News
Ad
Ad
Ad
Tag

cani

Browsing

Perché i cani scodinzolano? 

Uno studio della Sapienza Università di Roma indaga sulle risposte possibili a partire dal processo evolutivo

Vi siete mai chiesti perché i cani scodinzolano e perché agli esseri umani piace questo comportamento? I cani domestici sono definiti i “migliori amici dell’uomo”: un terzo di tutte le famiglie del mondo ne possiedono uno e la nostra convivenza è iniziata circa 35 000 anni fa. Molti dei loro comportamenti, tuttavia, rimangono un enigma scientifico. Un team di ricercatori di Torino, Vienna e Nimega, coordinati dal professor Andrea Ravignani della Sapienza ha condotto uno studio pubblicato sulla rivista Biology Letters che riassume i risultati dei lavori finora realizzati su meccanismi, ontogenesi, evoluzione e funzione dello scodinzolio nei cani domestici.

L‘addomesticamento – quello del cane probabilmente è iniziato durante il Paleolitico superiore – è un processo lungo che porta a una serie di cambiamenti fisiologici, morfologici e comportamentali derivanti da un’interazione ecologica: una specie gestisce attivamente la sopravvivenza e la riproduzione di un’altra, che garantisce risorse e servizi alla prima.

Nei cani e in alcuni altri mammiferi, questi cambiamenti possono riguardare la depigmentazione della pelliccia, la riduzione delle dimensioni dello scheletro facciale e dei denti, le dimensioni e le proporzioni generali del corpo, la comparsa di attributi fisici come le orecchie flosce e la coda arricciata, la riduzione dell’aggressività, l’aumento della docilità e la variazione dei livelli ormonali con conseguenti cambiamenti comportamentali, come una ridotta risposta allo stress. Inoltre, studi comparativi tra lupi e cani hanno dimostrato che il processo di addomesticamento ha plasmato la cognizione e la socievolezza dei cani sia nelle interazioni cane-cane sia in quelle cane-uomo.

Le diverse ipotesi che hanno cercato di spiegare come si siano verificati questi cambiamenti, sono riconducibili a due processi: le caratteristiche desiderabili nelle specie addomesticate sono principalmente il risultato dell’adattamento a un ambiente dominato dall’uomo, e cioè un sottoprodotto di selezione per altre caratteristiche, oppure essere frutto della selezione genetica operata dall’uomo in modo diretto. In particolare, lo scodinzolio potrebbe essere emerso durante il processo di addomesticamento seguendo due strade: o come sottoprodotto della selezione di altri tratti, come la docilità, o come tratto direttamente selezionato dall’uomo il quale è attratto dai movimenti ripetitivi e ritmici.

Nel primo caso, esisterebbe un legame genetico tra la docilità e l’anatomia della coda: le selezioni iniziali per la docilità possono aver determinato alterazioni delle cellule della cresta neurale durante lo sviluppo, con ripercussioni su vari tratti fenotipici, tra cui appunto l’anatomia della coda. Ciò è in linea con i risultati di un esperimento a lungo termine che ha cercato di replicare il processo di addomesticamento dei mammiferi e di seguire i cambiamenti nel comportamento, nella genetica e nello sviluppo. L’esperimento è stato condotto su volpi argentate (Vulpes vulpes) allevate per 40 generazioni e selezionate direttamente per addomesticabilità e docilità. La popolazione di volpi risultante mostrava tratti comportamentali, fisiologici e morfologici simili a quelli osservati nei cani: sebbene il comportamento scodinzolante non sia stato selezionato direttamente, le volpi addomesticate mostravano un comportamento scodinzolante simile a quello dei cani e avevano code più arricciate. Questo avvalorerebbe l’ipotesi che il processo di addomesticamento abbia portato a cambiamenti a livello comportamentale e anatomico che hanno alterato il comportamento scodinzolante dei cani, tanto che questi ultimi scodinzolano più spesso e in più contesti rispetto ai canidi non addomesticati.
La seconda ipotesi è invece quella dello “scodinzolio ritmico addomesticato”: il comportamento scodinzolante potrebbe essere stato uno degli obiettivi del processo di addomesticamento, con gli esseri umani che hanno (non) consapevolmente selezionato i cani che scodinzolavano più spesso e, potenzialmente, più ritmicamente. Infatti, prove multidisciplinari dimostrano che gli esseri umani hanno notevoli capacità di percepire e produrre sequenze ritmiche, in particolare schemi isocroni in cui gli eventi sono uniformemente distanziati nel tempo. Non è ancora chiaro come questa caratteristica comportamentale sia comparsa nell’uomo, ma le neuroscienze cognitive dimostrano che il cervello umano preferisce gli stimoli ritmici, che innescano risposte piacevoli e coinvolgono le reti cerebrali che fanno parte del sistema di ricompensa. Questa propensione per i ritmi isocroni potrebbe aver guidato la selezione umana per il vistoso scodinzolio ritmico nei cani e potrebbe spiegare perché i cani lo mostrano così spesso nelle interazioni uomo-cane.
Secondo entrambe le ipotesi, la selezione del comportamento scodinzolante potrebbe non essere stata uniforme tra le varie razze; ad esempio, i cani da caccia scodinzolano di più dei cani da pastore, e hanno subito pressioni selettive diverse nel corso dell’addomesticamento.
“La combinazione di tecniche di analisi comportamentale, di visione computerizzata e di fisiologia con le neuroscienze, potrà aiutare a distinguere tra i movimenti della coda sotto controllo, quindi sotto possibile selezione, da quelli derivanti da meri effetti meccanici come ad esempio, la punta della coda che si muoverebbe come conseguenza del fatto che più porzioni craniali della coda sono state sottoposte ad un’azione di selezione”
spiega Andrea Ravignani, professore ordinario di Psicologia generale
“Un’indagine più sistematica e approfondita sullo scodinzolio non solo permetterà di mappare meglio questa iconica manifestazione comportamentale del cane, ma fornirà anche indiretta sull’evoluzione dei tratti umani, come la percezione e la produzione di stimoli ritmici”.

Riferimenti:
Why do dogs wag their tails? Silvia Leonetti, Giulia Cimarelli, Taylor A. Hersh, Andrea Ravignani
Biology Letters – DOI: 
https://doi.org/10.1098/rsbl.2023.0407

 

cani scodinzolano
Foto di danielle828

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

 

PERCHÈ I CANI SCODINZOLANO? UNA RICERCA DELL’UNIVERSITÀ DI TORINO INDAGA SULLE RAGIONI DI QUESTO COMPORTAMENTO ENIGMATICO

Lo studio, condotto in collaborazione con le Università di Roma, Vienna e il Max Planck Institute for Psycholinguistics, riassume le ricerche esistenti riguardo i meccanismi, l’evoluzione e la funzione dello scodinzolio dei cani domestici.

cane Coda

Oggimercoledì 17 gennaio, sulla rivista Biology Letters, è stata pubblicata la ricerca intitolata “Why do dogs wag their tails?”, condotta dalla Dott.ssa Silvia Leonetti del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino, in collaborazione con l’Università di Roma La Sapienza, l’Università di Medicina Veterinaria di Vienna e il Max Planck Institute for Psycholinguistics. In questo lavoro vengono riassunte le ricerche che hanno indagato i meccanismi, l’evoluzione e la funzione dello scodinzolio nei cani domestici e vengono inoltre avanzate due ipotesi evolutive per spiegare l’insorgenza di questo comportamento evidente ma scientificamente ancora poco chiaro.

I cani domestici sono i carnivori più diffusi al mondo. Con una popolazione stimata di un miliardo di individui sono presenti in quasi tutte le aree abitate dall’uomo, una convivenza iniziata circa 35mila anni. Molti dei loro comportamenti, tuttavia, rimangono un enigma scientifico, come ad esempio il loro scodinzolio. Le code sono comuni a tutti i vertebrati e si sono originariamente evolute per la locomozione; molti animali le usano anche per l’equilibrio e per scacciare i parassiti. Nei canidi, le code non sono più utilizzate per la locomozione, ma piuttosto per la comunicazione rituale.

La coda dei cani è un’estensione della colonna vertebrale, ma si sa poco di come i suoi movimenti siano controllati a livello neurofisiologico. Si tratta di un comportamento asimmetrico, con i cani che mostrano movimenti lateralizzati a seconda degli stimoli che incontrano. Ciò suggerisce una lateralizzazione cerebrale, con una tendenza a scodinzolare sul lato destro, determinata dall’attivazione dell’emisfero sinistro, per gli stimoli che hanno una valenza emotiva positiva (es: quando viene mostrato il padrone o una persona familiare). Al contrario, mostrano uno scodinzolio orientato a sinistra, quindi l’attivazione dell’emisfero destro, per gli stimoli che suscitano ritiro (es: quando viene mostrato un cane sconosciuto e dominante o in situazioni di aggressività).

Associare lo scodinzolio all’eccitazione, sia positiva che negativa, suggerisce una correlazione con gli ormoni e i neurotrasmettitori legati a questo tipo di reazione. Ad esempio, esistono prove indirette che collegano l’ossitocina allo scodinzolio, soprattutto quando i cani si riuniscono a un umano familiare. Tuttavia, le associazioni tra il comportamento scodinzolante e i livelli di cortisolo non sono coerenti tra gli studi. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che i livelli di cortisolo basale possono variare con molti altri parametri (sesso, razza, età e storia di vita del cane). In aggiunta, le incongruenze del passato possono essere dovute al fatto che lo scodinzolio viene tipicamente analizzato come un’unica categoria comportamentale, senza tener conto della sua natura multidimensionale e dei suoi parametri.

“Nessuno studio – dichiara Silvia Leonetti – ha seguito lo sviluppo del comportamento scodinzolante nello stesso individuo per tutta la vita. Solo in un caso, tuttavia, sono state quantificate diverse caratteristiche comportamentali dei cuccioli di cane e di lupo, compreso lo scodinzolio. I cuccioli di entrambe le specie sono stati allevati e poi testati per verificare la loro preferenza per l’uomo che li accudisce rispetto ad altri stimoli. I cuccioli di cane di quattro-cinque settimane hanno iniziato a scodinzolare frequentemente e a manifestare preferenze per la persona che li accudiva. I cuccioli di lupo, invece, scodinzolavano molto meno”.

Sia il movimento della coda che la sua posizione trasmettono informazioni nelle interazioni cane-cane, cane-uomo e cane-oggetto. Tra i canidi, lo scodinzolio con un portamento basso è spesso usato come segno visivo di acquiescenza, sottomissione o intento non aggressivo. La combinazione di scodinzolio e portamento della coda sembra un affidabile indicatore di status di sottomissione e subordinazione formale nelle interazioni cane-cane. Lo scodinzolio è usato anche come segnale di acquiescenza o di affiliazione nelle interazioni cane-uomo. Uno studio ha rilevato che durante le situazioni di rifiuto del cibo, i cani scodinzolavano di più quando era presente un umano rispetto a quando non lo era, suggerendo che lo scodinzolio può funzionare anche come segnale di richiesta.

Una chiave per comprendere meglio le ragioni dello scodinzolio canino potrebbe essere la domesticazione, un lungo processo che porta a una serie di cambiamenti fisiologici, morfologici e comportamentali nelle specie addomesticate.

“L’addomesticamento del cane – prosegue Leonetti – è probabilmente iniziato durante il Paleolitico superiore. I cambiamenti associati alla domesticazione includono: depigmentazione della pelliccia, riduzione delle dimensioni dello scheletro facciale e dei denti, cambiamenti nelle dimensioni e nelle proporzioni generali del corpo, comparsa di attributi fisici come le orecchie flosce e la coda arricciata, riduzione delle dimensioni del cervello, riduzione dell’aggressività, aumento della docilità e la variazione dei livelli ormonali con conseguenti cambiamenti comportamentali”.

Diverse ipotesi hanno cercato di spiegare come si siano verificati questi cambiamenti. Secondo l’ipotesi della “sindrome da domesticazione”, esso può portare all’emergere di tratti geneticamente collegati ma inaspettati, che sono sottoprodotti di una selezione per un altro tratto, come ad esempio la docilità o la socievolezza nei confronti dell’uomo. Ciò potrebbe essere dovuto a un legame genetico tra la selezione per la docilità e l’anatomia della coda. Ad esempio, le selezioni iniziali per la docilità potrebbero aver portato ad alterazioni delle cellule della cresta neurale durante lo sviluppo, con ripercussioni su vari tratti fenotipici, tra cui l’anatomia della coda.

In alternativa, il comportamento scodinzolante potrebbe essere stato un obiettivo del processo di domesticazione, con gli esseri umani che hanno selezionato i cani che scodinzolavano più spesso e, potenzialmente, in modo più ritmico. Questa è l’ipotesi dello “scodinzolio ritmico addomesticato”. Molti studi multidisciplinari dimostrano che gli esseri umani hanno notevoli capacità di percepire e produrre sequenze ritmiche, in particolare schemi isocroni in cui gli eventi sono equamente spaziati nel tempo. Questa propensione per i ritmi isocroni potrebbe aver guidato la selezione umana per il vistoso scodinzolio ritmico, spiegando perché i cani lo mostrano così spesso nelle interazioni uomo-cane.

Secondo entrambe le ipotesi, la selezione del comportamento scodinzolante potrebbe non essere stata uniforme tra le varie razze; ad esempio, i cani da caccia scodinzolano di più dei cani da pastore, e hanno anche subito una selezione diversa per quanto riguarda lo scodinzolio. Ciò dimostra che lo scodinzolio sia un tratto multidimensionale che può differire in base a vari parametri, tra cui il portamento della coda, la direzione e la velocità. In teoria, ogni parametro del movimento della coda potrebbe essere sottoposto a diversi livelli di controllo neurale, avere funzioni diverse e/o trasmettere informazioni diverse.

“Lo scodinzolio dei cani – conclude Leonetti – è un comportamento evidente ma scientificamente sfuggente. La sua unicità, complessità e ubiquità sono potenzialmente associate a molteplici funzioni, ma i suoi meccanismi e la sua ontogenesi sono ancora poco conosciuti. Queste lacune ci impediscono di comprendere appieno la storia evolutiva del moderno comportamento scodinzolante e il ruolo svolto dall’uomo in questo processo. Un’indagine più sistematica e approfondita sullo scodinzolio non solo permetterà di mappare meglio questa iconica manifestazione comportamentale del cane, ma fornirà anche informazioni indirette sull’evoluzione dei tratti umani, come la percezione e la produzione di stimoli ritmici”.

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

LINFOMA B DEL CANE, STUDIO DI UNITO SCOPRE NUOVE MUTAZIONI GENETICHE E IDENTIFICA NUOVI TARGET TERAPEUTICI APRENDO A NUOVE POSSIBILITÀ DI CURA ANCHE PER L’UOMO

 

Il linfoma a grandi cellule B è uno dei tumori più frequenti nel cane ed è considerato un buon modello per lo studio della stessa patologia nell’uomo. Lo studio è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature, Lab Animal

Linfoma B del cane
Foto di Daniela Jakob

 

Ricercatori e ricercatrici di un team europeo coordinato dal Prof. Luca Aresu del Dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Torino, hanno identificato per la prima volta le mutazioni genetiche presenti nel Linfoma a grandi cellule B (DLBCL) del cane. Tale risultato rappresenta la prima descrizione del profilo genetico di questo tumore del cane.

Lo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista di Nature, Lab Animal (https://www.nature.com/articles/s41684-022-00998-x), in collaborazione con l’Università di Bologna (Prof.ssa Laura Marconato) e l’Institute of Oncology Research di Bellinzona (Prof. Francesco Bertoni) rappresenta un enorme passo avanti nella comprensione dei meccanismi patogenetici del DLBCL e identifica nuovi marker prognostici e terapeutici per il monitoraggio della malattia.

Il DLBCL infatti è uno dei tumori più frequenti nel cane, ma soprattutto da anni viene considerato anche come un buon modello per studiare la stessa patologia nell’uomo. Proprio in questo senso i risultati ottenuti dal team di ricerca potrebbero portare a vantaggi che riguardano sia il cane sia l’uomo.

Purtroppo, nonostante i grossi passi avanti nelle terapie del cane, tra cui la possibilità di usare un vaccino autologo in associazione al protocollo chemioterapico standard, il DLBCL rimane ancora troppo spesso non curabile. La malattia umana e quella canina sono molto simili e infatti diverse molecole, approvate da agenzie regolatorie per il trattamento dei linfomi umani, sono state provate prima in cani affetti da linfomi, dando ottimi risultati ma, fino ad oggi, mancava una analisi più approfondita dei meccanismi patogenetici alla base dello sviluppo del DLBCL del cane e un confronto con la controparte umana.

Da anni il Prof. Aresu dirige il “Canine Comparative Oncology Lab” al Dipartimento di Scienze Veterinarie conducendo studi nel campo della genetica, trascrittomica ed epigenetica dei tumori più frequenti e aggressivi nel cane. La ricerca si focalizza, in particolare, su caratteristiche istologiche, fenotipiche, molecolari e genetiche che sono alla base della predisposizione tumorale e patogenesi delle principali neoplasie del cane. Inoltre, i bersagli molecolari delle neoplasie più frequenti ed aggressive sono studiati per ricercare terapie target.

Nel suo studio il gruppo di ricerca ha applicato tecniche di Next Generation Sequencing per studiare la parte codificante del DNA dei cani con tumore. Tale approccio è alquanto nuovo in medicina veterinaria ed ha permesso di evidenziare come esistano delle similitudini con il DLBCL umano, tra cui alcuni pathway di attivazione di NFκ-B e B-cell receptor e del rimodellamento della cromatina. Ma sono state messe in evidenza anche delle differenze, tra cui le mutazioni più frequenti che caratterizzano questo tumore. Infatti, i geni più frequentemente mutati nel cane (TRAF3, SETD2, POT1, TP53, FBXW7) sono alterati meno frequentemente nel DLBCL umano, come evidenziato in diversi studi degli ultimi anni in medicina umana.

Attraverso la stretta collaborazione di ricercatori di fama internazionale nel campo della patologia comparata, del sequenziamento, dell’oncologia veterinaria e della medicina umana è stato possibile associare alcune mutazioni a caratteristiche biologiche e andamenti clinici diversi. Nello specifico le mutazioni del gene TP53 sono state associate ad una prognosi peggiore indipendentemente dal trattamento. Il gene TP53 viene definito “il guardiano del genoma” proprio per la sua funzione di identificare danni al DNA e successivamente impedire che i difetti vengano trasmessi nel processo di replicazione. Nel DLBCL del cane, le mutazioni del TP53 hanno un effetto deleterio tale da impedire la sua funzione protettiva e potenzialmente portare allo sviluppo di un tumore. Nello studio, tutti i cani erano stati trattati e seguiti dalla Prof.ssa Marconato.

Proprio la disponibilità dei dati clinici e di follow-up ha permesso lo sviluppo di un modello predittivo da parte del Prof. Piero Fariselli del Dipartimento di Scienze Mediche di UniTo che è oggi disponibile online (https://compbiomed.hpc4ai.unito.it/canine-dlbcl/). Tale modello permetterà in futuro a veterinari e proprietari di cani con DLBCL di indirizzare la scelta terapeutica e potenzialmente avere una predizione sulla prognosi. A partire dall’autunno, infatti, lo screening genetico del TP53 sarà disponibile a livello diagnostico e rappresenterà il primo test genetico disponibili in oncologia veterinaria in grado di predire prognosi e guidare la terapia.

Il gruppo del Prof. Bertoni a Bellinzona è attivo nello sviluppo di nuovi farmaci e combinazioni per pazienti affetti da linfomi. Già da anni, gli screenings, in collaborazione con il Prof. Aresu, comprendono un modello di DLBCL canino. I risultati dello studio appena pubblicato permetteranno di scegliere nel modo migliore quali nuovi approcci terapeutici siano più appropriati per studi sui cani.

 

Testo dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino

Il cane può provare dolore per la morte di un altro cane

La ricerca, coordinata dall’Università degli Studi di Milano e condotta con Università degli Studi di Padova, suggerisce che i cani soffrano per la perdita di un altro cane che vive nella stessa famiglia. Lo studio, condotto su oltre quattrocento proprietari di cani, è stato pubblicato su Scientific Reports.( https://www.nature.com/articles/s41598-022-05669-y).

cane dolore morte
Il cane può provare dolore per la morte di un altro cane

Un cane può provare dolore per la morte di un altro cane che vive nella stessa famiglia dimostrando comportamenti negativi, ricerca di attenzioni e apatia: questo suggeriscono i cambiamenti del comportamento e delle emozioni riportati da 426 proprietari di cani italiani coinvolti in uno studio dell’Università degli Studi di Milano condotto con l’Università di Padova e pubblicato su Scientific Reports (https://www.nature.com/articles/s41598-022-05669-y).

Sebbene siano stati segnalati comportamenti di lutto in alcune specie animali, inclusi gli uccelli e gli elefanti, non è ancora chiaro se i cani domestici soffrano per la morte di un conspecifico. Il gruppo di studio coordinato da Federica Pirrone, ricercatrice di Etologia Veterinaria dell’Università degli Studi di Milano, ha intervistato oltre quattrocento persone a cui era morto un cane, mentre in casa ve n’era almeno un altro. L’86% ha osservato cambiamenti negativi nel comportamento del cane sopravvissuto dopo la morte dell’altro cane, ma solo quando i due cani erano legati da una relazione particolarmente amichevole o addirittura genitore-figlio. Questi animali erano più alla ricerca di attenzioni, mangiavano e giocavano meno ed erano, in generale, meno attivi del solito.

Federica Pirrone

“Da un punto di vista ecologico, sia i legami di affiliazione che quelli parentali sono componenti importanti della naturale organizzazione sociale dei cani liberi e questo vale anche per i cani di casa”, spiega Federica Pirrone. “Gli animali sociali come i cani domestici hanno una forte tendenza a cooperare e sincronizzare i loro comportamenti per mantenere la coesione e poter beneficiare dei vantaggi derivanti dal vivere insieme. Questo coordinamento può essere interrotto quando muore un membro del gruppo. Dunque, l’interruzione di una routine sociale che, in virtù della forte affiliazione, si era creata tra le coppie di cani del nostro studio, quando entrambi gli animali erano in vita, potrebbe spiegare i cambiamenti osservati in quello sopravvissuto dopo l’evento fatale”.

Ines Testoni

Come sottolinea Ines Testoni, direttrice del Master Death Studies & The End of Life dell’Università di Padova, “Siamo abituati a pensare che gli animali non abbiano una coscienza e non provino sentimenti, quindi non possano né mentalizzare la morte né provare dolore per la perdita. Le nostre ricerche hanno già mostrato come tra caregiver e animale da compagnia si instauri un legame di attaccamento e che questo può influenzare il comportamento del cane che sopravvive alla perdita del conspecifico.

 

È importante sottolineare che il nostro studio, per la prima volta nel panorama scientifico, indaga contemporaneamente i comportamenti assimilabili al lutto nel cane e il lutto dei proprietari. Sorprendentemente, abbiamo notato che i diversi modi di relazionarsi agli animali e di rappresentarsi la loro vita/morte da parte del proprietario non sono apparsi correlati alle variazioni del comportamento dei cani dopo la morte del conspecifico. Questo è importante perché indica che il proprietario, nel descrivere queste variazioni, non stava semplicemente proiettando il proprio dolore sul suo cane, ed è quindi più probabile che le modifiche riportate siano reali”.

I cani sopravvissuti sono apparsi più impauriti dopo la morte del conspecifico, e su questo cambiamento emotivo potrebbe invece aver pesato lo stato emotivo del proprietario. Il livello di paura era infatti maggiore nei cani sopravvissuti i cui proprietari mostravano segni più evidenti di sofferenza, rabbia e trauma psicologico in seguito alla morte del proprio pet.

Ulteriori studi, già in corso presso il gruppo di ricerca, dimostreranno se attraverso queste reazioni i cani stanno davvero rispondendo alla morte di un compagno della propria specie, o se esse siano solo scatenate dalla perdita, ossia dalla semplice separazione da quest’ultimo.

“È un obiettivo che ci siamo riproposti di raggiungere in fretta” – conclude Pirrone“Oggi come oggi milioni di famiglie nel mondo vivono con più di un cane. Conoscere le reazioni comportamentali e le emozioni suscitate dalla morte di un consimile è quindi fondamentale perché ci permetterà di riconoscere i bisogni emotivi di tantissimi animali, che sono effettivamente a rischio di soffrire per la perdita di un compagno canino”.

cane dolore morte
Il cane può provare dolore per la morte di un altro cane

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova

Lupo: l’ibridazione con il cane domestico mette a rischio la conservazione della specie

Lo studio, condotto da ricercatori Sapienza, ha stimato nel Parco nazionale dell’Appennino tosco-emiliano e nelle zone circostanti dell’Appennino settentrionale una prevalenza di ibridazione del 70%, sulla base di 152 campioni raccolti, corrispondenti a 39 lupi in 7 branchi differenti. I risultati del lavoro, pubblicati sulla rivista The Journal of Wildlife Management, evidenziano la necessità di arginare il fenomeno per preservare l’integrità genetica del lupo.

 

L’integrità genetica del lupo italiano è sempre più minacciata dall’ibridazione con il cane domestico. È quanto dimostrato in un recente studio condotto dalla Sapienza Università di Roma in collaborazione con il Parco nazionale dell’Appennino tosco-emiliano, l’Istituto superiore per la ricerca e la protezione ambientale (Ispra) e il Centre Nationale de la Recherche Scientifique (Francia), pubblicato sulla rivista The Journal of Wildlife Management.

lupo cane ibridazione
Ibridi di Cerreto. Foto di Luigi Molinari

Il cane domestico è il risultato di una forte selezione attuata dall’uomo e di millenni di isolamento riproduttivo dal lupo. Nel tempo il cane ha sviluppato forme e comportamenti più appropriati alle necessità dell’uomo e profondamente diversi rispetto al suo progenitore selvatico. Dal punto di vista biologico, il cane e il lupo sono la stessa specie e in determinate circostanze possono accoppiarsi e generare ibridi fertili. Eppure, nonostante l’ibridazione con il lupo sia occasionalmente avvenuta fin dall’origine stessa della domesticazione del cane, oggi il timore è che il fenomeno sia in forte aumento a causa dell’espansione del lupo in aree maggiormente antropizzate, dove il rapporto numerico risulta ampiamente a favore della popolazione canina.

“Dai primi rari avvistamenti di ibridi negli anni ’70 e ’80, il fenomeno è stato ampiamente sottovalutato negli anni successivi – spiega Paolo Ciucci del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza Università di Roma, coordinatore lo studio. “Questo sia per le difficoltà tecniche intrinseche all’identificazione degli individui ibridi, inclusi i re-incroci di successiva generazione, sia per le complesse e delicate implicazioni gestionali del fenomeno. Inoltre, ad oggi sono stati pochi gli studi che hanno realmente quantificato l’ibridazione tra cane e lupo secondo parametri popolazionistici e modelli statistici adeguati, mentre gli strumenti di cui oggi disponiamo ci permettono di produrre stime più accurate”.

Sulla base di 152 campioni raccolti, corrispondenti a 39 lupi in 7 branchi differenti, i ricercatori hanno stimato una prevalenza di ibridazione del 70%, con individui ibridi presenti in almeno 6 dei 7 branchi monitorati. Inoltre, attraverso la ricostruzione genealogica è stato accertato che in almeno due di questi branchi gli individui ibridi godono dello status di riproduttori, e sono in grado quindi di tramandare le varianti genetiche di origine canina alle generazioni successive.

Nonostante la presenza di casi di ibridazione fosse stata originariamente ipotizzata, se si considerano gli effetti potenzialmente negativi che i geni di origine canina possono avere per la sopravvivenza del lupo allo stato selvatico, i risultati dello studio evidenziano uno scenario allarmante per la conservazione della specie e per la tutela della sua identità genetica.

“Grazie a una rete di collaboratori con competenze complementari, che ci ha permesso di applicare adeguate strategie di campionamento, congiuntamente a metodi formali di stima demografica e a tecniche di diagnosi genetica particolarmente efficienti, nel nostro lavoro abbiamo prodotto una stima accurata del fenomeno su scala locale – aggiunge Nina Santostasi, ricercatrice dello stesso Dipartimento e prima autrice dello studio. “I risultati che abbiamo ottenuto sottolineano con enfasi come le presunte barriere riproduttive comportamentali tra cani e lupi, o la diluizione di geni di origine canina nella popolazione di lupo, non siano da sole sufficienti a prevenire l’ibridazione e il suo dilagare all’interno della popolazione di lupo. Purtroppo, con ogni probabilità, questa situazione non è limitata all’area in cui abbiamo lavorato ed è fondamentale replicare con urgenza lo stesso tipo di studio anche nelle altre aree dell’areale della specie”.

I risultati dello studio evidenziano quanto sia fondamentale non ignorare il fenomeno e mettere in campo tutte le migliori competenze e capacità gestionali per preservare l’integrità genetica del lupo. Ma non solo, è necessario informare e sensibilizzare l’opinione pubblica sul rischio di estinzione genomica. “È questo un concetto molto più difficile da comprendere e condividere di quanto non lo sia stato il rischio di estinzione demografica quando, nei primi anni ’70, l’Italia si è detta favorevole alla protezione legale della specie – conclude Ciucci. “Paradossalmente, 50 anni più tardi, è la stessa identità genetica del lupo che è messa a rischio come conseguenza delle dinamiche espansive della specie, dell’elevato numero di cani vaganti e dell’inerzia gestionale”.

Le tecniche genetiche utilizzate dai ricercatori per identificare gli ibridi, che utilizzano il DNA estratto dagli escrementi di lupo, sono state messe a punto nel laboratorio di Genetica della Conservazione dell’Istituto superiore per la ricerca e la protezione ambientale (Ispra), da anni attivo nel settore.

La stima della prevalenza degli ibridi è stata effettuata nella popolazione di lupo che vive nel Parco nazionale dell’Appennino tosco-emiliano e nelle zone circostanti dell’Appennino settentrionale, un’area centrale e strategica della distribuzione del lupo nell’Appennino, dove i primi individui ibridi, o comunque morfologicamente devianti rispetto allo standard morfologico del lupo, erano già stati osservati dalla fine degli anni ’90.

Riferimenti:

Estimating Admixture at the Population Scale: Taking Imperfect Detectability and Uncertainty in Hybrid Classification Seriously – Nina L. Santostasi, Olivier Gimenez, Romolo Caniglia, Elena Fabbri, Luigi Molinari, Willy Reggioni, Paolo Ciucci – The Journal of Wildlife Management https://doi.org/10.1002/jwmg.22038

 

Testo, foto e video dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Quando il cane diventò il miglior amico dell’uomo – Le origini e il processo della domesticazione canina

Dal 30 settembre al 4 ottobre si è svolta Arkeostoriae – archeologia e narrazioni, un festival organizzato dal CEiC – Istituto di studi storici e antropologici/Ong Unesco col supporto della Regione Campania, di Scabec, del Comune di Ischia e vari enti. La rassegna ha proposto approfondimenti a tema culturale ed archeologico a fine divulgativo ed esperienze multidisciplinari.

La prima proposta ha previsto una diretta sulla pagina Facebook dal titolo “Quando il cane diventò il miglior amico dell’uomo – Le origini e il processo della domesticazione canina”. A conduzione della live la curatrice della rassegna, Alessandra Vuoso, che ha intervistato Mia Canestrini, una zoologa e censitrice del lupo presso l’ISPRA oltre che autrice del libro La ragazza dei lupi e conduttrice radiotelevisiva, e Rosario Balestrieri, naturalista ornitologo nonché presidente di ARDEA, associazione per la ricerca, la divulgazione e l’educazione ambientale.

La domesticazione, intesa come un processo  messo in atto dall’uomo per propri scopi, risale alla preistoria e si presuppone sia proprio il cane ad essere stato il primo animale coinvolto in un processo simile. Non si concorda sui tempi e sui luoghi di origine dell’addomesticazione del lupo nel mondo della scienza, ma il legame dell’uomo a questo processo è ben radicato. Nonostante tutto, il lupo è l’unico antenato del cane e le teorie che spiegano la sua domesticazione sono diverse. La sua origine risale probabilmente al 14.000 a.C e si associa ad un abbandono della vita indipendente dall’uomo.

Si ritiene che i lupi si siano trovati nei pressi di accampamenti umani per cui hanno avuto un cambio di abitudini, soprattutto riguardo l’approvvigionamento di cibo, che divenne molto meno difficile. Tuttavia, questo nuovo stile di vita meno dedito alla caccia per sopravvivenza portò ad una serie di cambiamenti sia dal punto di vista anatomico e fisiologico che dal punto di vista sociale.

cane domesticazione
La locandina del webinar “Quando il cane diventò il miglior amico dell’uomo – Le origini e il processo della domesticazione canina”

Uno studio pubblicato su PNAS dimostra l’evoluzione dei muscoli facciali nei cani, rispetto al lupo, in virtù di un’efficace comunicazione con l’uomo. Per determinare il modellamento dei muscoli facciali sono stati condotti studi comparativi di dissezioni facciali per lupo grigio (Canis lupis) e cane domestico (Canis Familiaris), insieme ad analisi quantitative della frequenza ed intensità dei movimenti facciali durante un’interazione sociale con l’uomo. Si denota uniformità riguardo la muscolatura facciale del lupo e del cane che differisce solo nei pressi degli occhi. Le differenza anatomiche sono state corrisposte all’analisi comportamentale dei movimenti facciali tramite intensità e frequenza dei movimenti stessi. Sono maggiori i movimenti comunicativi nei pressi delle sopracciglia nei cani rispetto ai lupi. Negli esseri umani, i movimenti delle sopracciglia sembrano essere particolarmente rilevanti per aumentare la percezione delle parole e agiscono come indicatori di ricezione del discorso da parte dell’animale.

Nel complesso, i dati suggeriscono che la selezione durante le interazioni sociali può creare pressioni selettive sull’anatomia del muscolo facciale nei cani come risultato di un adattamento in funzione della comunicazione con l’uomo. Probabilmente, la differenza anatomica riflette le differenze comportamentali tra cani e lupi dove i primi tendono ad avere una comunicazione maggiore. Ciò apre ulteriori questioni interessanti per la ricerca poiché questo tipo di studi si potrebbe effettuare sulla domesticazione di gatti o cavalli o si potrebbe valutare le differenze nelle varie razze di cane in termini di pressione selettiva.

 

Kaminski J, Waller BM, Diogo R, Hartstone-Rose A, Burrows AM. Evolution of facial muscle anatomy in dogs. Proc Natl Acad Sci U S A. 2019 Jul 16;116(29):14677-14681. doi: 10.1073/pnas.1820653116. Epub 2019 Jun 17. PMID: 31209036; PMCID: PMC6642381.

Canis lupus. Foto di Jim Peaco, ritagliata da ZeWrestler, in pubblico dominio