Microbi Fantastici e Dove Trovarli, progetto di BiUniCrowd è scienza partecipata e formazione alla ricerca: gli studenti mappano il microbioma urbano
Grazie al progetto “Microbi Fantastici e Dove Trovarli” di BiUniCrowd, gli studenti saranno protagonisti della ricerca sui microrganismi negli ecosistemi urbani e ambasciatori della loro importanza
Milano, 29 aprile 2025 – Dare voce agli invisibili alleati per la salute dell’ambiente: questo è l’obiettivo principale dell’innovativo progetto dal titolo “Microbi Fantastici e Dove Trovarli”, seconda campagna di BiUniCrowd, il programma di crowdfunding dell’Università di Milano-Bicocca.
Il progetto intende esplorare e valorizzare la biodiversità microbica negli spazi urbani, partendo dal campus universitario, e promuovere un nuovo approccio partecipativo alla scienza.
I microrganismi, spesso etichettati come minacce, sono in realtà essenziali per la salute umana e degli ecosistemi. Regolano l’equilibrio ambientale, purificano aria, acqua e suolo, e la simbiosi con loro è necessaria per la nostra sopravvivenza e per prevenire molte malattie croniche. Tuttavia, oltre il 99 per cento delle specie microbiche rimane sconosciuto, e la percezione pubblica è ancora influenzata dal timore dei patogeni, nonostante solo una piccola percentuale dei batteri sia effettivamente dannosa. Cambiare questa narrazione è urgente: per farlo, è utile coinvolgere attivamente le persone nella ricerca scientifica.
La campagna, realizzata in collaborazione con KBase – una piattaforma di analisi bioinformatica avanzata del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, che supporta la pubblicazione di dati scientifici aperti e la formazione scientifica – e Simbio – che contribuisce con le sue competenze scientifiche e comunicative – si avvale per il suo sviluppo del supporto di Ideaginger.it, la piattaforma di raccolta fondi con il tasso di successo più alto in Italia, e del sostegno di a2a e Thales Alenia Spaces.
Il progetto è guidato da Antonia Bruno, ricercatrice in microbiologia, insieme a un gruppo multidisciplinare e internazionale, composto da ricercatori, educatori e studenti: Giulia Ghisleni, Sara Fumagalli, Alice Armanni, Giulia Soletta, Laura Colombo, Ellen Dow, Elisha Wood-Charlson, Guido Scaccabarozzi, Gloria Mantegazza e Margherita Aiesi.
«Il progetto nasce da un’esperienza di citizen science, i Bicocca Sampling Days, che ha visto 80 studenti raccogliere 2.400 campioni di microbioma urbano in piazze e aree verdi dell’ateneo. – spiega Antonia Bruno, team leader del progetto – Tutto è iniziato un po’ per gioco, ma l’entusiasmo e la curiosità degli studenti ci hanno spinto a fare di più. Ora vogliamo offrire loro l’opportunità concreta di formarsi su dati reali e, al tempo stesso, cambiare il modo in cui la società guarda ai microrganismi.»
La campagna di crowdfunding ha l’obiettivo di raccogliere 10.000€ per sostenere i tre obiettivi principali dell’iniziativa: il sequenziamento del DNA batterico di 200 campioni, la realizzazione di un workshop formativo gratuito per 20 studenti, le iniziative di sensibilizzazione per coinvolgere la comunità nella scoperta e protezione della biodiversità microbica. Tutti possono aiutare a raggiungere questi obiettivi donando sulla pagina della campagna entro il 14 giugno.
Ogni donazione da parte dei sostenitori può essere ricambiata da una “ricompensa”, tra cui: la possibilità di partecipare a l’“Excursion with Simbio”, un’iniziativa per scoprire come la natura selvaggia possa essere un laboratorio a cielo aperto per lo studio del microbioma, oppure “Gli strumenti del mestiere”, un kit esclusivo con tampone, piastre di coltura e protocollo per raccogliere campioni dal proprio ambiente, grazie al quale i partecipanti potranno osservare la crescita dei batteri, condividere le immagini dei risultati e, se si raggiungeranno almeno 25 adesioni, contribuire alla creazione di una vera opera d’arte microbica collettiva.
Testo e immagini dall’Ufficio stampa Università di Milano-Bicocca.
Censita per la prima volta la flora del Comune di Pisa, in totale sono presenti 1404 specie di cui 112 aliene
La ricerca dell’Università di Pisa pubblicata sulla rivista Plants rivela una ricca diversità floristica, anche se le specie aliene superano le aspettative
La città di Pisa rappresenta un po’ la culla della Botanica moderna: nel 1543, durante il Rinascimento, proprio all’Università venne fondato il primo Orto Botanico accademico al mondo. Ma nonostante questa illustre storia, ancora oggi mancava un elenco completo di tutte le specie e sottospecie di piante vascolari (felci, conifere, piante a fiore) che crescono spontaneamente nel Comune di Pisa.
Censita per la prima volta la flora del Comune di Pisa. Gallery
Trifolium micranthum, fotografato presso Coltano
Anacamptis morio, fotografata presso Calambrone
Anthemis maritima subsp. maritima, fotografata presso Calambrone
Asphodelus tenuifolius, fotografato sulle Mura di Pisa
Convolvulus soldanella, fotografata presso Calambrone
Ophrys apifera, fotografata presso Calambrone
Periploca graeca, fotografata presso Calambrone
Quercus suber, fotografata presso Coltano
Ruta chalepensis, fotografata sulle Mura di Pisa
Spiranthes spiralis, fotografata presso Coltano
Symphytum tanaicense, fotografato presso Coltano
A colmare questa lacuna è stato un gruppo di botanici dell’Università di Pisa, Lorenzo Peruzzi, Gianni Bedini e Jacopo Franzoni del Dipartimento di Biologia e Iduna Arduini del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali a cui si è aggiunto Brunello Pierini, studioso appassionato della materia. Il risultato è stata una ricerca appena pubblicata sulla rivista internazionale Plantsche ha censito nel Comune di Pisa un totale di 1404 tra specie e sottospecie, di cui 112 aliene.
“Nonostante la marcata urbanizzazione dell’area, abbiamo documentato una importante ricchezza floristica, con il 33% di specie native in più rispetto all’atteso – afferma Lorenzo Peruzzi, professore ordinario di Botanica sistematica – ma purtroppo, anche le specie aliene sono molto rappresentate, con il 34,9% in più rispetto alle aspettavive”.
Dal punto di vista conservazionistico, l’inventario comprende alcune piante a rischio di scomparsa che in gran parte sono state trovate nell’area protetta del Parco Naturale Regionale di Migliarino – San Rossore – Massaciuccoli. In particolare, sono quattro le specie vulnerabili (Butomus umbellatus , Leucojum aestivum subsp. aestivum , Ranunculus ophioglossifolius, Thelypteris palustris), nove quelle minacciate (Anacamptis palustris, Baldellia ranunculoides, Cardamine apennina, Centaurea aplolepa subsp. subciliata, Hottonia palustris, Hydrocotyle vulgaris, Sagittaria sagittifolia, Solidago virgaurea subsp. litoralis , Triglochin barrelieri) e una gravemente minacciata (Symphytum tanaicense).
“Il problema delle invasioni biologiche è molto rilevante nel Comune di Pisa – commenta Iduna Arduini, professoressa associata di Botanica ambientale e applicata – Tra le 45 aliene invasive documentate nello studio, ve ne sono 4 di rilevanza unionale, piante cioè i cui effetti negativi sono talmente rilevanti da richiedere un intervento coordinato e uniforme a livello di Unione Europea, e una, Salpichroa origanifolia, localmente molto invasiva”.
“La fonte primaria dei dati floristici utilizzati è rappresentata da Wikiplantbase #Toscana,” – continua Gianni Bedini, professore ordinario di Botanica sistematica – un database floristico liberamente accessibile da cui abbiamo potuto estrarre ben 12.002 segnalazioni, disponibili grazie allo sforzo di numerosi e attivi collaboratori, ben esemplificando il ruolo cruciale giocato anche dalla cosiddetta Citizen Science nell’accumulare importanti informazioni di tipo floristico”.
“Questo lavoro, oltre a fare il punto sulle conoscenze floristiche della città, fornirà anche i dati di base per il progetto IDEM FLOS, finanziato nell’ambito di un bando a cascata del National Biodiversity Future Center, con l’Università di Trieste come partner capofila – conclude Jacopo Franzoni, assegnista in Botanica sistematica – consentendoci di costruire uno strumento per l’identificazione di tutte queste specie, che sarà reso liberamente accessibile entro il 2025 e potrà essere usato per diffondere le conoscenze della flora locale alla popolazione”.
Riferimenti bibliografici:
Peruzzi L, Pierini B, Arduini I, Bedini G, Franzoni J. The Vascular Flora of Pisa (Tuscany, Central Italy), Plants. 2025; 14(3):307, DOI: https://doi.org/10.3390/plants14030307
Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.
PROGETTO NOCTIS: UNA RETE NAZIONALE PER LO STUDIO DEL CIELO
Unire tecnologia, passione e collaborazione per esplorare l’universo: NOCTIS trasforma l’osservazione del cielo in un’esperienza condivisa e accessibile a tutti. Guidato dall’Università di Genova in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Astrofisica e l’Università della Calabria, il progetto viene inaugurato oggi.
Connettere telescopi, coinvolgere persone e osservare il cielo con un approccio collaborativo: è questa la missione di NOCTIS, il Network Osservativo Coordinato di Telescopi per l’Insegnamento e la Scienza. Il progetto, guidato da Silvano Tosi dell’Università di Genova in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e l’Università della Calabria, le cui unità di ricerca sono coordinate da Serena Benatti e Sandra Savaglio, rispettivamente. NOCTIS mira a creare una rete italiana di telescopi ottici automatici e robotici, distribuiti da nord a sud del Paese.
Con sei osservatori già attivi in Liguria, Toscana, Campania, Calabria e Sicilia, NOCTIS offrirà una copertura coordinata del cielo a livello nazionale, consentendo di monitorare fenomeni astronomici come i transiti di esopianeti, la variabilità stellare, i detriti spaziali e le esplosioni cosmiche. L’obiettivo è raccogliere dati scientifici utili e complementari a quelli raccolti con strumentazione tecnologicamente più avanzata, contribuendo a una visione più completa dell’universo.
La vera forza di NOCTIS, però, non è solo nella tecnologia, ma nelle persone. Attraverso il modello della citizen science, appassionati, studenti e curiosi potranno partecipare attivamente alle osservazioni e all’analisi dei dati, come spiega Serena Benatti dell’INAF di Palermo, coordinatrice dell’unità di ricerca di INAF per il progetto NOCTIS:
“Non serve essere scienziati per contribuire alla conoscenza del cosmo. Chiunque potrà raccogliere dati, analizzarli e persino diventare coautore di pubblicazioni scientifiche. Un modo per rendere tutti protagonisti della scienza”.
Serena Benatti, INAF di Palermo
Oltre alla ricerca, infatti, NOCTIS punta a offrire opportunità educative, di formazione e divulgative. Sono previsti incontri pubblici, workshop e sessioni di osservazione guidata dai ricercatori del progetto e accessibili anche da remoto. Questa modalità permetterà a chiunque di familiarizzare con strumenti avanzati e di esplorare più a fondo i segreti del cielo.
“È incredibile pensare che un appassionato possa contribuire a scoprire nuovi mondi o monitorare eventi straordinari nell’universo” aggiunge Benatti, che prosegue: “Grazie a NOCTIS possiamo valorizzare il lavoro e la territorialità degli osservatori sparsi in Italia”.
L’attuale rete di telescopi è solo il punto di partenza. Altri osservatori in Italia si sono già dichiarati interessati a unirsi al progetto. Silvano Tosi, responsabile scientifico del progetto NOCTIS, evidenzia l’importanza del coinvolgimento pubblico:
“L’osservazione del cielo è un’attività che da sempre affascina persone di ogni età. Vogliamo offrire strumenti che permettano a tutti di partecipare, valorizzando le risorse locali e rafforzando il legame tra ricerca e società”.
NOCTIS non si limita a fare scienza: ambisce a ispirare e coinvolgere nuove generazioni, avvicinando sempre più persone alla ricerca astronomica. Il cielo diventa uno spazio condiviso, dove tecnologia, curiosità e conoscenza si incontrano:
“Contiamo sulla partecipazione di tanti appassionati in tutto il Paese – conclude Tosi – e siamo pronti a partire con grande entusiasmo”.
Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF
Citizen Salad: IL PROGETTO DI SCIENZA PARTECIPATIVA DELL’UNIVERSITÀ DI TORINO PER SVELARE IL MICROBIOMA DELL’INSALATA
Un team di ricerca di UniTo ha attivato una campagna di crowdfunding per mappare i batteri presenti su cespi di insalata coltivati dai cittadini e studiare come possano migliorare la salute umana
È partita ufficialmente Citizen Salad – Chi vive sulle foglie di insalata, una campagna di crowdfunding che si pone l’obiettivo di coinvolgere la cittadinanza in un esperimento di citizen science volto a mappare le comunità di batteri presenti sulle foglie di insalata coltivate in diversi ambienti, sia urbani che rurali, per capire il loro impatto sul benessere della flora batterica intestinale umana.
Il progetto è stato selezionato dall’Università di Torino con la terza edizione del bando Funds Togethered è possibile sostenerlo sulla piattaforma Ideaginger.it.
“Per proseguire la ricerca ci occorrono due risorse”, ha dichiarato Marco Giovannetti, ricercatore in biologia e botanica di UniTo e responsabile del progetto di crowdfunding “Fondi per realizzare l’esperimento e persone disponibili a partecipare coltivando delle piantine di insalata. Il crowdfunding ci è sembrato lo strumento perfetto per trovarle entrambe!”
Alla scoperta dei batteri che abitano sulle foglie d’insalata
Il progetto Citizen Salad è curato da un team di ricercatori del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino con l’obiettivo di esplorare il mondo invisibile dei microrganismi che vivono sulle foglie di insalata. Studiando come le condizioni di crescita e la forma delle foglie influenzano la comunità batterica, lo studio fornirà nuove informazioni su come i batteri interagiscono con le piante e, potenzialmente, con la nostra salute.
“Questa ricerca è nata per comprendere meglio come i batteri colonizzano le foglie d’insalata,” spiega Marco Giovannetti. “Negli ultimi tre anni abbiamo scoperto che la forma delle foglie e le condizioni ambientali influenzano la presenza di diversi batteri, ora vogliamo estendere lo studio coinvolgendo la comunità per coltivare le piantine in terreni e climi differenti. Si è scoperto che i batteri che sopravvivono sulle foglie di insalata sopravvivono anche nell’uomo; una possibile ricaduta di lungo periodo della ricerca è capire se questi batteri possano quindi essere utilizzati per il benessere della flora batterica umana, aprendo per esempio nuove possibilità per lo sviluppo di alimenti che possano sostenere la salute intestinale”.
Coinvolgere la comunità attraverso la scienza partecipativa
Un aspetto fondamentale di Citizen Salad è il coinvolgimento diretto della cittadinanza nella ricerca. Sostenendo la campagna di crowdfunding le persone possono finanziare la ricerca con una donazione, ma anche prendere parte all’esperimento coltivando la propria insalata.
“Chiunque ci supporti con una donazione di 35 euro può scegliere come ricompensa di ricevere un kit completo per coltivare due varietà di insalata e raccogliere campioni di foglie. Il nostro team analizzerà poi i dati raccolti dai cittadini per mappare il microbioma delle foglie” ha dichiarato Valentina Fiorilli, professoressa di Botanica dell’Università di Torino, che ha poi aggiunto: “Il crowdfunding ci sta offrendo l’opportunità per coinvolgere attivamente le persone nella ricerca scientifica e divulgare in modo innovativo la ricerca sulle piante. Grazie al supporto dei donatori possiamo finanziare l’acquisto dei materiali necessari per l’esperimento, ma possiamo anche ampliare la nostra rete di sperimentatori. Ogni contributo è fondamentale per completare la ricerca, raccogliere più dati e rendere lo studio più rappresentativo.”
Come sostenere Citizen Salad
L’obiettivo della campagna è raccogliere 8.000 euro che serviranno a mappare i batteri presenti sulle foglie di 200 piantine di insalata cresciute in ambienti differenti. In pochi giorni Citizen Salad ha già raccolto il 30% dell’obiettivo, grazie al supporto di molti sostenitori che hanno donato e deciso di entrare a far parte dell’esperimento coltivando anche loro due piantine di insalata. Quando la campagna avrà raccolto il 100% del suo obiettivo l’Università di Torino raddoppierà i fondi raccolti, fino a un massimo di 10.000 euro.
“Fate una donazione, indossate il camice e diventate ricercatori e ricercatrici insieme a noi!” ha aggiunto Marco Giovanetti “Abbiamo bisogno del vostro supporto per completare la nostra ricerca, sosteneteci e preparatevi a diventare anche voi coltivatori di insalata”.
Il crowdfunding dell’Università di Torino per sostenere la ricerca scientifica
L’Università di Torino ha selezionato Citizen Salad nell’ambito della terza edizione del bando Funds TOgether, sviluppato in collaborazione con Ginger Crowdfunding, che gestisceIdeaginger.it, la piattaforma di crowdfunding con il tasso di successo più alto in Italia.
L’obiettivo del bando, con cui sono già state supportate 13 campagne di crowdfunding, che hanno raccolto oltre 191.000 euro, è fornire ai ricercatori competenze specifiche per sviluppare campagne di crowdfunding utili sia a raccogliere preziose risorse dedicate alla ricerca, ma anche per comunicare alla società civile il prezioso lavoro svolto quotidianamente in ateneo.
“L’Università di Torino”, ha dichiarato Alessandro Zennaro, Vice-Rettore per la valorizzazione del patrimonio umano e culturale in Ateneo,“ha intrapreso un’azione organizzata di valorizzazione della conoscenza e di divulgazione scientifica, anche attraverso l’iniziativa di crowdfunding. È un’opportunità per avvicinare sempre di più la ricerca scientifica alla cittadinanza, illustrandone gli obiettivi di medio-lungo termine, aprendo le porte dei laboratori dove ricercatrici e ricercatori lavorano, stimolando la curiosità della comunità e soprattutto mettendo in evidenza che i risultati della ricerca hanno ricadute immediate sulla vita quotidiana di tutti e tutte noi. Citizen Salad è un progetto esemplare che mostra come ricerca, tecnologia, coinvolgimento della società civile e innovazione possano cambiare il futuro in meglio e per questo merita di essere sostenuto”.
“Questa campagna è un’occasione di collaborazione e formazione anche per lo staff dell’Università di Torino, che mette a disposizione delle ricercatrici e dei ricercatori dell’ateneo le proprie competenze specialistiche in ambito fundraising e finanza alternativa” ha aggiunto Elisa Rosso, Direttrice della Direzione Ricerca, Innovazione e Internazionalizzazione di UniTo. “Ad esempio, lavoriamo per creare contatti, rafforzare reti di collaborazione e ricercare partner istituzionali e aziendali interessati a supportare il progetto e a svilupparlo anche nel futuro. Promuovere il crowdfunding è un’occasione per raccontare il valore della ricerca scientifica e sensibilizzare la comunità sul lavoro svolto in ateneo, che in questo caso permetterà di proseguire una preziosa attività di ricerca nel campo delle scienze della vita e della biologia”.
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino
PER REGISTRARE I SEGNALI DEI PIPISTRELLI È SUFFICIENTE UNO SMARTPHONE
La scoperta dei ricercatori dell’Università di Torino apre nuove prospettive di citizen science, facilitando il monitoraggio di uno dei gruppi di mammiferi più elusivi del nostro ecosistema
Sulla rivista Biodiversity and Conservation è stata pubblicata la ricerca intitolata “Using mobile device built-in microphones to monitor bats: a new opportunity for large-scale participatory science initiatives”. Il lavoro, guidato da Fabrizio Gili del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino, hanno testato l’efficacia dei dispositivi mobili di uso comune (smartphone e tablet) per rilevare i segnali dei chirotteri a bassa frequenza, confrontandola con quella ottenuta utilizzando strumenti professionali. È stato inoltre avviato un progetto pilota di citizen science, al fine di verificare l’applicabilità del metodo sul campo, ottenendo risultati sorprendenti.
I chirotteri, comunemente noti come pipistrelli, rappresentano il secondo gruppo più numeroso tra i mammiferi con oltre 1470 specie note. Distribuiti in tutto il mondo ad eccezione dell’Antartide, svolgono servizi ecosistemici cruciali come regolatori dei parassiti, impollinatori e vettori di dispersione dei semi. In Italia e in Europa, tutte le specie di chirotteri sono protette per legge, e il monitoraggio dello stato di salute delle loro popolazioni è obbligatorio e strettamente regolamentato dall’Unione Europea.
Per orientarsi e comunicare, i pipistrelli emettono segnali ultrasonici rilevabili attraverso dispositivi chiamati bat detector. Costituiti da un microfono a ultrasuoni collegato a un registratore, i bat detector consentono di identificare le specie che vivono in una determinata area. La tecnologia moderna ha reso questi strumenti più compatti e accessibili, consentendo anche a volontari e appassionati di partecipare ai monitoraggi. Nonostante ciò, il costo elevato delle apparecchiature ne limita ancora l’applicazione in progetti di citizen science su larga scala.
Molosso di Cestoni (Tadarida teniotis)
Tuttavia, i segnali emessi da alcune specie di chirotteri possono essere percepite dall’orecchio umano. Ad esempio, il molosso di cestoni (Tadarida teniotis) emette segnali di ecolocalizzazione a frequenze di 11-12 kHz. I dispositivi mobili, progettati principalmente per le comunicazioni e la registrazione di suoni udibili, incorporano microfoni capaci di registrare fino a 22-24 kHz. Sulla base di questo assunto, ci si è chiesti se fosse possibile utilizzarli per monitorare almeno una parte delle specie di chirotteri esistenti.
La prima fase della ricerca è stata condotta a Torino e in altre aree del nord Italia, con una fase di campionamento in Spagna, dove è stata registrata la nottola gigante (Nyctalus lasiopterus), il più grande e tra i più misteriosi chirotteri europei. Sono state effettuate delle serate di registrazione utilizzando vari smartphone e tablet tra i più venduti globalmente, affiancati da un bat detector. Sono quindi state confrontate la quantità e la qualità delle registrazioni ottenute.
Nottola comune (Nyctalus noctula) ritratta durante le misurazioni
I risultati hanno evidenziato che almeno nove specie di chirotteri europei possono essere monitorate utilizzando i dispositivi mobili, con una quantità e qualità delle registrazioni comparabile a quella ottenuta tramite i bat detector. È emerso che i dispositivi iOS offrono una sensibilità superiore, rilevando segnali a distanze maggiori rispetto ai bat detector, mentre i dispositivi Android hanno mostrato nel complesso una minor sensibilità, con variazioni significative nelle performance a seconda del modello.
In una fase successiva, è stato coinvolto un gruppo di volontari, chiedendo loro di utilizzare i propri smartphone o tablet per registrare i segnali a basse frequenze emessi dai chirotteri nelle vicinanze delle loro abitazioni. Seguendo un protocollo standardizzato, i volontari hanno lasciato i dispositivi a registrare su davanzali, balconi o in giardini, inviando successivamente le registrazioni per le analisi. Sono stati testati 35 modelli di smartphone e tablet, ognuno dei quali ha dimostrato di poter registrare chirotteri.
Pipistrello nano (Pipistrellus pipistrellus) rifugiato in una cavità rocciosa
Una delle considerazioni più interessanti che è emersa dallo studio è che le specie registrabili dai dispositivi mobili sono anche quelle più comunemente presenti nelle aree urbane, come i generi Pipistrellus, Hypsugo e Tadarida, oltre a specie più legate agli ambienti forestali, come le nottole (genere Nyctalus), che molto spesso vengono comunque registrate di passaggio sopra le città. Ciò offre l’opportunità di monitorare la chirotterofauna urbana, soprattutto considerando la natura partecipativa del metodo. Con un’organizzazione adeguata, sarebbe dunque possibile monitorare i chirotteri urbani interamente su base volontaria e senza costi di strumentazione, offrendo ampie possibilità applicative in Europa e nel mondo.
Nonostante i risultati siano promettenti, il metodo presenta ancora alcune sfide. Ad esempio, la disponibilità di app specifiche per la registrazione varia tra i dispositivi Android e iOS. Su Android, l’app Bat Recorder (inizialmente sviluppata per funzionare in associazione a un microfono ultrasonico USB) permette di impostare la modalità di registrazione automatica, attivata cioè dalla rilevazione di segnali potenzialmente emessi da chirotteri, risparmiando spazio di archiviazione e semplificando l’analisi acustica. Questa app non è però disponibile per iOS, che al momento richiede registrazioni continue, più onerose da analizzare.
Un’altra sfida è la variabilità nell’efficacia dei dispositivi, con differenze significative sia tra brand diversi sia tra modelli dello stesso brand. In un progetto di citizen science basato sull’applicazione di questo metodo, i volontari dovrebbero quindi testare la sensibilità del proprio dispositivo per garantire la comparabilità dei dati raccolti. Tuttavia, incorporando i dispositivi mobili nei programmi di monitoraggio già esistenti o creando nuovi programmi dedicati, si potrebbe non solo facilitare la raccolta di dati a costi ridotti, ma anche aumentare la consapevolezza e la conoscenza dei chirotteri presso il pubblico.
Per registrare i segnali dei pipistrelli è sufficiente uno smartphone. Registrazione dei segnali a bassa frequenza dei chirotteri utilizzando uno smartphone
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino
Cambiamento climatico: le aree marine protette difendono la fauna ittica dalle ondate di calore, nel Mediterraneo tasso di riscaldamento triplo rispetto agli oceani
Il lavoro coordinato dall’Università di Pisa pubblicato su Nature Communications
Un drammatico innalzamento della temperatura dell’acqua di 4 o 5 gradi per almeno cinque giorni. Sono queste le ondate di calore che interessano sempre più i mari del nostro pianeta mettendo a rischio la fauna ittica e la sopravvivenza di alcune specie. Le aree marine protette sono però una risposta in grado di mitigare questo fenomeno dovuto al cambiamento climatico. La notizia arriva da uno studio internazionale pubblicato sulla rivista Nature Communications coordinato dall’Università di Pisa.
“È noto che le aree marine protette, se ben gestite e con opportuna sorveglianza, hanno effetti positivi sulla fauna marina eliminando o riducendo gli effetti diretti della pesca – spiega il professore Lisandro Benedetti-Cecchi del dipartimento di Biologia dell’Ateneo pisano primo autore dell’articolo – per la prima volta grazie a questo studio abbiamo dimostrato che sono anche in grado di mitigare l’impatto delle ondate di calore”.
La ricerca ha riguardato 2269 specie di pesci costieri che vivono in 357 siti interni alle aree marine protette e 747 siti esterni. I dati provengono da oltre 70mila osservazioni ottenute su intervalli temporali che vanno da un minimo di 5 a un massimo di 28 anni. Le aree marine protette studiate sono sparse in tutto il globo, nel Mediterraneo soprattutto in prossimità delle coste spagnole, poi in Australia, California e Indopacifico. Tutta questa mole di informazioni è stata messa insieme anche grazie alla cosiddetta “citizen science”, la scienza che si realizza con il contributo dei cittadine e cittadini.
“Le proiezioni suggeriscono che i cambiamenti nel clima oceanico, di cui le ondate di calore sono espressione, si acutizzeranno nei prossimi decenni e che gli attuali tassi di riscaldamento supereranno presto il margine di sicurezza termica di molte specie – sottolinea Benedetti-Cecchi – L’allarme è ancora maggiore per il Mar Mediterraneo, che si sta riscaldando a un ritmo allarmante di tre volte quello dell’oceano globale”.
A subire le conseguenze delle ondate di calore è la stabilità dell’intero ecosistema e delle popolazioni, con i pesci erbivori che tendono ad aumentare e i carnivori, come squali, barracuda, cernie o dentici, che invece sono più minacciati. Il risultato può essere il collasso dell’intero sistema sino all’estinzione locale di alcune specie. Questi effetti sono però molto mitigati dalle aree marine protette. Qui le popolazioni di pesci sono più abbondanti e funzionalmente strutturate rispetto alle aree non protette, conferendo stabilità alle comunità anche in presenza di eventi climatici estremi.
“Il nostro lavoro – conclude Benedetti Cecchi – vuole enfatizzare l’importanza delle aree marine protette per salvaguardare la fauna marina fornendo supporto alle politiche di conservazione, articolate nelle varie direttive internazionali, come ad esempio la Convention for Biological Diversity, secondo le quali entro il 2030 almeno il 10% della superficie degli oceani dovrebbe essere sottoposta a protezione”.
Cambiamento climatico: le aree marine protette difendono la fauna ittica dalle ondate di calore, nel Mar Mediterraneo tasso di riscaldamento triplo rispetto agli oceani
Riferimenti Bibliografici:
Benedetti-Cecchi, L., Bates, A.E., Strona, G. et al. Marine protected areas promote stability of reef fish communities under climate warming, Nat Commun15, 1822 (2024), DOI: https://doi.org/10.1038/s41467-024-44976-y
Testo e foto dall’Unità Comunicazione Istituzionale dell’Università di Pisa.
SUNSPOT DETECTIVES: IL PROGETTO DI CITIZEN SCIENCE SU ZOONIVERSE, TUTTI POSSONO DIVENTARE DETECTIVE DI MACCHIE SOLARI
Prende oggi il via sul portale web Zooniverse il progetto di citizen science “Sunspot Detectives”, curato dall’Istituto Max Planck per la ricerca sul Sistema solare (MPS) in Germania e dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). Gli scienziati chiedono aiuto ai cittadini per analizzare le osservazioni del Sole del XIX secolo realizzate da Angelo Secchi, con l’obiettivo di comprendere meglio la variabilità della nostra stella nel corso dei secoli.
Esempi di disegni con viste dettagliate e ingrandite di gruppi di macchie solari realizzati il 28 agosto 1859 (in alto) e il 16 febbraio 1865 (in basso). Il primo è all’interno del disegno del disco intero del Sole osservato quel giorno, mentre il secondo è uno schizzo a sé stante. La regione di interesse nell’immagine in alto è quella che ha dato origine all’evento di Carrington del 1 settembre 1859. Crediti per l’immagine: INAF
Migliaia e migliaia di macchie solari studiate nella seconda metà del XIX secolo, registrate nei disegni prodotti dalle osservazioni del Sole effettuate in quel periodo, sono ancora in attesa di qualcuno che possa analizzarle alla luce delle conoscenze attuali per ottenere nuovi risultati scientifici utili a capire come varia l’attività del Sole, la nostra stella nel corso degli anni. Ma ora ciascuno di noi ha la possibilità di farlo e dare il suo prezioso contributo alla ricerca, senza la necessità di avere specifiche competenze in astronomia o astrofisica. Prende il via oggi sulla piattaforma di citizen sciencezooniverse.org il progetto “Sunspot Detectives” – letteralmente “investigatori delle macchie solari”, promosso dall’Istituto Max Planck per la ricerca sul sistema solare (MPS) in Germania e dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) in Italia. Chiunque voglia cimentarsi, può dedicare del tempo per esaminare i disegni prodotti dalle osservazioni giornaliere del Sole effettuate dal gesuita scienziato Angelo Secchi e dai suoi collaboratori tra il 1853 e il 1878, conservati in una collezione di documenti di archivio di eccezionale valore. La raccolta contiene probabilmente l’insieme più completo di dati delle macchie solari del XIX secolo. Tali dati storici ci permettono di conoscere quanto è stata attiva nel passato la nostra stella e cosa potrebbe riservarci in futuro.
Nella seconda metà del XIX secolo fu creata a Roma una raccolta unica di dati del Sole. Per più di tre decenni il gesuita, sacerdote, astronomo ed eminente scienziato Angelo Secchi, con l’aiuto di alcuni collaboratori e assistenti, studiò al telescopio ogni giorno l’aspetto della nostra stella, riportando i risultati delle osservazioni in disegni realizzati a matita su fogli di carta. Con linee sottili vennero registrate la dimensione, la forma e la posizione di tutte le macchie solari che riuscivano a distinguere con l’aiuto dei loro telescopi installati all’osservatorio del Collegio Romano, realizzato pochi anni prima sul tetto della chiesa di Sant’Ignazio, nel centro di Roma. Gli oltre 5.400 disegni appartenenti all’Istituto Nazionale di Astrofisica conservati presso l’Osservatorio Astronomico di Roma sono stati recentemente digitalizzati e possono ora essere analizzati alla luce delle conoscenze attuali per nuovi studi. La digitalizzazione dei disegni è avvenuta nell’ambito di un vasto programma di attività dell’INAF volto a preservare il suo patrimonio storico, archivistico e culturale, in parte supportato con fondi delle donazioni del 5 per mille. Oltre alla conservazione, le immagini ottenute permettono anche la fruizione sistematica di quelle osservazioni nell’ambito della ricerca moderna. Per analizzare l’enorme quantità di informazioni contenute nelle immagini ottenute dai disegni, i ricercatori del MPS e di INAF chiedono il prezioso aiuto dei cittadini attraverso il portale Zooniverse. Si tratta infatti di passare al setaccio oltre 15.000 immagini estratte dai disegni delle osservazioni del Sole effettuate da Secchi e dai suoi collaboratori e contare il numero di macchie presenti, talvolta collocate in regioni ampie e complesse oppure in regioni molto piccole, a gruppi o isolate. Le immagini saranno accessibili sulla piattaforma per un anno.
Esempio di una pagina del registro delle osservazioni che contiene il disegno realizzato da Angelo Secchi il 22 giugno 1872 alle 8:50 ora locale. Il disegno mostra le macchie, i pori e le facole osservate nella fotosfera, la superficie del Sole, e i getti e le protuberanze cromosferiche osservate in proiezione al lembo solare. Oltre alle regioni osservate, sono presenti annotazioni che indicano la durata e le condizioni metereologiche durante l’osservazione, etichette identificative assegnate alle regioni osservate, conteggi relativi alle macchie osservate e linee di riferimento che consentono di definire la loro posizione sul disco solare. Il disco solare nel disegno originale ha un diametro di circa 24,3 cm. Crediti per l’immagine: INAF
Il Sole nel passato
“Quando guardiamo il Sole oggi, abbiamo una sua istantanea, una piccola parte della sua vita iniziata 4,6 miliardi di anni fa”, spiega Theodosios Chatzistergos, ricercatore MPS e associato INAF, che ha ideato il progetto Zooniverse “Sunspot Detectives”. “Solo uno sguardo nel passato del Sole può aiutarci a valutare quale comportamento può avere la nostra stella e cosa possiamo aspettarci da lei in futuro”, aggiunge.
Il Sole segue cicli di attività della durata di circa 11 anni, alternando fasi di attività più debole e più forte. A tali cicli si sovrappongono variazioni dell’attività solare anche su scale temporali significativamente più lunghe del ciclo undecennale. Durante le sue fasi attive, il Sole è una vera fucina di fenomeni tanto spettacolari quanto energetici: le eruzioni di particelle e radiazioni si fanno frequenti, il vento solare – ovvero il flusso costante di particelle cariche provenienti dal Sole – “soffia” con particolare forza. Ma il segnale più appariscente di questa attività è dato dalla grande presenza di macchie solari, regioni magnetiche scure che appaiono sul disco della nostra stella spesso raccolte in gruppi, che insieme ad altre regioni magnetiche possono occupare una frazione significativa della superficie della stella. Nelle fasi tranquille, al contrario, non si verificano fenomeni eruttivi e le macchie appaiono raramente o sono del tutto assenti.
Le macchie solari svolgono un ruolo centrale nella “ricerca del Sole del passato”. Poiché possono essere osservate anche con telescopi di piccole dimensioni, esistono registrazioni del numero e dell’evoluzione delle macchie solari che sono state studiate regolarmente da più di quattro secoli.
“Il numero di macchie solari è la misura storica più importante dell’attività del Sole nell’era moderna, perché è l’unica misura diretta di cui disponiamo dell’attività della nostra stella negli ultimi quattro secoli”, afferma Chatzistergos. “Questa informazione ci permette di ricostruire il comportamento del Sole nei secoli passati e di confrontarlo con lo stato attuale”, aggiunge.
Un Sole, molti osservatori
Per conoscere la storia dell’attività del Sole è fondamentale poter disporre di dati osservativi precisi del numero delle macchie solari apparse nel tempo. A tale scopo, i disegni prodotti al Collegio Romano da Angelo Secchi tra il 1853 e il 1878 promettono di essere particolarmente utili.
La maggior parte delle altre serie di osservazioni dello stesso secolo, effettuate ad esempio a Dessau, Palermo, Potsdam o Surrey, coprono periodi più brevi, sono meno dettagliate o contengono solo il numero delle regioni viste riassunto in tabelle.
“I disegni prodotti da Secchi e collaboratori contengono molti dettagli delle macchie solari e delle altre regioni quiete e magnetiche presenti sulla superficie del Sole in quel periodo” spiega Ilaria Ermolli, ricercatrice INAF. “Infatti, oltre alle informazioni sulla posizione e l’area delle le macchie e dei pori (regioni di macchia senza zone di penombra), molti disegni riportano anche dati delle regioni facolari, dei getti e delle protuberanze osservate insieme alle macchie e ai pori, e informazioni sull’evoluzione delle regioni esaminate. Alcune annotazioni a lato dei disegni documentano inoltre eventi storici e naturali, come ad esempio gli scontri in atto nel giorno della Breccia di Porta Pia che portò alla presa di Roma, e l’osservazione di spettacolari aurore boreali e tempeste geomagnetiche”, aggiunge Ermolli.
Il tesoro di informazioni scientifiche conservato nei disegni è enorme, come enorme è l’impresa necessaria per analizzarli, e non solo per il gran numero di disegni della collezione con migliaia di immagini dell’intero disco solare. I disegni realizzati da Secchi e dai suoi collaboratori mostrano infatti anche i segni del tempo: macchie di inchiostro o altro materiale e annotazioni di vario genere rendono difficile talvolta l’identificazione delle macchie. Inoltre, i vari osservatori che hanno realizzato i disegni – se ne possono riconoscere almeno cinque oltre a Secchi – raffigurarono le macchie in modo diverso. In particolare, Secchi era solito rappresentare le macchie esaminate in modo piuttosto schematico, mentre alcuni dei suoi collaboratori mostrarono maggiore attenzione (e forse anche maggior talento artistico) nel riportare i dettagli delle regioni osservate. Utilizzando sottili tratti di matita, hanno tracciato con grande dettaglio sulla carta la struttura fine di ogni regione.
I tentativi di automatizzare questo riconoscimento con l’applicazione di tecniche avanzate di analisi di immagini e machine learning finora non hanno prodotto risultati soddisfacenti, a causa dell’estrema varietà del contenuto dei disegni della collezione. Per questo motivo è nata l’idea di chiedere aiuto a ciascuno di noi con il progetto “Sunspot Detectives”:
“Riconoscere tutte le macchie solari presenti nei disegni della collezione richiede uno sguardo attento e, soprattutto, degli esseri umani”, conclude Chatzistergos.
Per ulteriori informazioni:
La pagina web del progetto “Sunspot Detectives”: https://www.zooniverse.org/projects/teolixx/sunspot-detectives
Testo dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)
Uno studio congiunto dell’Università Statale di Milano e dell’Istituto di ricerca sugli ecosistemi terrestri del Consiglio nazionale delle ricerche, pubblicato su Animal Conservation, sancisce il ritorno del castoro europeo sul territorio italiano dopo 500 anni: un esempio di ritrovata biodiversità, che necessita di strumenti di monitoraggio per ridurre i possibili danni dovuti alle attività di questo animale.
Milano, 11 ottobre 2023 – Le attività di reintroduzione e “rewilding” sono alcuni degli strumenti principali usati nel campo della biologia della conservazione per cercare di mitigare gli impatti dell’uomo sull’ambiente e riportare gli ecosistemi ad uno stato più naturale. Queste azioni possono talvolta comportare alcune sfide, in particolare quando le specie coinvolte sono grandi carnivori, grandi erbivori, o “ingegneri ecosistemici”, specie che con le loro attività possono modificare notevolmente gli habitat e il paesaggio.
Fino a pochi anni fa, il castoro europeo (Castor fiber) era totalmente assente dall’Italia, in quanto caccia e perdita di habitat avevano portato all’estinzione tutte le popolazioni presenti sul territorio nazionale. Dopo più di 500 anni di totale assenza, questa specie ha recentemente iniziato la ricolonizzazione dell’Italia a causa di espansione naturale dall’Austria verso Trentino Alto-Adige e Friuli Venezia-Giulia e di reintroduzioni (non autorizzate) in Italia centrale (Toscana, Umbria, Marche).
Nello studio pubblicato su Animal Conservation, i ricercatori dell’Università Statale di Milano e dell’Istituto di ricerca sugli ecosistemi terrestri del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-IRET) di Sesto Fiorentino (Firenze) hanno raccolto tutti i dati di presenza disponibili per il castoro in Europa, tramite l’utilizzo di database di distribuzione delle specie (iNaturalist, GBIF) e tramite ricerche mirate sul campo finanziate dal fondo Beaver Trust (UK).
Le attività sono state coordinate dal CNR-IRET, beneficiario italiano del fondo del Beaver Trust per la ricerca sul castoro in Italia:
“Abbiamo curato le attività di monitoraggio, raccolta dei campioni per le analisi genetiche, monitoraggio dei punti di presenza, eventuali analisi necroscopiche e determinazione degli effetti sugli ecosistemi forestali”, afferma Emiliano Mori (CNR-IRET), principal investigator del progetto con Andrea Viviano (CNR-IRET).
Sono stati, quindi, utilizzati modelli di distribuzione delle specie per stimare l’idoneità ambientale per il castoro in Europa. Successivamente, tramite l’applicazione di modelli di connettività gli esperti hanno valutato quali fossero le aree d’Italia in cui l’espansione del castoro fosse più probabile nel prossimo futuro. La mappa risultante dal modello di connettività è stata sovrapposta a mappe di coltivazioni arboree e presenza di canali artificiali, per andare ad indentificare le aree in cui le attività di costruzione di tane/dighe dei castori potrebbero causare conflitti con le attività umane.
“Ampie zone d’Italia risultano essere idonee per la stabilizzazione del castoro e, mentre le popolazioni settentrionali sembrano essere più isolate, in centro Italia abbiamo riscontrato un maggiore potenziale di espansione della specie. Le aree di potenziale conflitto con l’uomo sono principalmente distribuite in centro Italia (soprattutto in Toscana, Umbria e Marche), e in Trentino Alto-Adige, dove i castori potrebbero avere accesso ad aree con presenza di piantagioni arboree o infrastrutture sensibili alle attività della specie. I modelli suggeriscono invece aree di potenziale conflitto molto limitate in Friuli Venezia-Giulia” spiega Mattia Falaschi, ricercatore zoologo dell’Università Statale di Milano e primo autore dello studio.
Se da una parte la presenza del castoro può ridurre il rischio idraulico, mitigando l’intensità degli eventi di piena, in altri casi le attività di foraggiamento/rosicchiamento del castoro possono causare danni alle coltivazioni. Inoltre, la costruzione di dighe e tane può talvolta ridirezionare il flusso d’acqua causando danni ad infrastrutture umane come canali artificiali, strade e ponti. È quindi fondamentale una attenta attività di monitoraggio nelle zone più a rischio, in modo da applicare prontamente misure di gestione che possano arginare o mitigare i possibili danni dovuti alle attività del castoro. Tra questi metodi troviamo ad esempio la protezione dei campi agricoli con recinzioni invalicabili al castoro, e il drenaggio di eventuali aree umide derivanti dalle attività di costruzione di dighe, quando queste minacciano infrastrutture umane.
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano
Progetto Cli-DaRe@School: grazie al lavoro di 350 studenti recuperate oltre 4.000 pagine di antichi dati meteorologici italiani
Nell’ambito dei percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, 350 studenti e studentesse delle scuole superiori hanno partecipato al progetto Cli-DaRe@School di AISAM, coordinato da un team interdisciplinare di scienziati, volto a recuperare tramite digitalizzazione l’immenso patrimonio storico italiano di dati pluviometrici e termometrici. Oltre 4.000 le pagine recuperate durante il primo anno.
Milano, 13 luglio 2023 – Coinvolgere gli studenti per recuperare, analizzare e digitalizzare antichi dati metereologici che altrimenti potrebbero andare perduti: ecco l’obiettivo Cli-DaRe@School, un progetto formativo promosso dall’Associazione Italiana di Scienze dell’Atmosfera e Meteorologia (www.aisam.eu) all’interno di Cli-DaRe, attività di Citizen Science.
Cli-DaRe@School è stato sviluppato da un team di ricercatori e ricercatrici dell’Università Statale di Milano,dell’Università di Trento, del Politecnico di Milano, dell’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima ISAC/CNR, di Eurac Research e della Società Meteorologica Italiana. Ha coinvolto 350 studenti e studentesse di 10 scuole superiori italiane, nell’ambito delle ore di PCTO (percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento– ex alternanza scuola-lavoro), volta alla digitalizzazione dei dati delle pubblicazioni sui dati mensili di precipitazione e di temperatura: sono stati coinvolti 350 studenti di 10 scuole superiori italiane.
L’Italia dispone infatti di un patrimonio di antichi dati meteorologici di eccezionale valore. Il recupero di questo enorme patrimonio di dati osservativi è in corso da lungo tempo, ma, ancora oggi, una parte consistenze è disponibile solamente su supporto cartaceo: registri osservativi di singoli osservatori, raccolte di dati pubblicate su annali o antichi lavori monografici che avevano l’obiettivo di censire e raccogliere i dati esistenti al momento della loro pubblicazione. Queste ultime fonti, in particolare, sono ricche e importanti per i dati di precipitazione (pioggia, neve, grandine, …). Per questa variabile esistono pubblicazioni che presentano i dati mensili di migliaia di stazioni, raccolti in Italia al 1915; dal 1916 al 1920 e dal 1921 al 1950. Per i dati mensili della temperatura dell’aria invece è disponibile una pubblicazione con i dati del periodo 1926-1955.
I ricercatori e le ricercatrici si sono occupati innanzitutto di individuare, regione per regione, quali fossero i dati da digitalizzare, assegnando poi alle singole classi un set di pagine da digitalizzare (mediamente una dozzina per studente), sotto monitoraggio dei docenti. I dati digitalizzati restituiti sono infine stati sottoposti a minuziosi controlli di qualità, anche grazie al lavoro di tesi di diversi laureandi e laureande dell’Università degli Studi di Milano e dell’Università di Milano-Bicocca. Ogni scuola è stata seguita da un membro del gruppo di lavoro che ha supportato il lavoro dei ragazzi durante l’intera durata del progetto.
Inoltre, per sensibilizzare gli studenti e le studentesse al problema del cambiamento climatico e per avvicinarli alle discipline della scienza dell’atmosfera sono stati organizzati dei seminari a tema. Infine, una volta ultimata l’attività di digitalizzazione, per alcuni studenti che volevano proseguire l’attività formativa sui dati digitalizzati sono stati preparati dei pacchetti di attività, come un tool per il controllo della correttezza delle coordinate di ogni stazione digitalizzata e uno per la verifica della qualità dei dati recuperati.
Il progetto si è chiuso con un evento conclusivo aperto con i saluti del presidente AISAM, Dino Zardi, e del Direttore dell’Agenzia Nazionale per la Meteorologia e la Climatologia Italia Meteo, Carlo Cacciamani. Durante l’evento, alcuni ragazzi e ragazze hanno presentato i loro risultati e mostrato brevi video di loro realizzazione. Nella stessa occasione il gruppo di lavoro ha presentato alcuni risultati del progetto e gli esiti dei questionari di gradimento, rivolti sia ai docenti sia ai ragazzi.
“Durante l’evento si sono anche discussi gli aspetti positivi e le potenziali criticità di questo primo anno di progetto, cercando di capire come migliorare per i prossimi anni, perché Cli-DaRe@School verrà riproposto anche nel prossimo anno scolastico con nuove proposte” conclude Maurizio Maugeri, climatologo e referente dell’Università Statale di Milano per il progetto.
Progetto Cli-DaRe@School: recuperati antichi dati meteorologici italiani. Dolomiti, Sud Tirolo, nella foto di 🌼Christel🌼(ChiemSeherin)
Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università Statale di Milano sul Progetto Cli-DaRe@School di recupero di antichi dati meteorologici italiani
ZOONIVERSE: IMMERSI IN UN MARE DI GALASSIE A “PESCARE MEDUSE”
Il nuovo progetto di citizen science di Zooniverse promosso dall’Istituto Nazionale di Astrofisica è alla ricerca di utenti che vogliano scoprire le “galassie medusa”, una classe particolare di galassie caratterizzate da lunghe code di materiale strappato dal plasma caldo dell’ammasso di galassie in cui cadono.
Pescare, meduse, galassie. Difficile pensare a come dare un senso a una frase che contenga queste tre parole. Eppure, un gruppo di ricercatori ha appena lanciato un nuovo progetto che si chiama “Fishing for jellyfish galaxies”, letteralmente “A pesca di galassie medusa”, con l’obiettivo di coinvolgere quante più persone possibili nella classificazione di queste particolari e bellissime galassie, che somigliano a delle meduse perché stanno cadendo all’interno di un ammasso di galassie. Un programma di scienza partecipata, dunque, che si troverà nella piattaforma Zooniverse.com.
Esempio di una galassia medusa. Crediti: ESO/GASP collaboration
Galassie medusa
Quando una galassia cade ad alta velocità nell’ambiente denso di un ammasso di galassie, il plasma caldo che invade l’ambiente dell’ammasso genera una forza di trascinamento che la può spogliare della sua componente gassosa, che verrà persa lungo il tragitto formando una coda di materiale. Questo processo fisico si chiama ram-pressure stripping e si può facilmente vedere perché crea, appunto, delle spettacolari code luminose che danno alla galassia proprio l’aspetto di una medusa. Ogni nuova galassia di questo tipo identificata si trova in un momento chiave della propria evoluzione e fornisce l’istantanea di uno specifico istante del suo viaggio di caduta. Man mano che si trovano sempre più galassie che stanno subendo la stessa sorte, si può tracciare una linea temporale del processo, dal momento dell’ingresso in un ammasso fino al punto in cui sono completamente spogliate del loro gas. Anche perché questo fenomeno le priva di una componente fondamentale per la propria sopravvivenza, in quanto il gas è il combustibile che consente alla galassia di formare nuove stelle.
Zooniverse: immersi in un mare di galassie a “pescare meduse”: una schermata dal sito web del progetto “Fishing for jellyfish galaxies”
Call for action
Fra i milioni di galassie a spirale ed ellittiche che popolano l’Universo, si trovano occasionalmente galassie particolari, rare e intriganti. Fra queste ci sono le galassie medusa, delle quali si contano finora relativamente pochi esemplari. Molte di esse però potrebbero essere già state osservate nel contesto di grandi indagini astronomiche e aspettano solo di essere identificate.
“Queste galassie sono una miniera d’oro per lo studio dell’evoluzione galattica, poiché rappresentano il momento in cui le galassie iniziano a ‘morire’, perdendo le loro riserve di gas da cui possono formare nuove stelle”, dice Callum Bellhouse, ricercatore postdoc all’INAF di Padova e responsabile del programma di Citizen science per l’identificazione delle galassie medusa. Bellhouse lavora al progetto GASP (GAs Stripping Phenomena in galaxies, responsabile scientifico Bianca Poggianti dell’INAF di Padova), il primo programma osservativo che ha cercato sistematicamente le galassie medusa in molti ammassi di galassie in modo da poterle caratterizzare come popolazione, e sul quale si fonda il nuovo progetto di scienza partecipata. “Sebbene queste galassie siano rare e difficili da trovare con tecniche automatizzate e computazionali, sono molto più facilmente riconoscibili dall’occhio umano. L’occhio (e il cervello) delle persone, infatti, ha una maggior capacità di identificare forme strane e peculiari, anche non codificate in precedenza, rispetto a un algoritmo automatico”.
Sì, ma nella pratica?
Il nuovo progetto “Fishing for Jellyfish Galaxies” è ora disponibile sulla piattaforma di Citizen science Zooniverse.org. Ognuno potrà visualizzare e classificare le galassie, in cerca di meduse, pescandole nel mare delle immagini astronomiche scattate da DECaLS, la Dark Energy Camera Legacy Survey. DECaLS è la survey ideale per questo: copre una grande frazione di cielo e ha una sensibilità sufficiente a mostrare indizi chiave, riuscendo a scorgere anche le code più deboli formate dal materiale strappato alle galassie. Grazie all’aiuto del pubblico, gli scienziati saranno in grado di incrementare il numero di galassie medusa conosciute (attualmente sono centinaia) cercandole tra migliaia di immagini, aumentando le possibilità di trovare questi oggetti spettacolari e sfuggenti. E facendolo in modo sostenibile, sfruttando dati astronomici di archivio il cui potenziale, altrimenti, rimarrebbe inesplorato.
Immaginate quindi di essere il prossimo utente di questo nuovo progetto di Zooniverse. Dovrete capire se la forma delle galassie che vedete lascia intravedere la presenza di materiale “perso” dalla galassia stessa, e selezionare le galassie “con la coda”. Non serve nessun prerequisito: si parte con una sessione tutorial che vi guida nella scoperta dell’attività. Una volta selezionato, il campione di galassie sarà studiato dai ricercatori di GASP.
“L’occhio umano è uno strumento fantastico per distinguere i segni di disturbo e il materiale di scia”, dice Anna Wolter, ricercatrice dell’INAF di Milano e membro del programma osservativo GASP. “Con il vostro aiuto, speriamo di incrementare significativamente il campione conosciuto e di assemblare un catalogo ampio e variegato di queste galassie per aiutarci a comprendere i complessi processi che producono e modellano questi affascinanti oggetti. La nostra collaborazione GASP ha membri provenienti da diverse parti del mondo; quindi, siamo entusiasti di offrire questo progetto di Zooniverse in 7 lingue diverse, per dare la possibilità a molte altre persone di essere coinvolte e aiutarci a trovare queste galassie spettacolari”.
Per ulteriori informazioni:
Il sito web del progetto progetto GASP (GAs Stripping Phenomena in galaxies):