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PALMA DI GOETHE: ALL’ORTO BOTANICO DELL’UNIVERSITÀ DI PADOVA È STATO SEQUENZIATO IL SUO GENOMA

È il primo sequenziamento genomico di alta qualità a livello cromosomico della palma nana del Mediterraneo, unica nativa dell’Europa continentale e specie con la distribuzione più a nord tra tutte le palme. Nel suo DNA vi sono molte sequenze ripetute: tracce di antichi adattamenti.

È stato pubblicato su «Scientific Data» con il titolo Chromosome-level assembly of the 400-year-old Goethe’s Palm (Chamaerops humilis L.) lo studio, coordinato da Francesco Dal Grande dell’Università di Padova e frutto della collaborazione con il Centro per la Biodiversità Genomica di Francoforte e altri partner internazionali, in cui è stato effettuato il primo sequenziamento genomico di alta qualità a livello cromosomico della palma nana del Mediterraneo ed è stato effettuato sulla “Palma di Goethe” all’Orto Botanico dell’Università di Padova.

Il rapido declino della biodiversità globale mette in luce la necessità di aumentare gli sforzi di conservazione. I giardini botanici di tutto il mondo svolgono un ruolo cruciale nella conservazione ex situ delle piante. In particolare, le piante monumentali hanno un grande valore ecologico e culturale, che deve essere tutelato.

L’esemplare di palma nana o palma di San Pietro (Chamaerops humilis L.), messa a dimora nel 1585, è la pianta più antica dell’Orto botanico di Padova ed è nota come Palma di Goethe. Dopo averla ammirata il 27 settembre 1786, infatti, il poeta tedesco ne trae ispirazione per formulare una intuizione evolutiva nel suo saggio La metamorfosi delle piante del 1790, legando così il suo nome a quello della palma “padovana”, per sempre. Nel tempo, la Palma di Goethe è diventata simbolo del legame profondo tra scienza, cultura e natura. La palma nana cresce spontaneamente lungo le coste del Mediterraneo occidentale in formazioni a macchia degradata, spesso in luoghi inaccessibili per sfuggire allo sfruttamento e sottrarsi così alle azioni invasive messe in atto dall’essere umano. Eredità della flora italiana del Terziario (circa 65 milioni di anni fa), attualmente è l’unica specie di palma autoctona a essere sopravvissuta alle glaciazioni che hanno colpito l’Europa fino a 12.000 anni fa.

«Oggi, quasi 240 anni dopo, siamo ripartiti dalla stessa palma per intraprendere un nuovo viaggio. Lo abbiamo fatto in collaborazione con il Centro di Biodiversità Genomica di Francoforte sul Meno, in Germania. La città natale di Goethe, appunto. E abbiamo ottenuto un genoma di altissima qualità. All’Orto botanico dell’Università di Padova abbiamo sequenziato il genoma della Palma di Goethe, la palma coltivata più antica preservata in un orto botanico», spiega Francesco Dal Grande, docente di Botanica sistematica ed Ecologia applicata al Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova. «Si tratta del primo genoma della palma nana del Mediterraneo, Chamaerops humilis, l’unica palma nativa dell’Europa continentale e la specie con la distribuzione più a nord tra tutte le palme. Nel nostro studio abbiamo scoperto che nel suo DNA vi sono tantissime sequenze ripetute: tracce di antichi adattamenti che, molto probabilmente, hanno permesso alla specie di adattarsi a climi aridi e caldi, come quelli del Mediterraneo. Il genoma ottenuto ci ha permesso anche di svelare un segreto storico: l’origine di questa pianta», continua Dal Grande. «I dati genomici indicano chiaramente un legame tra questa palma e le popolazioni dell’area occidentale del Mediterraneo, la Penisola Iberica e il Marocco. Questo è un esempio di come il DNA possa nutrire la storia, qualora i documenti da soli non bastassero. In un’epoca di forte declino della biodiversità, conoscere in maniera così approfondita il genoma di una specie diventa un vantaggio, uno strumento in più e molto potente per capirla, proteggerla e conservarla nel tempo».

«Grazie alla ricerca pubblicata oggi sappiamo di più sul nostro simbolo, la Palma di Goethe del 1585, e sulla sua provenienza – dice Tomas Morosinotto, Prefetto dell’Orto Botanico -. Utilizzando i metodi più attuali di analisi possiamo capire come la pianta più antica del nostro Orto botanico si è adattata a un clima che non era il suo: uno studio attuale su una pianta con più di quattro secoli di storia, nell’epoca del cambiamento climatico».

In questo nuovo studio, Dal Grande e colleghi presentano il primo assemblaggio genomico di alta qualità, a livello cromosomico, di Chamaerops humilis L., ottenuto grazie a tecnologie all’avanguardia che consentono di leggere e organizzare il DNA con estrema precisione (PacBio HiFi e Arima Hi-C). Ad oggi, questo genoma è il più contiguo e completo all’interno della famiglia delle Arecaceae, con un contenuto di sequenze ripetute dell’88%, di cui il 63% è attribuito agli elementi Long Terminal Repeat (LTR). Un contenuto così elevato di sequenze ripetute ci dice che il genoma è stato modellato da pressioni evolutive intense, probabilmente legate al clima mediterraneo.

Lo studio presenta anche la prima analisi completa dei microRNA in una palma. I microRNA sono piccole molecole regolatorie che controllano quali geni vengono attivati o disattivati. È stata identificata per la prima volta nelle palme la famiglia miR827, che nelle piante aiuta a regolare l’assorbimento di nutrienti fondamentali come il fosforo e l’azoto. Trovare una famiglia di microRNA finora sconosciuta nelle palme apre nuove strade per capire come le piante rispondano a stress ambientali e carenze nutrizionali.

Infine, grazie all’analisi dei microsatelliti – brevi sequenze ripetute di DNA utilizzate per tracciare le origini genetiche – i ricercatori hanno scoperto che l’esemplare patavino condivide affinità con popolazioni dell’area occidentale del Mediterraneo, in particolare tra Marocco e Penisola Iberica.

Questi risultati rappresentano un significativo progresso nella genomica della conservazione della specie e gettano le basi per nuove strategie di conservazione: in questo scenario i giardini botanici sono e, sempre di più, saranno attori protagonisti nella salvaguardia della biodiversità globale.

 

Riferimenti bibliografici: 

Beltran-Sanz, N., Prost, S., Malavasi, V. et al.Chromosome-level assembly of the 400-year-old Goethe’s Palm (Chamaerops humilis L.), Scientific Data, 12, 1542 (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41597-025-05673-7

Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

Parassiti del melo: approcci innovativi e sostenibili dalla ricerca internazionale da due progetti tra Alto Adige, Germania e Lussemburgo

Un gruppo di ricerca coordinato dal prof. Hannes Schuler del Centro di competenza per la salute delle piante è coinvolto in nuovi progetti internazionali di ricerca volti a individuare alternative innovative e sostenibili nella lotta contro le malattie del melo. A maggio hanno preso il via due progetti congiunti con partner in Germania e Lussemburgo. L’obiettivo? Comprendere meglio il ruolo degli insetti vettori e dei batteri simbionti nella trasmissione di patogeni che causano gli scopazzi del melo.

Gli scopazzi del melo sono una delle fitopatie più problematiche per la melicoltura altoatesina da oltre vent’anni. Causata da fitoplasmi, batteri privi di parete cellulare, la malattia si trasmette attraverso insetti fitofagi (che si nutrono della linfa o dei contenuti cellulari delle piante), in particolare le psille. Tali insetti, nutrendosi della linfa di piante infette, possono acquisire i fitoplasmi, che si replicano al loro interno e vengono poi trasmessi ad altre piante sane durante l’alimentazione.

Nel progetto VectoRise — una collaborazione tra unibz, l’Istituto di Scienza e Tecnologia del Lussemburgo (Luxembourg Institute of Science and Technology) e l’istituto tedesco RLP AgroScience — l’attenzione dei ricercatori si concentra sul ruolo della psilla del biancospino.

« In Germania, questa specie non è rilevante per la trasmissione dei fitoplasmi ma i nostri studi precedenti hanno dimostrato che in Alto Adige è in grado di acquisire e probabilmente anche trasmettere il patogeno», spiega il prof. Hannes Schuler.  «Comprendere i fattori alla base di queste differenze regionali nell’efficienza vettoriale è essenziale per sviluppare alternative più sostenibili agli insetticidi».

Nella collaborazione, il team unibz si occuperà di genomica, studiando quali geni influenzano la capacità dell’insetto di acquisire e trasmettere i fitoplasmi. I ricercatori lussemburghesi analizzeranno invece se le variazioni regionali della psilla modificano la trasmissibilità del patogeno e se l’aumento delle temperature legato al cambiamento climatico possa accelerarne la diffusione.

Struttura sperimentale di un esperimento di trasmissione del fitoplasma
Parassiti del melo: approcci innovativi e sostenibili dalla ricerca internazionale da due progetti tra Alto Adige, Germania e Lussemburgo. Struttura sperimentale di un esperimento di trasmissione del fitoplasma

Un viaggio nel tempo attraverso centinaia di milioni di anni

Un secondo progetto congiunto, sviluppato dalla Facoltà di Scienze Agrarie, Ambientali e Alimentari insieme alla Deutsche Forschungsgemeinschaft (DFG), al Max-Planck-Institut di Jena, alla Martin-Luther-Universität di Halle-Wittenberg e al Naturmuseum di Berlino, esplora la storia evolutiva della simbiosi tra psille e batteri. Questi microrganismi forniscono nutrienti essenziali agli insetti fitofagi come aminoacidi assenti nella linfa vegetale, e rappresentano un elemento chiave per la sopravvivenza degli insetti vettori.

Combinando sequenziamento genomico, ricostruzioni filogenetiche e microscopia a fluorescenza, gli scienziati studieranno oltre cento specie di psille per comprendere le dinamiche della coevoluzione con i loro simbionti batterici.

«Questo progetto – conclude Schuler – non solo approfondirà la nostra conoscenza delle interazioni insetto-microbo, ma potrà offrire strumenti concreti per bloccare la trasmissione di malattie vegetali».

il prof. Hannes Schuler
il prof. Hannes Schuler

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa e organizzazione eventi Libera Università di Bolzano – Freie Universität Bozen

“La Natura che cura”: una serra sensoriale per il benessere delle persone con Alzheimer; al via la campagna di BiUniCrowd

Il quarto progetto dell’edizione 2025 nasce per migliorare la vita delle persone affette da Alzheimer e altre forme di demenza grazie alla creazione di una serra sensoriale e un giardino, entrambi co-progettati con la partecipazione degli ospiti stessi.

Milano, 8 maggio 2025 – I benefici terapeutici del verde a disposizione delle persone con malattia di Alzheimer e altre forme di demenza, in spazi pensati e allestiti in modo sicuro e stimolante all’interno del “Paese Ritrovato”, il primo villaggio italiano dedicato alla cura di queste patologie, nato a Monza nel 2018. Questa è l’idea del gruppo di ricercatori di Milano-Bicocca dal nome evocativo “La Natura che cura”, proposta nell’ambito del programma di crowdfunding dell’Ateneo, BiUniCrowd.

1_Team di ricerca La Natura che cura
Team di ricerca La Natura che cura

L’iniziativa nasce dalla sinergia tra La Meridiana Cooperativa Sociale, botanici e medici dell’Università di Milano-Bicocca e un team multidisciplinare che include architetti paesaggisti ed educatori, e ha già ottenuto il prezioso sostegno di a2a.

Il progetto prevede la creazione di una serra sensoriale e di un giardino, spazi co-progettati con la partecipazione degli ospiti del villaggio stesso, per garantire un ambiente terapeutico personalizzato. Dopo una prima fase di progettazione partecipata della serra sensoriale, seguirà la costruzione e l’allestimento, con monitoraggi e raccolta dati fino al dodicesimo mese.

Obiettivo dell’iniziativa è promuovere il benessere psicofisico degli ospiti attraverso attività sensoriali e di giardinaggio. Grazie a questa iniziativa, sarà possibile anche supportare la ricerca scientifica sul miglioramento della qualità di vita per chi vive con l’Alzheimer e offrire all’intera comunità uno spazio protetto, stimolante e inclusivo.

Per rendere possibile tutto questo, il progetto cerca sostegno grazie alla raccolta fondi che si avvale dell’aiuto di Ideaginger.it, la piattaforma con il tasso più alto di successo in Italia. Il primo obiettivo è raggiungere 10.000€, ma ogni donazione in più verrà reinvestita per ampliare e migliorare ulteriormente l’iniziativa.

2. Il team di ricerca La Natura che cura
Il team di ricerca La Natura che cura, progetto per migliorare la vita delle persone affette da Alzheimer e altre forme di demenza

Per ogni donazione è prevista una ricompensa, tra cui: una E-card naturalistica di ringraziamento personalizzato; “Let Love Grow”, una busta contenente semi, simbolo di crescita e speranza, con i consigli dei botanici; la dedica di una pianta del Paese Ritrovato più una passeggiata botanica ai Giardini Reali di Monza; una menzione nel pannello dei donatori.

«Grazie al coinvolgimento degli ospiti e dei loro familiari – sottolinea Rodolfo Gentili, botanico e responsabile del team di ricerca – il progetto non solo offrirà un ambiente terapeutico, ma raccoglierà dati scientifici per comprendere meglio l’impatto degli spazi verdi sul benessere psico-fisico delle persone con demenza.»

3. Il prof. Rodolfo Gentili, botanico e responsabile del progetto
Il prof. Rodolfo Gentili, botanico e responsabile del progetto

Il team di “La Natura che cura”, oltre a Gentili, è composto da: Sandra Citterio e Lara Quaglini, entrambe botaniche, che coadiuveranno la raccolta di dati, la progettazione del giardino e della serra e la campagna di crowdfunding. Il supporto scientifico, la raccolta e interpretazione di dati biomedici nella fase di co-progettazione con gli ospiti della struttura, sarà gestito invece dai medici geriatri Giuseppe Bellelli e Paolo Mazzola, del Dipartimento di Medicina e Chirurgia. Per La Meridiana, ci saranno tra gli altri Mariella Zanetti, medico geriatra, Luca Pozzi, educatore e responsabile Area Green de “Il Paese Ritrovato” e Claudia Giorgetti, esperta di comunicazione. Infine, il team ha previsto anche un project manager, specificatamente per l’area di Monza e Milano e l’intervento di un architetto paesaggista, esperto nella progettazione di spazi verdi.

4_Piantine per la serra sensoriale
Piantine per la serra sensoriale

Testo e immagini dall’Ufficio stampa Università di Milano-Bicocca.

Alla riscoperta del fico, coltura strategica per aumentare sostenibilità e produttività del bacino del Mediterraneo

L’Università di Pisa capofila del progetto europeo AGROFIG con il gruppo di ricerca in genomica vegetale del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali

È una risorsa preziosa per la sua capacità di adattarsi a condizioni difficili, le sue radici vanno in profondità riducendo l’erosione, attira impollinatori e fauna selvatica, contribuendo alla biodiversità, i suoi frutti creano opportunità economiche per i piccoli agricoltori, il suo forte valore culturale è una leva per il turismo rurale. Tutte queste caratteristiche rendono il fico una pianta strategica per il futuro del bacino mediterraneo. Per valorizzarlo al meglio in termini di sostenibilità e produttività è appena partito AGROFIG – Fostering agroforestry benefits through fig tree cultivation in the Mediterranean un nuovo progetto europeo promosso da PRIMA (Partnership for research and innovation in the Mediterranean area) e guidato dall’Università di Pisa con il gruppo di ricerca in genomica vegetale del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali in prima fila.

Utilizzare colture arboree resistenti alle condizioni ambientali avverse causate dai cambiamenti climatici è fondamentale – dice il responsabile di AGROFIG, Tommaso Giordani, professore associato di genetica agraria dell’Ateneo pisano – Il fico ha una grande capacità di adattarsi ad ambienti secchi, calcarei e salini, il che rende questa specie estremamente utile nella regione del Mediterraneo”.

“Malgrado la coltura del fico sia antichissima e raccontata anche nella Bibbia e che l’Italia sia stato fino alla fine degli anni ’60 il maggior produttore mondiale, negli ultimi decenni la produzione si è ridotta notevolmente – continua Giordani – il nostro obiettivo è di usare tecniche genomiche per caratterizzare e selezionare le varietà migliori e rilanciare questa coltura arborea particolarmente resiliente e ricca dal punto di vista nutrizionale”.

A livello scientifico, il gruppo dell’Ateneo pisano analizzerà la variabilità genetica delle varietà italiane di fico, oltre a valutare l’impatto di questa coltivazione a livello agronomico, economico e di microbiologia del terreno in associazione con altre specie erbacee come leguminose e altre foraggere.

AGROFIG finanziato per tre anni con oltre 850mila euro prosegue il lavoro avviato con FIGGEN, un altro progetto sul fico sempre coordinato da Giordani. Il gruppo di genomica vegetale di cui fa parte in questi anni ha approfondito lo studio di questa specie con varie pubblicazioni scientifiche. L’ultima nel febbraio 2025 sulla rivista The Plant Journal, una delle più prestigiose nel campo della biologia vegetale, ha esteso le conoscenze sul genoma del fico, già affrontata in un precedente lavoro del 2020 sulla stessa rivista.

Sono inoltre coinvolti in AGROFIG anche altri docenti del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali: Daniele Antichi della sezione di Agronomia, Monica Agnolucci della sezione di Microbiologia agraria, Gianluca Brunori della sezione di Economia Agraria. Gli altri partner del progetto sono sono il Centro di ricerca scientifica e tecnologica dell’Estremadura (CICYTEX) in Spagna, l’Università di Tunisi El Manar (UTM) in Tunisia, l’Università Aydın Adnan Menderes (ADU) in Turchia, l’Azienda Agricola dimostrativa “I giardini di Pomona” (AAP) di Brindisi, Italia.

Il gruppo di genomica vegetale del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali. Da sinistra: Alberto Vangelisti, Andrea Cavallini, Marco Castellacci, Flavia Mascagni, Samuel Simoni, Lucia Natali, Gabriele Usai, Tommaso Giordani
Alla riscoperta del fico, coltura strategica per aumentare sostenibilità e produttività del bacino del Mediterraneo, con il progetto AGROFIG – Fostering agroforestry benefits through fig tree cultivation in the Mediterranean. Il gruppo di genomica vegetale del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali. Da sinistra: Alberto Vangelisti, Andrea Cavallini, Marco Castellacci, Flavia Mascagni, Samuel Simoni, Lucia Natali, Gabriele Usai, Tommaso Giordani

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

Nuovo censimento della flora delle Alpi apuane: segnalate 3 nuove specie per la Toscana e 141 a rischio estinzione

Il lavoro firmato dal professor Lorenzo Peruzzi dell’Università di Pisa.

Tre nuove specie segnalate per la Toscana e 141 inserite nella “Lista Rossa Nazionale” delle piante a rischio di estinzione, il dato emerge dall’ultimo censimento della flora delle Alpi apuane realizzato dal professore Lorenzo Peruzzi del Dipartimento di Biologia e Direttore dell’Orto e Museo Botanico dell’Università di Pisa.

Il lavoro, pubblicato nella rivista Italian Botanist, ha documentato un totale di 1987 tra specie e sottospecie, di cui 130 aliene, in un’area ampia 1056 km². Le nuove specie sono: le native Vulneraria piccolina (Anthyllis vulneraria subsp. pulchella) e Pigamo dei sassi (Thalictrum minus subsp. saxatile) e l’esotica casuale Fior di pesco (Chaenomeles speciosa). Fra quelle a rischio estinzione si segnalano le tre specie gravemente minacciate: l’Atamanta di Corti (Athamanta cortiana), un’ombrellifera endemica apuana che vive esclusivamente su rupi di marmo, fiorendo raramente; l’Erba-unta di Maria (Pinguicula mariae), una graziosa pianta carnivora endemica apuana, dedicata alla studiosa Maria Ansaldi, scomparsa prematuramente nel 2013; la Felcetta atlantica (Vandenboschia speciosa), rara felce presente in Italia solo sulle Alpi Apuane, rappresentata anche nel logo del Parco Regionale delle Alpi Apuane.

Nel territorio sono inoltre presenti 93 specie endemiche italiane, cioè che esistono in tutto il mondo solo in Italia, di cui 30 endemiche delle Alpi Apuane.

La flora delle Alpi Apuane è particolarmente ricca, al di sopra dell’atteso per un’area di quell’ampiezza per quanto riguarda il numero di specie autoctone, ma fortunatamente anche al di sotto dell’atteso per il numero di specie aliene – afferma Lorenzo Peruzzi – In particolare, la maggiore ricchezza floristica si concentra sulle colline e montagne al di sopra delle città di Massa e di Carrara, che purtroppo però sono anche le zone maggiormente impattate dalle cave di marmo”.

Lo studio aggiorna alcuni censimenti realizzati in passato. Le Alpi Apuane, per le loro peculiarità geomorfologiche e biogeografiche, hanno infatti da sempre attratto l’interesse dei botanici. Un primo elenco completo di tutte le felci, conifere e piante a fiore di quest’area fu pubblicata da Pietro Pellegrini nel 1942, aggiornato poi da Erminio Ferrarini tra il 1994 e il 2000. In entrambi i casi, però, gli elenchi floristici ricavati erano relativi a un territorio diverso e più ampio, per cui un vero e proprio elenco floristico aggiornato e mirato alle sole Alpi Apuane ancora non esisteva.

“Per dare un’idea della mole del lavoro svolto, basti pensare che l’elenco completo della flora che abbiamo reso disponibile come appendice all’articolo è di ben 936 pagine – racconta Peruzzi – ha collaborato all’opera Brunello Pierini, appassionato esperto di botanica, ben esemplificando l’importanza della cosiddetta Citizen Science in questo tipo di studi”.

“Le Alpi Apuane sono obiettivamente ricche – conclude Lorenzo Peruzzi – non resta che auspicare, quindi, una adeguata tutela di questo eccezionale territorio, un vero e proprio gioiello dal punto di vista botanico in particolare e naturalistico in generale”.

Il lavoro fa parte delle attività di ricerca svolte nell’ambito del progetto 3P_earthBIODIV, un importante finanziamento alla ricerca di base ottenuto dal nostro ateneo nell’ambito di un bando a cascata del National Biodiversity Future Center. Il progetto, che vede fortemente impegnato il gruppo di ricerca PLANTSEED Lab dell’Università di Pisa per tutto il 2025, prevede l’esplorazione di territori poco conosciuti o con flore mancanti o non aggiornate e uno studio tassonomico integrato di gruppi critici della flora italiana, con particolare attenzione alla componente endemica.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

Gestione delle specie aliene, l’approccio italiano che piace anche alla comunità europea

La professoressa Iduna Arduini dell’Università di Pisa nel team che ha sviluppato la nuova metodologia

È tutto italiano il nuovo approccio per gestire l’invasione delle piante aliene recentemente segnalato anche sul sito web della Commissione Europea (section Energy, Climate change, Environment).

La ricerca pubblicata sulla rivista Ecological Indicators è stata condotta da un gruppo interdisciplinare di esperti provenienti da diverse istituzioni accademiche e centri di ricerca italiani. Per l’Università di Pisa ha partecipato la professoressa Iduna Arduini, botanica del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali che ha contribuito principalmente attraverso la raccolta e l’analisi dei dati sulle specie vegetali invasive.

Usando l’Italia come caso di studio, scienziati e scienziate hanno esaminato la diffusione attuale e futura di 34 piante invasive, integrando modelli predittivi climatici con dati reali di distribuzione. Sulla base dei risultati ottenuti, le piante sono state assegnate a tre categorie di gestioneeradicazione (per specie con alto rischio di invasione, ma ancora in fase iniziale), controllo e contenimento (per specie già diffuse, ma ancora gestibili) e monitoraggio, per specie già ampiamente diffuse o con impatti incerti. Grazie a questa metodologia sarà quindi possibile un approccio più efficace nella lotta alle piante invasive, prevenendo danni ambientali e ottimizzando l’uso delle risorse.

“Fortunatamente, non tutte le specie aliene diventano invasive – spiega Arduini – Ad esempio, delle 1597 specie vegetali aliene censite in Italia, soltanto il 14% circa ha manifestato un comportamento invasivo. Diventa perciò di cruciale importanza individuare quelle su cui indirizzare le azioni di eradicazione, controllo o semplice monitoraggio. Gli interventi di eradicazione sono raccomandati per le specie potenzialmente invasive ma non ancora ampiamente diffuse. Tra queste compaiono Nelumbo nucifera (fior di loto) e Phyllostachys aurea (bambù dorato) entrambe specie ornamentali il cui rilascio nell’ambiente deve essere assolutamente evitato sia sotto forma di semi che frammenti”.

 Iduna Arduini
Gestione delle specie aliene, l’approccio italiano che piace anche alla comunità europea; la ricerca pubblicata sulla rivista Ecological Indicators. Iduna Arduini

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

L’influenza dei cambiamenti climatici sulle strategie riproduttive delle piante: uno studio dell’Università di Pisa traccia l’evoluzione dei semi negli ultimi 150 milioni di anni

La ricerca pubblicata sulla rivista New Phytologist

Uno studio dell’Università di Pisa ha tracciato l’evoluzione dei semi negli ultimi 150 milioni di anni evidenziando una relazione diretta tra evoluzione, cambiamento del clima terrestre e comparsa di innovazioni riproduttive nelle angiosperme, le piante a fiore maggiormente diffuse sul nostro pianeta. La ricerca condotta dal professore Angelino Carta dell’Ateneo pisano e da Filip Vandelook del Giardino botanico Meise in Belgio è stata pubblicata sulla rivista New Phytologist.

L’analisi ha riguardato i semi di 900 specie rappresentative di tutte le famiglie di angiosperme di cui è stato valutato il rapporto fra dimensioni dell’embrione e riserve nutritive. Dai risultati è emerso che i cambiamenti del clima della Terra hanno portato a un’ampia diversificazione, permettendo alle angiosperme di esplorare nuove strategie riproduttive e di adattarsi a habitat sempre più vari.

“Non sappiamo se i nuovi tipi di semi hanno favorito tale diversificazione oppure se i nuovi tipi di semi son comparsi in conseguenza di essa. Certamente però, ed è la cosa più affascinante – spiega Carta – l’innovazione evolutiva dei semi, coincide con la comparsa dei principali modelli strutturali dei fiori contribuendo a spingere la biodiversità moderna verso cambiamenti epocali denominati Rivoluzione Terrestre delle Angiosperme”.

La condizione ancestrale delle piante era quella di avere semi con embrioni relativamente piccoli, tendenza che ha avuto poche variazioni sino a quando le temperature medie globali sono state alte, sopra i 25 °C. Quando le temperature globali sono diminuite, con temperature intorno ai 15 °C, l’evoluzione ha favorito semi con embrioni più grandi che tendono infatti a germinare più rapidamente, un vantaggio in ambienti secchi o soggetti a condizioni imprevedibili. E tuttavia, come è emerso dallo studio, questo sviluppo non esaurisce la storia evolutiva dei semi che piuttosto ha avuto un andamento “a salti”. Semi con maggiori riserve nutritive e minori dimensioni dell’embrione mantengono infatti il vantaggio di ritardare la germinazione e aumentare le possibilità di sopravvivenza, soprattutto in ambienti come le foreste e gli habitat umidi.

“Questa ricerca è stata una sfida materiale e virtuale che non solo aiuta a comprendere il passato evolutivo delle piante a fiore, ma potrebbero anche fornire informazioni importanti su come risponderanno ai cambiamenti climatici futuri – conclude Angelino Carta, del Dipartimento di Biologia – la sfida materiale è iniziata diversi anni fa quando abbiamo iniziato, guidati da Filip Vandelook ad assemblare il più grande dataset relativo alle caratteristiche dimensionali e strutturali dei semi, utilizzando sia a materiale vivo ma anche valorizzando materiale conservato in erbari e banche semi; la sfida virtuale è stata gestire e analizzare questa mole di informazioni per ricostruire gli ultimi 150 milioni di anni di storia evolutiva dei semi attraverso sofisticati approcci analitici e le risorse del centro di calcolo dell’Ateneo pisano”.

Link articolo scientifico: https://doi.org/10.1111/nph.20445

Immagine di mxwegele

Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

Censita per la prima volta la flora del Comune di Pisa, in totale sono presenti 1404 specie di cui 112 aliene

La ricerca dell’Università di Pisa pubblicata sulla rivista Plants rivela una ricca diversità floristica, anche se le specie aliene superano le aspettative

La città di Pisa rappresenta un po’ la culla della Botanica moderna: nel 1543, durante il Rinascimento, proprio all’Università venne fondato il primo Orto Botanico accademico al mondo. Ma nonostante questa illustre storia, ancora oggi mancava un elenco completo di tutte le specie e sottospecie di piante vascolari (felci, conifere, piante a fiore) che crescono spontaneamente nel Comune di Pisa.

Censita per la prima volta la flora del Comune di Pisa. Gallery

A colmare questa lacuna è stato un gruppo di botanici dell’Università di Pisa, Lorenzo Peruzzi, Gianni Bedini Jacopo Franzoni del Dipartimento di BiologiaIduna Arduini del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali a cui si è aggiunto Brunello Pierini, studioso appassionato della materia. Il risultato è stata una ricerca appena pubblicata sulla rivista internazionale Plants che ha censito nel Comune di Pisa un totale di 1404 tra specie e sottospecie, di cui 112 aliene.

“Nonostante la marcata urbanizzazione dell’area, abbiamo documentato una importante ricchezza floristica, con il 33% di specie native in più rispetto all’atteso – afferma Lorenzo Peruzzi, professore ordinario di Botanica sistematica – ma purtroppo, anche le specie aliene sono molto rappresentate, con il 34,9% in più rispetto alle aspettavive”.

Dal punto di vista conservazionistico, l’inventario comprende alcune piante a rischio di scomparsa che in gran parte sono state trovate nell’area protetta del Parco Naturale Regionale di Migliarino – San Rossore – Massaciuccoli. In particolare, sono quattro le specie vulnerabili (Butomus umbellatus , Leucojum aestivum subsp. aestivum , Ranunculus ophioglossifoliusThelypteris palustris), nove quelle minacciate (Anacamptis palustrisBaldellia ranunculoidesCardamine apenninaCentaurea aplolepa subsp. subciliataHottonia palustrisHydrocotyle vulgarisSagittaria sagittifoliaSolidago virgaurea subsp. litoralis , Triglochin barrelieri) e una gravemente minacciata (Symphytum tanaicense).

“Il problema delle invasioni biologiche è molto rilevante nel Comune di Pisa – commenta Iduna Arduini, professoressa associata di Botanica ambientale e applicata – Tra le 45 aliene invasive documentate nello studio, ve ne sono 4 di rilevanza unionale, piante cioè i cui effetti negativi sono talmente rilevanti da richiedere un intervento coordinato e uniforme a livello di Unione Europea, e una, Salpichroa origanifolia, localmente molto invasiva”.

“La fonte primaria dei dati floristici utilizzati è rappresentata da Wikiplantbase #Toscana,” – continua Gianni Bedini, professore ordinario di Botanica sistematica – un database floristico liberamente accessibile da cui abbiamo potuto estrarre ben 12.002 segnalazioni, disponibili grazie allo sforzo di numerosi e attivi collaboratori, ben esemplificando il ruolo cruciale giocato anche dalla cosiddetta Citizen Science nell’accumulare importanti informazioni di tipo floristico”.

“Questo lavoro, oltre a fare il punto sulle conoscenze floristiche della città, fornirà anche i dati di base per il progetto IDEM FLOS, finanziato nell’ambito di un bando a cascata del National Biodiversity Future Center, con l’Università di Trieste come partner capofila – conclude Jacopo Franzoni, assegnista in Botanica sistematica – consentendoci di costruire uno strumento per l’identificazione di tutte queste specie, che sarà reso liberamente accessibile entro il 2025 e potrà essere usato per diffondere le conoscenze della flora locale alla popolazione”.

Riferimenti bibliografici:

Peruzzi L, Pierini B, Arduini I, Bedini G, Franzoni J. The Vascular Flora of Pisa (Tuscany, Central Italy), Plants. 2025; 14(3):307, DOI: https://doi.org/10.3390/plants14030307

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

Cambiamento climatico: se aumentano le temperature le piante assorbono più nanoplastiche

La ricerca dell’Università di Pisa sulla rivista Plant Physiology and Biochemistry.

Le alte temperature aumentano l’assorbimento delle nanoplastiche da parte delle piante. La notizia arriva da uno studio dell’Università di Pisa pubblicato sulla rivista Plant Physiology and Biochemistry che per la prima volta ha analizzato l’effetto amplificatore dei cambiamenti climatici sull’inquinamento da nanoplastiche. La ricerca è stata condotta dal gruppo di Botanica della professoressa Monica Ruffini Castiglione, e da quello di Fisiologia Vegetale della dottoressa Carmelina Spanò, in collaborazione con le colleghe Stefania Bottega e Debora Fontanini. La sperimentazione nei laboratori dell’Università di Pisa ha impiegato come pianta modello Azolla filiculoides Lam, una piccola felce acquatica galleggiante con radici fluttuanti e sottili che assorbono le sostanze disciolte nell’acqua. Come inquinante sono state utilizzate nanoplastiche di polistirene, una delle materie plastiche più comuni e diffuse con cui si realizzano ad esempio posate e piatti usa e getta, imballaggi, contenitori da asporto e seminiere per l’ortoflorovivaismo.

Cambiamento climatico piante nanoplastiche
il laboratorio

Dai dati è emerso che a 35° la presenza di nanoplastiche aumenta apprezzabilmente all’interno della pianta rispetto alla situazione ottimale a 25°. Questo provoca il deterioramento dei parametri fotosintetici e l’aumento dello stress ossidativo e della tossicità nelle piante. L’impiego di nanoplastiche fluorescenti ha inoltre permesso alle ricercatrici di tracciarne con precisione l’assorbimento e la distribuzione nei tessuti e negli organi vegetali.

“Il maggior assorbimento di nanoplastiche in condizioni di alte temperature da parte delle piante solleva preoccupazioni riguardo al possibile impatto sulle colture di interesse agronomico, con implicazioni potenzialmente rilevanti per l’ingresso di queste sostanze nella catena alimentare”, dicono Monica Ruffini Castiglione e Carmelina Spanò.

“Il nostro studio – continua Ruffini Castiglione – sottolinea come i cambiamenti climatici non solo sono in grado di amplificare gli effetti negativi dei rifiuti plastici, ma possano anche creare nuove sinergie pericolose tra fattori ambientali e inquinanti, aggravando ulteriormente le sfide ecologiche già esistenti. Questo deve aumentare la nostra consapevolezza e portare a un maggiore impegno verso comportamenti più sostenibili, come ridurre il consumo di plastica monouso”.

Cambiamento climatico: se aumentano le temperature le piante assorbono più nanoplastiche; lo studio su Plant Physiology and Biochemistry. In foto, il gruppo di ricerca

Le ricercatrici dei gruppi di Botanica e di Fisiologia vegetale impegnate in questo studio si occupano da anni delle risposte di piante modello e di interesse agronomico a metalli, anche in forma nanometrica e a contaminanti emergenti, quali micro e nanoplastiche. L’interesse nasce dalla consapevolezza che le piante sono organismi estremamente sensibili e al contempo resilienti agli stress ambientali. Questa duplice natura le rende modelli ideali per studiare l’impatto dei contaminanti sugli organismi viventi, soprattutto nel contesto dei cambiamenti climatici. Le ricerche del gruppo, svolte anche in collaborazione con l’IBBA CNR e l’Università di Siena, sono state pionieristiche nello studio delle interazioni tra piante e nanomateriali dimostrando per la prima volta, a livello ultrastrutturale, l’assorbimento e la traslocazione di nanomateriali plastici nelle cellule vegetale.

Link all’articolo scientifico:

https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0981942824006144

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

Biosentinelle a due passi dalla Torre pendente: trovati 57 licheni (più un fungo non-lichenizzato) nell’Orto Botanico dell’Università di Pisa

Lo studio pubblicato sulla rivista Italian Botanist rivela una insolita concentrazione di questi organismi su una superficie ridotta, fra cui specie rare e a rischio estinzione

Sentinelle che monitorano la qualità dell’aria, purificandola dai metalli pesanti, sono i licheni, organismi simbiotici composti da almeno due partner diversi che traggono vantaggio l’uno dall’altro, in questo caso un fungo e un’alga. Nell’Orto Botanico dell’Università di Pisa, a due passi dalla Torre pendente, un gruppo di ricerca dell’Università di Pisa ha trovato una concentrazione inusuale di questi organismi, ben 57 licheni “epifiti”, che crescono cioè sulla corteccia degli alberi, più un fungo non-lichenizzato. Fra essi, ci sono anche specie rare e a rischio estinzione, alcune delle quali rinvenute per la prima volta in Toscana, mentre la presenza diffusa di licheni tolleranti all’azoto è probabilmente associata alle condizioni ambientali urbane.

Lo studio dell’Ateneo di Pisa, in collaborazione con l’Accademia delle Scienze Slovacca, è stato pubblicato sulla rivista Italian Botanist ed è partito da una tesi di laurea triennale in Scienze Naturali e Ambientali condotta da Giorgia Spagli, con la supervisione dei professori Luca Paoli e Lorenzo Peruzzi, botanici del Dipartimento di Biologia, e la collaborazione di Marco D’Antraccoli e Francesco Roma-Marzio, rispettivamente curatore dell’Orto Botanico e curatore dell’Erbario del Museo Botanico.

“In un recente studio è stato calcolato che nelle aree protette italiane ci si possono attendere circa 59 specie di licheni epifiti per km², mentre nel nostro caso, in contesto urbano e su una superficie di soli 0,02 km², ne sono state censite ben 57 – racconta Peruzzi – I giardini botanici nei centri urbani sono infatti isole verdi che offrono rifugio a diversi organismi animali e vegetali, compresi i licheni, che compaiono spontaneamente grazie alla diversità di micro habitat presenti e alla ricchezza di specie arboree”.

“I licheni sono fra i primi colonizzatori degli habitat anche se spesso passano inosservati – aggiunge Paoli – e tuttavia il ruolo che rivestono è molto importante: si tratta di organismi che possono fra l’altro essere utilizzati come biomonitor, una soluzione economica che può integrare le tradizionali centraline di rilevamento per valutare la qualità dell’aria e degli ecosistemi in generale”.

Fra le specie trovate, Arthopyrenia platypyrenia Coenogonium tavaresianum sono nuove segnalazioni per la Toscana. Il primo è un fungo non-lichenizzato di ridottissime dimensioni, poco noto e poco segnalato a livello europeo, in Italia questa specie era nota sinora solo in Calabria. A Pisa cresce sulla scorza di un esemplare di pittosporo (Pittosporum tobira). Coenogonium tavaresianum colonizza tipicamente boschi umidi della costa tirrenica, è una specie a rischio di estinzione, ma nell’Orto Botanico cresce abbondantemente sulla scorza di un esemplare di cedro della California (Calocedrus decurrens). Lecania cyrtellina, infine, è segnalato per la Toscana solo nell’Orto Botanico di Pisa, dove cresce sulla scorza di un vetusto esemplare di palma del Cile (Jubaea chilensis).

Riferimenti bibliografici:

Fačkovcová Z, Spagli G, D’Antraccoli M, Roma-Marzio F, Peruzzi L, Paoli L, Guttová A (2024) Islands of lichen diversity in urban environments: a hidden richness in botanical gardens, Italian Botanist 18: 245-258, DOI: https://doi.org/10.3897/italianbotanist.18.144373

Testo e foto dall’Ufficio stampa dell’Università di Pisa.