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PROGETTO ENERGY-GNoME, INTELLIGENZA ARTIFICIALE E DATABASE “EVOLUTIVI”: UN RECENTE LAVORO DEL POLITECNICO DI TORINO PROPONE MIGLIAIA DI NUOVI MATERIALI PER L’ENERGIA

Un gruppo di ricercatori del Politecnico di Torino apre la strada a una nuova generazione di strumenti computazionali per accelerare l’identificazione di materiali sostenibili per applicazioni energetiche

Il lavoro, pubblicato sulla rivista Energy and AI, introduce nuove prospettive sull’uso di Intelligenza Artificiale nell’ambito della ricerca d’avanguardia

Un team di ricercatori del Politecnico di Torino composto da Paolo De AngelisGiulio BarlettaGiovanni TrezzaPietro Asinari ed Eliodoro Chiavazzo del laboratorio SMaLL – presso il Dipartimento Energia-DENERG – ha sviluppato un innovativo protocollo basato su Intelligenza Artificiale per selezionare, tra centinaia di migliaia di materiali finora inesplorati, i candidati più promettenti per applicazioni energetiche. Lo studio, pubblicato sulla rivista Energy and AI, introduce Energy-GNoME (link: https://paolodeangelis.github.io/Energy-GNoME/), il primo database “evolutivo” ad integrare algoritmi di Machine Learning con i preziosi dati del progetto GNoME (Graph Networks for Materials Exploration), sviluppato da Google DeepMind.

GNoME ha recentemente messo a disposizione della comunità scientifica un patrimonio senza precedenti: centinaia di migliaia di materiali mai studiati prima e teoricamente stabili, individuati grazie a tecniche di intelligenza artificiale generativa. Tuttavia, questi materiali non sono stati “caratterizzati”, ovvero non ne sono state indicate le possibili applicazioni tecnologiche. È proprio in questo contesto che si inserisce Energy-GNoME: il metodo sviluppato al Politecnico di Torino permette di individuare, tra l’enorme mole di candidati proposti da GNoME, quelli più ricchi di potenziale per il settore energetico, fornendo così un ponte essenziale tra la generazione di nuovi materiali e il loro utilizzo pratico.

Il protocollo utilizza un approccio in due fasi: prima, un sistema di “esperti artificiali” che – votando a maggioranza – identificano i composti con maggiori probabilità di possedere proprietà utili per applicazioni energetiche; successivamente, altri modelli opportunamente addestrati ne stimano con precisione i parametri chiave. Questo metodo consente di ridurre drasticamente il numero di candidati ritenuti utili per una certa applicazione tecnologica, ma al tempo stesso propone migliaia di nuove soluzioni per la conversione e lo stoccaggio di energia.

“Con Energy-GNoME abbiamo voluto dimostrare come l’Intelligenza Artificiale possa essere non solo uno strumento di analisi, ma un vero acceleratore di scoperta scientifica, capace di imparare dall’esperienza umana e crescere con i contributi della comunità. Allo stesso tempo puntiamo a risolvere una sfida cruciale dell’AI generativa: non basta esplorare alla cieca nuove possibilità, serve anche indirizzare questa esplorazione verso obbiettivi utili, perché un cristallo è solo un composto chimico, è la sua funzione ingegneristica che lo rende un materiale”, spiega Paolo De Angelis, primo autore dello studio.

“Un’importante merito del progetto risiede proprio nella natura “evolutiva” del database: attraverso una libreria Python open-source e linee guida rese pubbliche su GitHub, la comunità scientifica potrà contribuire con nuovi dati sperimentali o teorici, alimentando un processo iterativo di apprendimento attivo. In questo modo, la piattaforma è destinata a evolvere e a migliorare costantemente la sua capacità predittiva”, precisano Giulio Barletta e Giovanni Trezza.

“Questo approccio rappresenta una nuova frontiera nella modellazione dei materiali per le applicazioni energetiche: da un lato combina e sfrutta i saperi derivati da metodi sperimentali, teorici e di apprendimento automatico; dall’altro rende disponibile la conoscenza sintetizzata in un linguaggio interoperabile e accessibile, favorendo l’adozione e l’adattamento da parte di comunità scientifiche diverse”, aggiunge Pietro Asinari.

“Il nostro contributo principale è duplice: da un lato, aver reso disponibili alla comunità scientifica un’ampia selezione di nuovi materiali promettenti per applicazioni energetiche; dall’altro, aver messo a punto un protocollo metodologico che può essere facilmente esteso anche ad altri ambiti oltre a quelli trattati nello studio”, conclude Eliodoro Chiavazzo, coordinatore della ricerca. “In questo senso, Energy-GNoME non è solo un database, ma una vera e propria mappa per orientare futuri studi sperimentali e computazionali, accelerando l’esplorazione dei materiali avanzati in molteplici campi”.

Oltre al contributo diretto nel campo dell’energia, il lavoro apre prospettive più ampie: il protocollo messo a punto mira ad essere un riferimento metodologico per la comunità scientifica, offrendo una via rapida e scalabile per esplorare nuovi materiali in settori diversi, dall’elettronica avanzata alla biomedicina, fino alle tecnologie quantistiche e a quelle emergenti per la sostenibilità.

Il progetto Energy-GNoME per individuare, tra l’enorme mole di materiali proposti da GNoME, quelli più ricchi di potenziale per l'energia
Illustrazione geometrica dell’algoritmo messo a punto dai ricercatori del Politecnico di Torino. Il progetto Energy-GNoME per individuare, tra l’enorme mole di materiali proposti da GNoME, quelli più ricchi di potenziale per l’energia

Torino, 6 ottobre 2025

Testo e immagine dall’Ufficio Web e Stampa del Politecnico di Torino

Sotto la superficie: l’energia solare nel mondo subacqueo con le celle solari a perovskite

Una ricerca pubblicata sulla rivista Energy & Environmental Materials ha dimostrato che le celle solari a perovskite possono funzionare in modo efficiente anche in ambiente acquatico, aprendo la strada a tecnologie energetiche innovative per l’uso subacqueoLo studio è frutto della collaborazione tra due Istituti di ricerca del CNR, l’Università degli studi di Roma Tor Vergata e la società BeDimensional SpA.

L’energia solare potrebbe presto trovare una nuova e sorprendente applicazione: il fondo del mare. Una ricerca pubblicata sulla rivista Energy & Environmental Materials ha, infatti, dimostrato che le celle solari a perovskite possono funzionare in modo efficiente anche in ambiente acquatico, aprendo la strada a tecnologie energetiche innovative per l’uso subacqueo.

Lo studio è frutto della collaborazione tra il Consiglio nazionale delle ricerche – coinvolto con l’Istituto di struttura della materia (CNR-ISM) e l’Istituto per i processi chimico-fisici (CNR-IPCF) –   l’università di Roma Tor Vergata e la società BeDimensional SpA, leader nella produzione di materiali bidimensionali.

Sotto i 50 metri di profondità, solo la luce blu-verde riesce a penetrare efficacemente: le celle solari a perovskite, già note per la loro efficienza e versatilità, si sono dimostrate particolarmente adatte a sfruttare questa luce residua. I test condotti con una specifica perovskite di composizione FAPbBr₃, hanno mostrato prestazioni sorprendenti: immerse nei primi centimetri d’acqua, queste celle producono più energia rispetto a quando sono esposte all’aria.

“Merito delle caratteristiche ottiche dell’acqua e del suo effetto rinfrescante, che migliora l’efficienza del dispositivo”, spiega Jessica Barichello, ricercatrice del CNR-ISM che ha coordinato lo studio. “Un ulteriore test di durata ha verificato anche l’aspetto ambientale: grazie all’efficace incapsulamento, basato su un adesivo polimerico idrofobico sviluppato da BeDimensional, dopo 10 giorni di immersione in acqua salata, le celle solari hanno rilasciato quantità minime di piombo, ben al di sotto dei limiti imposti per l’acqua potabile”.

“Grazie alla collaborazione con il CNR-ISM e BeDimensional e alla tecnologia disponibile nel nostro laboratorio Chose, abbiamo validato l’intero processo per l’applicazione del materiale fotovoltaico in perovskite in ambienti subacquei dove vengono sfruttate efficacemente le sue proprietà. Una nuova sperimentazione per noi – commenta Fabio Matteocci, professore associato del dipartimento di Ingegneria elettronica dell’università di Roma Tor Vergata –  dal momento che il nostro studio parte dallo sviluppo di nuovi dispositivi fotovoltaici semitrasparenti tramite processi industriali facilmente scalabili per applicazione su edifici”.

Oggi troviamo pannelli solari su tetti, serre, edifici, persino nello spazio, ma l’ambiente marino è ancora una frontiera poco esplorata.

“Questo lavoro pionieristico non solo mostra che le perovskiti possono operare anche in condizioni umide, ma apre nuove possibilità per l’utilizzo sostenibile dello spazio subacqueo, sempre più impiegato in attività come l’agricoltura marina, l’invecchiamento del vino e altre applicazioni innovative”, conclude Barichello.

Roma, 16 luglio 2025

Perovskite nella foto di Andrew Silver, USGS (https://library.usgs.gov/photo/#/item/51dc1900e4b0f81004b77ee6), in pubblico dominio

Riferimenti bibliografici:

Jessica Barichello, Peyman Amiri, Sebastiano Bellani, Cosimo Anichini, Marilena Isabella Zappia, Luca Gabatel, Paolo Mariani, Farshad Jafarzadeh, Francesco Bonaccorso, Francesca Brunetti, Matthias Auf der Maur, Giuseppe Calogero, Aldo Di Carlo, Fabio Matteocci, Beneath the Surface: Investigating Perovskite Solar Cells Under Water, Energy & Environmental Materials e70069, DOI: https://doi.org/10.1002/eem2.70069 – https://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/eem2.70069

 

Testo dagli Uffici Stampa dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata e del Consiglio Nazionale delle Ricerche

L’1% DEGLI INVESTIMENTI NELL’EOLICO OFFSHORE POTREBBE RIPRISTINARE MILIONI DI ETTARI DI VITA MARINA – Team internazionale di ricercatori, tra cui Laura Airoldi dell’Università di Padova, ha pubblicato su «BioScience» uno studio che evidenzia i potenziali benefici dell’energia eolica per piante, animali e società

I parchi eolici offshore non solo forniscono energia pulita, ma possono anche svolgere un ruolo fondamentale nel ripristino degli ecosistemi vulnerabili, sia sopra che sotto la superficie del mare. Questo include habitat dei fondali marini, barriere coralline, praterie di fanerogame marine e zone umide costiere: ecosistemi essenziali per la biodiversità, le popolazioni ittiche e la resilienza climatica.

Contribuire con solo l’1% degli investimenti globali nei progetti eolici offshore entro il 2050 sarebbe sufficiente per il ripristino su larga scala della natura marina: a rivelarlo è lo studio internazionale dal titolo Financing marine restoration through offshore wind investments, pubblicato sulla rivista scientifica «BioScience» a cui ha preso parte Laura Airoldi, docente di Ecologia dell’Università di Padova nella Stazione idrobiologica “Umberto d’Ancona” di Chioggia (di cui è responsabile) e afferente al Centro Nazionale di Biodiversità finanziato dal PNRR.

La ricerca, coordinata dall’Istituto Reale Neerlandese per la Ricerca Marina (Royal Netherlands Institute for Sea Research, il centro oceanografico nazionale dei Paesi Bassi) nell’ambito del programma The Rich North Sea, un’iniziativa delle ONG olandesi Natuur & Milieu (Natura & Ambiente) e North Sea Foundation, arriva in un momento critico: gli obiettivi ambientali globali stanno diventando irraggiungibili – come quello dell’ONU di ripristinare il 30% degli ecosistemi degradati entro il 2030 – a causa della mancanza di finanziamenti e di politiche mirate.

I ricercatori hanno evidenziato che sarebbe sufficiente destinare solo l’1% degli investimenti globali nell’eolico offshore da qui al 2050 per finanziare il ripristino di milioni di chilometri quadrati di ecosistemi marini, come barriere coralline, mangrovie, praterie sottomarine e scogliere di ostriche.

«Il ripristino degli ecosistemi marini non avvantaggia solo piante e animali, ma anche le persone. Mari e coste in buona salute assorbono carbonio, proteggono le rive e sostengono le popolazioni ittiche. Secondo lo studio, ogni dollaro investito nel ripristino degli ecosistemi può generare tra 2 e 12 dollari in benefici per la società», spiega Laura Airoldi, coautrice del lavoro e docente dell’Ateneo patavino. «Questo è particolarmente rilevante in vista della crescita esponenziale prevista del settore eolico offshore: dai 56 gigawatt del 2021 si passerà, secondo le stime, a 2.000 gigawatt entro il 2050».

«L’eolico offshore ha un’opportunità unica: non solo sostenere la transizione energetica, ma anche diventare la prima industria marina a contribuire in modo netto e positivo al ripristino su larga scala degli ecosistemi», aggiunge Christiaan van Sluis (The Rich North Sea), autore principale dello studio. «Integrando fin da ora requisiti strategici per la biodiversità nei processi di autorizzazione e assegnazione delle gare, possiamo invertire la perdita di biodiversità con solo una frazione dell’investimento complessivo».

Laura Airoldi
L’1% degli investimenti nell’eolico offshore potrebbe ripristinare milioni di ettari di vita marina; i benefici dell’energia eolica per piante, animali e società. In foto, Laura Airoldi

Con questo lavoro gli autori esortano i governi a rendere il ripristino marino un requisito standard nella normativa sull’eolico offshore: ciò includerebbe l’obbligo di destinare una percentuale fissa degli investimenti dei progetti alla biodiversità marina attraverso condizioni di licenza o criteri non basati sul prezzo nelle gare d’appalto. Con l’espansione accelerata del settore, il ripristino della natura dovrebbe essere integrato in modo strutturale nelle politiche.

Riferimenti bibliografici:

Christiaan J van Sluis, Eline van Onselen, Laura Airoldi, Carlos M Duarte, Helena F M W van Rijswick, Tjisse van der Heide, Renate A Olie, Marjolein Kelder, Tjeerd J Bouma, Financing marine restoration through offshore wind investments – «BioScience» – 2025, link: https://academic.oup.com/bioscience/advance-article/doi/10.1093/biosci/biaf092/8185302

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

Pannelli solari in plastica riciclata: a Pisa nasce il fotovoltaico urbano e colorato che rispetta l’ambiente
L’Università di Pisa sviluppa concentratori solari fluorescenti con materiale acrilico rigenerato: meno emissioni, più sostenibilità e un’energia solare su misura per le città. Lo studio premiato dalla Royal Society of Chemistry tra i migliori contributi agli obiettivi dell’ONU.
Pannelli solari realizzati non con silicio o vetro, ma con plastica riciclata: è questa l’idea alla base del nuovo progetto dell’Università di Pisa, che ha sviluppato e testato una tecnologia innovativa per produrre elettricità dal sole in modo più sostenibile. Si tratta di concentratori solari luminescenti: lastre trasparenti e colorate in materiale acrilico (PMMA) ottenuto da rifiuti plastici rigenerati, capaci di catturare la luce solare e convogliarla verso piccoli moduli fotovoltaici installati sui bordi.
Questa tecnologia, pensata per essere integrata in vetrate, pensiline, serre e facciate trasparenti, unisce prestazioni elevate e ridotto impatto ambientale.
“Abbiamo dimostrato che è possibile ottenere concentratori solari per pannelli fotovoltaici efficienti utilizzando plastica rigenerata invece di materie prime fossili – spiega il professor Andrea Pucci, coordinatore della ricerca – il nostro obiettivo è portare il solare dentro le città, in modo colorato e sostenibile”.
La ricerca ha confrontato per la prima volta, in modo sistematico, le prestazioni di pannelli realizzati con plastica acrilica vergine e con quella ottenuta da processi di riciclo chimico. I risultati hanno mostrato che, a parità di prestazioni ottiche ed elettriche, i pannelli in plastica riciclata permettono una riduzione delle emissioni di CO₂ fino al 75%. I test di laboratorio e in condizioni reali (su tetti e facciate esposte al sole) hanno confermato la validità dei materiali e la loro durata nel tempo. Una prima applicazione di questa tecnologia intanto è già visibile nella pensilina fotovoltaica installata a Livorno nel 2023, nata da un progetto dell’Università di Pisa finanziato dalla Regione Toscana, in cui però erano state utilizzate un lastre di acrilico da sintesi, non riciclate.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista RSC Applied Polymers ed è stato selezionato dalla Royal Society of Chemistry per una collezione dedicata agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite. Il lavoro si è svolto nell’ambito LUCE, un progetto PRIN finanziato dall’Unione Europea- Next Generation EU, Missione 4 Componente 1 CUP I53D23004190006.
Per l’Università di Pisa, insieme al professor Pucci, lavorano a LUCE il dottor Marco Carlotti, e i giovani ricercatori Alberto Picchi e Hanna Pryshchepa, in collaborazione con il CNR-ICCOM di Firenze e l’Università di Napoli Federico II.
Testo e immagini dall’Ufficio comunicazione di Ateneo dell’Università di Pisa

APPROCCIO INTERDISCIPLINARE NELL’AFFRONTARE LE ATTUALI SFIDE ECOLOGICHE: È NECESSARIO CAMBIARE IL NOSTRO APPROCCIO ALLA RICERCA

Un gruppo di 20 ricercatori, di cui 5 dell’Università di Torino, ha esplorato la “fertilizzazione incrociata”, un’innovativa pratica interdisciplinare sul nesso chimica-energia così cruciale nell’antropocene

 

Un gruppo di 20 ricercatori, provenienti dall’area delle Scienze Chimiche e delle Scienze Sociali (di cui 5 dell’Università di Torino), dopo aver condiviso una settimana di studio e approfondimento in occasione di una scuola invernale (http://catenerchem.cpe.fr), ha esplorato un’innovativa pratica interdisciplinare volta a costruire una scienza diversa da quella esistente, per affrontare alcune delle principali sfide ecologiche del XXI secolo. Da questa interazione è nato l’articolo An anthropocene-framed transdisciplinary dialog at the chemistry-energy nexus, pubblicato su Chemical Science, la rivista di riferimento della Royal Society of Chemistry (RSC).

Gli autori hanno fatto una valutazione dettagliata del ciclo di vita di cinque entità chimiche particolarmente critiche per la transizione energetica – anidride carbonica, idrogeno, metano, ammoniaca e materiali plastici – basata su un esame approfondito dei dati disponibili, delle direzioni strategiche di ricerca proposte da alcuni importanti attori pubblici e privati, in termini di conseguenze sia ecologiche che sociali. Ciò ha consentito di identificare esistenti tensioni reali e persino contraddizioni inconciliabili in alcune aree di ricerca.

Sulla base di un’analisi interdisciplinare alcune opzioni tecnologiche, seppur auspicabili dal punto di vista di un’analisi mono-disciplinare, si rivelano invece dannose dal punto di vista ecologico, sociale o economico. Gli autori hanno dimostrato che solo un dialogo profondo e radicale tra le discipline può rivelare queste tensioni e quindi portare a una ricerca più consapevole e informata delle sfide da fronteggiare.

Con un’analisi di tipo storico è stato possibile comprendere meglio le interconnessioni tra le molecole oggetto di studio e, più in generale, tra le diverse opzioni tecnologiche che più da vicino le riguardano. L’avvalersi della teoria dei giochi e dell’economia mette in luce i rischi associati ad un eccessivo ottimismo sulla capacità di alcuni percorsi di ricerca di essere finanziati e diffusi su scala nazionale o internazionale.

Attingere agli studi culturali contribuisce ad accrescere la consapevolezza delle implicazioni Nord-Sud di alcune innovazioni, dando maggiore rilievo a visioni del mondo e del progresso diverse da quelle specifiche delle società del Nord globale. L’interesse per le scienze sociali permette inoltre di rimuovere potenziali conflitti d’utilizzo e di potere, legati alla disponibilità e al controllo dei materiali critici necessari per la produzione di alcune specie chimiche. Questi, riportati in dettaglio nello studio sono solo alcuni esempi della “fertilizzazione incrociata” che può avvenire attraverso un dialogo interdisciplinare.

“Di fronte alla crisi ecologica e alle sue molteplici sfaccettature, – dichiara Silvia Bordiga, docente del Dipartimento di Chimica UniTo – l’attuale approccio scientifico, dipendente ancora troppo da divisioni disciplinari e sub-disciplinari, e spesso non lascia spazio ad una completa condivisione degli strumenti e delle conoscenze delle Scienze Naturali (Biologia, Chimica e Fisica) e delle Scienze Sociali. Non riuscendo a stabilire stabili legami tra le discipline, la ricerca sta abdicando alla capacità di formulare soluzioni sostenibili. Questo studio è un invito ben documentato a sfruttare appieno la ricchezza delle varie discipline per costruire una scienza diversa da quella esistente, che sia in grado di offrire potenziali soluzioni alla crisi ecologica ed energetica”.

A proposito delle implicanze energia-chimica-mondo globale, cinque sostanze (l’anidride carbonica (CO2), l’idrogeno (H2), il metano (CH4), l’ammoniaca (NH3) ed i biopolimeri sono state analizzate in modo incrociato con il quadro di riferimento planetario e come parte di cinque “roadmaps” delineate da associazioni internazionali, considerate il riferimento per la definizione delle strategie politiche per la transizione energetica. Gli autori hanno inoltre considerato i punti di vista che emergono da altre discipline inerenti alla sfera umanistica (storia, economia, scienze politiche, etica etc.) per sottolineare che spesso si incontrano degli elementi di frattura rispetto a quanto emerso dalle aree più tecniche.

“In questo contesto – conclude Bordiga – riteniamo che gli elementi interdisciplinari della storia, dell’economia e dell’antropologia siano rilevanti per qualsiasi tentativo di analisi incrociata. Le intuizioni distintive e cruciali tratte da elementi delle scienze umane e sociali ci hanno portato a riconsiderare questioni aperte e possibili punti senza sbocco presenti nelle principali roadmap, sviluppate per guidare la ricerca chimica verso la transizione energetica. Riteniamo che queste questioni aperte non siano sufficientemente affrontate nell’arena delle Scienze Naturali, malgrado siano rilevanti per una piena comprensione dell’attuale crisi planetaria e per la nostra capacità di valutare correttamente il potenziale e i limiti dei risultati e delle proposte avanzate dalla ricerca scientifica”.

Silvia Bordiga. Fotografia di Elisa Giuliano
Silvia Bordiga. Fotografia di Elisa Giuliano

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

ALBARELLA, PARCO DEL DELTA DEL PO: ENERGIA SOLARE, DIETA VEGETARIANA E MOLTI ALBERI SONO LA RICETTA PILOTA DEL PROGETTO ALBA, PER IL PIANETA

Pubblicata su «PLOS Climate» ricerca dell’Università di Padova che simula l’impatto delle emissioni sull’isola di Albarella nel Parco del Delta del Po

Non è un segreto che il clima del pianeta stia cambiando anche per il fatto che in atmosfera la concentrazione dei gas a effetto serra è aumentata: in particolare, l’anidride carbonica è passata da 330 ppm (parti per milione) negli anni ‘70 a 420 ppm nel 2024, con conseguenze disastrose sul clima – riscaldamento della temperatura media dell’aria di 1,5-2 °C, ancora in crescita, fusione delle calotte polari, deregolamento del clima in generale –. Un’allerta internazionale è stata lanciata dal gruppo di scienziati dell’Intergovernmental Panel on Climate Change attraverso i loro periodici Reports e, parallelamente, la politica e l’industria mondiali stanno promuovendo il passaggio da energie derivate da risorse fossili a energie rinnovabili a bassa emissione di CO2 e meno impattanti sull’ambiente.

Lo studio dal titolo “Tackling climate change: the Albarella island example” pubblicato sulla rivista «PLOS Climate» che vede come primo autore Augusto Zanella, docente del Dipartimento Territorio e Sistemi Agro-Forestali dell’Università di Padova, si focalizza sul bilancio di COequivalente dell’isola di Albarella, nel Parco del Delta del Po (Rovigo), in modo da programmare un cambiamento sostenibile in 10 anni delle fonti energetiche, dello stoccaggio naturale del carbonio e dei consumi sull’isola.

«Con l’aiuto di studenti, gestori e abitanti dell’isola abbiamo raccolto i dati necessari per stilare un bilancio annuale delle emissioni di COequivalente, cioè tutto ciò che serve a fare funzionare un’isola da più di 110 mila turisti all’anno in termini di energia e risorse» commenta Augusto Zanella, primo autore della ricerca.

Tutte le entrate e uscite di beni ed energia legati al funzionamento economico dell’isola sono state convertite in emissioni di COvirtuale in modo da programmare un cambiamento sostenibile in 10 anni delle fonti energetiche, dello stoccaggio naturale del carbonio e dei consumi sull’isola di Albarella.

Le variabili investigate sono:

1) stoccaggio netto di carbonio degli ecosistemi semi-naturali;

2) dieta degli esseri umani presenti sull’isola;

3) energia fossile attualmente utilizzata;

4) domanda di energia elettrica;

5) rifiuti prodotti;

6) trasporti.

«Invece di tentare di risolvere il problema su scala mondiale, abbiamo deciso di provare su una superficie confinata come quella di un’isola per vedere se su piccola scala e con le tecnologie disponibili oggi il problema sia concretamente risolvibile in un tempo sufficientemente breve» aggiunge Zanella.

I ricercatori hanno ipotizzato due scenari “estremi”: da un lato l’economia dell’isola rimane invariata, quindi nessuna differenza rispetto al passato, dall’altro uno scenario molto più ottimistico che prevede il miglioramento tecnologico ai fini di ridurre le emissioni: per esempio l’utilizzo esclusivo di energia prodotta da pannelli solari, l’impianto di alberi su metà dei prati dell’isola, una dieta vegetariana per abitanti e turisti, il riciclo sull’isola di tutti i rifiuti.

Se si avverasse lo scenario più ottimistico, in 10 anni le emissioni nell’isola si ridurrebbero dei ¾, tornando ai livelli degli anni ’60. Queste ridotte emissioni sarebbero causate da tre variabili principali: costruzione, funzionamento e riciclo dei pannelli solari (25% delle emissioni); i consumi alimentari di abitanti e turisti, (60,5%); gli impianti di alberi ancora in crescita che stoccherebbero il 14,5% delle emissioni prima di raggiungere la maturità.

«La nostra ricerca è un esempio pratico diretto, una simulazione basata su dati reali e oggettivi. Siamo consapevoli che la nostra esperienza non può rappresentare la complessa realtà del nostro pianeta: essa rivela che in un’area turistica geograficamente limitata, una popolazione preparata al cambiamento che impieghi nuove tecnologie potrebbe sperare di ridurre fino al 25% le emissioni di COequivalente. Le perdite energetiche irrimediabili e la necessità di nutrire una densa popolazione umana impedirebbero quindi oggi di scendere sotto questa soglia minima. Per raggiungere questo obiettivo – non completamente risolutivo –, bisogna avere volontà di cambiare e disponibilità economica», conclude Zanella.

Augusto Zanella
Augusto Zanella

Il progetto “ALBA – Albarella Laboratorio Diversità Ambiente” è un progetto Uni-Impresa del 2019 in cui l’Università di Padova collabora con l’Associazione Comunione dell’Isola di Albarella per un progetto di gestione sostenibile delle risorse dell’isola. L’obiettivo è di creare e mantenere nel tempo un ambiente antropizzato che si discosti il meno possibile dal suo corrispondente naturale tramite una forte riduzione delle emissioni di gas serra, come previsto dalle direttive UE. Il responsabile scientifico del progetto è il prof. Augusto Zanella, docente del Dipartimento Territorio e Sistemi Agro-Forestali dell’Università di Padova.

Link alla ricerca: https://journals.plos.org/climate/article?id=10.1371/journal.pclm.0000418

Titolo: Tackling climate change: the Albarella island example – «PLOS Climate» – 2024

Autori: Augusto Zanella, Cristian Bolzonella, Mauro Rosatti, Enrico Longo, Damien Banas, Ines Fritz, Giuseppe Concheri, Andrea Squartini, Guo-Liang Xu, Lingzi Mo, Daniele Mozzato, Claudio Porrini, Lucia Lenzi, Cristina Menta, Francesca Visentin, Marco Bellonzi, Giulia Ranzani, Debora Bruni, Matteo Buson, Daniele Casarotto, Michele Longo, Rebecca Bianchi, Tommaso Bernardon, Elisa Borella, Marco Ballarin, Vitaliy Linnyk, Patrizia Pengo, Marco Campagnolo, Karine Bonneval, Nils Udo, Vera Bonaventura, Roberto Mainardi, Lucas Ihlein, Allan Yeomans, Herbert Hager.

 

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE PUÒ ACCELERARE LA PRODUZIONE DI COMBUSTIBILI SOLARI: LO DIMOSTRA UNO STUDIO DEL POLITECNICO DI TORINO

Torino, 13 giugno 2024

La ricerca, pubblicata sulla rivista Journal of the American Chemical Society, potrebbe aprire le porte ad un nuovo modo di produrre combustibili solari per fronteggiare la crisi climatica

 

Un team di ricercatori del Politecnico di Torino, coordinato dal professor Eliodoro Chiavazzo – Ordinario di Fisica Tecnica Industriale e direttore dello SMaLL lab al Dipartimento Energia-DENERG – e composto da Luca Bergamasco e Giovanni Trezza – rispettivamente Ricercatore e Dottorando presso il Dipartimento Energia – con la collaborazione dei gruppi di ricerca del professor Erwin Reisner dell’Università di Cambridge (Gran Bretagna) e del professor Leif Hammarström dell’Università di Uppsala (Svezia), ha dimostrato come alcune tecniche di Intelligenza Artificiale possono essere utilizzate per accelerare i tempi di sviluppo dei sistemi di produzione dei combustibili solari.

Il procedimento studiato rappresenta un significativo passo in avanti nella produzione di combustibili solari – fonti energetiche rinnovabili ottenute a partire dalla CO2 sfruttando l’energia solare – fondamentali per ridurre le emissioni di CO2 in atmosfera e contribuire così alla lotta al cambiamento climatico.

Il nuovo studio, appena pubblicato sulla prestigiosa rivista Journal of American Chemical Society, dimostra come sia possibile migliorare l’attuale produzione di combustibili solari avvalendosi dell’Intelligenza Artificiale, e in particolare della tecnica denominata Apprendimento Sequenziale.

A suscitare l’interesse dei ricercatori sono infatti le potenzialità dei combustibili solari, capaci di ridurre l’anidride carbonica in atmosfera e allo stesso tempo di riutilizzarla per produrre risorse utili. Una fonte rinnovabile particolarmente promettente, la cui valorizzazione potrebbe contribuire a fronteggiare l’attuale crisi climatica e costruire un futuro più sostenibile.

Concentrandosi in particolare sulla produzione di monossido di carbonio (CO) – un combustibile utile anche come precursore per la produzione di altri combustibili più comuni, a partire dalla CO2 – il team di ricercatori ha dimostrato come alcune tecniche di Intelligenza Artificiale possono essere utilizzate per “guidare” gli esperimenti, accelerando quindi i tempi di sviluppo e migliorando notevolmente i procedimenti di produzione dei combustibili solari.

Il sistema oggetto dello studio si basa su un processo foto-chimico, nel quale una preparazione costituita da acqua, tensioattivi e opportune molecole funzionalizzanti in contatto con la CO2 viene esposta alla luce solare, attivando la conversione delle molecole di anidride carbonica in combustibile. Data la complessità del sistema, la sua ottimizzazione richiede un elevato numero di esperimenti e analisi in condizioni diverse – per esempio, diverse composizioni e diverse concentrazioni dei costituenti chimici.

“L’apprendimento sequenziale è un approccio in cui un modello apprende continuamente da nuovi dati che gli vengono forniti, e risulta particolarmente utile in contesti in cui i dati non sono disponibili tutti in una volta ma vengono raccolti progressivamente – spiega il professor Eliodoro Chiavazzo – I modelli quindi “imparano” da un primo set di pochi esperimenti, e sono in grado di fornire indicazioni su quali esperimenti conviene svolgere successivamente. Per il sistema in oggetto, i modelli proposti hanno consentito di ottimizzare la produzione di combustibile solare in soli 100 esperimenti rispetto ai 100,000 teoricamente necessari”.

“Per questo lavoro abbiamo usato due dei più recenti modelli di apprendimento sequenziale oggi a disposizione, coordinandoci con i ricercatori dell’università di Cambridge per lo svolgimento degli esperimenti e l’analisi dei risultati – commenta Giovanni Trezza – Lo studio ha permesso di identificare uno dei parametri chiave che regola il sistema foto-chimico considerato, altrimenti molto difficile da individuare”.

“Il sistema considerato per la riduzione della CO2 è di per sé molto innovativo, perché sfrutta l’auto-assemblamento dei tensioattivi e delle molecole funzionalizzanti in aggregati molecolari chiamati “micelle foto-catalitiche” – aggiunge Luca Bergamasco – che possono migliorare di molto la conversione della CO2 in combustibile. Il fatto di aver applicato l’intelligenza artificiale ad un sistema così complesso, ha quindi aggiunto un ulteriore elemento di valore all’approccio, consentendo di dimostrarne a pieno le enormi potenzialità”.

“Ad oggi, le tecniche di apprendimento sequenziale sono ancora relativamente poco sfruttate, soprattutto in ambito chimico; questo lavoro, in particolare, rappresenta il primo tentativo di applicarle ad un sistema foto-catalitico così complesso come quello considerato – concludono gli autori dello studio – La ricerca sull’applicazione di queste tecniche prosegue nell’ambito dei combustibili solari ma non solo, anche per altre applicazioni nel campo della conversione e dell’accumulo di energia”.

L’articolo è disponibile in modalità open access al seguente link: https://pubs.acs.org/doi/10.1021/jacs.4c01305

anidride carbonica
Foto di Gerd Altmann

Testo dall’Ufficio Web e Stampa del Politecnico di Torino.

Grazie alla geodesia satellitare, il magma come fonte di energia semi-infinita

Lo studio dell’Università di Pisa pubblicato su Nature Communications.

Il magma può essere utilizzato come fonte di energia semi-infinita, ma per farlo è prima necessario capire dove si trova sotto i nostri piedi e come si muove. Per la prima volta, grazie ad innovative tecniche di geodesia satellitare, scienziati e scienziate dell’Università di Pisa sono riusciti a studiare il magma a profondità sinora mai esplorate per capire come si muove e come risale verso la superficie. La ricerca pubblicata sulla rivista Nature Communications è stata svolta dal dottore Alessandro La Rosa e dalla professoressa Carolina Pagli del dipartimento di Scienze della Terra dell’Ateneo pisano. Hanno inoltre collaborato al lavoro il professore Freysteinn Sigmundsson dell’Università dell’Islanda e altri studiosi da Cina, Francia e Regno Unito.

La possibilità di ricavare energia dal magma è una opportunità concreta allo studio in Paesi come l’Islanda – racconta Carolina Pagli – per misurare i movimenti millimetrici della superficie terrestre la tecnica principale che abbiamo usato è l’Interferometric Synthetic Aperture Radar (InSAR) che abbiamo combinato con il sistema globale di navigazione satellitare (GNSS) per avere una visione a tre dimensioni dei movimenti della crosta terrestre”.

Il monitoraggio satellitare è durato dal 2014 al 2021 e ha riguardato il rift dell’Afar, una depressione nel Corno d’Africa tra Stato di Gibuti, Eritrea, Somalia ed Etiopia dove si trova il punto più basso del continente africano. I risultati hanno rilevato un sollevamento della crosta terrestre di circa 5 mm/anno rivelando la comune origine di fenomeni in superficie molto distanti fra loro.

“Nel nostro studio abbiamo dimostrato come l’apporto di magma nella crosta avvenga ad impulsi, in luoghi diversi ma contemporaneamente – spiega Alessandro La Rosa – nello specifico l’afflusso di magma è avvenuto simultaneamente in quattro diversi luoghi, distanti decine di km e a profondità comprese tra 9 e 28 km, causando il sollevamento della superficie su una zona larga circa 100 km”.

Carolina Pagli si occupa da sempre di ricerca sui vulcani attivi tramite tecniche di geodesia satellitare. Dopo avere acquisito il PhD all’Università d’Islanda dove ha studiato i vulcani attivi e l’influenza del ritiro dei ghiacciai sulla produzione di magma ha continuato il suo percorso presso l’Università di Leeds nel Regno Unito. Tornata in Italia grazie al programma ministeriale Rita Levi Montalcini è adesso professoressa associata di Geofisica della Terra Solida al dipartimento di Scienze della terra dell’Università di Pisa.

Alessandro La Rosa è stato dottorando e assegnista di ricerca nel gruppo di ricerca di Carolina Pagli ed è attualmente Research Fellow a GFZ-Potsdam (Germania).

 Alessandro La Rosa e Carolina Pagli durante le ricerche ad Afar
Grazie alla geodesia satellitare, il magma come fonte di energia: in foto, Alessandro La Rosa e Carolina Pagli durante le ricerche ad Afar

Riferimenti bibliografici:

La Rosa, A., Pagli, C., Wang, H. et al. Simultaneous rift-scale inflation of a deep crustal sill network in Afar, East Africa, Nat Commun 15, 4287 (2024), DOI: https://doi.org/10.1038/s41467-024-47136-4

 

Testo e foto dal Polo Comunicazione CIDIC dell’Università di Pisa.

Un condensatore per accumulare energia in pochi nanometri. Una tecnologia innovativa dai laboratori dell’Università di Pisa

Un condensatore che permette di accumulare energia in pochi nanometri per applicazioni fino a media e alta frequenza. Il lavoro pubblicato su Advanced Materials, una delle più prestigiose riviste del settore

 

Una tecnologia innovativa per produrre condensatori robusti, flessibili e a basso costo, capaci di accumulare energia in pochi nanometri e posizionabili su ogni tipo di substrato, anche flessibile. 
Lo studio del team del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa coordinato da Giuseppe Barillaro è stato condotto in collaborazione con il Surflay Nanitec GmbH di Berlino e il Dipartimento di Fisica dell’Università di Pisa, ed è stato pubblicato su Advanced Materials (link), la rivista più prestigiosa nel settore della scienza dei materiali.
“Un condensatore – spiega Giuseppe Barillaro – è in grado di immagazzinare energia in un materiale isolante posto tra due conduttori metallici. La sua capacità aumenta al diminuire dello spessore del materiale isolante.
Il metodo che abbiamo sviluppato ci consente di controllare l’assemblaggio dei condensatori chiamati elettrolitici, cioè quelli che tipicamente usano come materiale isolante un liquido o un gel con un’elevata concentrazione di ioni (detto elettrolita). 
I condensatori elettrolitici prodotti con il nostro metodo hanno spessore ridotto di almeno cinquanta volte rispetto ai condensatori attuali, mentre una frequenza di funzionamento di almeno cinquanta volte superiore.
A differenza degli attuali condensatori elettrolitici, che funzionano per applicazioni a bassa frequenza, come le reti elettriche, i 
nano-condensatori dell’Università di Pisa possono essere usati per applicazioni a media ed alta frequenza, come per esempio le comunicazioni wireless”.
Il processo di produzione individuato dai ricercatori è molto semplice: un substrato metallico sul quale è stata indotta una carica superficiale viene immerso in un liquido contenente un polielettrolita di spessore nanometrico con carica opposta, che quindi si deposita sul metallo. Il substrato può essere poi immerso di nuovo in un altro liquido contenente un polielettrolita con carica opposta alla prima, per formare un altro strato. Il processo è semplicissimo e può essere automatizzato con una macchina che immerge alternativamente il metallo nei due liquidi, il che lo rende anche estremamente economico.
“Il condensatore  – conclude Barillaro – è realizzabile su qualunque tipo di substrato, anche su materiali curvi e flessibili, e su aree molto vaste, aprendo la strada a diverse possibili applicazioni in campo di sistemi wearable, automotive, e energy storage. Per esempio, la flessibilità intrinseca dei polielettroliti permetterebbe di usarli all’interno di una pelle elettronica – electronic skin -, come sensori di pressione e/o per immagazzinare energia, ma le potenzialità sono infinite, e in settori che nella nuova rivoluzione industriale del 5.0 assumeranno una rilevanza sempre più marcata.” 
 
Il lavoro su materiali innovativi per immagazzinare energia infatti è una delle ricerche condotte nel laboratorio FoReLab del Dipartimento, dedicato allo sviluppo delle tecnologie per industria e società 5.0.
 
Giuseppe Barillaro
Giuseppe Barillaro

Link all’articolo scientifico:

https://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/adma.202309365

 

Testo e foto dall’Unità Comunicazione Istituzionale dell’Università di Pisa.

Nuove finestre fotovoltaiche “smart” per la green energy e le comunicazioni ottiche del futuro

L’Università di Milano-Bicocca e l’Istituto Nazionale di Ottica del CNR, in collaborazione con Glass to Power SpA e il Laboratorio LENS, hanno realizzato la prima finestra “ibrida” intelligente, capace di generare energia elettrica dalla luce solare e di ricevere dati attraverso la luce visibile in modalità wireless. I risultati dello studio sono stati pubblicati su Advanced Energy Materials.

Milano, 12 marzo 2024 – La sostenibilità energetica e l’interconnessione sono i due pilastri principali su cui si baseranno le smart cities del futuro, con dispositivi energetici intelligenti e connessi, completamente integrati negli edifici, capaci di soddisfare rigorose normative e di avere un impatto energetico minimo. In quest’ambito, nel lavoro pubblicato sulla rivista Advanced Energy Materials, il team composto da ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca e di Cnr-Ino, in collaborazione Glass to Power SpA e LENS, ha realizzato e studiato il primo esempio di finestra fotovoltaica dotata anche della capacità di scambiare dati attraverso la luce mediante la tecnologia VLC (Visible Light Communication).

“Il dispositivo è stato realizzato sfruttando nuovi concentratori solari luminescenti a Quantum Dots, soddisfa tutte le normative internazionali sugli elementi fotovoltaici e edilizi, ed è stato caratterizzato dal punto di vista di resa energetica di conversione solare secondo i più alti standard internazionali”,

spiega Sergio Brovelli, docente dell’Università di Milano-Bicocca e Presidente del Consiglio Scientifico di Glass to Power SpA.

“La finestra “ibrida” messa a punto ha una funzione duale: viene sfruttata non solo come elemento fotovoltaico per la conversione di energia solare in elettrica, ma per la prima volta anche come efficace sistema di ricezione di dati wireless codificati come modulazione di intensità nella luce emessa dalle comuni sorgenti LED, a frequenze impercettibili per l’occhio umano, sfruttando la tecnologia VLC”, continua Jacopo Catani, primo ricercatore del CNR-INO.

L’uso di sorgenti LED bianche per comunicare dati, oltreché per illuminare, prende anche il nome di Light-Fidelity (Li-Fi). Il dispositivo è in grado di funzionare come ricevitore VLC anche sotto la luce solare diretta, combinando così funzioni di energia e connettività wireless in una soluzione realistica per edifici intelligenti e sostenibili. La capacità di generare energia elettrica raccogliendo la luce solare o artificiale e al contempo di trasmettere dati apre anche la possibilità di realizzare dispositivi intelligenti autoalimentati, che possano scambiare dati in modo pervasivo e sostenibile senza sostanziale impatto energetico o sulla salute umana.

Questo risultato pionieristico rappresenta un importante passo verso l’utilizzo sostenibile e green delle tecnologie ottiche nelle smart cities e nell’implementazione dell’Internet of Things (IoT) e della rivoluzione promessa dai sistemi di comunicazione di sesta generazione (6G).

finestre fotovoltaiche
Nuove finestre fotovoltaiche “smart” per la green energy e le comunicazioni ottiche del futuro, in grado di scambiare dati attraverso la luce mediante la tecnologia VLC

 

La scheda

Chi: Università di Milano-Bicocca, Istituto nazionale di ottica del Consiglio nazionale delle ricerche di Sesto Fiorentino (CNR-INO), Glass to Power SpA, Laboratorio Europeo di Spettroscopie non Lineari di Sesto Fiorentino (Firenze)

Che cosa: F. Meinardi*, F. Bruni, C. Castellan, M. Meucci, A. M. Umair, M. La Rosa, J. Catani*, S. Brovelli*, Certification Grade Quantum Dot Luminescent Solar Concentrator Glazing with Optical Wireless Communication Capability for Connected Sustainable Architecture Advanced Energy Materials (February 2024), Link alla ricerca: https://doi.org/10.1002/aenm.202304006

Tutti i ringraziamenti e riferimenti ai progetti finanziatori sono presenti all’interno della pubblicazione.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca.