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Cambiamenti climatici: oscillazioni termiche ed eventi estremi mettono a rischio gli ecosistemi marini, ecco come il biofilm reagisce alle variazioni di temperatura dell’aria

Lo studio condotto a Calafuria (Livorno) dall’Università di Pisa e dalla Scuola Superiore Sant’Anna pubblicato su Nature Communications.

Gli scogli di Calafuria in provincia di Livorno sono stati il laboratorio naturale al centro di uno studio dell’Università di Pisa e della Scuola Superiore Sant’Anna per capire come i cambiamenti climatici stiano alterando gli ecosistemi marini. La ricerca, pubblicata sulla rivista Nature Communications, ha analizzato come il biofilm – una sottile pellicola vivente formata da microalghe e batteri fondamentale per la vita delle scogliere – reagisce alle variazioni di temperatura dell’aria.

I ricercatori hanno condotto un esperimento sul campo esponendo il biofilm a due diversi regimi termici: un riscaldamento costante e uno caratterizzato da forti oscillazioni, che simula le condizioni imprevedibili destinate a diventare sempre più comuni nel prossimo futuro a causa del cambiamento climatico. I risultati hanno mostrato che un regime costante di riscaldamento favorisce la presenza di specie con funzioni simili, capaci di “darsi il cambio” in caso di difficoltà. Questo meccanismo permette al biofilm di resistere meglio agli eventi estremi. Al contrario, forti oscillazioni di temperatura riducono la diversità favorendo specie a crescita rapida, capaci di riprendersi velocemente dopo uno shock termico, ma più vulnerabili funzionalmente nel lungo periodo.

L’area di Calafuria, nei pressi di Livorno, caratterizzata da piattaforme rocciose di arenaria esposte all’aria durante la bassa marea, ha fornito un ambiente ideale per studiare il biofilm marino in condizioni naturali. Per simulare l’aumento delle temperature, i ricercatori hanno utilizzato speciali camere di metallo riscaldate con piccole stufe, controllando le variazioni di calore con sensori elettronici. Per valutare la risposta del biofilm, è stata usata una fotocamera a infrarossi in grado di rilevare la quantità di clorofilla. Infine, grazie alla collaborazione con l’Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, è stato analizzato il DNA dei microrganismi con tecniche avanzate di sequenziamento, simili a quelle utilizzate per studiare il genoma umano, per capire quali funzioni svolgono le diverse specie e come il loro patrimonio genetico le rende più o meno adatte a rispondere agli eventi estremi.

“Il cambiamento climatico non si manifesta solo attraverso l’aumento medio delle temperature, ma anche con una crescente variabilità termica, cioè oscillazioni imprevedibili tra picchi di calore e periodi meno caldi– dice il professore Luca Rindi dell’Università di Pisa, primo autore dello studio – In un mondo che si prospetta sempre più caldo e instabile, i microrganismi marini potrebbero, da un lato, reagire più rapidamente agli shock, ma dall’altro diventare più vulnerabili di fronte a eventi estremi ripetuti nel tempo. In vista delle sfide che il clima ci riserva, lo studio apre una finestra sul futuro, aiutandoci a capire come questo importante elemento dell’ecosistema costiero reagirà ai cambiamenti climatici.”

“Il successo di questa collaborazione dimostra ancora una volta il valore del sistema universitario pisano – dice il professore Matteo Dell’Acqua, direttore dell’Istituto di Scienze delle Piante della Scuola Sant’Anna e coautore dello studio – l’unione delle competenze uniche presenti sul nostro territorio ci permette di esplorare la frontiera della ricerca sugli effetti del cambiamento climatico”

L’Università di Pisa ha avuto un ruolo centrale nello studio, in particolare attraverso il Dipartimento di Biologia, dove hanno operato alcuni degli autori principali, come i professori Luca Rindi e Lisandro Benedetti-Cecchi. L’ateneo ha inoltre fornito supporto scientifico e logistico per la progettazione e la realizzazione degli esperimenti sul campo, oltre a contribuire all’analisi dei dati ecologici e microbiologici grazie al supporto fornito dal Green Data Center.

Il progetto è stato finanziato in parte dal programma europeo ACTNOW (Advancing understanding of Cumulative Impacts on European marine biodiversity, ecosystem functions and services for human wellbeing), che si occupa di studiare gli impatti cumulativi dei cambiamenti climatici sugli ecosistemi marini.

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Cambiamenti climatici: oscillazioni termiche ed eventi estremi mettono a rischio gli ecosistemi marini, ecco come il biofilm reagisce alle variazioni di temperatura dell’aria; lo studio pubblicato su Nature Communications. In foto, gli scogli di Calafuria

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

Un paradosso conservazionistico: le specie aliene invasive possono essere a rischio nei loro areali d’origine 

Le specie non autoctone rappresentano una minaccia per la biodiversità, ma 36 di esse sono a loro volta in pericolo di estinzione nelle aree da cui provengono. A rivelarlo uno studio condotto dalla Sapienza e dall’Università di Vienna, pubblicato sulla rivista Conservation Letters.

Le specie aliene invasive sono tra le principali cause della perdita globale di biodiversità, contribuendo al 60% delle estinzioni di specie registrate negli ultimi decenni. In Europa centrale, tra i mammiferi non autoctoni si annoverano il ratto norvegese, il muflone e il visone americano. Uno studio condotto da biologi della Sapienza di Roma e dell’Università di Vienna ha rivelato che alcune di queste specie introdotte dall’uomo sono minacciate di estinzione nei loro areali d’origine. I risultati dello studio sono stati pubblicati nell’ultimo numero della rivista scientifica Conservation Letters.

La crescente globalizzazione ha facilitato la diffusione di numerose specie animali e vegetali in regioni del mondo a cui non appartenevano originariamente. Le specie invasive possono mettere in pericolo quelle autoctone attraverso la competizione per le risorse o la trasmissione di nuove malattie. Tuttavia, alcune di queste specie invasive risultano essere a rischio di estinzione nei loro areali nativi. Questo fenomeno solleva un interessante paradosso per la conservazione: è giusto proteggere queste specie nei loro areali d’origine, nonostante il danno che possono arrecare altrove? Finora non era chiaro quante specie di mammiferi minacciati fossero coinvolte in questo paradosso. Il recente studio ha quantificato il fenomeno, facendo un passo avanti nella comprensione di questa complessa problematica.

Le specie aliene invasive sono tra le principali cause della perdita globale di biodiversità, contribuendo al 60% delle estinzioni di specie registrate negli ultimi decenni. In Europa centrale, tra i mammiferi non autoctoni si annoverano il ratto norvegese, il muflone e il visone americano. Attualmente, l’uomo ha introdotto 230 specie di mammiferi non autoctoni in nuove aree del mondo, dove si sono stabilite in modo permanente.

“Ci siamo chiesti quante di queste specie siano a rischio anche nei loro areali d’origine -, spiega Lisa Tedeschi, autrice principale dello studio, affiliata alla Sapienza di Roma e all’Università di Vienna – Abbiamo scoperto che 36 di queste specie sono minacciate nei loro areali originari, rientrando così nel cosiddetto paradosso della conservazione. Questo numero ci ha sorpreso molto – sottolinea Tedeschi – Inizialmente pensavamo che le specie aliene e invasive fossero comuni anche nei loro areali nativi”.

Un esempio emblematico di mammifero minacciato nel suo areale originario è il cinopiteco (o macaco crestato), la cui popolazione a Sulawesi, in Indonesia, è crollata dell’85% dal 1978. Tuttavia, la specie si è diffusa su altre isole indonesiane, dove si trovano popolazioni non autoctone stabili. Un caso simile è quello del coniglio selvatico, in pericolo di estinzione in Europa, ma con popolazioni introdotte molto numerose in altre parti del mondo, come l’Australia, che superano di gran lunga quelle europee.

La maggior parte delle specie minacciate nel loro areale originario si trova nelle regioni tropicali dell’Asia, dove la distruzione massiccia delle foreste pluviali e la caccia intensiva rappresentano le principali cause del declino.

“La regione del Sud-est asiatico rappresenta l’hotspot globale di rischio di estinzione per i mammiferi – spiega Carlo Rondinini della Sapienza, coordinatore del gruppo di ricerca – le tendenze degli ultimi decenni e le proiezioni per il futuro fanno ritenere che conservare i mammiferi a rischio in questa regione sarà molto complesso. Per questo, le popolazioni aliene di specie minacciate nel loro areale nativo potrebbero in alcuni casi rappresentare una carta in più per evitarne l’estinzione”.

Attualmente, nella valutazione del rischio di estinzione globale non vengono considerate le popolazioni di specie che vivono al di fuori del loro areale nativo. Questo studio, però, ha dimostrato che includere le popolazioni non autoctone potrebbe migliorare la classificazione di rischio per alcune specie.

“Per il 22% delle specie analizzate, il rischio di estinzione globale si ridurrebbe se si tenessero in considerazione anche le popolazioni non autoctone”,

spiega Franz Essl, dell’Università di Vienna e co-coordinatore dello studio. Secondo i ricercatori, questi risultati evidenziano quanto le popolazioni non autoctone possano essere cruciali per la sopravvivenza di specie minacciate, specialmente quando gli habitat d’origine sono fortemente compromessi.

Tuttavia, l’inclusione delle popolazioni non autoctone nella valutazione del rischio presenta anche delle criticità. Ad esempio, potrebbe diminuire l’attenzione verso la protezione delle popolazioni minacciate nel loro areale nativo. Inoltre, le popolazioni non autoctone possono danneggiare altre specie locali, contribuendo a nuovi squilibri ecosistemici.

“La priorità deve rimanere la protezione delle specie nei loro habitat d’origine”, sottolinea Essl. “Tuttavia, è probabile che in futuro vedremo sempre più specie a rischio di estinzione nei loro areali nativi, ma con migliori possibilità di sopravvivenza in nuovi areali. Questo pone la conservazione della biodiversità davanti al complesso compito di bilanciare rischi e opportunità”. Infine, Essl conclude: “Questa dinamica riflette il profondo impatto della globalizzazione sulla distribuzione delle specie”.

 

Riferimenti bibliografici:

Tedeschi L., Lenzner B., Schertler A., Biancolini D., Essl F., Rondinini C. – “Threatened mammals with alien populations: distribution, causes, and conservation” – Conservation Letters (2024) – DOI:  https://doi.org/10.1111/conl.13069

Visone americano (Neogale vison). Foto di Hugo.arg, CC BY-SA 3.0
Un paradosso conservazionistico: le specie aliene invasive possono essere a rischio nei loro areali d’origine. Un visone americano (Neogale vison) in Lituania. Foto di Hugo.arg, CC BY-SA 3.0

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Osservazioni umane e strumentali per comprendere i cambiamenti nei regimi delle precipitazioni

Le comunità di sussistenza stanno già vivendo le conseguenze di diversi cambiamenti nelle precipitazioni. Lo rivela uno studio pubblicato sulla rivista Nature Communications, condotto da un team internazionale di ricercatori, guidato dall’Università Roma Tre.

 

Roma, 13 novembre 2024 – I cambiamenti climatici ormai sono un fenomeno noto e molto discusso. Quello che invece è meno noto sono i suoi effetti sulle vite di migliaia di comunità indigene e di sussistenza e come queste comunità percepiscono questi cambiamenti. In particolare, i cambiamenti nei regimi pluviometrici sono meno facili da studiare in quanto influenzati da molte più variabili ad andamento incerto rispetto ai cambiamenti nelle temperature e quindi risulta particolarmente utile trovare nuovi modi per meglio delinearne i comportamenti. Nei modelli climatici relativi alle precipitazioni, l’incertezza è infatti un fattore molto rilevante. Gli impatti di questi cambiamenti sono però molto chiari ed evidenti per tante comunità di sussistenza; tuttavia le loro osservazioni sono ancora in gran parte trascurate malgrado il fatto che queste comunità abbiano una comprensione profonda dei complessi equilibri degli ecosistemi da cui dipendono.

In questo lavoro, dal titolo “Using human observations with instrument-based metrics to understand changing rainfall patterns”, pubblicato sulla rivista Nature Communications e condotto da un team internazionale di ricercatori (Università degli Studi Roma Tre, Università Simon Fraser, Center for International Climate Research, Università dell’East Anglia), sono state comparate le osservazioni di 1827 comunità di sussistenza sui regimi pluviometrici con diversi indici climatici relativi a precipitazioni. Lo scopo di questo studio non è stato tanto quello di validare queste osservazioni, quanto piuttosto quello di vedere in che modo questi due diversi tipi di osservazioni, quelle umane e quelle strumentali, potessero complementarsi. Per esempio, è stato possibile individuare diverse aree “calde” dove i cambiamenti nel comportamento delle piogge sono multipli. Inoltre, le comunità di sussistenza spesso associano i cambiamenti ad altri indicatori ambientali (ad esempio, la direzione prevalente del vento): le loro conoscenze ecologiche potrebbero ad esempio aiutarci a progettare indici multifattoriali del comportamento delle precipitazioni. Inoltre, è stato possibile evidenziare delle aree dove le comunità locali stanno osservando trend diversi rispetto a quelli indicati dai modelli globali e che quindi richiedono maggiore studio. Le loro osservazioni ci danno anche informazioni utili in aree dove ci sono pochi dati stazionali disponibili.

Un altro problema emergente evidenziato dalle comunità locali, come anche citato nell’ultimo rapporto dell’IPCC, è che le piogge non sono più prevedibili.  In passato, era possibile prevedere se la stagione sarebbe stata piovosa o siccitosa oppure se avrebbe piovuto nell’arco di pochi giorni, invece ora questo non è più possibile. Direzionalità dei venti e formazioni nuvolose all’orizzonte potevano essere interpretate per capire l’eventualità di piogge o tempeste, consentendo ad agricoltori di prevedere un giorno di semina oppure ad un cacciatore dell’Artico di potersi avventurare o meno lontano dal villaggio.

“La ricerca, fortemente interdisciplinare, ha coinvolto molteplici competenze da diverse parti del mondo. È stato difficile trovare modi per combinare dati così diversi, la collaborazione con tanti ricercatori, ma soprattutto ricercatrici di spicco nei loro rispettivi ambiti di ricerca lo ha reso possibile”, ha spiegato Valentina Savo, Ricercatrice dell’Università Roma Tre e leading author dello studio.

Il team di Ricercatori

Valentina Savo, Ricercatrice dell’Università Roma Tre, è la leading author dello studio, si occupa di interazioni uomo ambiente, soprattutto in relazione ai cambiamenti climatici.

Karen Kohfeld è la Direttrice della School of Environmental Science all’Università Simon Fraser (Canada). La sua ricerca riguarda soprattutto il clima e il ciclo del carbonio e ha ricevuto importanti finanziamenti e riconoscimenti.

Jana Sillmann è Professore di Climate extremes all’Università di Amburgo (Germany) e Direttore di Ricerca del Center for International Climate Research (Norway). Il suo lavoro sui cambiamenti climatici è stato incluso in diversi Report dell’IPCC.

Cedar Morton è un System Ecologist presso ESSA, Environmental Consulting (Canada).

Joseph Bailey è Head Data Manager presso BBC Studios (Regno Unito).

Amund Haslerud è Advisor alla Norconsult (Norvegia).

Corinne Le Quéré è una Professoressa Royal Society Research di Scienza del Cambiamento Climatico all’Università dell’East Anglia (Regno Unito). È autrice di diversi Report dell’IPCC, incluso quello che ha ricevuto il Nobel per la pace.

Dana Lepofsky è una Distinguished Professor di Archeologia all’Università Simon Fraser (Canada). La sua ricerca sulle interazioni uomo-ambiente, soprattutto in comunità indigene, le è valsa diversi riconoscimenti.

Il lavoro evidenzia che le comunità di sussistenza stanno già vivendo le conseguenze di diversi cambiamenti nelle precipitazioni e sottolinea la necessità di sviluppare indici climatici che descrivano meglio la stagionalità e l’imprevedibilità delle precipitazioni, fattori che sono di vitale importanza per migliaia di comunità in tutto il mondo. 

Savo, V., Kohfeld, K.E., Sillmann, J., Morton C., Bailey J., Haslerud A.S., Le Quéré C., Lepofsky D. Using human observations with instrument-based metrics to understand changing rainfall patterns. Nat Commun 15, 9563 (2024). https://doi.org/10.1038/s41467-024-53861-7

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Osservazioni umane e strumentali per comprendere i cambiamenti nei regimi delle precipitazioni; lo studio è stato pubblicato su Nature Communications. Foto di  Hello, Its Me…..

Testo dall’Ufficio Comunicazione dell’Università Roma Tre

Progetto Encompass: Italia e Cina insieme per studiare la contaminazione da microplastiche nei terreni agricoli e nelle acque sotterranee

Il progetto Encompass è coordinato dall’Università di Pisa e finanziato Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, la sperimentazione sul campo in provincia di Pisa

La contaminazione da microplastiche nei terreni agricoli e nelle acque sotterranee è un problema nuovo e relativamente poco studiato, con effetti ancora non del tutto chiari dal punto di vista dell’ambiente e della salute. Definire nuovi protocolli per affrontare il fenomeno è la sfida del progetto Encompass che unisce nell’impegno Italia e Cina con l’Università di Pisa come capofila e fra i partner l’Università tecnologica di Shenzhen e l’Istituto Orientale di Tecnologia (Eastern Institute of Technology) di Ningbo. La sperimentazione sul campo avverrà sia in Cina che in Italia, precisamente nella zona della bonifica di Massaciuccoli, nel comune di Vecchiano (Pisa).

“La contaminazione da microplastiche nei suoli agricoli ha potenzialmente conseguenze molto serie per le produzioni alimentari, la biodiversità e il benessere degli ecosistemi terrestri in generale – spiega il professore Valter Castelvetro del dipartimento di Chimica e Chimica Industriale dell’Ateneo pisano – A tutt’oggi non esistono protocolli analitici validati e condivisi per gestire il fenomeno, anche a perché è molto difficile isolare le microplastiche dai suoli”.

L’obiettivo di Encompass è dunque condividere e sviluppare nuovi protocolli analitici per determinare quantità e tipologia di microplastica presente nei suoli e nelle acque sotterranee. Le metodologie riguarderanno sia la quantificazione numerica, cioè il numero e la natura delle particelle polimeriche, sia la massa per tipologia di polimero, calcolata quest’ultima secondo una procedura ideata e validata all’Università di Pisa. L’ambizione è inoltre di mettere a punto modelli su scala per studiare in laboratorio il processo di trasporto delle microplastiche dalla superficie alle falde acquifere attraverso le diverse tipologie di suolo.

L’impatto che deriva dal crescente inquinamento da materie plastiche, e conseguentemente da microplastiche, sulla produttività dei suoli agricoli, sul benessere degli ecosistemi naturali e sulla biodiversità potrebbe essere molto grave nei prossimi anni, anche in considerazione dei possibili effetti sinergici con le alterazioni climatiche, lo sfruttamento intensivo dei suoli e la depauperazione delle importantissime riserve di acqua sotterranea – sottolinea Castelvestro – Conoscere il problema è un passo fondamentale per poterne comprendere le conseguenze e studiare possibili soluzioni o mitigarne gli effetti”.

Progetto Encompass:Italia e Cina insieme per studiare la contaminazione da microplastiche nei terreni agricoli e nelle acque sotterranee. Nella gallery, le immagini del primo campionamento nella zona della bonifica di Massaciuccoli, nel comune di Vecchiano (Pisa)

Encompass è stato finanziato fra i Progetti di Grande Rilevanza del Programma esecutivo di Cooperazione scientifica e tecnologica bilaterale tra Italia (MAECI, Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale) e Cina (MOST, Ministry of Science and Technology).

Per l’Università di Pisa, il progetto è gestito tramite il Centro per l’Integrazione della Strumentazione scientifica (CISUP) e vede coinvolti ricercatori del Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale e del Dipartimento di Scienze della Terra. Collaborano a Encompass: Valter Castelvetro, Andrea Corti, Stefania Giannarelli, Antonella Manariti, Jacopo La Nasa, Laura Pacilio, Riccardo Gherardini, Alessio Monnanni, Riccardo Petrini, Roberto Giannecchini, Viviana Re e Stefano Viaroli.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa

Gestione delle foreste e funzionalità degli ecosistemi: il delicato equilibrio tra uomo e natura

Una collaborazione internazionale, a cui partecipa un gruppo di ricercatori della Sapienza, ha pubblicato su Journal of Applied Ecology i risultati di uno studio che indaga i legami tra strategie di gestione delle foreste e caratteristiche funzionali del sottobosco, visto che queste ultime influenzano il grado di resilienza ai cambiamenti. La ricerca è stata resa possibile da un monitoraggio della biodiversità forestale che ha coinvolto 12 paesi in Europa.

La vasta maggioranza delle foreste d’Europa è attualmente utilizzata per la produzione di legname. Le strategie di gestione forestale deputate a questo scopo sono notevolmente varie ed è differente anche l’impatto delle singole metodologie sulla vegetazione del sottobosco e di conseguenza sulla biodiversità forestale, sul ciclo dei nutrienti e sulla capacità di rigenerazione dell’ecosistema.

Nonostante l’importanza delle foreste anche nella lotta al cambiamento climatico, nessuno finora aveva indagato il rapporto esistente tra metodi di gestione delle risorse forestali e ricchezza e resilienza degli ecosistemi. Una collaborazione di 52 scienziati provenienti da 12 paesi europei, tra cui un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Biologia ambientale della Sapienza, ha svolto per la prima volta una ricerca a vasta scala sul tema. I risultati sono stati pubblicati sul Journal of Applied Ecology della British Ecological Society.

In particolare i ricercatori hanno confrontato gli effetti di ciascuna strategia di gestione forestale su tre distinte componenti: diversità funzionale, ridondanza funzionale e dominanza misurate rispetto alle foreste non sfruttate per la produzione di legname.

Il primo indicatore stima la disponibilità di specie diversificate per funzioni ambientali. La presenza di un’elevata diversità funzionale incrementa la probabilità che, in caso di instabilità climatica o eventi catastrofici, alcune specie possano sfruttare a loro vantaggio le nuove condizioni, contribuendo così alla resilienza post-disturbo dell’ecosistema.

Il secondo indicatore si riferisce alla compresenza di specie che svolgono funzioni simili, le quali possano garantire il mantenimento di processi ecosistemici, come la produttività, la cattura del carbonio o il ciclo dei nutrienti dopo la perdita di specie dovuta a forti disturbi o perturbazioni.

Infine, il terzo riguarda la dominanza di una o più specie rispetto alle altre.

I dati necessari per valutare questi effetti sono stati raccolti a livello locale in 2107 punti di campionamento in 146 siti sparsi in tutta Europa, ognuno dei quali è associato ad una specifica strategia di gestione. Per ciascuna unità di campionamento è stata effettuata l’identificazione delle specie e la stima dell’abbondanza di piante vascolari presenti nel sottobosco. In seguito i dati sono stati inseriti su una piattaforma di gestione e armonizzazione dei dati, che ne ha permesso il confronto.

I risultati dimostrano come le differenti metodologie di silvicoltura impattano sul sottobosco e sulle sue caratteristiche. In particolare, se le foreste non gestite presentano sia un sottobosco funzionalmente diversificato che ridondante, gli stessi effetti possono essere ottenuti attraverso strategie di gestione e sfruttamento a bassa intensità.

D’altro canto, lo sfruttamento intensivo è associato a una diminuzione della diversità funzionale parzialmente controbilanciata da un aumento della ridondanza funzionale. Ciò implica che, sebbene la gestione intensiva possa mantenere le funzioni delle foreste in caso di perdita di alcune specie, con questo tipo di gestione viene anche fortemente limitata la gamma di risposte del sottobosco ai cambiamenti ambientali.

Dunque, i diversi regimi gestionali influenzano diversi aspetti delle caratteristiche funzionali del sottobosco e data la complessità delle interazioni tra queste componenti ambientali è impossibile individuare un regime di silvicoltura universalmente consigliabile. Le diverse opzioni dovrebbero essere bilanciate in un paesaggio forestale per sostenere le molteplici funzioni che le società umane richiedono agli ecosistemi forestali.

gestione delle foreste sottobosco ecosistemi
Foto di Kurt Bouda

Riferimenti bibliografici:

Silvicultural regime shapes understory functional structure in European forests – F. Chianucci, F. Napoleone, C. Ricotta, … S. Burrascano – Journal of Applied Ecology https://doi.org/10.1111/1365-2664.14740

Testo e video dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Le ali di ottocento uccelli ovvero il peso silenzioso dell’estinzione oscura

I nostri occhi non vedranno tutto ciò che è stato su questa Terra, né vedranno mai tutto ciò che abbiamo distrutto. Tendiamo a pensare alle estinzioni causate dall’uomo come conseguenza di atti deliberati o perlomeno in cui guardiamo negli occhi ciò che uccidiamo. Lance dopo lance che infilzano prede: contadini che sparano all’ultimo tilacino selvatico, i marinai che catturano l’ultimo uovo di alca impenne. Ma gran parte dello stillicidio accade di nascosto. Introduciamo ratti su un’isola, e questi divorano uova senza che ce ne accorgiamo; coltiviamo campi, e distruggiamo i nidi dove sverna un insetto, o leviamo spazi a una pianta rara; mettiamo una diga, e impediamo a un pesce di riprodursi, e così via. 

Quindi le specie scompaiono lontano dagli occhi e dal cuore, prima ancora di riuscire a conoscerle: è quella che si chiama dark extinction, estinzione oscura, usando un’espressione coniata da Manfred Boehm e Quentin Cronk della Università della Columbia Britannica, nel 2021. Molte specie per esempio vengono oggi identificate dalle collezioni naturalistiche dei musei, quando sono in realtà già estinte. Ma a volte non abbiamo neanche un guscio vuoto dimenticato in un cassetto. Su Nature Communications, Rob Cooke del Gothenburg Global Biodiversity Centre e colleghi ora hanno provato a valutare quante specie di uccelli si sono estinte, in totale, dal Pleistocene a oggi, conosciute e non. Mettendo insieme le estinzioni conosciute con una stima di quante specie potevano abitare un certo ambiente, nonché di quale percentuale di quelle perdute possiamo aspettarci di ritrovare – e di non ritrovare – come fossili o subfossili. 

L’espansione umana lungo il pianeta viene classificata in quattro ondate principali. I percorsi di dispersione principali sono indicati con delle frecce, e i profili indicano le estinzioni di uccelli da esempi fossili (prima dell’Olocene al 1500 dell’era volgare) e osservati (dal 1500 dell’era volgare ad oggi). La cartina è centrata sul meridiano 145°E. Le icone sono PhyloPic.org in pubblico dominio (collezioni: https://www.phylopic.org/collections/b2c5ed62-52af-0219-22e1-76a6538ce493). Crediti dei creatori: Birgit Lang, FJDegrange, Ferran Sayol, Francesco “Architetto” Rollandin, Juan Carlos Jerí, Mattia Menchetti, Peileppe, Rob Cooke, Sean McCann, Sharon Wegner-Larsen, and Steven Traver. Fig. 1 da Cooke et al. 2023, CC BY 4.0

Quello che risulta è una strage di cui non avevamo idea. Dalla fine del Pleistocene a oggi sono scomparse 1300-1500 specie di uccelli: il 12% del totale. Significa che poco meno di una specie su otto di uccelli si è estinta nel corso degli ultimi 12.000 anni. Di queste specie perdute, oltre la metà, il 55%, non ha lasciato traccia. È una stima per difetto, avvertono gli autori, che hanno volutamente usato assunzioni di partenza il più possibile ottimistiche. Si tratta di qualcosa come 800 specie che, in gran parte, non conosceremo mai. Per un confronto, ci sono circa 500 specie di uccelli in Italia: immaginate di spazzarle via tutte. Gran parte di queste estinzioni è concentrata nelle isole del Pacifico, con due picchi in epoca storica: intorno all’840 a.C. e al 1300 d.C., corrispondenti alle ondate di colonizzazione umana dell’Oceania. Nel XIV secolo infatti l’umanità ha colonizzato la Nuova Zelanda e il resto delle isole del Pacifico Orientale; un evento storico che ha portato per la prima volta gli esseri umani a contatto con gli ecosistemi di numerose isole, ciascuna delle quali possedeva e possiede specie uniche. Il terzo picco, non sorprendentemente, è in corso nell’attuale epoca. 

a) la mediana dell’estinzione degli uccelli negli ultimi 7 mila anni circa. b-d) la distribuzione spaziale delle tre principali ondate di estinzione. La maggior parte delle estinzioni sono avvenute negli ultimi 7 mila anni circa (dal 5 mila prima dell’era volgare al 2019 dell’era volgare). Le tre principali ondate di estinzione sono indicate, e mostrate geograficamente in b-d). La dimensione dei punti indica le estinzioni di uccelli ed è in scala tra le ondate di estinzione. Le cinque regioni principali sono indicate per ogni ondata. Le cartine sono centrate sul meridiano 145°E. Fig. 3 da Cooke et al. 2023, CC BY 4.0

Ci sono varie lezioni qui. Innanzitutto, gli ecosistemi che conosciamo differiscono dagli attuali per molti aspetti che potrebbero rimanerci per sempre ignoti. Contenevano specie a noi ignote, quindi reti ecologiche a noi ignote, quindi quando parliamo di ripristinarli non sappiamo neanche cosa ripristinare: anche con tutti i procedimenti di de-estinzione, potremo ritornare comunque solo a ecosistemi mutilati, parziali. Qualsiasi tecnologia non cambia che l’estinzione è per sempre. Se questo vale per animali macroscopici come gli uccelli, vale a maggior ragione per componenti più umili ma non meno fondamentali. Ragni. Muschi. Funghi. Insetti. Quanti di questi sono stati perduti senza alcuna traccia?

In secondo luogo, l’Antropocene non è la storia di un’erosione costante. È fatta di molteplici ondate di estinzione localizzate nello spazio e nel tempo, a volte peggiori dell’attuale: secondo Cooke e colleghi, il picco di estinzione del XIV secolo è di gran lunga il più elevato, addirittura superiore all’epoca attuale (forse perché, ormai, adesso di specie da estinguere ne son rimaste poche?), corrispondente a un tasso di estinzione 80 volte superiore a quello pre-Pleistocene. 

E questo ricorda anche che l’Antropocene, dal punto di vista della biodiversità, non è iniziato con l’epoca industriale o coloniale, né solo l’attuale civiltà ne è responsabile – anche se questa sta contribuendo ad accelerare oltremisura il processo. Si accompagna da sempre all’espansione della specie umana in generale. Lo sanno i mammut, lo sanno i moa, lo sanno i bradipi giganti e le tigri dai denti a sciabola. Lo sanno anche migliaia di specie che non sapremo mai nominare, di cui non abbiamo nulla, se non la mancanza.

Illustrazione di Joseph Smit, dal libro Extinct Monsters. A popular account of some of the larger forms of ancient animal life, di Henry Neville Hutchinson, Chapman & Hall, LD, Londra, quarta edizione, 1896. Tavola a p.  233, in pubblico dominio
Illustrazione di Joseph Smit, dal libro Extinct Monsters. A popular account of some of the larger forms of ancient animal life, di Henry Neville Hutchinson, Chapman & Hall, LD, Londra, quarta edizione, 1896. Tavola a p. 233, in pubblico dominio

 

 

Riferimenti bibliografici:

Boehm M. M. A., Cronk Q. C. B., Dark extinction: the problem of unknown historical extinctions, Biol. Lett. 17 (2021) 172021000720210007, DOI: http://doi.org/10.1098/rsbl.2021.0007

Cooke, R., Sayol, F., Andermann, T. et al. Undiscovered bird extinctions obscure the true magnitude of human-driven extinction waves, Nat Commun 14, 8116 (2023), DOI: https://doi.org/10.1038/s41467-023-43445-2

 

La iena gigante che non ha resistito ai cambiamenti climatici 
Pachycrocuta brevirostris, la iena gigante dal muso corto diffusa nel Vecchio Mondo durante il Pleistocene, si è estinta in Europa circa 800 mila anni fa a seguito di cambiamenti climatici e ambientali e non a causa della competizione con altre specie che si diffusero nello stesso periodo. A svelarlo un nuovo studio del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza, pubblicato sulla rivista Quaternary Science Reviews.

Un super-predatore un tempo popolava Europa, Asia e Africa, la iena gigante dal muso corto Pachycrocuta brevirostris. Con un peso probabilmente superiore ai 100 chilogrammi, fu la iena più grande mai esistita. Diffusasi in Europa circa due milioni di anni fa, fu uno dei predatori più temibili che si trovarono ad affrontare le prime popolazioni di ominini avventuratesi fuori dall’Africa; sebbene il ruolo diretto delle iene come concorrenti ecologici degli ominini del Pleistocene venga spesso enfatizzato, esse erano comunque una componente unica della fauna incontrata da queste popolazioni.

Pachycrocuta brevirostris iena gigante dal muso corto
Pachycrocuta brevirostris, la iena gigante dal muso corto che non ha resistito ai cambiamenti climatici e ambientali

Le iene sono comunemente note per la loro abilità di rompere le ossa e cibarsi del loro contenuto, e Pachycrocuta brevirostris si era ben adattata a questa abitudine alimentare. La iena gigante era anche in grado di accumulare ossa, come oggi testimoniano alcuni siti che rappresentano un vero tesoro per i paleontologi. Durante il Pleistocene, gli ominini erano l’unico altro gruppo capace di sfruttare le ossa come risorsa alimentare, con l’ausilio di strumenti litici per romperle. Per questo motivo, la possibile competizione di queste popolazioni con la iena gigante suscita un grande interesse tra i ricercatori. Eppure, il motivo per cui la specie si estinse e la tempistica di questo evento in Europa rimanevano ancora avvolti nell’incertezza.

Un nuovo studio, condotto da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Scienze della Terra di Sapienza e pubblicato sulla rivista Quaternary Science Reviews, ha riconsiderato i fossili di Pachycrocuta brevirostris e di altre iene che si diffusero in Europa nel Pleistocene, rivelando che la iena gigante dal muso corto scomparve dall’Europa circa 800 mila anni fa, probabilmente a seguito di cambiamenti climatici e ambientali e non a causa della competizione con altre specie che si diffusero nello stesso periodo.

Pachycrocuta brevirostris, Crocuta crocuta e Hyaena prisca

Studi precedenti avevano infatti ipotizzato che la competizione generata dall’arrivo di Crocuta crocuta, l’attuale iena macchiata, potesse aver giocato un ruolo nell’estinzione di Pachycrocuta brevirostris. Tale ipotesi sarebbe supportata dalla coesistenza delle due specie in alcune località dove la iena gigante sopravvisse più a lungo. Tuttavia, i risultati di questa nuova ricerca vanno nella direzione opposta, escludendo l’ipotesi della compresenza e della competizione diretta tra queste iene.

“La scomparsa della iena gigante dall’Europa circa 800 mila anni fa – commenta Alessio Iannucci di Sapienza, primo nome dello studio – è pressappoco coincidente con l’arrivo della iena macchiata, Crocuta crocuta, e di un’altra specie meno nota, la “Hyaena” prisca. Tuttavia, queste specie furono in grado di diffondersi in Europa solo dopo il declino della iena gigante e non contribuirono alla sua estinzione”.

La iena gigante dunque, un tempo diffusa in tutto il continente, non fu in grado di far fronte ai cambiamenti climatici e ambientali che avvennero durante la transizione tra Pleistocene Inferiore e Pleistocene Medio, la cosiddetta “Early–Middle Pleistocene Transition”. Si tratta di un periodo che vide acuirsi l’intensità delle fluttuazioni tra intervalli glaciali e interglaciali, dando poi inizio all’era glaciale. L’avvicendamento tra Pachycrocuta brevirostris e le altre iene fu uno degli eventi più caratteristici del rinnovamento faunistico avvenuto in quel momento: diversi carnivori specializzati, come le tigri dai denti a sciabola, andarono in declino o si estinsero, mentre si diffusero specie nuove e più adattabili. Tra queste si ricordano le linee evolutive dei moderni cervi, cinghiali, daini e lupi, così come popolazioni umane in grado di produrre strumenti litici bifacciali (come cunei, o asce da pugno).

“Le specie meglio adattate a particolari ambienti o a strategie alimentari, come Pachycrocuta brevirostris, sono quelle più a rischio, ma anche quelle che si sono evolute facendo fronte alle fluttuazioni climatiche dell’ultimo milione di anni potrebbero non essere in grado di adattarsi ai rapidi cambiamenti causati dall’attività umana – conclude Raffaele Sardella di Sapienza. “Studiare la risposta degli ecosistemi del passato è cruciale per interpretare criticamente i cambiamenti climatici che osserviamo attualmente”.

 

Riferimenti:

The extinction of the giant hyena Pachycrocuta brevirostris and a reappraisal of the Epivillafranchian and Galerian Hyaenidae in Europe: faunal turnover during the Early-Middle Pleistocene Transition – Alessio Iannucci, Beniamino Mecozzi, Raffaele Sardella, Dawid Adam Iurino – Quaternary Science Reviews 2021, 272:107240. https://doi.org/10.1016/j.quascirev.2021.107240

 

Testo, video e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma