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QUEL PICCOLO, GRANDE PUNTO ROSSO: ECCO BiRD, IL BUCO NERO CRESCIUTO IN FRETTA 10 MILIARDI DI ANNI FA, IDENTIFICATO NEL CAMPO CIRCOSTANTE IL QUASAR J1030+0524
LA SCOPERTA ITALIANA CON IL JAMES WEBB SPACE TELESCOPE

Al “mezzogiorno cosmico”, quando l’universo brillava come un enorme laboratorio in piena attività, è stato scoperto un raro punto rosso. Si chiama BiRD, acronimo di big red dot (in italiano, grande punto rosso), il nuovo oggetto cosmico scoperto con il James Webb Space Telescope da un team internazionale guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). L’oggetto è un raro rappresentante della misteriosa classe dei little red dot (LRD o in italiano piccoli punti rossi), identificati solo recentemente grazie alle capacità infrarosse del satellite delle agenzie spaziali statunitense ed europea NASA ed ESA. A produrre la luminosità di BiRD ci sarebbe un buco nero supermassiccio della massa di 100 milioni di volte quella del nostro Sole. La scoperta è in pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Osservando una regione remota del cielo, in un’epoca cosmica che gli addetti ai lavori chiamano “mezzogiorno cosmico” – ovvero un periodo compreso tra 10 e 11 miliardi di anni fa – è stato individuato un insolito punto rosso: non è una stella né un pianeta, eppure brilla con caratteristiche uniche. Grazie al James Webb Space Telescope (JWST), questa scoperta apre una finestra sulle prime fasi di crescita dei buchi neri supermassicci e rivela dinamiche finora nascoste dell’universo, offrendo dati che mettono alla prova gli attuali modelli teorici.

Immagine di BiRD - I "puntini rossi" individuati nella regione di cielo attorno al quasar J1030. Bird è l'oggetto al centro: spicca rispetto agli altri puntini rossi perché più vicino e, dunque, più brillante. Crediti: F. Loiacono, NASA, ESA, CSA
Immagine di BiRD – I “puntini rossi” individuati nella regione di cielo attorno al quasar J1030. Bird è l’oggetto al centro: spicca rispetto agli altri puntini rossi perché più vicino e, dunque, più brillante. Crediti: F. Loiacono, NASA, ESA, CSA

BiRD è stato identificato inaspettatamente nel campo circostante il quasar J1030+0524, una regione del cielo studiata da anni dal gruppo INAF. Analizzando con attenzione immagini e spettri ottenuti con lo strumento NIRCam a bordo di JWST, il team di ricerca ha rilevato una sorgente insolita: un punto brillante, mai rilevato nei cataloghi X e radio precedenti.

Secondo gli autori, questa scoperta rappresenta un’occasione unica per fare luce su una popolazione di oggetti cosmici ancora sconosciuta e fondamentale per comprendere l’origine e l’evoluzione dei buchi neri nell’universo.

“L’area osservata è quella attorno al quasar J1030. A partire dalle immagini calibrate, è stato elaborato un catalogo delle sorgenti presenti nel campo. È lì che ci siamo accorti di BiRD: un oggetto puntiforme, brillante, che però non era una stella e non compariva nei cataloghi X e radio già esistenti”, spiega Federica Loiacono, assegnista di ricerca INAF alla guida del team e prima autrice dello studio, “Io ho analizzato il suo spettro, che ci racconta la composizione chimica e alcune delle proprietà fisiche dell’oggetto. Abbiamo trovato segnali chiari dell’idrogeno – in particolare la riga chiamata Paschen gamma (un’impronta luminosa che rivela la presenza di idrogeno ionizzato) – e dell’elio, visibile anche in assorbimento. Questi dettagli ci hanno permesso di stimare la distanza di BiRD, scoprendo che si trova relativamente vicino a noi rispetto alla maggior parte dei little red dot finora conosciuti. Sempre dall’analisi dello spettro di questa sorgente, abbiamo potuto stimare la massa del buco nero centrale: circa 100 milioni di volte quella del Sole”.

I little red dot sono sorgenti celesti molto compatte e rosse, con proprietà spettroscopiche insolite. Si pensa che siano legate a buchi neri supermassicci in fase di crescita, ma la loro natura resta ancora misteriosa. La loro scoperta è stata possibile solo grazie alla sensibilità infrarossa del telescopio spaziale JWST. Un aspetto sorprendente è la loro assenza nelle osservazioni ai raggi X: un comportamento inatteso, visto che i buchi neri in accrescimento di solito emettono intensamente proprio in quella banda. Secondo alcune teorie, i LRD potrebbero rappresentare le prime fasi evolutive dei “semi” da cui si formano i buchi neri supermassicci, ancora nascosti da spessi strati di gas che bloccano gran parte della radiazione emessa nelle loro vicinanze.

“Prima di BiRD, a questa stessa distanza cosmica erano noti solo altri due LRD con le stesse caratteristiche spettrali, comprese le righe di elio e la Paschen gamma”, prosegue Loiacono. “Confrontando le proprietà spettrali di BiRD con quelle degli altri due, abbiamo trovato forti analogie: la larghezza delle righe, l’assorbimento, la massa del buco nero e la densità del gas sono molto simili. Questo ci ha portato a concludere che BiRD appartiene alla stessa famiglia di LRD”.

Il gruppo di ricerca ha stimato l’abbondanza dei LRD nell’universo in corrispondenza del “mezzogiorno cosmico”. I risultati hanno rivelato che questi oggetti erano ancora numerosi in quel periodo, contraddicendo studi precedenti che invece indicavano un drastico calo già in epoche ancora più antiche. Una scoperta che obbliga a rivedere i modelli sull’evoluzione dei LRD e, di conseguenza, di quella dei buchi neri supermassicci.

“La sfida ora è estendere lo studio a un numero maggiore di LRD vicini, che possiamo studiare più nel dettaglio rispetto a quelli distanti, per costruire un quadro più completo”, conclude Loiacono. “JWST ha aperto una nuova frontiera nell’astrofisica extragalattica, rivelandoci oggetti di cui non sospettavamo neppure l’esistenza, e siamo solo all’inizio di questa avventura”.

Federica Loiacono
Federica Loiacono

Lo studio ha coinvolto anche altri istituti come l’Università di Bologna, STSCI, Johns Hopkins University, Universitat de Barcelona, ICREA, Clemson University, Eureka Scientific, Yale University, Università degli Studi Roma Tre, University of Cambridge (UK), University College London, Max-Planck-Institut für extraterrestrische Physik e si basa su dati spettroscopici e fotometrici ottenuti con NIRCam e accuratamente calibrati e interpretati dal team italiano.


 

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “A big red dot at cosmic noon” di Federica Loiacono, Roberto Gilli, Marco Mignoli, Giovanni Mazzolari, Roberto Decarli, Marcella Brusa, Francesco Calura, Marco Chiaberge, Andrea Comastri, Quirino D’Amato, Kazushi Iwasawa, Ignas Juodžbalis, Giorgio Lanzuisi, Roberto Maiolino, Stefano Marchesi, Colin Norman, Alessandro Peca, Isabella Prandoni, Matteo Sapori, Matilde Signorini, Paolo Tozzi, Eros Vanzella, Cristian Vignali, Fabio Vito, e Gianni Zamorani, è stato accettato per la pubblicazione su Astronomy & Astrophysics.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

SN 2024bch, UNA SUPERNOVA ASOCIALE: L’ESPLOSIONE STELLARE CHE RIFIUTA L’INTERAZIONE

Uno studio a guida INAF analizza la radiazione emessa dalla supernova SN 2024bch e propone una spiegazione alternativa delle sue caratteristiche osservate nelle fasi iniziali, mettendo in discussione la classificazione tradizionale di queste immani esplosioni stellari. Il lavoro, condotto da un gruppo tutto italiano, ha importanti implicazioni nell’ambito dell’astronomia multimessaggera.

diagramma schematico, non in scala, del sito dell’esplosione di SN 2024bch. La supernova è indicata dalla stella al centro, mentre il materiale circumstellare che emette le righe strette è la regione blu più lontana. Le parabole rappresentano la luce emessa dalla supernova a diverse epoche e intercettano il mezzo circumstellare finché non raggiungono l’estremità opposta all’osservatore, circa 2,4 giorni dopo l’esplosione. Questa semplice geometria riesce a spiegare in modo molto efficace l’evoluzione del transiente nell’ipotesi in cui gli ejecta non interagiscono con il mezzo. Crediti: L. Tartaglia et al. / A&A 2025
diagramma schematico, non in scala, del sito dell’esplosione di SN 2024bch. La supernova è indicata dalla stella al centro, mentre il materiale circumstellare che emette le righe strette è la regione blu più lontana. Le parabole rappresentano la luce emessa dalla supernova a diverse epoche e intercettano il mezzo circumstellare finché non raggiungono l’estremità opposta all’osservatore, circa 2,4 giorni dopo l’esplosione. Questa semplice geometria riesce a spiegare in modo molto efficace l’evoluzione del transiente nell’ipotesi in cui gli ejecta non interagiscono con il mezzo. Crediti: L. Tartaglia et al. / A&A 2025

Un team di ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), con la partecipazione delle Università di Padova e dell’Aquila, ha analizzato in dettaglio le proprietà fotometriche e spettroscopiche della supernova di tipo II SN 2024bch, esplosa a circa 65 milioni di anni luce dalla Terra e osservata nel febbraio 2024. Lo studio, i cui risultati sono stati accettati per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics, mette in discussione un assunto fondamentale nello studio di questa classe di esplosioni stellari: la stretta relazione tra la presenza di righe strette negli spettri della radiazione emessa dalla supernova e l’interazione violenta degli ejecta (addensamenti di materiale stellare scagliati dall’esplosione della stella progenitrice) con il denso gas circostante (o mezzo circumstellare).

immagine a colori della galassia ospite di SN 2024bch (la supernova è indicata in verde), ottenuta sommando tre immagini in diversi filtri, acquisite con la camera AFOSC del telescopio Copernico, presso la stazione osservativa INAF di Asiago, gestita dall’Osservatorio Astronomico di Padova. Crediti: A. Reguitti / INAF
immagine a colori della galassia ospite di SN 2024bch (la supernova è indicata in verde), ottenuta sommando tre immagini in diversi filtri, acquisite con la camera AFOSC del telescopio Copernico, presso la stazione osservativa INAF di Asiago, gestita dall’Osservatorio Astronomico di Padova. Crediti: A. Reguitti / INAF

I 140 giorni di osservazione della supernova avevano rivelato righe di emissione molto strette nei suoi spettri iniziali. Questa caratteristica è stata finora la “prova regina” per classificare una supernova come “interagente”, ossia avvolta da un denso guscio di gas. Tali supernove sono considerate possibili sorgenti di neutrini ad alta energia. Tuttavia, l’analisi condotta dal team italiano ha dimostrato che l’energia sprigionata non deriva affatto dall’interazione tra il materiale esploso e quel guscio di gas. La supernova mostra un comportamento che, paragonato a quello degli esseri umani, si potrebbe definire “da asociale”, fornendo energia quasi esclusivamente tramite processi radioattivi tradizionali e non attraverso violenti scontri di materia. Per spiegare il mistero delle righe strette, il team ha proposto un meccanismo diverso: la cosiddetta “fluorescenza di Bowen”.

“Abbiamo applicato uno sguardo non tradizionale e privo di pregiudizi”, spiega Leonardo Tartaglia, ricercatore dell’INAF e primo autore dello studio. “Per la prima volta in questo tipo di transienti, dimostriamo che il meccanismo principale è la ‘fluorescenza di Bowen’, un fenomeno noto fin dalla prima metà del XX secolo che non era mai stato preso in considerazione nello studio di oggetti simili. Il nostro scenario descrive con grande precisione tutte le fasi evolutive della supernova”.

Di cosa si tratta? Questo fenomeno può essere immaginato come un’eco luminosa ad alta energia: l’intensa luce ultravioletta prodotta dall’esplosione colpisce ed eccita gli atomi di elio presenti nel materiale attorno alla supernova. Questi atomi, invece di rilasciare direttamente l’energia, la trasferiscono ad altri elementi chimici circostanti, come l’ossigeno e l’azoto. Ed è proprio questo trasferimento di energia a innescare l’emissione di righe strette che il team di ricerca ha osservato, senza che sia necessaria alcuna interazione fisica violenta tra il materiale espulso e il gas esterno.

La scoperta ha quindi imposto agli scienziati di ricalibrare i modelli finora utilizzati e di escludere una parte delle supernove simili dalla lista delle possibili sorgenti di neutrini.

“Con il nostro studio evidenziamo che, per almeno una frazione di questi transienti, l’interazione non è il motore principale delle emissioni e che ciò ha importanti implicazioni anche per l’astronomia multi-messaggera. Non mostrando evidenza di interazione, la supernova SN 2024bch non presenta le condizioni fisiche necessarie per l’emissione di neutrini ad alta energia”, conclude Tartaglia.

La campagna osservativa della supernova SN 2024bch è stata condotta tramite una rete di strumenti che ha consentito di raccogliere dati fotometrici e spettroscopici. Gran parte delle osservazioni ottiche è stata effettuata con gli strumenti dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, in particolare presso l’INAF di Padova (con il telescopio Copernico da 182 cm e lo Schmidt da 92 cm nella sede di Asiago). Dati aggiuntivi sono stati forniti dal Wide-field Optical Telescope (WOT), il telescopio Schmidt da 67/91 cm installato presso la stazione osservativa di Campo Imperatore dell’INAF d’Abruzzo. Il monitoraggio in banda ultravioletta è stato effettuato dal satellite Swift.

Il lavoro, interamente a firma italiana, è un esempio di come la ricerca scientifica necessiti di un approccio critico, mettendo in discussione le classificazioni tradizionali per ottenere progressi significativi.

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “Signatures of anti-social mass-loss in the ordinary Type II SN 2024bch — A non-interacting supernova with early high-ionisation features”, di Leonardo Tartaglia, Giorgio Valerin, Andrea Pastorello, Andrea Reguitti, Stefano Benetti, Lina Tomasella, Paolo Ochner, Enzo Brocato, Luigi Condò, Fiore De Luise, Francesca Onori, Irene Salmaso, è stato accettato per la pubblicazione su Astronomy & Astrophysics.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

EINSTEIN PROBE: RIVELATA LA COMPLESSITÀ DEI FLASH DI RAGGI X NELL’EVENTO EP241021a

Un team di ricerca, con la guida e il contributo fondamentale dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha di recente analizzato nel dettaglio l’evento EP241021a, una sorgente di raggi X nota come flash di raggi X (X-Ray Flash o XRF) scoperta il 21 ottobre 2024 dalla missione cinese Einstein Probe. La ricerca, frutto di un’imponente campagna osservativa multibanda accettata per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics, getta nuova luce sull’origine e la natura di questi misteriosi e fugaci transienti cosmici, storicamente legati ai più noti lampi di raggi gamma (Gamma Ray Burst o GRB).

“Cugini” dei transienti veloci di raggi X (FXRT, dall’inglese fast X-ray transient), gli XRF sono brevissime esplosioni di raggi X, con durata che varia dai 10 secondi ai 10 minuti, prodotte da sorgenti extragalattiche. Identificati nei primi anni ’90 dal satellite italo-olandese BeppoSAX, questi eventi condividono molte caratteristiche con i lampi di raggi gamma, ma si differenziano per spettri più “soffici” e un picco energetico meno intenso. Lo strumento Wide-field X-ray Telescope (WXT) a bordo del satellite Einstein Probe, caratterizzato da una capacità unica di osservazione di vaste regioni del cielo in raggi X ad alta sensibilità, ha permesso di rivelare nuovi flash di raggi X e di studiarne in modo accurato la complessa emissione.

 Un disegno dello scenario proposto dal team di ricerca per EP241021a. A piccoli angoli polari viene prodotto un getto relativistico con un nucleo e ali ampie, mentre a grandi angoli polari il getto è circondato da un bozzolo strutturato. La linea di vista dell’osservatore si trova all’interno delle ali del getto. Crediti: G. Gianfagna (INAF) / A&A 2025
Un disegno dello scenario proposto dal team di ricerca per EP241021a. A piccoli angoli polari viene prodotto un getto relativistico con un nucleo e ali ampie, mentre a grandi angoli polari il getto è circondato da un bozzolo strutturato. La linea di vista dell’osservatore si trova all’interno delle ali del getto. Crediti: G. Gianfagna (INAF) / A&A 2025

EP241021a si distingue per la ricchezza delle sue componenti. Giulia Gianfagna, prima autrice dell’articolo e assegnista di ricerca presso l’INAF di Roma, spiega:

“EP241021a è probabilmente l’XRF scoperto dall’Einstein Probe che presenta nella sua emissione il maggior numero di componenti, e, di conseguenza, un grado di complessità nell’interpretazione fisica non indifferente. Ma, per lo stesso motivo, è l’evento che più dà informazioni sulla famiglia di questi oggetti”.

L’evento transiente presenta, infatti, la caratterizzazione di un getto strutturato che si evolve rapidamente e un ambiente stellare denso che ne modella la forma e la dinamica. Dopo l’emissione nei raggi X scoperta da Einstein Probe, osservazioni nel visibile e soprattutto nelle frequenze radio e millimetriche, grazie all’utilizzo di telescopi e network come ALMA, uGMRT, e-MERLIN e ATCA, hanno permesso di identificare le peculiarità.

“Tutte le componenti – dice Gianfagna – sono consistenti con il collasso di una stella massiccia: subito dopo il collasso, si è creato un sistema formato da un getto centrale stretto ed energetico (detto nucleo o core), circondato da ‘ali’ a più basse energie e meno veloci. Circonda le ali un ‘bozzolo’ sferico (detto cocoon), composto a sua volta da due componenti concentriche, con velocità che diminuisce verso l’esterno. L’emissione dei raggi gamma, quindi il lampo di raggi gamma, viene prodotta dal core del getto”.

Questa emissione gamma non è però visibile in quanto il getto punta lontano dalla Terra.

Rappresentazione artistica del telescopio spaziale Einstein Probe. Crediti: Chinese Academy of Sciences
Einstein Probe: rivelata la complessità dei flash di raggi X nell’evento EP241021a; lo studio accettato su Astronomy & Astrophysics. Rappresentazione artistica del telescopio spaziale Einstein Probe. Crediti: Chinese Academy of Sciences

Tali osservazioni sono un modello unificato secondo cui i flash di raggi X sono varianti dei lampi di raggi gamma, viste da angolazioni diverse o influenzate da condizioni ambientali peculiari, come la densità e la struttura del materiale espulso dalla stella progenitrice. EP241021a è inoltre il primo caso in cui tutte queste componenti si osservano simultaneamente con tale dettaglio.

“Terminata la missione BeppoSAX all’inizio degli anni 2000”, commenta Luigi Piro, dirigente di ricerca INAF e coautore dello studio, “osservare questi transienti è diventato molto più difficile a causa del ridotto campo di vista degli strumenti attivi. Einstein Probe, lanciato nel gennaio 2024, ha riportato in orbita un rilevatore con un ampio campo visivo e una sensibilità superiore. La capacità di osservare porzioni così ampie di cielo ci ha permesso, finalmente, di ricominciare a scoprire nuovi flash di raggi X”.

Gianfagna conclude: “Dimostrare che questo flash di raggi X può essere modellizzato come un lampo di raggi gamma, probabilmente con delle caratteristiche particolari, in un contesto più ampio porterebbe ad avere un’idea più chiara su come muoiono le stelle massicce e cosa producono dopo la loro morte”.

Lo studio in questione è il primo guidato da ricercatrici e ricercatori europei sull’analisi di eventi XRF con dati provenienti da Einstein Probe, segnando una tappa fondamentale nella collaborazione internazionale e nello studio delle esplosioni cosmiche.

 

Riferimenti bibliografici:

L’articolo di Giulia Gianfagna, Luigi Piro, Gabriele Bruni, Aishwarya Linesh Thakur, Hendrik Van Eerten, Alberto Castro-Tirado, Yong Chen, Ye-hao Cheng, Han He, Shumei Jia, Zhixing Ling, Elisabetta Maiorano, Rosita Paladino, Roberta Tripodi, Andrea Rossi, Shuaikang Yang, Jianghui Yuan, Weimin Yuan, Chen Zhang, “The soft X-ray transient EP241021A: a cosmic explosion with a complex off-axis jet and cocoon from a massive progenitor”, è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

UNA “STELE DI ROSETTA”, IL PROGETTO ROSETTA STONE PER STUDIARE LA FORMAZIONE STELLARE

Coordinato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica e sostenuto dall’European Research Council, il progetto Rosetta Stone propone un confronto senza precedenti tra simulazioni numeriche e osservazioni astronomiche nello studio della formazione stellare. I primi tre articoli, pubblicati su Astronomy & Astrophysics, mostrano come le simulazioni possano essere trattate come vere osservazioni per analizzare con maggiore precisione i processi che portano alla nascita delle stelle.

Il progetto Rosetta Stone, coordinato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e finanziato dall’European Research Council nell’ambito del Synergy Grant ECOGAL, rivoluziona lo studio della formazione stellare con un approccio innovativo e senza precedenti. Per la prima volta in questo campo, simulazioni numeriche sofisticate e osservazioni astronomiche vengono trattate con gli stessi metodi e algoritmi, creando un linguaggio comune che consente un confronto diretto e preciso tra teoria e realtà.

Link al progetto: https://www.the-rosetta-stone-project.eu/

La nascita delle stelle, un processo complesso e ancora poco compreso, viene così analizzata grazie a tre articoli appena pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics, che illustrano come le simulazioni possano essere “post-processate” per replicare fedelmente le immagini e le osservazioni reali ottenute con strumenti di punta come l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA).

Il primo articolo (guidato da Ugo Lebreuilly dell’Università di Parigi-Saclay) presenta una vasta gamma di simulazioni magneto-idrodinamiche (RMHD) di regioni di formazione stellare massiva, in cui sono stati variati parametri chiave come massa, raggio, livello di turbolenza e intensità del campo magnetico. Il secondo studio (con prima firma Ngo-Duy Tung dell’Università di Parigi-Saclay) si concentra sulla generazione di immagini artificiali e “ideali” nella banda delle onde millimetriche e sub-millimetriche, simili a quelle ottenute da ALMA e dal satellite Herschel. Nel terzo lavoro (questa volta a prima firma Alice Nucara di INAF), un codice ad hoc sviluppato all’interno del software CASA ha permesso di creare simulazioni di osservazioni ALMA estremamente realistiche, basate sui dati della survey SQUALO (Star formation in QUiescent And Luminous Objects).

Alessio Traficante, ricercatore INAF e coordinatore del progetto, afferma: “Per la prima volta, grazie al progetto Rosetta Stone, è possibile estrarre informazioni dalle simulazioni trattate con le stesse tecniche e gli stessi algoritmi usati per le osservazioni, permettendo di verificare se le informazioni che deduciamo dalle osservazioni hanno un riscontro nelle simulazioni e viceversa, con un’accuratezza nel confronto mai ottenuta prima nel campo della formazione stellare. È possibile infatti dedurre se effettivamente i parametri chiave osservativi, come il rapporto tra la luminosità e la massa, riflettano caratteristiche chiave degli addensamenti di gas e polveri come età ed efficienza di formazione stellare, e misurare l’effetto di fattori non osservabili direttamente, come l’intensità del campo magnetico”.

La prima versione del progetto, chiamata Rosetta Stone 1.0, è solo il punto di partenza. Sono già in preparazione le successive due nuove fasi: RS2.0, che includerà simulazioni di dati ALMA relativi alla survey ALMAGAL che includono una fisica più ampia e complessa, e RS3.0, focalizzata sullo studio della chimica delle regioni di formazione stellare e sull’analisi delle righe spettrali necessarie per tracciare la dinamica e l’evoluzione chimica di queste zone.

“Il progetto è il culmine di tre anni di lavoro, milioni di ore di calcolo su supercomputer, la produzione di centinaia di mappe e una stretta collaborazione tra gruppi teorici e osservativi. Con questo approccio innovativo, il progetto Rosetta Stone inaugura un nuovo modo di studiare la nascita delle stelle, rendendo possibile per la prima volta un confronto realmente diretto tra simulazione e osservazione”, conclude Traficante.

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “The Rosetta Stone Project. I. A suite of radiative magnetohydrodynamics simulations of high-mass star-forming clumps”, di Ugo Lebreuilly, Alessio Traficante et al., è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

L’articolo “The Rosetta Stone Project. II. The correlation between star formation efficiency and L/M indicator for the evolutionary stages of star-forming clumps in post-processed radiative magnetohydrodynamics simulations”, di Ngo-Duy Tung, Alessio Traficante et al., è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

L’articolo “The Rosetta Stone project. III. ALMA synthetic observations of fragmentation in high-mass star-forming clumps”, di Alice Nucara, Alessio Traficante et al., è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

CALVERA È ESPLOSA DOVE NON DOVEVA: UNA PULSAR “IN FUGA” SFIDA LE REGOLE DELLA VIA LATTEA

Un’esplosione stellare, una pulsar in fuga e un resto di supernova: è la storia di Calvera, un sistema scoperto a oltre 6500 anni luce sopra il piano galattico, che sta mettendo in discussione ciò che sappiamo sull’evoluzione delle stelle. A raccontarla è un team di ricerca dell’INAF in uno studio pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Immagine nei raggi X della stella di neutroni Calvera, indicata dal cerchio giallo, e della regione di emissione diffusa oggetto di studio di questo articolo, identificata dall'ellisse bianca. Il materiale responsabile dell'emissione osservata ha una temperatura compresa tra 1 e 10 milioni di gradi Celsius. Crediti: E. Greco, INAF
Immagine nei raggi X della stella di neutroni Calvera, indicata dal cerchio giallo, e della regione di emissione diffusa oggetto di studio di questo articolo, identificata dall’ellisse bianca. Il materiale responsabile dell’emissione osservata ha una temperatura compresa tra 1 e 10 milioni di gradi Celsius. Crediti: E. Greco, INAF

Un gruppo di ricerca guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell’Università degli Studi di Palermo ha approfondito lo studio di un sistema unico nel suo genere: una pulsar e un resto di supernova situati a oltre 6500 anni luce sopra il piano della nostra galassia, la Via Lattea, in una zona finora considerata estremamente rarefatta e quasi priva di oggetti di questo tipo. Grazie a nuove osservazioni e analisi, pubblicate sulla rivista Astronomy & Astrophysics, la ricerca sfida l’idea che queste regioni periferiche della galassia siano poco attive dal punto di vista energetico, offrendo nuovi importanti spunti sull’origine e l’evoluzione delle stelle massicce.

A oltre 6500 anni luce sopra il piano della Via Lattea, dove la densità di stelle si dirada e il vuoto interstellare domina, un sistema estremo sfida le regole dell’evoluzione stellare. È lì che è stato identificato un raro resto di supernova associato a una pulsar in fuga, nota con il nome di Calvera, un omaggio all’antagonista del film “I Magnifici 7”, film western del 1960 diretto da John Sturges. Come il suo omonimo cinematografico, Calvera si muove ai margini, fuori dalle regole, e sta riscrivendo ciò che sappiamo sulla vita e la morte delle stelle massicce nelle regioni più estreme della nostra galassia.

La storia del resto di supernova di Calvera inizia nel 2022, quando grazie allo strumento LOFAR – un network europeo di radiotelescopi progettato per osservare il cielo a basse frequenze – viene individuata una struttura estesa e quasi perfettamente circolare, interpretabile come un resto di supernova. Si trova a circa 37 gradi di latitudine galattica, molto lontano dal piano della galassia, dove solitamente si concentrano le esplosioni stellari. A pochi arcominuti di distanza, una pulsar già nota agli astronomi per la sua intensa emissione nei raggi X e battezzata anch’essa Calvera, si presenta come potenziale compagna del resto di supernova. Tuttavia, la sua traiettoria mostra un moto proprio molto marcato, circa 78 milliarcosecondi all’anno, che suggerisce che si stia allontanando dal centro dell’esplosione. Il quadro che emerge è quello di un legame fisico tra i due oggetti: una stella massiccia esplosa migliaia di anni fa, che ha lasciato dietro di sé un guscio di gas in espansione e una stella di neutroni in fuga.

Per ricostruire questa storia cosmica, un team guidato da Emanuele Greco dell’INAF ha analizzato osservazioni dettagliate nella banda dei raggi X ottenute con il satellite XMM-Newton dell’Agenzia Spaziale Europea. Le proprietà del gas caldo all’interno del resto di supernova, combinate con il moto della pulsar e le informazioni multi-banda raccolte da diversi strumenti, hanno permesso di stimare età e distanza del sistema. Le analisi indicano che il resto di supernova si trova a una distanza compresa tra 13.000 e 16.500 anni luce, e che ha un’età tra i 10.000 e i 20.000 anni. Dati perfettamente compatibili con quelli della pulsar, che rafforzano l’ipotesi di un’origine comune.

“Le stelle massicce – cioè almeno otto volte più grandi del Sole – si formano quasi esclusivamente sul piano galattico, dove la densità del gas è più alta e favorisce la nascita stellare”, spiega Greco. “Trovarne i resti a simili distanze dal piano è estremamente raro. La nostra analisi ha permesso di stimare con maggiore precisione la distanza, l’età e perfino le caratteristiche della possibile stella progenitrice che ha originato sia la pulsar Calvera che il suo resto di supernova”.

A rendere il quadro ancora più interessante è il fatto che il sistema si trovi in un ambiente molto diverso da quello tipico del piano galattico. L’emissione di raggi gamma rilevata nel sistema proviene, infatti, da un ambiente estremamente rarefatto, lontano dalle regioni dense del piano galattico. Tradizionalmente si pensa che per attivare uno dei principali meccanismi di produzione della radiazione gamma siano necessarie elevate densità di particelle, soprattutto di protoni. Questo risultato, invece, mostra che anche nelle “periferie” della galassia, considerate per lo più “vuote”,  possono esistere le condizioni sufficienti ad attivare meccanismi energetici intensi, capaci di produrre emissione gamma in modo efficiente.

“Grazie ai telescopi spaziali come XMM-Newton e Fermi/LAT, e a strumenti terrestri come il Telescopio Nazionale Galileo, possiamo analizzare i resti di supernova e le pulsar in diverse bande dello spettro elettromagnetico”, prosegue Greco. “Nel caso di Calvera, abbiamo mostrato che anche in ambienti rarefatti può esserci emissione di plasma a milioni di gradi, se l’onda d’urto dell’esplosione incontra addensamenti locali. Questi addensamenti, a loro volta, raccontano qualcosa sulla storia evolutiva della stella che è esplosa”.

Il lavoro nasce dalla collaborazione tra le sedi INAF di Palermo e Milano, che hanno unito competenze complementari: da un lato lo studio degli oggetti compatti come le pulsar, dall’altro l’analisi delle strutture diffuse associate ai resti di supernova. Le osservazioni effettuate con il Telescopio Nazionale Galileo mostrano la presenza di filamenti di idrogeno ionizzato, mentre nei raggi X si evidenzia una struttura estesa ma compatta, coerente con l’impatto dell’onda d’urto sui materiali presenti nell’ambiente e rilasciati dalla stella progenitrice di Calvera. Questo indica che la zona, seppur remota, può presentare localmente degli addensamenti di materia, al contrario di quanto si assume per le regioni ad alta latitudine galattica.

La scoperta – e il legame tra la pulsar Calvera e il suo resto di supernova – dimostrano che anche lontano dal piano galattico possono trovarsi, in modo del tutto inatteso, stelle massicce. Alcune di queste riescono a sfuggire al loro luogo di origine e a esplodere come supernovae in regioni remote della Galassia, lasciando dietro di sé una nube di gas in espansione e un oggetto compatto come una stella di neutroni.

“Il nostro studio mostra che anche le zone più tranquille e apparentemente vuote della galassia possono nascondere processi estremi”, conclude Greco. “Non solo abbiamo vincolato le proprietà fisiche del sistema Calvera con precisione, ma abbiamo anche dimostrato che, localmente, è possibile trovare densità sufficienti a generare emissioni X e gamma anche molto lontano dal piano galattico. Una scoperta che ci invita a guardare con occhi nuovi alle periferie della Via Lattea”.

Emanuele Greco, ricercatore INAF presso la sede di Palermo
Emanuele Greco, ricercatore INAF presso la sede di Palermo

Riferimenti bibliografici: 

L’articolo “Multi-wavelength study of the high Galactic latitude supernova remnant candidate G118.4+37.0 associated with the Calvera pulsar”, di Emanuele Greco et al., è stato pubblicato su Astronomy & Astrophysics.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

TOI-5800 b, TOI-5817 b E TOI-5795 b: TRE ESOPIANETI NETTUNIANI CALDI RIVELANO NUOVI INDIZI SULLA FORMAZIONE DEI SISTEMI PLANETARI

Un team internazionale guidato da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell’Università di Roma Tor Vergata ha confermato e caratterizzato tre nuovi esopianeti della categoria “Nettuniani caldi” — pianeti extrasolari con dimensioni e masse simili a quelle di Urano e Nettuno ma che si muovono intorno alle loro stelle su orbite molto più strette (pochi giorni invece di un centinaio di anni). Le scoperte sono state rese possibili grazie al programma Hot Neptune Initiative (HONEI) e alle misure di alta precisione effettuate con gli spettrografi HARPS all’Osservatorio La Silla dell’ESO in Cile e HARPS-N installato sul Telescopio Nazionale Galileo dell’INAF nelle Canarie, in Spagna, integrando i dati raccolti dal telescopio spaziale TESS della NASA.

Rappresentazione artistica di TOI-5800 b, l’esopianeta più eccentrico mai osservato all’interno del cosiddetto “deserto dei Nettuniani caldi”. Crediti: INAF
Rappresentazione artistica di TOI-5800 b, l’esopianeta più eccentrico mai osservato all’interno del cosiddetto “deserto dei Nettuniani caldi”. Crediti: INAF

Tra i tre pianeti spicca TOI-5800 b, il nettuniano più eccentrico mai osservato all’interno del cosiddetto “deserto dei Nettuniani caldi” — una regione dello spazio dove si riscontra una marcata scarsità di pianeti di dimensioni simili a quelle di Nettuno ma su orbite molto vicine alle proprie stelle, scarsità che può essere causata da diversi fenomeni, come la “migrazione planetaria”, in cui l’orbita dei pianeti viene modificata, l’evaporazione atmosferica che porta a una diminuzione delle loro dimensioni o l’interazione gravitazionale con altri corpi relativamente vicini. In particolare, questa “zona desertica” comprende pianeti con raggi da circa 3 a 7 volte quelli terrestri e periodi orbitali inferiori a pochi giorni.

Nato da una collaborazione tra ricercatori italiani e statunitensi, il programma HONEI ha come obiettivo quello di scoprire e misurare con grande precisione le masse e le altre proprietà fisiche e orbitali dei candidati “Nettuniani caldi” identificati dal satellite TESS. Tali misure permettono di selezionare i migliori target da puntare con i telescopi di nuova generazione come il James Webb Space Telescope, per determinare la composizione chimica delle atmosfere di questi pianeti. La capacità di misurare le masse con strumenti di alta precisione consente di confermare la natura planetaria di questi corpi e di valutare la loro evoluzione dinamica e strutturale. I primi risultati del programma HONEI sono stati presentati per la prima volta in due articoli scientifici appena accettati per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Rappresentazione artistica di TOI-5800 b, l’esopianeta più eccentrico mai osservato all’interno del cosiddetto “deserto dei Nettuniani caldi”. Crediti: INAF
Rappresentazione artistica di TOI-5800 b, l’esopianeta più eccentrico mai osservato all’interno del cosiddetto “deserto dei Nettuniani caldi”. Crediti: INAF

Come spiega Luca Naponiello, primo autore del primo articolo, ex studente di dottorato all’università di Roma Tor Vergata, ora post-doc INAF e fondatore del programma HONEI,

“TOI-5800 b è un sub-Nettuno molto vicino alla propria stella, con un periodo orbitale di soli 2,6 giorni. Ha un raggio di circa 2,5 volte quello terrestre e una massa di circa 9,5 volte quella terrestre. Ciò che ne testimonia l’unicità è l’elevata eccentricità orbitale, inusuale per pianeti con orbite così strette che, per effetto delle forze mareali, di norma si ‘circolarizzano’ rapidamente. Questa eccentricità lascia ipotizzare che il pianeta sia ancora in fase di migrazione orbitale o influenzato gravitazionalmente da un altro corpo celeste nel sistema, ancora da individuare. Inoltre, TOI-5800 b si sta progressivamente avvicinando alla sua stella, perdendo momento angolare, e in futuro potrebbe stabilizzarsi in una regione ancora più interna del deserto dei Nettuniani caldi”.

Rappresentazione artistica di un nettuniano caldo e della sua stella realizzata con software d’intelligenza artificiale. Crediti: INAF
TOI-5800 b, TOI-5817 b e TOI-5795 b: tre esopianeti nettuniani caldi rivelano nuovi indizi sulla formazione dei sistemi planetari. Rappresentazione artistica di un nettuniano caldo e della sua stella realizzata con software d’intelligenza artificiale. Crediti: INAF

Il secondo pianeta, classificato come TOI-5817 b, ha un’orbita più ampia di circa 15,6 giorni ed è ideale per studi atmosferici grazie alla luminosità della sua stella ospite.

In un secondo articolo del programma HONEI, con prima autrice Francesca Manni, dottoranda presso il dipartimento di Fisica dell’università di Roma Tor Vergata sotto la supervisione del professor Luigi Mancini, viene presentata la scoperta di TOI-5795 b, un “super-Nettuno caldo” in orbita con un periodo di 6,14 giorni attorno a una stella povera di metalli (ovvero di elementi più pesanti dell’idrogeno e dell’elio).

Francesca Manni spiega: “L’esopianeta è stato scoperto dal satellite TESS intorno alla stella TOI-5795, a circa 162 parsec (ossia circa 528 anni luce) dalla Terra. È stato poi osservato anche con lo spettrografo HARPS, per misurare le variazioni di velocità radiale e quindi stimare la massa del pianeta. La stella è un po’ più grande del Sole ma più povera di metalli. Il pianeta ha un’orbita molto stretta e circolare, e caratteristiche da ‘super-Nettuno caldo’, ovvero massa e raggio superiori a quelli di Nettuno, ma temperature elevate”.

E aggiunge: “Questo pianeta si inserisce al confine del deserto dei Nettuniani caldi e la sua orbita quasi circolare e la composizione stellare pongono sfide ai modelli di formazione planetaria attuali, suggerendo che dinamiche successive alla formazione abbiano modellato la sua configurazione attuale”.

Naponiello sottolinea: “Dopo la scoperta del pianeta ultra-denso TOI-1853 b, confermiamo l’interesse cruciale della comunità scientifica per il deserto dei Nettuniani caldi. Questi risultati gettano nuova luce sui processi di migrazione e perdita atmosferica, fondamentali per capire la formazione di questo tipo di mondi”.

Tali risultati, ottenuti mediante l’impiego di spettrografi di eccellenza gestiti con il coinvolgimento rilevante di INAF, pongono solide basi per il futuro studio delle atmosfere planetarie con il telescopio spaziale James Webb e con telescopi terrestri di nuova generazione come l’Extremely Large Telescope (ELT), e saranno fondamentali per comprendere la diversità dei sistemi planetari e la storia evolutiva del nostro stesso Sistema solare.

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “The Hot-Neptune Initiative (HONEI). I. Two hot sub-Neptunes on a close-in eccentric orbit (TOI-5800b) and a farther-out circular orbit (TOI-5817b)”, di L. Naponiello et al., è stato accettato per la pubblicazione online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

L’articolo “The Hot Neptune Initiative (HONEI) II. TOI-5795 b: A hot super-Neptune orbiting a metal-poor star”, di F. Manni et al., è stato accettato per la pubblicazione online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testi e immagini dagli Uffici Stampa dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata  e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

INTEGRAL E IL MISTERO DELL’ORIGINE DEL LITIO: SCOPERTA LA TRACCIA DEL BERILLIO NELL’ESPLOSIONE DI UNA NOVA, QUELLA RELATIVA A V1369 CENTAURI

Per la prima volta, un team internazionale guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha rilevato direttamente, nei raggi gamma, la firma del Berillio-7 prodotta durante un’esplosione di nova. Poiché questo isotopo decade in Litio, la scoperta conferma il ruolo delle Novae come principale sorgente di Litio nella Via Lattea. Il risultato, ottenuto grazie ai dati del satellite INTEGRAL e pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics, contribuisce a risolvere un mistero astrofisico decennale.

Un team internazionale di astronomi a guida dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha osservato direttamente per la prima volta la produzione di berillio-7 durante l’esplosione di una nova (dal latino stella nova, a indicare un nuovo astro apparso all’improvviso nel cielo). Il berillio-7 è un isotopo instabile che decade nel corso di circa 53 giorni, trasformandosi in un altro elemento, il litio: la sua identificazione rappresenta un passo decisivo verso la comprensione della genesi del litio nell’universo. La scoperta, basata su osservazioni del satellite INTEGRAL dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e pubblicata sulla rivista Astronomy & Astrophysics, fornisce una prova diretta e indipendente del ruolo cruciale delle nove come “fabbriche di litio”, il terzo elemento più leggero della tavola periodica.

Il segnale osservato nei raggi gamma è associato all’esplosione della stella V1369 Centauri, registrata nel dicembre 2013. Grazie all’analisi dettagliata dei dati raccolti dallo spettrometro SPI, a bordo del satellite europeo, il gruppo di ricerca ha identificato una debole ma significativa emissione gamma con energia di 478 KeV, emessa dal berillio-7 prima del suo decadimento, e considerata la firma inequivocabile della presenza di questo elemento tra i prodotti dell’esplosione. Una volta terminato il processo di decadimento, tutto il berillio prodotto si trasformerà in litio, con un’abbondanza calcolata perfettamente compatibile con quella stimata dalle osservazioni ottiche della stessa nova effettuate nel 2015.

Una nova è un sistema binario in cui una nana bianca – il prodotto finale della vita di una stella come il Sole – sottrae idrogeno alla propria compagna, un’altra stella di piccola massa. Quando l’idrogeno si accumula sulla superficie della nana bianca, innesca una serie di  reazioni termonucleari, provocando un’esplosione in grado di aumentare la luminosità del sistema fino a 100mila volte. Nonostante tempi evolutivi brevi, dell’ordine di giorni o settimane, questi eventi, che si verificano circa 30 volte l’anno nella Via Lattea, espellono quantità significative di gas, contribuendo all’evoluzione chimica della nostra galassia. L’origine del litio rappresenta da decenni un problema aperto dell’astrofisica. Sebbene sia noto che una piccola parte del litio presente nell’universo odierno si sia formata nei primi minuti dopo il Big Bang, l’abbondanza osservata nelle stelle più antiche della Via Lattea è molto più bassa di quanto previsto dai modelli cosmologici (enigma noto come il “problema del litio primordiale”), mentre quella nelle stelle giovani è sorprendentemente più alta (“problema del litio galattico”).

“Osservazioni ottiche precedenti avevano stimato la quantità tipica di berillio-7 prodotta dalle esplosioni di novae”, commenta Luca Izzo, primo autore dell’articolo e ricercatore INAF. “Inizialmente, la distanza stimata di V1369 Centauri rendeva improbabile la rilevazione della riga a 478 keV. Ma grazie al satellite Gaia, abbiamo scoperto che la nova era molto più vicina (circa 3200 anni luce) di quanto stimato in precedenza, rendendo possibile la rilevazione da parte di INTEGRAL. Analizzando i dati di INTEGRAL, raccolti circa 25 giorni dopo l’esplosione, abbiamo trovato un eccesso alla frequenza di 478 keV. Misure accurate dell’intensità di questa riga indicano una quantità di berillio-7 che, una volta decaduto in litio, risulta perfettamente coerente con l’abbondanza di litio misurata tramite osservazioni spettroscopiche nell’ottico e nel vicino ultravioletto, sia in questa nova che, più in generale, in altre novae in cui è stato rilevato litio”.

“Il problema dell’origine del litio ha sfidato gli astrofisici per decenni. Già cinquant’anni fa, teorici come Arnould, Norgaard e Starrfield ipotizzarono che le novae potessero essere la sua sorgente principale”, afferma Massimo della Valle, tra gli autori del lavoro e associato INAF. “Francesca D’Antona e Francesca Matteucci recepirono per prime questa intuizione nei loro modelli di evoluzione chimica della Via Lattea, mostrando che il contributo delle novae era essenziale. L’osservazione della riga a 478 keV è la prova dell’esistenza del berillio-7 negli inviluppi delle novae. Sebbene il rapporto segnale/rumore sia modesto, il fatto che l’emissione sia stata osservata in coincidenza temporale con l’esplosione della nova, esattamente all’energia prevista e con l’intensità attesa, rende altamente improbabile una coincidenza casuale, portando la significatività statistica ben oltre i 3 sigma”.

Rappresentazione artistica di un sistema binario, progenitore di una nova classica, dove la componente primaria, una nana bianca, accresce materia da una compagna evoluta. Crediti: Nasa / ESA L. Hustak (STScI)
Grazie al satellite Integral, novità circa l’origine del litio: scoperta firma del berillio-7 nell’esplosione della nova di V1369 Centauri. Rappresentazione artistica di un sistema binario, progenitore di una nova classica, dove la componente primaria, una nana bianca, accresce materia da una compagna evoluta. Crediti: Nasa / ESA L. Hustak (STScI)

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Possible evidence for the 478 keV emission line from 7Be decay during the outburst phases of V1369 Cen”, di Izzo L., Siegert T., Jean P., Molaro P., Bonifacio P., Della Valle M. e Parsotan T., è stato pubblicato online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testo, video e immagine dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

LOFAR SVELA FILAMENTI RADIO DI ORIGINE INCERTA: L’IMMAGINE PIÙ PROFONDA E AD ALTA RISOLUZIONE DELL’AMMASSO DI GALASSIE ABELL 2255

Un team internazionale di astrofisici guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha ottenuto l’immagine più profonda e ad alta risoluzione mai realizzata dell’ammasso di galassie Abell 2255, situato a circa 800 milioni di anni luce dalla Terra e caratterizzato da complesse strutture radio su molteplici scale. Lo studio, pubblicato su Astronomy & Astrophysics, ha permesso di osservare con dettaglio senza precedenti le principali radiogalassie dell’ammasso, generate da getti di particelle che viaggiano a velocità prossime a quella della luce ed espulsi da enormi buchi neri centrali, rivelando per la prima volta una rete intricata di filamenti sottili, emittenti radiazione non termica, la cui origine è ancora sconosciuta.

L'emissione radio della Original Tailed Radio Galaxy, osservata alla frequenza 144 MHz con una risoluzione angolare di 0,34 × 0,24 arcosecondi, mostra una struttura complessa e ricca di filamenti. Nell’angolo in alto a destra è mostrato un ingrandimento della regione centrata sulla galassia ospite, il cui nucleo è indicato con una croce rossa. Crediti: E. De Rubeis (Università di Bologna - INAF) et al. / A&A 2025
L’emissione radio della Original Tailed Radio Galaxy, osservata alla frequenza 144 MHz con una risoluzione angolare di 0,34 × 0,24 arcosecondi, mostra una struttura complessa e ricca di filamenti. Nell’angolo in alto a destra è mostrato un ingrandimento della regione centrata sulla galassia ospite, il cui nucleo è indicato con una croce rossa. Crediti: E. De Rubeis (Università di Bologna – INAF) et al. / A&A 2025

Le nuove immagini sono state ottenute in modalità di interferometria a lunghissima base VLBI (o VLBI dall’inglese Very Long Baseline Interferometry) dalle stazioni internazionali del radiotelescopio europeo Low Frequency Array (LOFAR), la più estesa rete al mondo, attualmente operativa, per osservazioni radioastronomiche a bassa frequenza. Si tratta delle osservazioni più profonde mai realizzate con questa tecnica su un ammasso di galassie e hanno permesso di ricostruire la storia evolutiva delle radiogalassie, dalle prime fasi fino al loro spegnimento. Un risultato che apre nuove prospettive sullo studio dell’evoluzione di questi oggetti e delle complesse interazioni con il mezzo intergalattico turbolento in ambienti dinamici come Abell 2255.

Mappa LOFAR-VLBI della Original Tailed Radio Galaxy, con evidenziate in diversi colori le regioni utilizzate per analizzarne le principali caratteristiche morfologiche.  Crediti: E. De Rubeis (Università di Bologna - INAF) et al. / A&A 2025
Mappa LOFAR-VLBI della Original Tailed Radio Galaxy, con evidenziate in diversi colori le regioni utilizzate per analizzarne le principali caratteristiche morfologiche. Crediti: E. De Rubeis (Università di Bologna – INAF) et al. / A&A 2025

Grazie a 56 ore di osservazioni alla frequenza radio di 144 MHz, i ricercatori e le ricercatrici hanno ottenuto immagini profonde e con una risoluzione angolare fino a 0,3 arcosecondi: una combinazione eccezionale a queste frequenze, resa possibile dalla lunga esposizione e da tecniche interferometriche avanzate. Questo ha permesso di rivelare strutture filamentose estremamente allungate, con lunghezze comprese tra 260 mila e 360 mila anni luce — ovvero tre o quattro volte il diametro della Via Lattea — e spessori oltre dieci volte inferiori.  Secondo i ricercatori questi filamenti potrebbero originarsi all’interno delle radiogalassie, per poi essere trascinati via da moti turbolenti fino a mescolarsi con il mezzo esterno.

L’attenzione si è concentrata in particolare sulla cosiddetta Original Tailed Radio Galaxy, una galassia radio dalla coda intricata e ricca di filamenti, mai osservata prima con un tale livello di dettaglio. Le nuove immagini rivelano inoltre dettagli inediti di altre radiogalassie all’interno dell’ammasso, come la Goldfish, la Beaver e l’Embryo, caratterizzate da morfologie distorte e lunghe code radio che si estendono per oltre 200 mila anni luce.

“Il nostro obiettivo principale era utilizzare LOFAR-VLBI per individuare eventuali filamenti nelle code delle radiogalassie di Abell 2255, al fine di studiarne le caratteristiche morfologiche e comprenderne l’origine”, spiega Emanuele De Rubeis, primo autore dello studio e dottorando al Dipartimento di Fisica e Astronomia “Augusto Righi” dell’Università di Bologna e l’INAF nella sede bolognese.

“Fenomeni di questo tipo emergono sempre più frequentemente grazie ai moderni interferometri, come i precursori del progetto SKA, e offrono preziose opportunità per indagare le proprietà magnetiche del gas caldo che permea l’ammasso e i meccanismi di accelerazione delle particelle”.

Questo lavoro è stato possibile grazie ai recenti sviluppi delle tecniche di calibrazione dei dati LOFAR-VLBI, in cui la comunità INAF gioca un ruolo di primo piano. Dal 2018 l’INAF è infatti parte integrante del consorzio LOFAR e il contributo dei suoi team di ricerca è stato determinante sia nell’analisi che nell’interpretazione dei dati. L’intera fase di analisi è stata condotta presso l’Istituto di Radioastronomia di Bologna, grazie alle ingenti risorse computazionali messe a disposizione dalle macchine dei cluster LOFAR e del sistema di calcolo ad alte prestazioni INAF-Pleiadi nel Centro di Calcolo dell’istituto bolognese.

De Rubeis aggiunge: “Abbiamo calibrato 56 ore di osservazioni, suddivise in sessioni notturne da circa 8 ore ciascuna. I dati grezzi di ogni notte pesano circa 4 terabyte, ma dopo la calibrazione il  loro volume sale a 18–20 terabyte per un totale di circa 140 terabyte complessivi”.

È una mole di dati enorme per una osservazione di un campo singolo, tra le più vicine per scala a quelle previste per il progetto SKA.

“Ovviamente, calibrare i dati e ottenere immagini di qualità ha richiesto molti tentativi. Per elaborare completamente una singola notte e produrre le immagini di tutte le sorgenti, abbiamo impiegato in media circa un mese”.

“Questi risultati aprono la strada a nuove prospettive per lo studio non solo delle radiogalassie ma anche delle proprietà del gas che permea gli ammassi di galassie” conclude Marco Bondi primo ricercatore INAF a Bologna e secondo autore dello studio.

Questo lavoro rappresenta un primo passo verso un’indagine più ampia: un secondo articolo, già in preparazione, combinerà i dati di LOFAR con osservazioni a frequenze più elevate, ottenute con il Giant Metrewave Radio Telescope (GMRT) in India e il Very Large Array (VLA) negli Stati Uniti, per analizzare l’indice spettrale e la polarizzazione delle strutture appena scoperte.


 

 

Per ulteriori informazioni:

Con oltre 25 mila antenne raggruppate in 51 stazioni distribuite in numerosi stati europei e concepito per catturare le onde radio alle frequenze più basse captabili da Terra, LOFAR è la più estesa rete per osservazioni radioastronomiche in bassa frequenza attualmente operativa. Alla fine del 2023 LOFAR è ufficialmente diventato una European Research Infrastructure Consortium (ERIC), di cui l’Italia – tramite l’INAF – è uno dei membri fondatori. Questo nuovo assetto rafforza il coordinamento scientifico e tecnico su scala europea, promuovendo una maggiore interoperabilità tra i nodi della rete e creando sinergie con altre grandi infrastrutture astronomiche di ricerca. L’INAF guida un consorzio nazionale e sta partecipando allo sviluppo della nuova generazione di dispositivi elettronici che equipaggeranno questo radiotelescopio diffuso sul territorio europeo. Il consorzio ha l’obiettivo di fornire agli scienziati italiani le condizioni per l’accesso e l’analisi dei dati di LOFAR, massimizzando l’impatto scientifico della ricerca. L’INAF gestisce, inoltre, l’infrastruttura computazionale nazionale per l’analisi dei dati LOFAR, distribuita in tre siti: Bologna, Trieste e Catania.

 

L’articolo “Revealing the intricacies of radio galaxies and filaments in the merging galaxy cluster Abell 2255. I. Insights from deep LOFAR-VLBI sub-arcsecond resolution images”, di E. De Rubeis, M. Bondi, A. Botteon, R. J. van Weeren, J. M. G. H. J. de Jong, L. Rudnick, G. Brunetti, K. Rajpurohit, C. Gheller, H. J. A. Röttgering, è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

CEFEO A HW2: ECCO COME SI FORMANO LE PROTOSTELLE MASSICCE

Lo studio a guida INAF di Cefeo A HW2, una stella massiccia in formazione, mostra sorprendenti caratteristiche di questo oggetto celeste, avvolto da un enorme disco di polveri e gas in cui è stata individuata una forte concentrazione di ammoniaca calda. I risultati, pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics, non solo migliorano la nostra comprensione dei processi di formazione delle stelle più massicce, ma anche dei fenomeni legati all’ evoluzione galattica e all’arricchimento chimico nell’universo.

Come si formano e come si accrescono le stelle di grande massa? Uno studio guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) affronta queste domande risolvendo per la prima volta un dibattito di lungo corso riguardante l’esistenza, o meno, di un disco di accrescimento attorno a Cefeo A HW2, la seconda protostella supermassiccia più vicina al Sole avente una massa di sedici volte quella della nostra stella. Grazie a osservazioni effettuate con i radiotelescopi del Jansky Very Large Array (VLA), il disco e i gas che si muovono al suo interno sono stati osservati con un dettaglio finora mai raggiunto. Le simulazioni di laboratorio hanno completato il quadro gettando così nuova luce su come le stelle giganti accumulino un’enorme massa proveniente dal disco di accrescimento durante i loro primi millenni di vita.

In ambito astronomico e divulgativo sentiamo spesso parlare delle “supernove” e del fatto che siano ciò che resta di incredibili esplosioni dovute al collasso di enormi stelle ormai esauste. Non è però comune sentir parlare di come queste stelle massicce, che per definizione hanno una stazza di almeno otto masse solari, riescano a formarsi e ad accrescere la loro massa quando sono ancora molto giovani. La risposta sta nell’esistenza e nelle proprietà del cosiddetto disco di accrescimento, ovvero una grande concentrazione di gas e polveri che gravita spiraleggiando intorno alle protostelle durante la loro formazione e le nutre aumentandone la massa. Il tutto, prima ancora che avvenga l’innesco di una fusione nucleare stabile che possa definirle come stelle vere e proprie.

Una delle questioni più intriganti discusse tra gli specialisti negli ultimi decenni è stata capire se i dischi di accrescimento fossero caratteristici solo di stelle medio-piccole come il Sole, che è una nana gialla, o se fossero in grado di sostenere anche gli enormi flussi di materia necessari ad accrescere una giovane stella decine di volte più massiccia della nostra.

Cefeo A HW2 protostella
Cefeo A HW2: ecco come si formano le protostelle massicce, secondo uno studio pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics

A dissolvere questo dubbio è arrivato uno studio, appena pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics, che coinvolge una dozzina di centri di ricerca e università tra Stati Uniti, Europa e Sudamerica, tra cui quattro osservatori dell’INAF: Cagliari, Arcetri (Firenze), Bologna e Napoli. Le osservazioni sono state eseguite con una potente rete di radiotelescopi che si trova negli Stati Uniti, il Jansky Very Large Array per osservare la radio-sorgente Cepheus A HW2. Questa sorgente possiede alcune interessanti caratteristiche che la fanno ritenere una protostella piuttosto massiccia, tra l’altro molto osservata dagli astronomi negli ultimi 40 anni. Dista infatti solo 2300 anni luce da noi e ciò consente di poterla osservare con il VLA alla definizione minima di 100 unità astronomiche ovvero con un dettaglio sufficiente a individuarne il disco. Inoltre, HW2 possiede una massa stimata in ben sedici volte quella del Sole.

Per poter verificare l’esistenza di un disco di accrescimento intorno a HW2, risolvendone struttura e proprietà, il radiotelescopio americano – finanziato dalla National Science Foundation (NSF) e gestito dal National Radio Astronomy Observatory (NRAO) – ha osservato la sorgente a una  frequenza di circa 24 GHz, alla ricerca di un tracciante in particolare: l’ammoniaca interstellare (NH3). Questa molecola, così comune e utilizzata sulla Terra, è anche la prima molecola poliatomica (ovvero con tre o più atomi) rilevata al di fuori del Sistema solare e tra le più abbondanti specie presenti nelle comete.

Nel caso di HW2 è stato dunque osservato un denso anello di ammoniaca calda che si estende per raggi che vanno da 200 a 700 unità astronomiche intorno alla stella e che mostra anche densità differenti da zona a zona. Per avere un facile riscontro, basti pensare che Nettuno, l’ultimo dei grandi pianeti gassosi, dista dal Sole circa 30 unità astronomiche, ovvero 30 volte la distanza Terra-Sole. Tuttavia queste distanze che oggi appaiono troppo piccole e impossibili da osservare su HW2 con il Vla, potranno verosimilmente – come sottolinea Todd Hunter di NRAO – essere raggiunte nel giro di 10 anni con lo sviluppo del next generation VLA. Il comportamento dell’ammoniaca è stato poi direttamente confrontato con simulazioni di laboratorio effettuate da André Oliva, professore dell’Università e Space Research Center della Costa Rica, che hanno permesso di riprodurre le osservazioni spiegando allo stesso tempo la dinamica del gas attorno alla protostella.

I risultati confermano quindi che i dischi protostellari possono sostenere tassi di accrescimento di massa molto alti, anche quando la stella centrale ha già raggiunto una massa decine di volte superiore a quella del nostro Sole.

“Le nostre osservazioni – afferma Alberto Sanna, ricercatore INAF e primo autore dell’articolo scientifico – forniscono una prova diretta che anche stelle massicce possono formarsi attraverso un disco di accrescimento fino a decine di masse solari. HW2 è la seconda stella giovane e massiccia più vicina alla Terra e, da decine d’anni, costituisce un laboratorio privilegiato per mettere alla prova le attuali teorie sulla formazione stellare. In particolare, il nostro studio risolve un dibattito di lunga data sull’esistenza o meno di un disco di accrescimento attorno ad HW2”.

Questo studio ha consentito inoltre una misura diretta della quantità di gas e polveri che fluisce attorno alla stella, arrivando alla conclusione che la materia in “caduta libera” verso HW2 ammonta a circa due masse del pianeta Giove all’anno, uno dei tassi più alti mai osservati, che corrisponde a una crescita ipotetica della stella pari a ben due masse solari ogni mille anni. Tuttavia, molte domande rimangono ancora aperte.

“Se da una parte – puntualizza infatti Sanna – i nostri risultati dimostrano che dischi circumstellari attorno a giovani stelle massicce sono in grado di sostenere gli alti tassi di accrescimento previsti dalla teoria, allo stesso tempo ci chiediamo: quanto di quell’enorme flusso di materia osservato diventerà effettivamente parte della massa finale della stella?”

Questo lavoro non solo migliora la nostra comprensione delle dinamiche che portano alla formazione delle stelle più massicce, ma ha anche implicazioni più ampie sull’evoluzione galattica e l’arricchimento chimico nell’universo. Sono proprio queste stelle extra large che, durante tutto il loro ciclo evolutivo ma in particolare nella turbolenta e catastrofica fase finale, disseminano le galassie di elementi pesanti e specie molecolari più complesse, creati proprio dalle immense temperature e pressioni che solo questi oggetti sono in grado di generare.


Riferimenti bibliografici:

L’articolo “Gas infall via accretion disk feeding Cepheus A HW2”, di A. Sanna, A. Oliva, L. Moscadelli, C. Carrasco-González, A. Giannetti, G. Sabatini, M. Beltrán, C. Brogan, T. Hunter, J.M. Torrelles, A. Rodríguez-Kamenetzky, A. Caratti o Garatti, R. Kuiper, è stato pubblicato online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

KEPLER-10c: UN PIANETA DI ACQUA SVELATO DAI CIELI DELLE CANARIE

Un team guidato dall’INAF ha misurato con grande precisione la massa del pianeta Kepler-10c, definendolo come un possibile mondo in gran parte composto da ghiaccio di acqua. Lo studio, pubblicato oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics e realizzato grazie ai dati raccolti dallo spettrografo HARPS-N installato al Telescopio Nazionale Galileo, ha permesso anche di confermare la presenza di un altro pianeta nel sistema di Kepler-10, fornendo nuove informazioni per comprendere la formazione dei pianeti e le origini del nostro Sistema solare.

Un team internazionale guidato da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha determinato la massa e la densità del pianeta Kepler-10c con precisione e accuratezza senza precedenti. Grazie a circa 300 misure di velocità radiale raccolte con lo spettrografo High Accuracy Radial velocity Planet Searcher for the Northern hemisphere (HARPS-N) installato al Telescopio Nazionale Galileo (TNG) che scruta il cielo dalle Isole Canarie, è stato possibile stimarne la sua composizione – in gran parte di acqua allo stato solido ma forse anche liquido – e capire come si possa essere formato. Lo studio è stato pubblicato oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Kepler-10 è un sistema esoplanetario storico: ospita Kepler-10b, la prima super-Terra rocciosa scoperta dalla missione spaziale Kepler della NASA con un periodo orbitale inferiore al giorno terrestre, e Kepler-10c, un pianeta con un periodo orbitale di 45 giorni, classificato come sub-Nettuno, ovvero un pianeta con raggio e massa inferiori a quelli di Nettuno. Per anni, la massa di Kepler-10c è stata oggetto di grande incertezza: stime discordanti avevano reso difficile capire di cosa fosse fatto.

I dati acquisiti con HARPS-N sono stati elaborati con un nuovo metodo che corregge per effetti strumentali e variazioni dell’attività magnetica della stella madre, anche se di bassa intensità, e sono stati analizzati indipendentemente da tre gruppi dentro il team, raggiungendo gli stessi risultati. Questo lavoro ha permesso di capire che probabilmente Kepler-10c è un water world, ovvero un pianeta con gran parte della sua massa in acqua allo stato solido (ghiaccio) e forse, in piccola percentuale, anche liquido. I ricercatori ritengono che il pianeta si sia formato oltre la cosiddetta linea di condensazione dell’acqua a circa due o tre unità astronomiche dalla sua stella, e che poi si sia progressivamente avvicinato fino alla sua attuale orbita.

Ma non è tutto: il team ha anche confermato l’esistenza di un terzo pianeta, non visibile nei transiti ma rivelato per una piccola anomalia che esso induce sull’orbita di Kepler-10c, riscontrabile nelle  variazioni dei tempi di transito proprio del pianeta Kepler-10c, in modo analogo alla scoperta di Nettuno grazie alle anomalie osservate nell’orbita di Urano. Questo pianeta “fantasma” era stato ipotizzato in precedenza, ma solo ora è stato possibile determinarne in modo accurato il periodo orbitale di 151 giorni e la massa minima, grazie all’eccezionale qualità delle misure di velocità radiale HARPS-N.

“L’analisi delle velocità radiali e delle variazioni dei tempi di transito, dapprima singolarmente e poi in combinazione tra loro, ha dato dei risultati in ottimo accordo sui parametri del terzo pianeta; abbiamo così corretto precedenti stime inaccurate delle sue proprietà”, commenta Luca Borsato dell’INAF di Padova, secondo autore dell’articolo.

Aldo Bonomo dell’INAF di Torino, primo autore dell’articolo, aggiunge: “L’esistenza dei water world è stata prevista teoricamente dai modelli di formazione e migrazione planetarie, ma non ne abbiamo ancora una conferma certa. Tuttavia, una quindicina di pianeti attorno a stelle di tipo solare come Kepler-10c sembrano avere proprio la composizione prevista da questi modelli. La prova del nove dell’esistenza dei water world dovrebbe venire dallo studio delle loro atmosfere con il telescopio spaziale James Webb, perché ci aspettiamo che essi abbiano delle atmosfere particolarmente ricche di vapore acqueo”.

Lo studio del sistema Kepler-10 ci aiuta a capire come si formano i pianeti attorno alle loro stelle. Super-terre come Kepler-10b e sub-Nettuni come Kepler-10c, così comuni nella Galassia ma assenti nel nostro Sistema solare, rappresentano un tassello cruciale per comprendere la varietà dei mondi che orbitano attorno ad altre stelle. In particolare, studiare la composizione dei pianeti cosiddetti sub-nettuniani e capire se sono ricchi o poveri di ghiaccio, può fornire indicazioni non solo sulla loro origine, ma anche sulle prime fasi di formazione dei sistemi planetari e quindi del nostro stesso Sistema solare. Conoscere come e dove si formano questi pianeti e i loro moti di migrazione verso la loro stella, significa guardare indietro nel tempo per scoprire qualcosa in più sulle origini della Terra e forse anche  della vita.


 

Riferimenti Bibliografici:

L’articolo In-depth characterization of the Kepler-10 three-planet system with HARPS-N radial velocities and Kepler transit timing variations, di A. S. Bonomo, L. Borsato, V.M. Rajpaul, L. Zeng, M. Damasso, N.C. Hara, M. Cretignier, A. Leleu, N. Unger, X. Dumusque, F. Lienhard, A. Mortier, L. Naponiello, L. Malavolta, A. Sozzetti, D.W. Latham, K. Rice, R. Bongiolatti, L. Buchhave, A.C. Cameron, A.F. Fiorenzano, A. Ghedina, R.D. Haywood, G. Lacedelli, A. Massa, F. Pepe, E. Poretti e S. Udry è stato pubblicato online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF