non in quelle che valutano le restrizioni caloriche (Sieke et al., 2013). Inoltre quelli che riferivano di essere vegetariani per motivi di salute o di forma/peso mostravano in media punteggi più alti rispetto a quelli che dichiaravano di seguire questa dieta per motivi etico-morali. E mentre Zuromsky e collaboratori (2015) hanno osservato punteggi maggiori in tutte le sottoscale in chi riferiva una qualsiasi forma di vegetarianismo, Timko e collaboratori (2012) hanno evidenziato che i punteggi critici nella sottoscala “preoccupazioni per l’alimentazione” caratterizzava solo il sottogruppo dei semi-vegetariani.
In definitiva anche in questo caso i vari studi mostrano risultati contrastanti: alcuni hanno trovato punteggi più alti (e quindi atteggiamenti alimentari più disfunzionali) nei vegetariani rispetto agli onnivori, altri studi non hanno trovato differenze se non nei semi-vegetariani, che sembrano essere anche in questo caso quelli con più problematiche alimentari (Timko et al., 2012; Forestell et al., 2012). Infine, ad oggi un solo studio ha indagato gli atteggiamenti riguardanti la propria immagine corporea, meno negativi nelle ragazze vegetariane rispetto a quelle onnivore. Questa minore preoccupazione per la propria immagine corporea potrebbe dipendere dal BMI generalmente inferiore dei vegetariani (Dorard & Mathiue, 2021).
In linea generale, dunque, sembrerebbe che chi ha una diagnosi di DCA riferisca di essere vegetariano più spesso rispetto a chi non ha una diagnosi di DCA. Inoltre, i gruppi subclinici quindi con punteggi alti nelle scale che misurano la sintomatologia DCA ma senza diagnosi, riferiscono storie di vegetarianismo più di frequente rispetto a chi non presenta alcun sintomo. Questi dati forniscono un supporto almeno preliminare all’idea che ci sia una relazione tra vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Gli studi che hanno confrontato sottogruppi di vegetariani, però, hanno sottolineato la necessità di distinguere tra i diversi sottotipi, i quali mostrano punteggi molto diversi nelle scale che misurano i comportamenti alimentari patologici.
In particolare, rispetto a ovo-latto-vegetariani, vegani e onnivori, sembra che i semi-vegetariani siano quelli che riportano un comportamento alimentare più disfunzionale (sono i “più patologici” secondo Heiss et al., 2017). I semi-vegetariani hanno maggiori probabilità di limitare l’assunzione di cibo a causa di preoccupazioni riguardo l’alimentazione (Timko et al., 2012), mentre gli ovo-latto-vegetariani e i vegani aderiscono a una dieta vegetariana principalmente per motivi etici (Forestell et al., 2012; Curtis e Comer , 2006). Non solo, i semi-vegetariani sono anche più suscettibili alle abbuffate rispetto agli altri vegetariani e agli onnivori. Queste conclusioni suggeriscono che i semi-vegetariani sono categoricamente diversi dagli altri vegetariani e questa distinzione dovrebbe essere considerata quando si valuta il comportamento alimentare (Robinson-O’Brien et al., 2009).
Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di Дарья Яковлева
Da questo punto di vista, sarebbe interessante se ci fossero più studi provenienti dai paesi mediterranei (come l’Italia), dove, se da una parte il vegetarianismo è abbastanza diffuso, dall’altra la dieta mediterranea prevede già di per sé un consumo di carne e di derivati animali moderato, a favore del consumo di vegetali (Willett et al., 1995). In un campione con tali abitudini alimentari, il sottogruppo semi-vegetariano potrebbe essere molto meno numeroso rispetto ad altri paesi occidentali, dove il consumo di carne e grassi animali è maggiore. In generale, la tipologia di vegetarianismo e i motivi che ne sono alla base non possono non prescindere dal campione di riferimento, ma ad oggi la maggior parte dei dati sul tema derivano dagli Stati Uniti e dai Paesi del Nord Europa.
Infine dobbiamo considerare che non solo il tipo di vegetarianismo, ma anche le tempistiche in cui vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare si sono avvicendati dovrebbero essere maggiormente approfonditi. Al momento non ci sono dati che indicano inequivocabilmente che il vegetarianismo sia di per sé un fattore di rischio dei DCA e che, quindi, potrebbe contribuire all’esordio di un DCA. Piuttosto, il vegetarianismo potrebbe essere un modo per limitare l’introito calorico e/o per “camuffare”, con un metodo socialmente accettabile, un DCA o comunque una sintomatologia alimentare tendente al patologico (Baş et al., 2005). È anche probabile che il vegetarianismo possa contribuire ad un prolungamento della patologia alimentare, rendendo più difficoltosa la guarigione e dunque configurarsi come un fattore di mantenimento più che come un fattore di rischio.
Sono dunque necessarie ricerche ben progettate, con campioni variegati e attente alle numerose variabili relative alle due condizioni, per trarre conclusioni definitive. Ad oggi possiamo dire che sì, ci sono delle relazioni tra vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare, ma quale siano queste relazioni, è ancora tutt’altro che chiaro.
Vegetarianismo e Disturbi del Comportamento Alimentare. Foto di RitaE
[1] Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), edizione 5: sistema nosografico per i disturbi mentali o psicopatologici redatto dall’American Psychiatric Association
[2] Classificazione Internazionale delle Malattie (International Classification of Disease), edizione 11: sistema di classificazione internazionale delle malattie e dei problemi correlati, stilata dall’Organizzazione mondiale della sanità
Bibliografia:
Bardone-Cone, A. M., Fitzsimmons-Craft, E. E., Harney, M. B., Maldonado, C. R., Lawson, M. A., Smith, R., & Robinson, D. P. (2012). The inter-relationships between vegetarianism and eating disorders among females. Journal of the Academy of Nutrition and Dietetics, 112(8), 1247-1252.
Barthels, F., Meyer, F., & Pietrowsky, R. (2018). Orthorexic and restrained eating behaviour in vegans, vegetarians, and individuals on a diet. Eating and Weight Disorders-Studies on Anorexia, Bulimia and Obesity, 23(2), 159-166.
Baş, M., Karabudak, E., & Kiziltan, G. (2005). Vegetarianism and eating disorders: association between eating attitudes and other psychological factors among Turkish adolescents. Appetite, 44(3), 309-315.
Campbell, T. C., Parpia, B., & Chen, J. (1998). Diet, lifestyle, and the etiology of coronary artery disease: the Cornell China study. The American journal of cardiology, 82(10), 18-21.
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Forestell, C. A., Spaeth, A. M., & Kane, S. A. (2012). To eat or not to eat red meat. A closer look at the relationship between restrained eating and vegetarianism in college females. Appetite, 58(1), 319-325.
Hadigan, C. M., Anderson, E. J., Miller, K. K., Hubbard, J. L., Herzog, D. B., Klibanski, A., & Grinspoon, S. K. (2000). Assessment of macronutrient and micronutrient intake in women with anorexia nervosa. International Journal of Eating Disorders, 28(3), 284-292.
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I mammiferi invasivi minacciano la biodiversità nel Vecchio Continente
Grido d’allarme dei ricercatori internazionali sulla crescente presenza in Europa di mammiferi introdotti da altri continenti, quali il visone, la nutria e lo scoiattolo. Le specie invasive rappresentano un rischio per la sopravvivenza di numerose specie native e anche per la salute dell’uomo.
Un gruppo congiunto di ricercatori internazionali provenienti da Italia, Austria e Portogallo ha recentemente messo in luce nella review “Introduction, spread, and impacts of invasive alien mammals in Europe”, pubblicata su Mammal Review, che i mammiferi alieni invasivi stanno espandendo i loro areali in Europa, minacciando la biodiversità nativa.
La presenza di queste specie, introdotte – in territori diversi dal loro habitat naturale – intenzionalmente come “animali da compagnia o da pelliccia” o accidentalmente, ha conseguenze negative, non solo sull’ambiente, ma anche sulla potenziale trasmissione di patogeni, inclusi quelli zoonotici che possono essere trasmessi dagli animali all’uomo. Il team di ricerca ha evidenziato che questo rischio è associabile all’81% delle specie aliene invasive studiate.
Il lavoro, coordinato da ricercatori del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza e dell’Università di Vienna, in collaborazione con l’Università di Lisbona, ha evidenziato come, nonostante l’implementazione di appositi accordi internazionali, in Europa le segnalazioni di mammiferi alieni invasivi siano in forte aumento a scapito delle specie autoctone. La ricerca consiste in una review sistematica della letteratura finora pubblicata su 16 specie aliene invasive, integrata con informazioni aggiornate ed estratte dai database globali.
L’Unione Europea per far fronte al fenomeno, ha adottato nel 2014 il Regolamento n. 1143/2014 con l’obiettivo di controllare o eradicare le specie aliene invasive prioritarie e prevenirne ulteriori introduzioni e insediamenti. Il cuore del regolamento è la Union List, una lista di specie verso cui indirizzare misure di prevenzione, gestione, individuazione precoce ed eradicazione veloce. Nonostante l’interesse comunitario al problema, nessuno studio finora aveva affrontato specificamente l’ecologia dei mammiferi alieni invasivi della lista.
Il cane procione (Nyctereutes procyonoides). Foto di Piotr Pkuczynski
Secondo gli autori della Review, le specie invasive più diffuse in Europa sono il cane procione (Nyctereutes procyonoides) originario della Siberia orientale, il topo muschiato (Ondatra zibethicus), il visone (Neovison vison) e il procione (Procyon lotor), queste ultime di origine nordamericana, che hanno invaso almeno 19 paesi e sono presenti da 90 anni nel territorio europeo. L’ampia distribuzione di questi mammiferi può essere attribuita a diversi fattori, tra cui adattabilità, capacità di colonizzare ambienti diversi e grande capacità riproduttiva.
I mammiferi invasivi minacciano la biodiversità nel Vecchio Continente. Il visone americano (Neovison vison). Foto di Ryzhkov Sergey
Inoltre è stato visto come tutte e cinque le specie di Sciuridi (la famiglia di roditori che comprende, tra gli altri, marmotte, petauri e scoiattoli arboricoli) sono state introdotte in Europa almeno una volta come “animali da compagnia” o per svago: vengono spesso rilasciate illegalmente nei parchi urbani quando non si è più disposti a tenerle, oppure a scopo ornamentale, sebbene tale attività, grazie alle campagne di sensibilizzazione, stia cadendo in disuso.
Altre specie come la nutria (Myocastor coypus), il procione o il visone americano sono state, invece, ripetutamente introdotte per essere allevate come animali da pelliccia: le fughe dagli allevamenti, frequenti, non sempre accidentali e ripetute negli anni, hanno permesso che si stabilissero vere e proprie popolazioni in natura.
“Nonostante negli ultimi 50 anni si sia registrata una diminuzione nelle nuove introduzioni di mammiferi alieni – spiega Lisa Tedeschi della Sapienza, prima autrice dello studio – questi continuano a espandere i loro areali in Europa, aiutati dal rilascio illegale di individui in natura, minacciando gravemente la biodiversità nativa”.
Un altro aspetto importante riguarda il coinvolgimento delle specie studiate nei cicli di trasmissione di patogeni zoonotici: alcune malattie infettive associate a mammiferi invasivi (come echinococcosi, toxoplasmosi e bailisascariasi) possono minacciare la salute umana. Basti pensare agli outbreaksdel virus SARS-CoV-2 registrati negli allevamenti di visoni americani di Paesi Bassi e Danimarca nel 2020, nonostante non sia ancora chiaro il ruolo epidemiologico dei visoni (e di altri mammiferi invasivi) nel ciclo del virus.
Oltretutto, il visone americano esercita un effetto negativo anche attraverso la predazione su altre specie, come l’arvicola eurasiatica (Arvicola amphibius). Anche il patrimonio genetico delle specie autoctone può essere minacciato dai mammiferi invasivi, attraverso l’ibridazione (cioè l’incrocio tra specie animali diverse): nel Regno Unito, per esempio, il cervo sika (Cervus nippon) sta mettendo a rischio l’integrità genetica della sottospecie scozzese di cervo rosso (Cervus elaphus scoticus).
“I mammiferi invasivi possono contribuire all’estinzione delle specie autoctone attraverso diversi meccanismi, tra cui competizione, predazione e trasmissione di malattie – dichiara Carlo Rondinini della Sapienza, coordinatore del lavoro insieme a Franz Essl dell’Università di Vienna. “Lo scoiattolo rosso eurasiatico (Sciurus vulgaris), per esempio, in Italia si è estinto in più della metà del suo areale ed è stato sostituito dallo scoiattolo grigio orientale (Sciurus carolinensis), mentre il visone americano ha colonizzato l’area occupata dal visone europeo (Mustela lutreola) confinando questa specie nativa, nonchè in grave pericolo di estinzione, in poche aree della Spagna”.
Poiché l’eradicazione di mammiferi alieni che hanno una così ampia distribuzione è difficile da ottenere, sarebbe opportuno invece gestire in maniera ottimale le popolazioni delle specie che sono diventate invasive e che potrebbero essere problematiche.
“In questo contesto – conclude Lisa Tedeschi – l’identificazione di popolazioni problematiche o di aree più invase di altre può aiutare a mitigare gli impatti futuri”.
Riferimenti:
Introduction, spread, and impacts of invasive alien mammal species in Europe – Tedeschi L, Biancolini D, Capinha C, Rondinini C, Essl F. Mammal Review https://doi.org/10.1111/mam.12277
Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
I CAMBIAMENTI CLIMATICI POTREBBERO CAUSARE L’ESTINZIONE DELLE SALAMANDRINE
Foto di G. Bruni
Uno studio appena pubblicato su Scientific Reports di Nature dai paleontologi dell’Università di Torino e dell’Istituto Catalano di Paleontologia Miquel Crusafont ha messo in luce le potenziali connessioni tra i cambiamenti climatici del passato e le cause della scomparsa in gran parte d’Europa delle salamandrine, che oggi rappresentano l’unico genere di vertebrato esclusivo della Penisola Italiana. I cambiamenti climatici previsti per i prossimi decenni a causa delle crescenti emissioni di CO2 e altri gas serra potrebbero causarne l’estinzione definitiva.
Un gruppo di paleontologi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino e dell’Istituto Catalano di Paleontologia Miquel Crusafont, in un recente studio pubblicato su Scientific Reports di Nature, ha indagato le variabili climatiche in cui vivono le salamandrine e come queste si possano relazionare alle condizioni del passato e del futuro. I fossili sono l’unico strumento a disposizione dei ricercatori e delle ricercatrici per avere accesso diretto al passato e capire come gli organismi abbiano reagito ai diversi cambiamenti a cui è andata incontro la Terra. Il gruppo di ricerca di paleontologia dell’Università di Torino si occupa da molti anni di capire ciò che il record fossile del passato ci può insegnare sugli organismi attuali. Nel caso delle salamandrine, i fossili ci raccontano che questi animali, che oggi si trovano esclusivamente nell’Italia appenninica con due specie, in un periodo compreso tra circa 20 e 5 milioni di anni fa abitavano molte altre aree d’Europa, sparse tra Germania, Grecia, Spagna e Ungheria.
Le analisi effettuate dal gruppo di lavoro, basate su metodi di modellizzazione della nicchia ecologica, hanno evidenziato che durante i cicli di glaciazione degli ultimi milioni di anni, il clima della maggior parte dell’Europa non era adatto alle salamandrine, ed è plausibile che i cambiamenti climatici avvenuti in questo intervallo di tempo ne abbiano causato l’estinzione da tutta l’Europa a esclusione dell’Italia peninsulare. Nello stesso tempo, le proiezioni sui modelli climatici futuri, sotto diversi scenari di riduzione di emissioni di CO2, hanno messo in luce una drastica riduzione dell’idoneità climatica per le salamandrine anche all’interno della nostra penisola nei prossimi 50 anni.
“Sebbene le salamandrine non siano ancora inserite tra gli organismi a rischio di estinzione, dovremmo avere un particolare occhio di riguardo per questo piccolo anfibio che rappresenta un’inestimabile ricchezza del patrimonio naturalistico italiano” sottolinea Loredana Macaluso, attualmente ricercatrice al Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino e primo autore dell’articolo.
“Non solo questa salamandra rappresenta l’unico genere di vertebrato endemico della Penisola Italiana, ma è anche un animale unico a livello mondiale sia per quanto riguarda il suo aspetto colorato, sia per quanto riguarda il suo particolare comportamento. Ricordiamoci che questo abitante del sottobosco italiano è una delle poche salamandre del mondo a mostrare il cosiddetto unkenreflex, un comportamento con cui mostra l’accesa colorazione di ventre, zampe e coda per intimorire i predatori, ed è l’unica al mondo attualmente nota per essere in grado di alzarsi sulle zampe posteriori e assumere una posizione bipede in determinate circostanze”.
Questo contributo alla paleobiologia della conservazione rappresenta uno dei primi tentativi di collegare in modo diretto ciò che il record fossile ci testimonia e il futuro degli anfibi viventi, che sono in grave pericolo a causa dei cambiamenti climatici che stiamo inducendo tramite un utilizzo sconsiderato delle tecnologie a nostra disposizione, mostrando ancora una volta l’importanza di provvedimenti su larga scala per ridurre in modo più rapido possibile le emissioni di CO2.
Foto di G. Bruni
Gli altri autori dell’articolo sono Andrea Villa, attualmente ricercatore post-doc presso l’Istituto Catalano di Paleontologia Miquel Crusafont di Barcellona, il Prof. Giorgio Carnevale e il Prof. Massimo Delfino, coordinatore del progetto, entrambi afferenti all’Università di Torino.
Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino
La iena gigante che non ha resistito ai cambiamenti climatici Pachycrocuta brevirostris, la iena gigante dal muso corto diffusa nel Vecchio Mondo durante il Pleistocene, si è estinta in Europa circa 800 mila anni fa a seguito di cambiamenti climatici e ambientali e non a causa della competizione con altre specie che si diffusero nello stesso periodo. A svelarlo un nuovo studio del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza, pubblicato sulla rivista Quaternary Science Reviews.
Un super-predatore un tempo popolava Europa, Asia e Africa, la iena gigante dal muso corto Pachycrocuta brevirostris. Con un peso probabilmente superiore ai 100 chilogrammi, fu la iena più grande mai esistita. Diffusasi in Europa circa due milioni di anni fa, fu uno dei predatori più temibili che si trovarono ad affrontare le prime popolazioni di ominini avventuratesi fuori dall’Africa; sebbene il ruolo diretto delle iene come concorrenti ecologici degli ominini del Pleistocene venga spesso enfatizzato, esse erano comunque una componente unica della fauna incontrata da queste popolazioni.
Pachycrocuta brevirostris, la iena gigante dal muso corto che non ha resistito ai cambiamenti climatici e ambientali
Le iene sono comunemente note per la loro abilità di rompere le ossa e cibarsi del loro contenuto, e Pachycrocuta brevirostris si era ben adattata a questa abitudine alimentare. La iena gigante era anche in grado di accumulare ossa, come oggi testimoniano alcuni siti che rappresentano un vero tesoro per i paleontologi. Durante il Pleistocene, gli ominini erano l’unico altro gruppo capace di sfruttare le ossa come risorsa alimentare, con l’ausilio di strumenti litici per romperle. Per questo motivo, la possibile competizione di queste popolazioni con la iena gigante suscita un grande interesse tra i ricercatori. Eppure, il motivo per cui la specie si estinse e la tempistica di questo evento in Europa rimanevano ancora avvolti nell’incertezza.
Un nuovo studio, condotto da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Scienze della Terra di Sapienza e pubblicato sulla rivista Quaternary Science Reviews, ha riconsiderato i fossili di Pachycrocuta brevirostris e di altre iene che si diffusero in Europa nel Pleistocene, rivelando che la iena gigante dal muso corto scomparve dall’Europa circa 800 mila anni fa, probabilmente a seguito di cambiamenti climatici e ambientali e non a causa della competizione con altre specie che si diffusero nello stesso periodo.
Pachycrocuta brevirostris, Crocuta crocuta e Hyaena prisca
Studi precedenti avevano infatti ipotizzato che la competizione generata dall’arrivo di Crocuta crocuta, l’attuale iena macchiata, potesse aver giocato un ruolo nell’estinzione di Pachycrocuta brevirostris. Tale ipotesi sarebbe supportata dalla coesistenza delle due specie in alcune località dove la iena gigante sopravvisse più a lungo. Tuttavia, i risultati di questa nuova ricerca vanno nella direzione opposta, escludendo l’ipotesi della compresenza e della competizione diretta tra queste iene.
“La scomparsa della iena gigante dall’Europa circa 800 mila anni fa – commenta Alessio Iannucci di Sapienza, primo nome dello studio – è pressappoco coincidente con l’arrivo della iena macchiata, Crocuta crocuta, e di un’altra specie meno nota, la “Hyaena” prisca. Tuttavia, queste specie furono in grado di diffondersi in Europa solo dopo il declino della iena gigante e non contribuirono alla sua estinzione”.
La iena gigante dunque, un tempo diffusa in tutto il continente, non fu in grado di far fronte ai cambiamenti climatici e ambientali che avvennero durante la transizione tra Pleistocene Inferiore e Pleistocene Medio, la cosiddetta “Early–Middle Pleistocene Transition”. Si tratta di un periodo che vide acuirsi l’intensità delle fluttuazioni tra intervalli glaciali e interglaciali, dando poi inizio all’era glaciale. L’avvicendamento tra Pachycrocuta brevirostris e le altre iene fu uno degli eventi più caratteristici del rinnovamento faunistico avvenuto in quel momento: diversi carnivori specializzati, come le tigri dai denti a sciabola, andarono in declino o si estinsero, mentre si diffusero specie nuove e più adattabili. Tra queste si ricordano le linee evolutive dei moderni cervi, cinghiali, daini e lupi, così come popolazioni umane in grado di produrre strumenti litici bifacciali (come cunei, o asce da pugno).
“Le specie meglio adattate a particolari ambienti o a strategie alimentari, come Pachycrocuta brevirostris, sono quelle più a rischio, ma anche quelle che si sono evolute facendo fronte alle fluttuazioni climatiche dell’ultimo milione di anni potrebbero non essere in grado di adattarsi ai rapidi cambiamenti causati dall’attività umana – conclude Raffaele Sardella di Sapienza. “Studiare la risposta degli ecosistemi del passato è cruciale per interpretare criticamente i cambiamenti climatici che osserviamo attualmente”.
Riferimenti:
The extinction of the giant hyena Pachycrocuta brevirostris and a reappraisal of the Epivillafranchian and Galerian Hyaenidae in Europe: faunal turnover during the Early-Middle Pleistocene Transition – Alessio Iannucci, Beniamino Mecozzi, Raffaele Sardella, Dawid Adam Iurino – Quaternary Science Reviews 2021, 272:107240. https://doi.org/10.1016/j.quascirev.2021.107240
Testo, video e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
Trent’anni fa la zanzara tigre asiatica (Aedes albopictus) ha cominciato la sua invasione del mondo arrivando a stabilirsi in tutti i continenti. Ma la storia non è finita lì! Negli ultimi anni si sono moltiplicate le segnalazioni in Europa di altre specie di zanzare invasive di origine asiatica, in particolare quella coreana (Aedes koreicus) e quella giapponese (Aedes japonicus), ancora più adatte della zanzara tigre a vivere in climi e stagioni fredde. Tutte specie molto aggressive, soprattutto a causa della loro attività di puntura durante le ore diurne, ma anche pericolose, perché capaci, se pungono una persona infetta da un virus tropicale come il dengue o il chikungunya, di trasmetterlo dopo pochi giorni ad una persona sana, attraverso una successiva puntura.
Proprio in questi giorni è arrivata la notizia che la zanzara coreana, prima segnalata in Italia solo in Veneto e Friuli Venezia Giulia, nel 2020 era presente anche in Lombardia nelle province di Bergamo e Brescia. È ancora presente in queste regioni? Potrebbe essere presente anche altrove? E come conoscere l’espansione della sua cugina giapponese? La ricerca di queste specie attraverso catture di esemplari adulti, di larve o di uova grazie a specifiche trappole entomologiche può dare una riposta a queste domande, ma non dappertutto in Italia vengono effettuati monitoraggi su vasta scala e l’arrivo di nuove specie invasive, inclusa la più pericolosa di tutte (l’Aedes aegypti), potrebbe passare inosservata.
Per questo motivo i ricercatori del Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive dell’Università Sapienza – in collaborazione con colleghi dell’Istituto Superiore di Sanità, dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, del MUSE di Trento e dell’Ateneo di Bologna – hanno pensato di chiedere il contributo dei cittadini, sviluppando un progetto di scienza partecipata, la cosiddetta “citizen science”. Come partecipare al progetto? È molto semplice: basta scaricare sul proprio telefono cellulare l’app gratuita MosquitoAlert e inviare tramite l’app segnalazioni fotografiche di zanzare o semplicemente segnalazioni di punture. Un team di esperti entomologi identificheranno la specie grazie alle fotografie inviate, informeranno tramite l’app stessa “i cittadini scienziati” della specie segnalata, e utilizzeranno i dati per generare mappe di distribuzione e di stagionalità delle zanzare più comuni, che potranno essere consultate sia dai cittadini, sia da chi si occupa di interventi di controllo anti-zanzara. Attraverso le segnalazioni ottenute sarà anche possibile identificare l’eventuale presenza di nuove specie invasive in nuove aree geografiche, come successo la scorsa estate in Spagna, dove grazie a MosquitoAlert, è stata identificata per la prima volta la presenza della zanzara giapponese. Ricevere segnalazioni in questi mesi autunnali e invernali, sarà particolarmente importante per tracciare la zanzara coreana, che riesce a sopravvivere bene anche a basse temperature.
La Sapienza in prima fila nella caccia alle zanzare “invernali”
Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
Lotta alle zanzare: approda in Italia MosquitoAlert, l’app che permette ai cittadini di contribuire con un click Un’istantanea dell’insetto consentirà a cittadini ed esperti di conoscere il tipo di zanzara, la sua pericolosità, le aree da disinfestare
Un’app per conoscere i tipi di zanzare che vedremo arrivare, puntuali e numerose, con l’arrivo dei mesi caldi, ma soprattutto per contribuire a combatterne le infestazioni. Il tutto con una semplice fotografia dell’insetto da inviare tramite l’applicazione MosquitoAlert alla Task Force che ha riunito a collaborare a questo progetto esperti dell’Università Sapienza di Roma e dell’Ateneo di Bologna, dell’Istituto Superiore di Sanità, dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie e del MUSE di Trento.
Già utilizzata in Spagna, l’app ha consentito di raccogliere migliaia di fotografie validate in tempo reale da esperti entomologi e utilizzate per tracciare l’invasione da parte di eventuali nuove specie, per identificare le regioni ed aree più infestate e dirigere gli interventi di controllo. Quest’anno MosquitoAlert è disponibile anche in Italia e contemporaneamente in altri 20 paesi grazie al progetto europeo AIM-COST coordinato dalla Prof.ssa Alessandra della Torre dell’Università Sapienza di Roma.
La Task Force di MosquitoAlert Italia si fa promotrice dell’iniziativa nel nostro Paese, senz’altro uno dei più infestati d’Europa, dove le zanzare non rappresentano solo una fonte di fastidio (spesso elevato), ma possono trasmettere virus capaci di provocare serie patologie all’uomo come il virus del West Nile, o quelli tropicali del Chikungunya o del Dengue. “Chiediamo ai cittadini di scaricare gratuitamente sul proprio telefono l’app MosquitoAlert e di ricordarsi, ogni qual volta avvistano o riescono a catturare una zanzara anche dopo averla colpita per autodifesa, di inviarne una fotografia tramite la stessa app” spiega il Dott. Beniamino Caputo, ricercatore della Sapienza e coordinatore di MosquitoAlert Italia “L’app consente anche di mandare semplici segnalazioni di punture o segnalare la presenza di raccolte d’acqua stagnante dove si possono sviluppare le zanzare e fornisce inoltre un indirizzo a cui inviare eventualmente l’intero esemplare. In cambio, gli utenti potranno conoscere la specie che li infastidisce e informarsi sui rischi sanitari connessi e avere accesso ad una mappa delle diverse specie presenti sul proprio territorio”.
È proprio la primavera il periodo della prevenzione, in cui cioè intervenire con trattamenti nelle aree pubbliche e private (giardini, orti, terrazzi), per rimuovere, con prodotti idonei, o rendere inaccessibili alle zanzare tutte quelle piccole o grandi raccolte d’acqua in cui potrebbero deporre le uova e nelle quali si possono sviluppare le larve. Ma come capire dove indirizzare le disinfestazioni per colpire le specie più pericolose?
Quest’anno esiste uno strumento in più che richiede la collaborazione attiva di tutti i cittadini per raccogliere dati sulle diverse specie di zanzare, incluse quelle invasive come la zanzara tigre e altre specie di origine asiatica. MosquitoAlert è un progetto di scienza partecipata (citizen science), come ormai ne esistono diversi che grazie all’aiuto dei cittadini consentono di raccogliere preziosissime informazioni sulla biodiversità, sulle specie invasive, sui rifiuti in plastica, sulla qualità dell’aria e dell’acqua, sull’inquinamento acustico e luminoso. Le zanzare possono colpire meno l’attenzione di un bel fiore o di una farfalla, tuttavia rappresentano non solo motivo di forte fastidio per molti, ma anche un rischio per la salute pubblica a causa dei virus che trasmettono con le loro punture. Ora, sono i ricercatori a chiedere una mano ai cittadini per conoscerle e combatterle meglio.
La Task force di Mosquito Alert Italia offre un supporto tecnico scientifico nella gestione di questa piattaforma contribuendo alla rapida validazione del materiale inviato tramite MosquitoAlert e al riconoscimento delle specie di zanzare rappresentate nelle immagini. “Per questo motivo” afferma il Dott. Francesco Severini, ricercatore dell’Istituto Superiore di Sanità da sempre impegnato nella ricerca e nelle attività che tutelano la salute dei cittadini “la qualità delle foto inviate è di fondamentale importanza per un’accurata e valida identificazione. Inoltre la possibilità di inviare l’esemplare fotografato ai laboratori di riferimento consentirà di identificare anche gli esemplari difficilmente riconoscibili senza un microscopio o perché parzialmente danneggiati.
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L’Università Sapienza è in prima linea nel progetto Mosquito Alert ITALIA che nasce dalla vasta esperienza del gruppo di ricerca di Entomologia Sanitaria del Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive e si propone di coinvolgere tutti gli studenti ed il personale dell’Ateneo nell’utilizzo dell’app. L’11 maggio partirà la campagna social #SCATTALAZANZARA con il contributo degli studenti del corso di Laurea Magistrale in Comunicazione Scientifica Biomedica, coordinati dalla Prof.ssa Michaela Liuccio. “L’obiettivo è sensibilizzare studenti e personale della Sapienza a contribuire alla ricerca fornendo fotografie e segnalazioni ai colleghi entomologi e, al tempo stesso, sensibilizzare ai rischi associati alle zanzare e alle misure di prevenzione individuale e pubblica”. Ai più volenterosi si chiede inoltre di conservare eventuali esemplari di zanzare in freezer, utilizzando il codice della foto inviata tramite MosquitoAlert, e di consegnarle presso il punto di raccolta nell’atrio del Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive.
Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
In un nuovo studio, frutto della collaborazione fra la Sapienza Università di Roma e il Consiglio nazionale delle ricerche, è stato indagato il fenomeno di ricolonizzazione da parte di linci, lupi e orsi che sta interessando diverse aree in Europa. I risultati del lavoro, pubblicati sulla rivista Diversity and Distributions, identificano come fattori determinanti i cambiamenti della copertura del suolo, della densità della popolazione umana e l’incremento di politiche di tutela delle specie.
Imbattersi in una lince, sentire l’ululato di un lupo, osservare un orso. Forse potrebbe non essere più tanto difficile e insolito in alcune aree, non ora che queste specie stanno ricolonizzando gran parte della loro storica area di distribuzione in Europa.
Dopo essere stati spinti sull’orlo dell’estinzione nel secolo scorso, negli ultimi decenni linci, lupi e orsi stanno ricolonizzando l’Europa, complici il cambiamento nell’uso del suolo e la diversa densità di popolazione, ma non la graduale espansione delle aree protette. È quanto emerge dal recente studio condotto da un gruppo internazionale di 11 Paesi coordinato da ricercatori del Dipartimento di Biologia e biotecnologie della Sapienza Università di Roma e del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR). Questi fattori sembravano aver influenzato il ritorno dei grandi carnivori in Europa negli ultimi 24 anni, ma fino a oggi l’effettivo ruolo svolto era stato poco chiaro. I risultati del lavoro, pubblicati sulla rivista Diversity and Distributions, indicano che tra il 1992 e il 2015 la combinazione di questi elementi abbia contribuito all’aumento della presenza di queste tre specie nell’Europa orientale, nei Balcani, nella penisola iberica nord-occidentale e nella Scandinavia settentrionale, mentre tendenze contrastanti sono emerse per l’Europa occidentale e meridionale.
“È molto probabile che la coesistenza dei grandi carnivori con gli esseri umani in Europa non sia legata solo alla disponibilità di un habitat idoneo, ma anche a fattori come la tolleranza da parte dell’uomo e le politiche per diminuire la caccia di queste specie” – spiega Marta Cimatti della Sapienza, primo autore del lavoro − “e questo permette di avere nuove opportunità per riconciliare la conservazione e la gestione di queste specie con lo sviluppo socioeconomico nelle aree rurali”.
Luca Santini, ricercatore della Sapienza e del Cnr e senior author dello studio, sottolinea “sfruttare i cambiamenti socioeconomici e paesaggistici per creare nuove opportunità di recupero per le specie sarà una sfida per l’Europa, cui si dovranno affiancare una corretta educazione ambientale, norme legislative e una gestione mirata a mitigare i conflitti fra uomo e fauna selvatica nelle aree recentemente ricolonizzate dai questi grandi carnivori”.
“L’associazione tra il diverso uso del suolo, l’abbandono delle aree rurali, l’aumento delle aree protette e l’espansione dei grandi carnivori in Europa sarà importante anche nei prossimi decenni” − conclude Luigi Boitani della Sapienza, coautore e presidente della Large Carnivore Initiative for Europe − “e suggerisce che la ricolonizzazione di vaste aree europee continuerà e che dunque saranno necessari maggiori sforzi per far coesistere l’uomo e questi grandi carnivori”.
Riferimenti:
Large carnivore expansion in Europe is associated with human population density and land cover changes – Cimatti M., Ranc N., Benítez-López A., Maiorano L., Boitani L., Cagnacci F., Čengić M., Ciucci P., Huijbregts M.A.J., Krofel M., López Bao J., Selva N., Andren H., Bautista C., Cirovic D., Hemmingmoore H., Reinhardt I., Marenče M., Mertzanis Y., Pedrotti L., Trbojević I., Zetterberg A., Zwijacz-Kozica T., Santini L – Diversity and Distributions, 2021. DOI 10.1111/ddi.13219