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ALPI: CON DUE GRADI IN PIÙ PROBABILE RADDOPPIO DI TEMPORALI ESTIVI DI TIPO ESTREMO

Pubblicato su «npj Climate and Atmospheric Science» la ricerca di un team di scienziati dell’Università di Padova e dell’Università di Losanna che ha analizzato i dati di quasi 300 stazioni meteorologiche sulle Alpi. La pubblicazione rivela come un aumento di 2°C della temperatura della regione potrebbe far raddoppiare la frequenza di eventi estremi estivi

Le precipitazioni estreme di breve durata, ovvero quelle molto intense che sviluppano enormi quantità di pioggia nell’arco di pochi minuti o poche ore, possono causare gravi danni alle proprietà e mettere a rischio vite umane. Nel settembre 2022 un evento meteorologico estremo ha colpito la regione Marche: più di 100 mm di pioggia in un’ora hanno generato inondazioni e dissesti che hanno provocato la morte di 13 persone e danni per 2 miliardi di euro.

Con il riscaldamento globale questi eventi rischiano di diventare sempre più frequenti, soprattutto nella regione alpina dove le temperature stanno aumentando più rapidamente rispetto alla media globale. L’aria calda trattiene maggiore umidità (circa il 7% in più per grado) e, in aggiunta, l’attività temporalesca si intensifica con l’aumentare della temperatura. Quantificare il possibile impatto del cambiamento climatico su questi eventi è fondamentale.

Nello studio dal titolo “A 2°C warming can double the frequency of extreme summer downpours in the Alps” pubblicato su «npj Climate and Atmospheric Science» del gruppo Nature, il team di ricercatori dell’Università di Padova e dell’Università di Losanna ha dimostrato che un aumento medio della temperatura di 2°C potrebbe raddoppiare la frequenza dei temporali estivi di breve durata nella regione alpina: ciò che oggi accade ogni mezzo secolo potrebbe verificarsi in futuro ogni 25 anni.

La ricerca

I ricercatori hanno esaminato i dati di quasi 300 stazioni meteorologiche sulle Alpi europee, distribuite tra Svizzera, Germania, Austria, Francia e Italia. Si sono concentrati sugli eventi di pioggia record (della durata da 10 minuti a un’ora) tra il 1991 e il 2020, nonché sulle temperature associate a queste tempeste.

Sulla base di queste osservazioni è stato sviluppato un modello statistico che incorpora principi fisici per stabilire un legame tra temperatura e frequenza delle piogge, e poi per simulare la futura frequenza delle precipitazioni estreme utilizzando proiezioni climatiche regionali.

Secondo quanto emerso dalla ricerca, i problemi per le aree montane potrebbero intensificarsi anche con un incremento medio di 1°C delle temperature locali.

«Un aumento di 1°C non è ipotetico, è probabile che si verifichi nei prossimi decenni», dice Francesco Marra, ricercatore al Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova e uno degli autori principali dello studio. «Stiamo già assistendo a una tendenza all’intensificazione dei temporali estivi e ci si aspetta che questa tendenza peggiori ulteriormente negli anni a venire».

Francesco Marra
Francesco Marra

«L’arrivo improvviso e massiccio di grandi volumi d’acqua impedisce al suolo di assorbire l’eccesso», sottolinea Nadav Peleg, ricercatore all’Università di Losanna e primo autore dello studio. «Questo può innescare inondazioni improvvise e colate detritiche, portando danni alle infrastrutture e, in alcuni casi, vittime».

Nadav Peleg
Nadav Peleg

Gli autori concludono ricordando quanto sia cruciale capire come questi eventi possano evolversi con il cambiamento climatico al fine di pianificare appropriate strategie di adattamento, anche in termini di adeguamento delle infrastrutture. L’analisi dell’intensificazione prevista per le precipitazioni estreme di 10 minuti da 1 a 3 gradi di riscaldamento regionale conferma un’intensificazione generale nell’area alpina, con un rafforzamento maggiore alle quote più elevate. Con un aumento di 2°C della temperatura media regionale, le statistiche sulle precipitazioni estreme nelle Alpi subiranno probabilmente cambiamenti significativi, determinando un raddoppio della probabilità di occorrenza dei livelli di pioggia estrema. Solo attraverso una comprensione approfondita di questi fenomeni e un’azione tempestiva possiamo sperare di proteggere le comunità montane e preservare l’ecosistema unico delle Alpi per le generazioni future.

nell'immagine, pioggia sulle Alpi

Riferimenti bibliografici: 

Nadav Peleg, Marika Koukoula e Francesco Marra, A 2°C warming can double the frequency of extreme summer downpours in the Alps, npj Climate and Atmospheric Science (2025), DOI: 10.1038/s41612-025-01081-1

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

AREE PROTETTE SOTTO PRESSIONE: IL CAMBIAMENTO CLIMATICO SPINGE GLI UCCELLI PIÙ IN ALTO, MA LA CONSERVAZIONE NON TIENE IL PASSO

Uno studio condotto dai ricercatori di UniTo nelle Alpi Cozie e Graie rivela che le specie adattate al freddo stanno scomparendo anche dove la natura è tutelata

Le montagne sono hotspot di biodiversità a livello globale, ma sono anche tra gli ambienti più vulnerabili ai cambiamenti climatici. Nelle Alpi europee, il riscaldamento globale e le trasformazioni del paesaggio stanno rapidamente modificando la vegetazione, con effetti diretti sulle comunità di uccelli, in particolare su quelle di alta quota. Le aree protette rappresentano strumenti fondamentali per salvaguardare queste specie adattate al freddo, ma quanto sono realmente efficaci in un mondo che si riscalda?

A questa domanda hanno cercato di rispondere il dott. Riccardo Alba e il prof. Dan Chamberlain del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino nello studio Elevational shifts in bird communities reveal the limits of Alpine protected areas under climate change, recentemente pubblicato sulla rivista Biological Conservation. Coprendo un periodo temporale di 13 anni di dati raccolti lungo un ampio gradiente altitudinale nelle Alpi Cozie e Graie, i ricercatori hanno utilizzato il Community Temperature Index (CTI) – un indicatore della tolleranza termica delle comunità – per valutare l’evoluzione delle comunità ornitiche all’interno e all’esterno delle aree protette.

I risultati mostrano un dato sorprendente: mentre al di fuori delle aree protette il CTI è rimasto stabile, all’interno delle stesse è aumentato rapidamente, riflettendo un incremento delle temperature medie annuali di oltre 1,19 °C nel periodo di tempo coperto. Questo indica che qualcosa sta avvenendo all’interno delle aree protette alpine, dove le comunità ornitiche stanno diventando sempre più simili a quelle presenti in zone non tutelate, probabilmente a causa del declino delle specie di alta quota ma anche per la colonizzazione di specie più comuni dalle quote più basse, come ad esempio la capinera e lo scricciolo.

Le variazioni più marcate si osservano in prossimità del limite del bosco, una fascia sensibile dove la vegetazione arbustiva e forestale sta avanzando verso le alte quote a causa dell’abbandono delle attività pastorali e del cambiamento climatico. Gli autori individuano proprio il cambiamento della copertura vegetale come principale motore di trasformazione delle comunità, sottolineando come la semplice esistenza di aree protette dai confini stabili potrebbe non bastare più a garantire la sopravvivenza degli uccelli più specializzati alle quote estreme.

Per contrastare questi effetti, lo studio suggerisce misure gestionali adattive come il pascolo mirato e la conservazione della connettività altitudinale, oltre a un monitoraggio continuo delle comunità ornitiche negli anni a venire. Solo espandendo la protezione formale e integrando azioni concrete sul campo sarà possibile mantenere habitat eterogenei e resilienti, in grado di ospitare anche in futuro le specie simbolo delle Alpi evitando la loro scomparsa.

Parco naturale dei Laghi di Avigliana. Foto di Elio Pallard, CC BY-SA 4.0
Aree protette sotto pressione: il cambiamento climatico spinge gli uccelli più in alto, ma la conservazione non tiene il passo. Parco naturale dei Laghi di Avigliana. Foto di Elio Pallard, CC BY-SA 4.0

Riferimenti bibliografici:

Riccardo Alba, Dan Chamberlain, Elevational shifts in bird communities reveal the limits of Alpine protected areas under climate change, Biological Conservation Volume 309 2025, 111267, ISSN 0006-3207, DOI: https://doi.org/10.1016/j.biocon.2025.111267

 

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Progetto strategico “PsyFuture” dell’Università di Milano-Bicocca: la ricerca psicologica “esce dal laboratorio” per studiare come reagiamo al cambiamento climatico 

Un progetto di ricerca applicata porterà un team del dipartimento di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca in Toscana. Obiettivo: sensibilizzare ai temi ambientali e diffondere una cultura della sostenibilità grazie a un intervento psicoeducativo sul campo

 

Milano, 3 giugno 2025 – Dalla raccolta differenziata allo spreco alimentare, dal cambiamento climatico al benessere psicologico negli ambienti naturali: sono queste le quattro direttrici lungo cui si sviluppa “JustSeparate – Summer 2025”, il progetto del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca che porta la ricerca scientifica fuori dai laboratori e la unisce a esperienze immersive con la realtà virtuale, attività sul campo e laboratori interattivi per adulti e bambini. 

Ricercatori, dottorandi e assegnisti saranno infatti impegnati per tutta l’estate in progetti di ricerca applicata grazie alla collaborazione con il Camping Village Le Esperidi, a Marina di Bibbona in Toscana. L’obiettivo è indagare in modo rigoroso e innovativo i fattori psicologici, emotivi e sociali che favoriscono l’adozione di comportamenti sostenibili da parte delle persone. Accanto alla componente sperimentale, saranno organizzati attività e laboratori esperienziali, con l’intento di coinvolgere attivamente grandi e piccoli su temi ambientali e di promuovere una cultura della sostenibilità basata su evidenze scientifiche. 

«Questo progetto di ricerca rappresenta un’opportunità preziosa per uscire dai confini del laboratorio e realizzare un intervento psicoeducativo in un contesto unico»,

spiega Alessandro Gabbiadini, professore di Psicologia sociale e responsabile del progetto. Sono quattro le linee di ricerca su cui si svilupperà il lavoro dei ricercatori: la prima riguarda la raccolta differenziata. Grazie a nuovi supporti comunicativi e strategie di nudging digitale (la cosiddetta “spinta gentile”), attraverso dispositivi mobili, saranno forniti consigli pratici e personalizzati su come differenziare correttamente i rifiuti. Un secondo filone si concentrerà sulla prevenzione dello spreco alimentare, utilizzando messaggi persuasivi ispirati alla Teoria del Comportamento Pianificato e ad altri modelli psicologici. Verrà utilizzato dai ricercatori anche un paradigma innovativo in realtà virtuale per visualizzare gli effetti del cambiamento climatico, come erosione costiera e perdita di biodiversità, che hanno interessato le aree costiere del Mediterraneo negli ultimi decenni. Un ulteriore ambito mira a esplorare quanto gli ambienti naturali siano in grado di impattare sul nostro benessere psicologico.

«Si tratta di un’iniziativa in linea con gli obiettivi del progetto che ha portato il Ministero dell’Università e della ricerca a riconoscere, per la seconda volta, il dipartimento di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca come “Dipartimento di Eccellenza”»,

precisa il professor Gabbiadini. Proprio con questa iniziativa il dipartimento rafforza il proprio impegno per una ricerca scientifica ad alto impatto sociale, condotta in contesti reali e quotidiani. Nell’ambito del progetto strategico “PsyFuture”, si stanno sviluppando nuove linee di ricerca per comprendere il comportamento umano nei contesti reali, cercando di anticipare le sfide del prossimo futuro, che derivano per esempio dall’interazione tra esseri umani e nuove tecnologie (come l’intelligenza artificiale e la realtà virtuale) e dalle risposte psicologiche e collettive di fronte al cambiamento climatico. 

Accanto alla raccolta dati, il progetto “JustSeparate” prevede un intenso programma di divulgazione scientifica e anche attività educative per i più piccoli, condotte in collaborazione tra il team di ricerca dell’Ateneo e gli educatori del resort.

«Per noi è un piacere e un onore poter contribuire all’iniziativa dell’Università di Milano-Bicocca, che contraddistinguerà l’estate 2025 presso Le Esperidi», conclude Umberto Mannoni, amministratore unico del resort.

Edificio U12 del campus dell'Università degli Studi di Milano-Bicocca. Foto di Facquis, CC BY-SA 4.0
Edificio U12 del campus dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Foto di Facquis, CC BY-SA 4.0

Testo dall’Ufficio stampa Università di Milano-Bicocca.

Banche dei semi: una nuova metodologia indica quali specie conservare per salvare le piante dall’estinzione (e ridurre i costi)

La ricerca dell’Università di Pisa pubblicata sulla rivista New Phytologist

Circa due specie di piante su cinque nel mondo potrebbero sparire. Per questo motivo, è importante capire quali specie sono più a rischio e trovare i modi efficaci per conservarle.

È questa la sfida raccolta da un gruppo di ricercatori coordinato dal professore Angelino Carta del Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa. Il risultato è stata una nuova metodologia basata sulla rilevanza evolutiva delle specie grazie alla quale sarà possibile integrare le collezioni attualmente conservate nelle banche dei semi. Lo studio pubblicato sulla rivista New Phytologist promette inoltre anche dei risparmi in termini economici. Al progetto hanno partecipato ricercatori della Stazione Biologica Doñana (Spagna), degli Orti Botanici di Ginevra (Svizzera), Meise (Belgio) e Kew (Regno Unito).

L’analisi ha riguardato un imponente set di dati provenienti da 109 banche dei semi comprendente oltre 22.000 specie relative a tutta la flora d’Europa. È così emerso che le banche custodiscono una ricca varietà di piante, ma ancora non coprono completamente tutta la diversità evolutiva possibile. In pratica, alcuni “rami” dell’albero genealogico delle piante europee non sono rappresentati nelle collezioni. Le specie attualmente non conservate, ma il cui campionamento e stoccaggio in banca sarebbe fondamentale, sono sopratutto quelle che rappresentano un unicum evolutivo perché mostrano delle strategie riproduttive singolari o sono confinate ad aree geografiche limitate.

“Si tratta di un metodo che può essere personalizzato per adattarlo a diversi obiettivi di conservazione, fino all’esaurimento del budget disponibile – sottolinea Carta – La nostra ricerca rappresenta quindi un passo fondamentale per future azioni di conservazione, i risultati possono servire come base di discussione per promuovere nuove politiche, incluso la salvaguardia delle specie in via di estinzione, la resilienza dei sistemi agroalimentari e l’identificazione delle specie più adatte al restauro degli habitat in uno scenario di cambiamenti climatici”.

Il cortile del Palazzo della Sapienza dell’Università degli Studi di Pisa. Foto di Antonio D’Agnelli, in pubblico dominio

Testo dall’Ufficio Comunicazione di Ateneo dell’Università di Pisa.

Costa atlantica dell’Africa: le variazioni del livello del mare negli ultimi 30mila (e il recente innalzamento)

L’Università di Pisa ha coordinato lo studio pubblicato su Nature Communications. Il prof. Vacchi: 

“Nonostante l’intero continente Africano contribuisca solo per il 4% alle emissioni globali di gas serra, il cambiamento climatico avrà effetti molto significativi in Africa occidentale, dove il 31% della popolazione e le principali infrastrutture sono concentrate nella zona costiera”.

 

Il livello attuale del mare lungo la costa atlantica dell’Africa è più alto di oltre 100 metri rispetto a 30.000 anni fa. Il dato emerge da uno studio coordinato dal professor Matteo Vacchi del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista Nature Communications. La ricerca ha mostrato come il livello dell’Atlantico sia stato fortemente influenzato dai cambiamenti climatici e dalla fusione delle calotte glaciali.

“Studiando le fluttuazioni avvenute negli ultimi 30.000 anni – spiega Vacchi – potremmo affinare i modelli climatici e migliorare le previsioni sulle reazioni del sistema Terra rispetto ai cambiamenti attuali. Molte regioni costiere africane, comprese città densamente popolate e ambienti naturali sensibili, sono direttamente minacciate dall’innalzamento del livello del mare. Studi come questo aiutano a comprendere la vulnerabilità di queste aree e a sviluppare strategie di adattamento e mitigazione. Infatti, la fascia costiera rappresenta circa il 56% del prodotto interno lordo (PIL) dei paesi dell’Africa occidentale, rendendola una risorsa economica e sociale chiave altamente vulnerabile ai cambiamenti del livello del mare causati dal clima”.

La ricerca ha evidenziato tre fasi evolutive principali. Nell’epoca del massimo glaciale (circa 30.000 – 19.000 anni fa) il livello del mare era molto più basso rispetto ad oggi, circa 99-104 metri in meno, principalmente per la grande quantità di acqua intrappolata nelle calotte glaciali. Nella successiva fase di deglaciazione (19.000 – 7.500 anni fa), con il riscaldamento globale e la fusione delle calotte, il mare ha iniziato a risalire sempre più rapidamente sino a raggiungere il livello attuale. Il trend è continuato nel corso dell’Olocene (7.500 anni fa – oggi): il mare ha continuato a salire, ma con un ritmo più moderato, fino a raggiungere un massimo tra 5.000 e 1.700 anni fa con valori anche hanno superato il livello attuale. Dopo questa fase, c’è stata una sostanziale stabilizzazione, fino al nuovo recente innalzamento dovuto al riscaldamento globale che ha riguardato gli ultimi 100 anni.

“Il nostro studio fornisce una ricostruzione dettagliata e senza precedenti delle variazioni del livello del mare lungo la costa atlantica dell’Africa dal massimo glaciale fino all’epoca moderna – dice Matteo Vacchi – si tratta di dati fondamentali per comprendere i trend attuali e prevedere le future variazioni del livello del mare con implicazioni molteplici che toccano diversi ambiti scientifici e applicativi. Nonostante l’intero continente Africano contribuisca solo per il 4% alle emissioni globali di gas serra, il cambiamento climatico avrà effetti molto significativi in Africa occidentale, dove il 31% della popolazione e le principali infrastrutture sono concentrate nella zona costiera”.

Matteo Vacchi Oceano Atlantico Africa
Matteo Vacchi

Insieme all’Università di Pisa hanno collaborato alla studio l’Earth Observatory di Singapore, Università Aix Marseille (Francia), L’Università di Bologna e l’INGV.

Riferimenti bibliografici:

Vacchi, M., Shaw, T.A., Anthony, E.J. et al. Sea level since the Last Glacial Maximum from the Atlantic coast of Africa, Nat Commun 16, 1486 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41467-025-56721-0

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

Cambiamento climatico: rondini più piccole ma non per selezione naturale

 Un gruppo di ricercatori dell’Università di Milano ha esaminato le dimensioni corporee di 9000 rondini nidificanti in Pianura Padana dal 1993 al 2023, evidenziando una riduzione della massa corporea e della lunghezza di ali e sterno negli ultimi anni. Lo studio, pubblicato su Journal of Animal Ecology, ipotizza come causa di questa alterazione i cambiamenti ambientali.

 

Milano, 3 aprile 2025 – Più piccole e forse più a rischio. Con l’aumento delle temperature, la dimensione delle rondini è diminuita. Tuttavia, non si tratta di un adattamento evolutivo che garantirebbe un miglior adattamento al clima sempre più caldo in cui si riproducono, ma potrebbe essere una conseguenza di condizioni ambientali peggiorate e compromettere la loro sopravvivenza a lungo termine.

È questa la conclusione a cui è giunto un team di ricercatori del Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università degli Studi di Milano e pubblicato su Journal of Animal Ecology.

La ricerca, condotta sulla popolazione italiana di rondini (Hirundo rustica) nidificanti in Pianura Padana nell’arco di 31 anni (1993-2023) ha evidenziato come in questi decenni si sia verificato un calo significativo nella massa corporea, nella lunghezza dello sterno e delle ali, mentre il becco e le zampe non hanno subito variazioni altrettanto evidenti.

I ricercatori si sono quindi domandati se questa alterazione fosse dovuta a un adattamento evolutivo o se la causa risiedesse in altro. Da un lato, questo cambiamento è in linea con le regole ecogeografiche di Bergmann (dal biologo tedesco Christian Bergmann) e di Allen (Joel Asaph Allen, zoologo e ornitologo statunitense) che mettono in relazione le dimensioni degli animali e delle loro appendici (ad esempio code, zampe, orecchie, becchi) con le condizioni termiche dell’ambiente in cui vivono: nelle regioni calde sono più comuni animali di piccole dimensioni (regola di Bergmann) con appendici corporee estese (regola di Allen), rispetto agli ecosistemi freddi. Gli animali di taglia piccola hanno infatti un rapporto tra superficie e volume maggiore rispetto agli animali più grossi. Questa caratteristica, amplificata dalla presenza di appendici corporee estese, consente una più efficiente dissipazione del calore, un chiaro vantaggio per gli organismi che vivono in ambienti caldi. Il rimpicciolimento del corpo delle rondini, unito alla minima variazione di becco e zampe, sembrerebbe quindi coerente con un adattamento evolutivo all’aumento delle temperature primaverili-estive verificatesi nell’area di studio.

Tuttavia, analizzando i dati relativi all’intera vita di quasi 9000 individui diversi (catturati e misurati in anni successivi), i risultati hanno mostrato che la selezione naturale non favorisce gli individui più piccoli, né in termini di sopravvivenza annuale né di numero di figli prodotti in ciascuna stagione riproduttiva. Al contrario, gli individui più grandi sembrano godere di un vantaggio riproduttivo maggiore, contraddicendo l’idea che la selezione favorisca una riduzione delle dimensioni corporee.

È pertanto probabile che tale fenomeno sia dovuto a una risposta fenotipica plastica (ovvero non causata da cambiamenti genetici come avverrebbe nel caso in cui si trattasse di un processo evolutivo) forse mediata dal deterioramento delle condizioni ecologiche nei luoghi di riproduzione e/o di svernamento, piuttosto che a una selezione naturale diretta verso individui più piccoli” spiega Andrea Romano, professore associato presso il Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università degli Studi di Milano e primo firmatario dello studio.

I ricercatori sono quindi giunti all’ipotesi che i cambiamenti ambientali, come la diminuzione delle risorse alimentari e l’aumento delle temperature estive durante lo sviluppo dei pulcini, possano influenzare significativamente la morfologia delle rondini. Questa ipotesi troverebbe riscontro in altri studi recenti su diverse specie, che mostrano come un aumento significativo della temperatura nel nido porti a dimensioni corporee minori e becchi relativamente più grandi, senza però migliorare la sopravvivenza.

Questi risultati sollevano interrogativi sulla capacità delle specie migratrici di adattarsi ai cambiamenti climatici. Se la diminuzione è una risposta plastica a condizioni ambientali peggiorate, la sopravvivenza a lungo termine delle rondini potrebbe essere compromessa. Lo studio invita quindi alla cautela nell’interpretare sistematicamente la riduzione delle dimensioni corporee degli animali come un adattamento evolutivo al riscaldamento globale. In generale, questi risultati sottolineano l’importanza di monitorare le risposte delle specie ai cambiamenti climatici e di considerare più fattori ambientali quando si analizzano le variazioni fenotipiche nel tempo” conclude Romano.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano

LEONI MARINI DELLE GALAPAGOS – UNA NUOVA CASA PER LEO, IL NUOVO FILM DISNEYNATURE DAL 22 APRILE 2025 IN STREAMING SU DISNEY+ PER LA GIORNATA DELLA TERRA 

La colonna sonora originale composta da Raphaelle Thibaut in arrivo il 22 aprile 2025

Inoltre, anche il film dietro le quinte I Guardiani delle Galapagos debutterà il 22 aprile su Disney+

Leoni marini delle Galapagos – Una nuova casa per Leo Key Art
la Key Art

2 aprile 2025 – Disney+ ha annunciato che il 22 aprile 2025 sarà disponibile sulla piattaforma streaming il nuovo film Disneynature Leoni marini delle Galapagos – Una nuova casa per Leo. Nella versione originale, il lungometraggio è narrato da Brendan Fraser ed esplora l’affascinante mondo delle Galapagos in compagnia di alcune creature terrestri e marine. Sono disponibili il trailer, la key art e le immagini del film.

Dopo essere cresciuto con lezioni di nuoto e battute di pesca, Leo lascia la colonia della madre per trovare la sua casa: i leoni marini maschi devono lottare per conquistare i posti migliori e solo i più forti diventeranno i maschi dominanti. L’eterna ricerca di Leo è piena di sfide e di nuovi incontri con una serie di creature, dalle iguane marine ai colubri neri, dai tonni pinna gialla agli enormi squali delle Galapagos. L’arcipelago è il parco giochi di Leo, sia terrestre che sottomarino, ma deve rimanere vigile per trovare il suo posto nel mondo. Il lungometraggio di Disneynature è diretto da Hugh Wilson, co-diretto da Keith Scholey e prodotto da Wilson, Scholey e Roy Conli; questa avventura presenta le musiche della compositrice Raphaelle Thibaut.

La colonna sonora originale del lungometraggio è composta da Raphaelle Thibaut e sarà disponibile sulle piattaforme di streaming il 22 aprile.

I GUARDIANI DELLE GALAPAGOS IN STREAMING DAL 22 APRILE SU DISNEY+
I Guardiani delle Galapagos di Disneynature, narrato nella versione originale da Blair Underwood, segue nel dietro le quinte la troupe di Leoni marini delle Galapagos – Una nuova casa per Leo per mostrare non solo la produzione del film, ma anche il mondo che lo ha ispirato. Nel tentativo di raccontare la storia di un giovane cucciolo di leone marino di nome Leo, il team di Disneynature combatte il mal di mare, il caldo torrido e le estreme condizioni per le immersioni. I loro sforzi, tuttavia, vengono premiati, poiché riescono a catturare comportamenti inediti dei leoni marini: da cuccioli giocosi ad adulti che cacciano giganteschi tonni pinna gialla. Le sfide globali minacciano l’arcipelago, tra queste le specie invasive, l’inquinamento, la pesca illegale e i fenomeni climatici “El Niño” sempre più frequenti. Il film mette in luce la crescente comunità dei veri Guardiani delle Galapagos, coloro che lavorano per proteggere le isole, sostenendo campagne ambientali, pulendo le spiagge, ripristinando i coralli e aiutando i bambini locali a vivere questo luogo magico. Diretto da Tash Filer e prodotto da Filer, Keith Scholey, Hugh Wilson e Roy Conli, I Guardiani delle Galapagos debutterà in streaming insieme a Leoni marini delle Galapagos – Una nuova casa per Leo il 22 aprile su Disney+.

“I Guardiani delle Galapagos è un viaggio per famiglie, che si snoda intorno a un gruppo di isole magiche”, ha dichiarato la regista Tash Filer. “Il pubblico può aspettarsi di incontrare animali strani e meravigliosi, vivere le avventure dietro le quinte di una troupe cinematografica di storia naturale e sentirsi ispirato dagli straordinari sforzi della comunità locale per preservare le Galapagos per la prossima generazione”.

Testo, video e immagini dagli Uffici Stampa The Walt Disney Company Italia, Opinion Leader, Cristiana Caimmi.

Cambiamenti climatici: oscillazioni termiche ed eventi estremi mettono a rischio gli ecosistemi marini, ecco come il biofilm reagisce alle variazioni di temperatura dell’aria

Lo studio condotto a Calafuria (Livorno) dall’Università di Pisa e dalla Scuola Superiore Sant’Anna pubblicato su Nature Communications.

Gli scogli di Calafuria in provincia di Livorno sono stati il laboratorio naturale al centro di uno studio dell’Università di Pisa e della Scuola Superiore Sant’Anna per capire come i cambiamenti climatici stiano alterando gli ecosistemi marini. La ricerca, pubblicata sulla rivista Nature Communications, ha analizzato come il biofilm – una sottile pellicola vivente formata da microalghe e batteri fondamentale per la vita delle scogliere – reagisce alle variazioni di temperatura dell’aria.

I ricercatori hanno condotto un esperimento sul campo esponendo il biofilm a due diversi regimi termici: un riscaldamento costante e uno caratterizzato da forti oscillazioni, che simula le condizioni imprevedibili destinate a diventare sempre più comuni nel prossimo futuro a causa del cambiamento climatico. I risultati hanno mostrato che un regime costante di riscaldamento favorisce la presenza di specie con funzioni simili, capaci di “darsi il cambio” in caso di difficoltà. Questo meccanismo permette al biofilm di resistere meglio agli eventi estremi. Al contrario, forti oscillazioni di temperatura riducono la diversità favorendo specie a crescita rapida, capaci di riprendersi velocemente dopo uno shock termico, ma più vulnerabili funzionalmente nel lungo periodo.

L’area di Calafuria, nei pressi di Livorno, caratterizzata da piattaforme rocciose di arenaria esposte all’aria durante la bassa marea, ha fornito un ambiente ideale per studiare il biofilm marino in condizioni naturali. Per simulare l’aumento delle temperature, i ricercatori hanno utilizzato speciali camere di metallo riscaldate con piccole stufe, controllando le variazioni di calore con sensori elettronici. Per valutare la risposta del biofilm, è stata usata una fotocamera a infrarossi in grado di rilevare la quantità di clorofilla. Infine, grazie alla collaborazione con l’Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, è stato analizzato il DNA dei microrganismi con tecniche avanzate di sequenziamento, simili a quelle utilizzate per studiare il genoma umano, per capire quali funzioni svolgono le diverse specie e come il loro patrimonio genetico le rende più o meno adatte a rispondere agli eventi estremi.

“Il cambiamento climatico non si manifesta solo attraverso l’aumento medio delle temperature, ma anche con una crescente variabilità termica, cioè oscillazioni imprevedibili tra picchi di calore e periodi meno caldi– dice il professore Luca Rindi dell’Università di Pisa, primo autore dello studio – In un mondo che si prospetta sempre più caldo e instabile, i microrganismi marini potrebbero, da un lato, reagire più rapidamente agli shock, ma dall’altro diventare più vulnerabili di fronte a eventi estremi ripetuti nel tempo. In vista delle sfide che il clima ci riserva, lo studio apre una finestra sul futuro, aiutandoci a capire come questo importante elemento dell’ecosistema costiero reagirà ai cambiamenti climatici.”

“Il successo di questa collaborazione dimostra ancora una volta il valore del sistema universitario pisano – dice il professore Matteo Dell’Acqua, direttore dell’Istituto di Scienze delle Piante della Scuola Sant’Anna e coautore dello studio – l’unione delle competenze uniche presenti sul nostro territorio ci permette di esplorare la frontiera della ricerca sugli effetti del cambiamento climatico”

L’Università di Pisa ha avuto un ruolo centrale nello studio, in particolare attraverso il Dipartimento di Biologia, dove hanno operato alcuni degli autori principali, come i professori Luca Rindi e Lisandro Benedetti-Cecchi. L’ateneo ha inoltre fornito supporto scientifico e logistico per la progettazione e la realizzazione degli esperimenti sul campo, oltre a contribuire all’analisi dei dati ecologici e microbiologici grazie al supporto fornito dal Green Data Center.

Il progetto è stato finanziato in parte dal programma europeo ACTNOW (Advancing understanding of Cumulative Impacts on European marine biodiversity, ecosystem functions and services for human wellbeing), che si occupa di studiare gli impatti cumulativi dei cambiamenti climatici sugli ecosistemi marini.

gli scogli di Calafuria cambiamenti climatici ecosistemi marini biofilm
Cambiamenti climatici: oscillazioni termiche ed eventi estremi mettono a rischio gli ecosistemi marini, ecco come il biofilm reagisce alle variazioni di temperatura dell’aria; lo studio pubblicato su Nature Communications. In foto, gli scogli di Calafuria

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

Erosione costiera in Italia dal 1984 al 2024: sino a 10 metri in meno l’anno, a rischio il 66% dei delta fluviali

Lo studio del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista Estuarine, Coastal and Shelf Science.

Due terzi dei principali fiumi italiani è attualmente a rischio erosione con arretramenti della costa che arrivano sino a 10 metri l’anno. Il quadro emerge da uno studio pubblicato sulla rivista “Estuarine, Coastal and Shelf Science” e condotto dalla professoressa Monica Bini e dal dottor Marco Luppichini del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa. La ricerca ha analizzato i cambiamenti delle coste sabbiose italiane negli ultimi 40 anni, dal 1984 al 2024, con particolare attenzione ai delta fluviali.

Utilizzando un software che analizza immagini satellitari, Bini e Luppicchini hanno ricostruito l’evoluzione della costa italiana. Il risultato è che il 66% dei 40 principali fiumi italiani è  soggetto all’erosione costierapercentuale che sale 100% se si escludono le aree protette da difese artificiali.

Il cambiamento climatico sta avendo un impatto significativo sull’evoluzione delle coste italiane – spiega Marco Luppichini – in particolare incidono la diminuzione delle precipitazioni e l’aumento degli eventi meteorologici estremi che alterano il ciclo idrologico e la capacità dei corsi d’acqua di trasportare sedimenti fino alla costa. A questo si aggiungono l’innalzamento del livello del mare, che contribuisce alla scomparsa di tratti di litorale, e l’incremento della temperatura delle acque superficiali del Mediterraneo che intensifica tempeste e mareggiate, accelerando il processo erosivo e riducendo la resilienza delle spiagge”.

Secondo lo studio, le aree più a rischio erosione sono il delta del Po, il Serchio, l’Arno,  e l’Ombrone in Toscana e il delta del Sinni in Basilicata, tutte zone caratterizzate da un forte arretramento della linea di costa e da una significativa perdita di sedimenti dovuta a fattori climatici e antropici.

Il delta del Po è una delle zone più vulnerabili a causa dell’innalzamento del livello del mare e della riduzione del trasporto sedimentario. Nonostante alcune aree mostrino avanzamenti della costa, molte parti registrano un progressivo arretramento, in particolare nei settori meno protetti da opere artificiali. In Toscana le foci dell’Arno e del Serchio sono soggette ad un arretramento costante di 2-3 metri l’anno mentre il delta dell’Ombrone registra una delle situazioni più critiche, con tassi di erosione fino a 5-6 metri l’anno. La ridotta disponibilità di sedimenti, dovuta a modifiche antropiche lungo il corso del fiume, e l’aumento delle mareggiate rende infatti questa zona particolarmente fragile, mettendo a rischio gli ecosistemi del Parco della Maremma e le attività economiche legate al turismo e all’agricoltura. Il delta del Sinni, in Basilicata, rappresenta infine uno dei casi più estremi, con un’erosione che supera i 10 metri l’anno, una delle più alte in Italia.

“È chiara l’urgenza di adottare strategie sostenibili per gestire le coste, mitigare gli effetti dell’erosione e proteggere le aree più fragili – conclude Luppichini – grazie al nostro studio abbiamo realizzato un database omogeneo per l’intero territorio nazionale così da aiutare una possibile pianificazione degli interventi a difesa delle zone più a rischio, come i delta fluviali, veri e propri “hotspot” della crisi climatica in corso”.

Riferimenti bibliografici:

Marco Luppichini, Monica Bini, 40-Year shoreline evolution in Italy: Critical challenges in river delta regions, Estuarine, Coastal and Shelf Science, Volume 315, 2025, 109166, ISSN 0272-7714, DOI: https://doi.org/10.1016/j.ecss.2025.109166

Parco regionale veneto del Delta del Po: il Delta del fiume Po a Boccasette Porto Tolle (Rovigo). Foto di Nicola Quirico, CC BY-SA 3.0
Erosione costiera in Italia dal 1984 al 2024: sino a 10 metri in meno l’anno, a rischio il 66% dei delta fluviali; lo studio su Estuarine, Coastal and Shelf Science. In foto, dal Parco regionale veneto del Delta del Po: il Delta del fiume a Boccasette Porto Tolle (Rovigo). Foto di Nicola Quirico, CC BY-SA 3.0

Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

L’influenza dei cambiamenti climatici sulle strategie riproduttive delle piante: uno studio dell’Università di Pisa traccia l’evoluzione dei semi negli ultimi 150 milioni di anni

La ricerca pubblicata sulla rivista New Phytologist

Uno studio dell’Università di Pisa ha tracciato l’evoluzione dei semi negli ultimi 150 milioni di anni evidenziando una relazione diretta tra evoluzione, cambiamento del clima terrestre e comparsa di innovazioni riproduttive nelle angiosperme, le piante a fiore maggiormente diffuse sul nostro pianeta. La ricerca condotta dal professore Angelino Carta dell’Ateneo pisano e da Filip Vandelook del Giardino botanico Meise in Belgio è stata pubblicata sulla rivista New Phytologist.

L’analisi ha riguardato i semi di 900 specie rappresentative di tutte le famiglie di angiosperme di cui è stato valutato il rapporto fra dimensioni dell’embrione e riserve nutritive. Dai risultati è emerso che i cambiamenti del clima della Terra hanno portato a un’ampia diversificazione, permettendo alle angiosperme di esplorare nuove strategie riproduttive e di adattarsi a habitat sempre più vari.

“Non sappiamo se i nuovi tipi di semi hanno favorito tale diversificazione oppure se i nuovi tipi di semi son comparsi in conseguenza di essa. Certamente però, ed è la cosa più affascinante – spiega Carta – l’innovazione evolutiva dei semi, coincide con la comparsa dei principali modelli strutturali dei fiori contribuendo a spingere la biodiversità moderna verso cambiamenti epocali denominati Rivoluzione Terrestre delle Angiosperme”.

La condizione ancestrale delle piante era quella di avere semi con embrioni relativamente piccoli, tendenza che ha avuto poche variazioni sino a quando le temperature medie globali sono state alte, sopra i 25 °C. Quando le temperature globali sono diminuite, con temperature intorno ai 15 °C, l’evoluzione ha favorito semi con embrioni più grandi che tendono infatti a germinare più rapidamente, un vantaggio in ambienti secchi o soggetti a condizioni imprevedibili. E tuttavia, come è emerso dallo studio, questo sviluppo non esaurisce la storia evolutiva dei semi che piuttosto ha avuto un andamento “a salti”. Semi con maggiori riserve nutritive e minori dimensioni dell’embrione mantengono infatti il vantaggio di ritardare la germinazione e aumentare le possibilità di sopravvivenza, soprattutto in ambienti come le foreste e gli habitat umidi.

“Questa ricerca è stata una sfida materiale e virtuale che non solo aiuta a comprendere il passato evolutivo delle piante a fiore, ma potrebbero anche fornire informazioni importanti su come risponderanno ai cambiamenti climatici futuri – conclude Angelino Carta, del Dipartimento di Biologia – la sfida materiale è iniziata diversi anni fa quando abbiamo iniziato, guidati da Filip Vandelook ad assemblare il più grande dataset relativo alle caratteristiche dimensionali e strutturali dei semi, utilizzando sia a materiale vivo ma anche valorizzando materiale conservato in erbari e banche semi; la sfida virtuale è stata gestire e analizzare questa mole di informazioni per ricostruire gli ultimi 150 milioni di anni di storia evolutiva dei semi attraverso sofisticati approcci analitici e le risorse del centro di calcolo dell’Ateneo pisano”.

Link articolo scientifico: https://doi.org/10.1111/nph.20445

Immagine di mxwegele

Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.