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PROGETTO ALMAGAL: COSÌ SI FORMANO E SI ACCENDONO LE STELLE, OSSERVANDO OLTRE 1000 REGIONI DI FORMAZIONE STELLARE, CON UN LIVELLO DI DETTAGLIO SENZA PRECEDENTI

Arrivano i primi risultati del progetto ALMAGAL, il più esteso censimento finora realizzato con ALMA delle regioni di formazione stellare, guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica. Le prime analisi, in pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics, rivelano che le stelle si formano più numerose e più grandi in aree delle nebulose con una maggiore concentrazione di materiale.

Il progetto ALMAGAL inizia a fornire nuove e decisive informazioni su come si formano le stelle nella nostra Galassia, osservando più di 1000 regioni di formazione stellare con un livello di dettaglio senza precedenti. Grazie alla potenza del radiotelescopio ALMA (Atacama Large Millimeter/Submillimeter Array) situato sull’altopiano di Chajnantor, nel deserto di Atacama in Cile, il team di ALMAGAL è riuscito a esplorare queste enormi “fucine” cosmiche in maniera completamente nuova, offrendo una visione impareggiabile dei processi che portano alla nascita delle stelle. Il progetto ALMAGAL, una collaborazione internazionale guidata dall’Istituto Nazionale di Astrofisica, insieme all’Università di Colonia, l’Università del Connecticut e all’Academia Sinica, è nato per gettare nuova luce sui processi che portano le nubi molecolari a frammentarsi nei nuclei elementari da cui poi si formano le singole stelle.

“ALMAGAL rappresenta un salto quantico rispetto ad altri progetti che studiano la nascita di nuovi ammassi stellari” dice Sergio Molinari, responsabile italiano del progetto e ricercatore dell’INAF di Roma. “Osservando più di 1000 di queste regioni, ALMAGAL da solo è 4 volte più grande di tutti gli altri programmi simili messi insieme permettendo per la prima volta studi quantitativi statisticamente significativi”.

Collage di alcune fra le più di 1000 regioni di formazione stellare osservate in ALMAGAL. Le immagini rappresentano l'emissione termica della polvere fredda nel continuo alla lunghezza d'onda di 1.38mmCrediti: ESO/ALMA/ALMAGAL. Creato da C. Mininni
Collage di alcune fra le più di 1000 regioni di formazione stellare osservate in ALMAGAL. Le immagini rappresentano l’emissione termica della polvere fredda nel continuo alla lunghezza d’onda di 1.38mm
Crediti: ESO/ALMA/ALMAGAL. Creato da C. Mininni

Le nubi molecolari – enormi agglomerati di gas e polveri presenti nello spazio interstellare – sono le fucine in cui si generano le stelle. Da decenni i ricercatori che studiano la formazione stellare stanno cercando di comprendere perché le nebulose, pur utilizzando elementi costitutivi simili – per lo più idrogeno, elio e piccole quantità di elementi più pesanti – producono stelle con masse molto diverse da caso a caso. Il radiotelescopio ALMA osserva la radiazione cosmica a lunghezze d’onda millimetriche e submillimetriche molto più lunghe di quella visibile. Questo lo rende perfetto per osservare oggetti celesti freddi, proprio come la polvere e il gas delle nubi molecolari, che emettono proprio a quelle lunghezze d’onda. Inoltre, poiché ALMA combina la luce di 66 antenne situate anche a chilometri di distanza l’una dall’altra, è in grado di distinguere dettagli in questa finestra osservativa come nessun altro strumento oggi operativo.

All’interno delle nubi molecolari, polvere e gas si addensano per creare strutture più piccole chiamate “grumi” (clumps in inglese), di dimensioni fino a qualche anno-luce. Questi grumi si frazionano ulteriormente in ammassi di oggetti più piccoli chiamati “nuclei” (o cores), densi agglomerati in cui si formano le stelle singole. Oltre alla gravità, si pensa che diversi processi come la turbolenza nel gas o i campi magnetici controllino il modo in cui le nebulose si frammentano in grumi e nuclei.

ALMAGAL è progettato per capire meglio come tutto ciò avviene: è il primo censimento completo che ha osservato grumi di tutte le età, masse e ubicazioni in tutti i quartieri della nostra Galassia, fornendo un quadro imparziale. I risultati iniziali basati sull’analisi di 800 grumi e più di 6000 nuclei, evidenziano che non tutte le regioni di formazione stellare sono uguali. Le analisi presentate in questi primi articoli suggeriscono che i grumi più densi tendono a produrre un numero maggiore di nuclei, e quindi di stelle. Curiosamente è la maggiore concentrazione di materiale presente in un grumo, e non solo la sua quantità, che determina una sua maggiore capacità di formare nuove stelle. I nuclei hanno bisogno del materiale dei loro grumi iniziali per crescere, ed i grumi più densi e massicci sono in grado di produrre un maggior numero di nuclei che sono anche più ricchi di massa.

“La vastità del campione di strutture analizzato ci ha permesso di rivelare e di descrivere con un livello di dettaglio mai raggiunto prima la varietà delle caratteristiche fisiche (oltre che statistiche) di questi nuclei, ad esempio in termini di massa, dimensioni e densità” spiega Alessandro Coletta, dottorando dell’INAF di Roma. “Inoltre, è stato possibile indagare se, ed in quale misura, tali caratteristiche siano legate alle proprietà dei grumi ospitanti: ciò ci ha consentito di interpretare i risultati ricavati dalle osservazioni nel più ampio contesto del processo di formazione stellare, formulando dei primi scenari coerenti per arrivare a spiegarne i meccanismi”.

Osservando infatti regioni di età diverse, ALMAGAL ha scoperto che queste fucine si trasformano nel tempo. La maggior parte dei grumi più giovani mostrano solo pochissimi nuclei, e con il procedere del tempo la frammentazione ne produce un numero sempre crescente, che si distribuiscono nel modo più vario: da strutture circolari a distribuzioni filamentari, sviluppando geometrie più intricate.

“Questo è solo l’inizio” continua Sergio Molinari. “Per comprendere davvero quali siano i meccanismi fisici dominanti che giustifichino questi risultati è di fondamentale importanza il confronto con predizioni teoriche. Con il progetto Rosetta Stone sviluppato all’interno del progetto ERC Synergy ECOGAL (di cui ALMAGAL è parte) siamo pronti per il confronto delle immagini ALMAGAL con un’ampia gamma di simulazioni numeriche in cui i processi di frammentazione e formazione stellare vengono riprodotti al computer”.


 

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “ALMAGAL I. The ALMA evolutionary study of high mass protocluster formation in the Galaxy. Presentation of the survey and early results”, di Molinari, S., et al. è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

L’articolo “ALMAGAL II. The ALMA evolutionary study of high-mass protocluster formation in the Galaxy. ALMA data processing and pipeline”, di Sánchez-Monge, Á., et al. è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

L’articolo “ALMAGAL III. Compact source catalog: fragmentation statistics and physical evolution of the core population”, di Coletta, A., et al. è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

 

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

L’interazione tra buchi neri e onde gravitazionali si studia con un esperimento da tavolo

Lo studio, basato sulla tesi di Chiara Coviello, laureata in Fisica all’Unipi, è stato pubblicato sulla rivista AVS Quantum.

Uno studio basato sulla tesi di Chiara Coviello, laureata in Fisica all’Università di Pisa nel 2023 e adesso al King’s College di Londra per un dottorato di ricerca, è stato recentemente pubblicato dalla rivista AVS Quantum Science. Al centro dello studio – intitolato “Gravitational waves and Black Hole perturbations in acoustic analogues” – ci sono i buchi neri che, con il loro fascino oscuro, sono tra gli oggetti più affascinanti del cosmo e sono incredibilmente difficili da analizzare. Per comprenderli meglio, il gruppo di ricerca interdisciplinare di cui fa parte Coviello ha esaminato i buchi neri acustici, un equivalente analogico che intrappola le onde sonore e può essere creato in un esperimento da tavolo. Tra gli autori e le autrici dello studio ci sono anche la professoressa Marilù Chiofalo dell’Università di Pisa, i professori Dario Grasso dell’INFN di Pisa, Stefano Liberati della SISSA di Trieste e Massimo Mannarelli dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso, con la dottoressa Silvia Trabucco, dottoranda di ricerca al Gran Sasso Institute Science dopo essersi laureata in Fisica a Pisa.

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L’interazione tra buchi neri e onde gravitazionali si studia con un esperimento da tavolo; lo studio pubblicato su AVS Quantum Science

Coviello e gli altri autori e autrici hanno indagato se i buchi neri acustici possano essere utilizzati per comprendere le interazioni tra le onde gravitazionali e i buchi neri astrofisici. In un’analisi teorica, hanno esplorato come generare perturbazioni simili a onde gravitazionali in un condensato di Bose-Einstein di atomi ultrafreddi, uno stato della materia in cui qualche centinaia di migliaia di atomi si comportano collettivamente come se fossero un unica grande molecola. Nei condensati di Bose-Einstein, le eccitazioni di più bassa energia sono perturbazioni della densità, descritte da particella quantistiche chiamate fononi. Nello studio, i fononi si muovono come particelle senza massa in una geometria che può essere ingegnerizzata in modo da riprodurre caratteristiche di un buco nero per quanti di luce, o fotoni, cioè un buco nero astrofisico. Negli analoghi buchi neri acustici, infatti, sono i fononi a rimanere intrappolati e al tempo stesso costituire la cosiddetta radiazione di Hawking, predetta dal celebre astrofisico Stephen Hawking per i buchi neri astrofisici. Utilizzando quanto noto sulle onde gravitazionali, le autrici e gli autori hanno sviluppato un dizionario tra buchi neri astrofisici e buchi neri acustici, per comprendere meglio gli effetti di perturbazioni simili alle onde gravitazionali sull’orizzonte acustico di un buco nero da laboratorio. L’idea è usare esperimenti di fisica della materia in tavoli ottici di qualche metro quadro come simulatori quantistici altamente accurati e controllabili per studiare proprietà di oggetti di interesse astrofisico e cosmologico.

“Siamo entusiasti che questa fisica possa essere studiata in esperimenti attualmente realizzabili, ad esempio con atomi ultra-freddi, offrendo un nuovo modo per analizzare questi sistemi in un ambiente controllato”, ha dichiarato l’autrice Chiara Coviello.

Chiara Coviello
Chiara Coviello

I risultati potrebbero essere utilizzati per studiare gli effetti di dissipazione e riflessione delle perturbazioni simili alle onde gravitazionali nei buchi neri acustici. Gli autori e le autrici ritengono che ciò contribuirà a far luce sui comportamenti universali e sul ruolo delle fluttuazioni quantistiche nei buchi neri astrofisici.

Il team di ricerca, composto da una collaborazione tra diverse università e centri di ricerca, intende proseguire lo studio analizzando le proprietà di viscosità dell’orizzonte acustico in relazione alla sua entropia, note per avere comportamenti universali, cioè non dipendenti dallo specifico sistema fisico. I risultati potrebbero fornire nuove intuizioni sulla teoria fisica di base e sulle simmetrie dei buchi neri astrofisici.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

EPPUR SI MUOVONO, RUOTANDO: IL PROGETTO LEWIS MOSTRA INASPETTATE PROPRIETÀ SULLE GALASSIE ULTRA DIFFUSE: MOTI DI ROTAZIONE DELLE STELLE INTORNO AL CENTRO DELLE STESSE UDG

Il progetto LEWIS a guida INAF ha permesso per la prima volta di mappare i moti delle stelle che compongono 30 galassie ultra diffuse, scoprendo che esse ruotano attorno al loro centro: un risultato inatteso che mette in crisi le attuali teorie riguardanti questa particolare classe di galassie. I risultati presentati nei due articoli appena pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics potrebbero cambiare la nostra comprensione dell’evoluzione delle UDG e del loro legame con la materia oscura.

Immagine delle galassie NGC3314 e UDG32 acquisite con la OmegaCAM installata al telescopio VST. Crediti: ESO/INAF - E. Iodice
Immagine delle galassie NGC3314 e UDG32 acquisite con la OmegaCAM installata al telescopio VST. Crediti: ESO/INAF – E. Iodice

Nuovi dettagli sulle galassie ultra diffuse, le cosiddette Ultra-Diffuse Galaxies (UDG), sono stati svelati grazie a due studi recentemente pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics. I lavori, realizzati con un contributo fondamentale di ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, hanno mappato per la prima volta la cinematica stellare di circa 30 UDG nell’ammasso galattico dell’Idra, distante oltre 160 milioni di anni luce da noi.

La scoperta inattesa di moti di rotazione delle stelle intorno al centro di queste elusive e deboli galassie potrebbe cambiare radicalmente la nostra comprensione della loro storia di formazione ed evoluzione. Questo studio è stato reso possibile grazie al progetto internazionale “Looking into the faintEst WIth MUSE” (LEWIS), guidato dalla ricercatrice INAF Enrichetta Iodice, che ha utilizzato il potente spettrografo a campo integrale MUSE, installato al Very Large Telescope (VLT) dell’ESO in Cile.

Le galassie ultra diffuse, scoperte di recente grazie ai progressi tecnologici in astronomia, sono galassie poco luminose ma molto estese e di bassa luminosità. Identificate per la prima volta in grandi quantità nel 2015, la loro natura e il loro processo di formazione sono ancora oggetto di intensa ricerca. Le nuove analisi spettroscopiche con il progetto LEWIS hanno rivelato che queste galassie si trovano in ambienti estremamente variabili, mostrando una sorprendente varietà nelle loro proprietà fisiche, come la cinematica delle stelle che le compongono e la quantità di materia oscura presente.

Rappresentazione artistica di una galassia ultra diffusa in fase di rotazione. Crediti: C. Butitta/INAF
Progetto LEWIS: scoperta inattesa di moti di rotazione delle stelle intorno al centro di queste elusive e deboli galassie ultra diffuse. Rappresentazione artistica di una galassia ultra diffusa in fase di rotazione. Crediti: C. Butitta/INAF

Uno dei risultati più significativi ed inaspettati del progetto LEWIS è l’identificazione di diverse classi cinematiche di UDG nell’ammasso dell’Idra. Quasi la metà delle galassie esaminate mostra segni evidenti di rotazione nelle stelle che le compongono. Una scoperta che contrasta con una convinzione precedente, secondo cui queste galassie non dovrebbero mostrare questo tipo di moti. Questo risultato potrebbe essere fondamentale per comprendere meglio la struttura di queste galassie e il loro legame con la materia oscura.

“I risultati che abbiamo ottenuto hanno avuto una duplice soddisfazione”, dice Chiara Buttitta, ricercatrice postdoc  INAF e prima autrice di uno dei due articoli pubblicati su Astronomy & Astrophysics. “Non solo siamo stati in grado di ricavare i moti stellari in queste galassie estremamente deboli, ma abbiamo trovato qualcosa che non ci aspettavamo di osservare”.

Le osservazioni hanno permesso in particolare di realizzare un’analisi dettagliata di UDG32, una galassia ultra diffusa che è stata scoperta all’estremità dei filamenti della galassia a spirale NGC3314A. La UDG32 è appena visibile, ed appare come una debole macchia giallastra nelle immagini. Una delle possibili origini proposte per le UDG è la formazione da nubi di gas nei filamenti di galassie come la NGC3314A. Questa è rimasta solo un’ipotesi fino a quando è stata scoperta la UDG32. In particolare, una nube di gas presente nei filamenti, se raggiunge la densità critica, sotto l’azione della forza gravitazionale può collassare e formare stelle, diventando un nuovo sistema originatosi dal materiale rilasciato dalla galassia madre. L’analisi dei dati LEWIS ha confermato che la UDG32 è associata alla coda di filamenti della galassia NGC3314A: quindi non è solo un effetto di proiezione che localizza casualmente la UDG32 nella coda di NGC3314A. Inoltre, i nuovi dati hanno mostrato che la UDG32 è caratterizzata da una popolazione stellare ricca di metalli e di età intermedia, più giovane delle altre UDG osservate nell’ammasso dell’Idra, consistente con l’ipotesi che questa galassia potrebbe essersi formata da materiale pre-arricchito nel gruppo sud-est dell’ammasso dell’Idra e quindi liberato da una galassia più massiccia.

LEWIS è il primo grande progetto dell’ESO, guidato da INAF, interamente dedicato allo studio delle UDG. Questo programma ha raddoppiato il numero di galassie ultra diffuse analizzate spettroscopicamente, fornendo per la prima volta una visione globale delle loro proprietà all’interno di un ammasso di galassie ancora in fase di formazione.

“Il progetto LEWIS è stata una sfida. Quando questo programma è stato accettato dall’ESO abbiamo realizzato che fosse una miniera di dati da esplorare. E tale si è rivelato” afferma Enrichetta Iodice, ricercatrice INAF e responsabile scientifica del progetto. “La ‘forza’ di LEWIS, grazie alla spettroscopia integrale dello strumento usato, risiede nel poter studiare contemporaneamente, per ogni singola galassia, non solo i moti delle stelle, ma anche la popolazione stellare media e, quindi, avere indicazioni sull’età di formazione e le proprietà degli ammassi globulari, traccianti fondamentali anche per il contenuto di materia oscura. Mettendo insieme i singoli risultati, come in un puzzle, si ricostruisce la storia di formazione di questi sistemi”.

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Looking into the faintEst WIth MUSE (LEWIS): Exploring the nature of ultra-diffuse galaxies in the Hydra-I cluster”, di Buttita C. Iodice E. et al. è stato pubblicato online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

L’articolo “Looking into the faintEst WIth MUSE (LEWIS): Exploring the nature of ultra-diffuse galaxies in the Hydra I cluster”, di Hartke J., Iodice E., et al. è stato pubblicato online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

La pagina web del progetto LEWIS: https://sites.google.com/inaf.it/lewis/home

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

DUE STUDI ATTORNO AGLI AMMASSI GLOBULARI DELLE GALASSIE NGC 3640, NGC 3641, NGC 5018

Nelle osservazioni di gruppi di galassie realizzate con il telescopio italiano VST in Cile, tra cui una nuova immagine del gruppo dominato dalla galassia NGC 3640, gli ammassi globulari tracciano la storia e le dinamiche galattiche. Scoperte anche 17 nuove galassie nane nel gruppo.

Gli ammassi globulari non sono solo semplici agglomerati di stelle: sono vere e proprie macchine del tempo cosmiche che permettono di tuffarsi nella storia di formazione ed evoluzione delle galassie. Con centinaia di migliaia di stelle raccolte in un unico sistema, questi antichissimi agglomerati stellari raccontano storie segrete di fusioni galattiche e di eventi cosmici che hanno scolpito l’Universo come lo conosciamo oggi. Lo ribadiscono le immagini dei gruppi di galassie NGC 3640 e NGC 5018, realizzate con il telescopio italiano VST (VLT Survey Telescope) in Cile e analizzate in due studi guidati da giovani dottorandi dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), pubblicati recentemente su Astronomy & Astrophysics.

Uno dei due lavori si focalizza sul gruppo di galassie NGC 3640, dominato dall’omonima galassia ellittica, a circa 88 milioni di anni luce da noi. Si tratta di una galassia dalla forma curiosa e perturbata, che reca i segni di passate interazioni con le vicine galassie. La nuova immagine ottenuta con il VST e pubblicata oggi svela per la prima volta la distribuzione degli ammassi globulari nella regione, visibili come puntini luminosi nei pressi delle galassie: questi non si limitano a orbitare intorno alle singole galassie, ma si estendono anche nello spazio intergalattico. La loro disposizione è il risultato di una lunga storia di interazioni e fusioni galattiche che hanno “strappato via” non solo singole stelle ma anche interi ammassi stellari dai loro sistemi originali.

“Il nostro studio offre una comprensione più approfondita dell’evoluzione e delle interazioni delle galassie nel corso della loro storia, arricchendo le conoscenze sui processi fondamentali che hanno modellato l’universo”, spiega Marco Mirabile, dottorando presso il Gran Sasso Science Institute (GSSI) con una borsa supportata da INAF d’Abruzzo e primo autore di uno dei due articoli. “Abbiamo studiato per la prima volta le proprietà degli ammassi globulari delle galassie NGC 3640 e NGC 3641 utilizzando immagini a grande campo e multi-banda, identificando un possibile nuovo modello di interazione tra le due galassie e scoprendo inoltre 17 nuove galassie nane che non erano note precedentemente in questo campo”.

Gli ammassi globulari analizzati nel lavoro, contrariamente alle aspettative, mostrano la loro massima concentrazione non intorno a NGC 3640, la galassia più massiccia del gruppo, ma intorno alla sua vicina, NGC 3641, che spicca nella metà inferiore dell’immagine. La distribuzione degli ammassi risulta peraltro allineata con la cosiddetta luce intragruppo (in inglese: intra-group light, IGL). Si tratta di una luminosità diffusa dovuta a stelle che sono state sottratte alle varie galassie durante fenomeni di merging, già studiata in questo sistema proprio grazie ai dati del VST in un lavoro guidato dalla ricercatrice INAF Rossella Ragusa nel 2023. Tutti questi indizi suggeriscono che la fusione tra queste due galassie sia ancora in corso.

Il secondo studio si concentra invece sul gruppo di galassie NGC 5018, anch’esso dominato dalla galassia ellittica che porta lo stesso nome e che si trova a circa 120 milioni di anni luce da noi. Anche NGC 5018 è ricca di segni di interazioni cosmiche: concentrazioni di stelle disposte in forma di gusci concentrici, code mareali e flussi di gas. Nelle immagini del VST, già studiate sin dal 2018, è stato ora possibile identificare, per la prima volta, una popolazione di ammassi globulari distribuita, anche in questo caso, lungo la luce intragruppo: questo evidenzia come la mutua gravità delle galassie abbia scolpito il sistema durante passate fusioni e interazioni.

“Il nostro studio suggerisce che le interazioni gravitazionali tra le galassie del gruppo NGC 5018 abbiano disperso gli ammassi globulari lungo l’asse di interazione”, nota il Pratik Lonare, dottorando presso l’Università di Roma Tor Vergata con una borsa supportata da INAF d’Abruzzo e primo autore del secondo articolo. “Questa ricerca dimostra che gli ammassi globulari non sono solo fossili della formazione iniziale delle galassie, ma vengono rimodellati dinamicamente da interazioni, fusioni e processi di accrescimento nel tempo”.

Inoltre, il team ha individuato una possibile nuova galassia nana ultra-diffusa (in inglese: ultra-diffuse galaxy, UDG) mai osservata prima in questo gruppo galattico.

I due nuovi lavori fanno parte del progetto VEGAS-SSS (VST Early-type GAlaxy Survey – Small Stellar Systems), un censimento di galassie guidato dall’INAF con il VST dedicato ai sistemi stellari più piccoli delle galassie, come ammassi globulari e galassie nane, per esplorare i processi di formazione galattica su scale cosmiche. Il telescopio VST, gestito da INAF presso l’Osservatorio ESO di Paranal, è lo strumento ideale per questo tipo di studi grazie al suo grande campo di vista di un grado quadrato, pari a circa quattro volte l’area della luna piena nel cielo. Questo permette di osservare in dettaglio non solo le galassie ma anche l’ambiente circostante, spianando la strada a progetti futuri come l’Osservatorio Vera C. Rubin, che sarà inaugurato prossimamente, sempre in Cile, per realizzare survey astronomiche con un campo di vista ancora più grande.


 

Per ulteriori informazioni:

Gli articoli “VEGAS-SSS: Tracing Globular Cluster Populations in the Interacting NGC 3640 Galaxy Group“, di Marco Mirabile, Michele Cantiello, Pratik Lonare, Rossella Ragusa, Maurizio Paolillo, Nandini Hazra, Antonio La Marca, Enrichetta Iodice, Marilena Spavone, Steffen Mieske, Marina Rejkuba, Michael Hilker, Gabriele Riccio, Rebecca A. Habas, Enzo Brocato, Pietro Schipani, Aniello Grado e Luca Limatola, e “VEGAS-SSS: An intra-group component in the globular cluster system of NGC 5018 group of galaxies using VST data“, di Pratik Lonare, Michele Cantiello, Marco Mirabile, Marilena Spavone, Marina Rejkuba, Michael Hilker, Rebecca Habas, Enrichetta Iodice, Nandini Hazra e Gabriele Riccio sono stati pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

17 febbraio 2025

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

Pianeti mancanti: arriva in libreria il libro sui mondi nascosti nel Sistema Solare dell’astrofisico Luca Nardi

 

Arriva nelle librerie fisiche e digitali Pianeti mancanti. Da Plutone a Planet Nine, gli astri erranti nascosti nell’oscurità, il primo libro che racconta della caccia di tutti i mondi che, nel corso della storia, gli astronomi hanno ipotizzato potessero esistere attorno al Sole. Dagli asteroidi a Plutone, da Vulcano a Planet X, sulle tracce di questi corpi celesti l’astrofisico Luca Nardi ripercorre le tappe che hanno condotto a scoprire tutto il Sistema Solare.

la copertina del saggio di Luca Nardi, Pianeti mancanti. Da Plutone a Planet Nine, gli astri erranti nascosti nell’oscurità, pubblicato da Edizioni Dedalo (2025)
la copertina del saggio di Luca Nardi, Pianeti mancanti. Da Plutone a Planet Nine, gli astri erranti nascosti nell’oscurità, pubblicato da Edizioni Dedalo (2025)

Nel corso della storia, gli astronomi hanno ipotizzato l’esistenza di molti mondi attorno al Sole, molti più di quanto siano poi stati trovati davvero. Sono i cosiddetti “pianeti mancanti”, mondi cercati e mai esistiti, come Vulcano, un piccolo corpo vicinissimo al Sole che guidò Einstein alla scoperta della relatività generale. Oppure sono oggetti cercati e poi trovati davvero, come il gigante ghiacciato Nettuno ai confini del Sistema Solare. A volte, poi, da questa ricerca è scaturito tutt’altro: a inizio ‘900 gli astronomi hanno cercato un pianeta misterioso oltre l’orbita di Nettuno, chiamato Planet X. Cercandolo, Clyde Tombaugh scoprì il pianeta nano Plutone, che abbiamo avuto modo di conoscere più da vicino solo nel 2015 grazie alla sonda New Horizons.

Ma la caccia ai pianeti mancanti non è solo storia. Ancora oggi stiamo cercando un pianeta mancante: il misterioso Planet Nine, una gelida super-Terra che si troverebbe nell’oscurità ai margini del sistema planetario.

Pianeti Mancanti, pubblicato per Edizioni Dedalo, è il primo libro interamente dedicato al mistero dei pianeti mancanti, la più affascinante epopea di scoperta astronomica, che lega a doppio filo oltre tre secoli di scienza, storia ed esplorazione spaziale. Un libro adatto a tutti, sia a chi è a digiuno di questi argomenti sia ai lettori più appassionati di saggistica scientifica.

Quella dei pianeti mancanti è in effetti la storia di come abbiamo scoperto tutti i corpi del Sistema Solare” commenta Nardi. “Dalle prime ipotesi dei pensatori greci, fino alle recenti su Planet Nine, passando per gli asteroidi, Nettuno, Vulcano e Planet X, tutte queste storie sono legate da un unico filo conduttore, che ci racconta di come abbiamo imparato a conoscere il nostro vicinato cosmico.”

Il libro è disponibile a partire dal 14 febbraio 2025 in tutte le librerie fisiche e sugli store online di Amazon ed Edizioni Dedalo.

la copertina del saggio di Luca Nardi, Pianeti mancanti. Da Plutone a Planet Nine, gli astri erranti nascosti nell’oscurità, pubblicato da Edizioni Dedalo (2025)
la copertina del saggio di Luca Nardi, Pianeti mancanti. Da Plutone a Planet Nine, gli astri erranti nascosti nell’oscurità, pubblicato da Edizioni Dedalo (2025)

Luca Nardi è astrofisico, dottore in scienze planetarie e divulgatore scientifico. È noto su tutti i social network, ma in particolare sul suo canale YouTube. Collabora con il Planetario di Roma e con varie testate tra cui Wired Italia. Ha pubblicato “Un mese a testa in giù” (Geo4Map, 2021), “Giganti Ghiacciati” (Dedalo, 2023), e “Pianeti Mancanti” (Dedalo, 2025). Con Giganti Ghiacciati ha vinto il Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica.

 

Testo e immagini dall’autore.

UN ANELLO PERFETTO PER LA MISSIONE EUCLID: NGC 65o5 È LA PRIMA LENTE GRAVITAZIONALE FORTE

La missione Euclid dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) ha scoperto la sua prima lente gravitazionale forte: l’immagine di una galassia lontana che appare sotto forma di anello, grazie alla forza di gravità di una galassia molto più vicina a noi (NGC 6505) che si trova, casualmente, sulla stessa linea di vista. I risultati dello studio, guidato da una collaborazione internazionale a cui partecipano ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), dell’Università di Bologna, dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e di molti atenei italiani, sono stati pubblicati oggi su Astronomy & Astrophysics.

Immagine della galassia NGC 6505: l'anello di Einstein creato da questa lente gravitazionale si può vedere al centro dell'immagine
Immagine della galassia NGC 6505: l’anello di Einstein creato da questa lente gravitazionale si può vedere al centro dell’immagine. Crediti: ESA/Euclid/Euclid Consortium/NASA, image processing by J.-C. Cuillandre, T. Li 

Lanciata nel luglio del 2023, Euclid sta scansionando il cielo in profondità per costruire la più precisa mappa 3D mai realizzata dell’Universo, spingendosi fino a 10 miliardi di anni fa per studiare la storia cosmica e indagare i misteri delle enigmatiche materia oscura ed energia oscura. La missione, che vede un forte contributo italiano attraverso l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), l’INAF, l’INFN e numerosi atenei, deve raccogliere una enorme mole di dati per raggiungere i suoi ambiziosi obiettivi scientifici. E tra questi dati si nascondono moltissime sorprese.

Una delle prime sorprese è la galassia NGC 6505, nota sin dalla fine dell’Ottocento e relativamente vicina a noi – la sua luce è partita “appena” 590 milioni di anni fa. Grazie a Euclid si è scoperto che questa galassia agisce come lente gravitazionale, deviando la luce proveniente da un’altra galassia molto più lontana, la cui luce è partita ben 4,42 miliardi di anni fa. Il risultato è un’immagine distorta di quest’ultima galassia: distorta al punto giusto da formare un anello perfetto. La ricerca è guidata da Conor O’Riordan dell’Istituto Max Plack per l’Astrofisica (Max Planck Institute for Astrophysics) di Monaco di Baviera, Germania.

Secondo la teoria della relatività generale di Einstein, i corpi dotati di massa “piegano” il tessuto dello spaziotempo che pervade l’Universo, deflettendo il percorso di qualsiasi altro oggetto nelle vicinanze, compresa la luce. Questo fenomeno, chiamato lensing gravitazionale, produce immagini distorte dei corpi celesti, proprio come quelle create da una comune lente d’ingrandimento. La missione Euclid userà il lensing gravitazionale nella sua forma “debole” per studiare l’invisibile materia oscura attraverso la sua influenza sulle immagini leggermente deformate di miliardi di galassie. In rari casi, per esempio quando galassie a diverse distanze da noi si trovano fortuitamente allineate, il lensing gravitazionale si manifesta nella sua forma più eclatante, detta “forte”, dando luogo a immagini multiple di una stessa galassia o eccezionalmente a un intero anello, detto anello di Einstein.

Dettagli dell'anello di Einstein, immagine distorta di una galassia lontana creata dalla lente gravitazionale NGC 6505.Crediti: ESA/Euclid/Euclid Consortium/NASA, image processing by J.-C. Cuillandre, T. Li
NGC 6505 è la prima lente gravitazionale forte scoperta dalla missione Euclid, lo studio è stato pubblicato su Astronomy & Astrophysics. Dettagli dell’anello di Einstein, immagine distorta di una galassia lontana creata dalla lente gravitazionale NGC 6505.
Crediti: ESA/Euclid/Euclid Consortium/NASA, image processing by J.-C. Cuillandre, T. Li

“Questa prima lente gravitazionale forte scoperta da Euclid ha caratteristiche uniche”, spiega Massimo Meneghetti, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, associato all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, tra gli autori del nuovo studio. “È veramente raro poter trovare una galassia relativamente prossima a noi, come questa che si trova nel catalogo NGC (New galaxy catalog, uno dei cataloghi di galassie vicine), che agisca da lente gravitazionale forte. Galassie così vicine infatti non sono generalmente in grado di focalizzare la luce di sorgenti retrostanti e formare immagini multiple, a meno che non contengano enormi quantità di materia nelle loro regioni centrali. La formazione di anelli di Einstein completi come quello di NGC 6505 è un evento ancora più raro, perché richiede che la galassia lente e quella sorgente siano perfettamente allineate con il nostro telescopio. Per questi motivi, non ci aspettiamo che Euclid osserverà molte lenti come NGC 6505. Anche considerando la vasta area di cielo che verrà coperta nel corso della missione, ci aspettiamo di poter scoprire al massimo 20 lenti come questa”.

Questa lente gravitazionale è stata scoperta per caso, in una delle prime zone di cielo osservate da Euclid, analizzando i dati della fase di verifica della missione appena due mesi dopo il lancio, dall’astronomo Bruno Altieri dell’ESA: per questo il gruppo di ricerca l’ha soprannominata “lente di Altieri”. Benché la galassia NGC 6505 sia stata osservata per la prima volta nel 1884, l’anello di Einstein scoperto con Euclid non era mai stato notato prima, dimostrando le straordinarie capacità di scoperta della missione.

La distorsione indotta dal lensing gravitazionale dipende dalla distribuzione e dalla densità di materia della galassia che agisce da lente. Per questo motivo, analizzando la distorsione è possibile misurare la sua massa sia in termini di stelle che di materia oscura. In questo caso, inoltre, visto che l’anello di Einstein della lente di Altieri ha un raggio più piccolo rispetto a quello di NGC 6505, è stato possibile studiare accuratamente la composizione e la struttura delle regioni centrali, dove la materia oscura è meno prominente, e dove la galassia è dominata dalle stelle.

“Dato che il lensing gravitazionale è il metodo più preciso per misurare la massa, combinando il modello dell’anello di Einstein e della distribuzione di stelle della galassia, abbiamo potuto misurare che la frazione di massa composta da materia oscura al centro della lente è soltanto l’11 per cento”, spiega la co-autrice Giulia Despali, ricercatrice al Dipartimento di Fisica e Astronomia “Augusto Righi” dell’Università di Bologna, associata dell’INAF e dell’INFN. “Ricordiamo che la materia oscura costituisce circa l’85 per cento della materia totale del nostro Universo, quindi le regioni centrali delle galassie sono veramente particolari. Abbiamo infatti misurato le proprietà della galassia con estrema precisione, scoprendo una struttura complessa che varia con la distanza dal centro e stimando la funzione di massa iniziale, e cioè la proporzione di stelle di piccola e grande massa. Le nuove osservazioni di Euclid ci aiutano quindi a capire di più sia sull’Universo oscuro che sui processi di formazione ed evoluzione delle galassie”.

Se questa scoperta è avvenuta per caso, all’interno della collaborazione Euclid c’è un vasto gruppo dedicato alla ricerca di lenti gravitazionali, e ci si aspetta di trovarne oltre centomila nei 14mila gradi quadrati di cielo che saranno osservati nel corso della missione. Queste indagini sfruttano, da un lato, strumenti sofisticati come l’intelligenza artificiale, e dall’altro anche la citizen science, coinvolgendo il pubblico non esperto nell’ispezione visuale delle immagini, in collaborazione con la piattaforma Zooniverse. L’obiettivo è quello di realizzare una mappa dettagliata della distribuzione della materia, sia quella visibile che quella oscura, nelle galassie e negli ammassi di galassie a varie distanze dall’Universo locale per poter così studiare la natura e l’evoluzione nel tempo della materia oscura e dell’energia oscura.

Testo e immagini dagli Uffici Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna

La “ragnatela cosmica” della materia oscura che forma l’Universo fotografata da ricercatori di Milano-Bicocca

Grazie a uno studio dell’Università di Milano-Bicocca, ottenute le prime immagini del filamento cosmico che unisce due galassie in formazione, risalente a quando l’Universo aveva solo 2 miliardi di anni

Milano, 30 gennaio 2025 – Le prime immagini ad alta definizione della “ragnatela cosmica” che struttura l’Universo sono state ottenute grazie a uno studio guidato da ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). Grazie a MUSE (Multi-Unit Spectroscopic Explorer), innovativo spettrografo installato presso il Very Large Telescope dell’European Southern Observatory, in Cile, il team ha catturato una struttura cosmica risalente a un Universo molto giovane. La scoperta è stata recentemente pubblicata su Nature Astronomy nell’articolo “High-definition imaging of a filamentary connection between a close quasar pair at z=3” e apre una nuova prospettiva per comprendere l’essenza della materia oscura.

Sfruttando le capacità offerte dal sofisticato strumento, il gruppo di ricerca coordinato da Michele Fumagalli e Matteo Fossati, professori nell’unità di Astrofisica dell’Università di Milano-Bicocca, ha condotto una delle più ambiziose campagne di osservazione con MUSE mai completata in una singola regione di cielo, acquisendo dati per centinaia di ore. 

Un solido pilastro della cosmologia moderna è l’esistenza della materia oscura che, costituendo circa il 90% di tutta la materia presente nell’Universo, determina la formazione e l’evoluzione di tutte le strutture che osserviamo su grandi scale nel Cosmo.

«Sotto l’effetto della forza di gravità, la materia oscura disegna un’intricata trama cosmica composta da filamenti, alle cui intersezioni si formano le galassie più brillanti», ha spiegato Michele Fumagalli. «Questa ragnatela cosmica è l’impalcatura su cui si creano tutte le strutture visibili nell’Universo: all’interno dei filamenti il gas scorre per raggiungere e alimentare la formazione di stelle nelle galassie».

«Per molti anni, le osservazioni di questa ragnatela cosmica sono state impossibili: il gas presente in questi filamenti è infatti così diffuso da emettere solo un tenue bagliore, indistinguibile dagli strumenti allora disponibili», commenta Matteo Fossati.

MUSE, grazie alla sua elevata sensibilità alla luce, ha consentito agli scienziati di ottenere immagini dettagliate di questa ragnatela cosmica. Lo studio – guidato da Davide Tornotti, dottorando dell’Università di Milano-Bicocca, e collaboratori – ha utilizzato questi dati ultrasensibili per produrre l’immagine più nitida mai ottenuta di un filamento cosmico che si estende su una distanza di 3 milioni di anni luce attraverso due galassie che ospitano ciascuna un buco nero supermassiccio.

«Catturando la debole luce proveniente da questo filamento, che ha viaggiato per poco meno di 12 miliardi di anni prima di giungere a Terra, siamo riusciti a caratterizzarne con precisione la forma e abbiamo tracciato, per la prima volta con misure dirette, il confine tra il gas che risiede nelle galassie e il materiale contenuto nella ragnatela cosmica», spiega Davide Tornotti. «Attraverso alcune simulazioni dell’Universo con i supercomputer, abbiamo inoltre confrontato le previsioni del modello cosmologico attuale con i nuovi dati, trovando un sostanziale accordo tra la teoria corrente e le osservazioni».

«Quando quasi 10 anni fa Michele Fumagalli mi ha proposto di partecipare a queste osservazioni ultra-profonde con lo strumento MUSE ho accettato con grande entusiasmo perché le potenzialità dello studio erano veramente moltissime», commenta Valentina D’Odorico, ricercatrice INAF e co-autrice del lavoro. «Abbiamo già pubblicato vari lavori basati su questi dati, ma il risultato ottenuto nell’articolo guidato da Tornotti può essere considerato il coronamento del progetto. Infatti, non solo vengono identificate le sovradensità occupate dai nuclei galattici attivi presenti nel campo e il filamento che li unisce, ma tali strutture confrontate in modo quantitativo con le predizioni di simulazioni numeriche sono in accordo con un modello di formazione delle strutture cosmiche che adotta materia oscura fredda».

La ricerca è stata supportata da Fondazione Cariplo e dal Ministero dell’Università e Ricerca attraverso il Progetto Dipartimenti di Eccellenza 2023-2027 (BiCoQ, Bicocca Centre for Quantitative Cosmology).

Riferimenti bibliografici:

Tornotti, D., Fumagalli, M., Fossati, M. et al. High-definition imaging of a filamentary connection between a close quasar pair at z = 3, Nat Astron (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41550-024-02463-w

Testo e immagini dagli Uffici Stampa dell’Università di Milano-Bicocca e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica

CECILIA PAYNE E HENRIETTA LEAVITT. DUE ASTRONOME, UN CENTENARIO 

Una mostra fotografica e un ciclo di conferenze per celebrare due donne che hanno cambiato la nostra comprensione dell’Universo 

Inaugurazione con la divulgatrice statunitense Dava Sobel che presenterà anche il saggio su Marie Curie 

1925 - 2025 Payne e Leavitt - Due astronome, un centenario

Mercoledì 29 gennaio alle ore 18, al Rettorato (via Verdi 8, Torino), prende il via l’iniziativa promossa dall’Università di Torino con Accademia delle Scienze, Infini.to – Planetario di Torino, Museo dell’Astronomia e dello Spazio “Attilio Ferrari”, Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e patrocinata dal Cirsde, con l’inaugurazione della mostra fotografica 1925 – 2025 Payne e Leavitt – Due astronome, un centenario prodotta da UniVerso per celebrare le straordinarie figure di Cecilia Payne e Henrietta Leavitt, due scienziate dello Harvard College Observatory che, con le loro ricerche, hanno segnato una svolta nella storia dell’astrofisica. 

Esattamente cento anni fa, nel 1925, due loro scoperte hanno infatti rivoluzionato la comprensione dell’Universo: grazie a Cecilia Helena Payne abbiamo capito di cosa sono fatte le stelle e grazie a Henrietta Swan Leavitt che la nostra galassia, la Via Lattea, è solo una tra miriadi di galassie. Queste due scoperte fondamentali non solo hanno aperto nuove frontiere per la conoscenza umana, ma hanno anche ispirato generazioni di scienziati e scienziate. 

La mostra fotografica 

La mostra, curata da Infini.to – Planetario di Torino, Museo dell’Astronomia e dello Spazio “Attilio Ferrari” con il coordinamento scientifico di Antonaldo Diaferio, ripercorre attraverso testi e immagini le vite di Cecilia Payne e Henrietta Leavitt, che iniziarono il loro cammino scientifico seguendo percorsi inizialmente lontani dall’astrofisica – Payne studiando botanica e Leavitt interessandosi alla musica – per poi essere attratte dalla sfida di comprendere l’Universo. La loro dedizione, creatività e tenacia permisero loro di superare le barriere di un mondo scientifico dominato dagli uomini, contribuendo in modo determinante alla nostra comprensione del cosmo. Questa iniziativa non è solo un tributo alle loro scoperte, ma anche un invito a riflettere sulle qualità imprescindibili di chi si dedica alla scienza: una curiosità instancabile e una tenacia indomabile. 

La mostra, allestita nel Cortile del Rettorato (via Verdi 8, Torino), sarà inaugurata alle ore 18 alla presenza di Dava Sobel, divulgatrice scientifica autrice del libro Le scienziate che misurarono il cielo, che terrà un discorso per rendere omaggio al contributo di Payne e Leavitt alla conoscenza umana. 

Il ciclo di conferenze per esplorare l’Universo 

Sempre il 29 gennaio, alle ore 21, presso l’Accademia delle Scienze di Torino, con la lectio dal titolo Cecilia Payne e Henrietta Leavitt: lo Harvard College Observatory nei primi decenni del XX secolo, Dava Sobel aprirà il ciclo di 16 conferenze pubbliche tenute da astrofisiche e astrofisici di fama internazionale. Gli incontri si svolgeranno nell’arco di tutto il 2025 in tre sedi prestigiose: l’Accademia delle Scienze di Torino, Infini.to – Planetario di Torino Museo dell’Astronomia e dello Spazio “Attilio Ferrari”, e l’Archivio di Stato di Torino. Il programma completo delle conferenze è disponibile sul sito del Planetario. 

Infine, a corollario dell’iniziativa, giovedì 30 gennaio, alle ore 21 al Circolo dei lettori (via Bogino 9, Torino) si terrà l’incontro con Dava Sobel dal titolo Gli elementi di Marie Curie a partire dal suo libro Nel laboratorio di Marie Curie (Rizzoli, 2025). Dialogando con Silvia Rosa Brusin, l’autrice accompagnerà il pubblico con originalità e competenza nella vita di Marie Curie, una delle figure più importanti e influenti del nostro tempo, con le sue straordinarie scoperte, e delle scienziate sue eredi. Per informazioni: https://torino.circololettori.it/gli-elementi-di-marie-curie/   

Informazioni utili 

Mostra fotografica 1925 – 2025 Payne e Leavitt – Due astronome, un centenario
Università di Torino, Cortile del Rettorato, via Verdi 8/via Po 17
Dal 29 gennaio al 29 marzo 2025
Orario di apertura da lunedì a sabato ore 10-18 Ingresso gratuito 

Inaugurazione 29 gennaio, ore 18, Palazzo del Rettorato 

Ciclo di conferenze 

Gli appuntamenti si terranno presso Accademia delle Scienze di Torino, Infini.to – Planetario, Museo dell’Astronomia e dello Spazio “Attilio Ferrari” e Archivio di Stato di Torino.
Per info sul programma completo https://planetarioditorino.it/calendario-cicli-payne-e-leavitt 

Inaugurazione 29 gennaio, ore 21, Accademia delle Scienze di Torino 

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

INAF: 25 ANNI DI ECCELLENZA IN VIAGGIO VERSO IL FUTURO – Una celebrazione dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, che il 23 e 24 gennaio ripercorrerà i traguardi raggiunti dalla sua istituzione nel 1999, guardando avanti, verso nuove sfide scientifiche e tecnologiche.

Il 23 e 24 gennaio l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) celebra i 25 anni dalla sua fondazione con un workshop dal titolo “INAF +25” presso l’Auditorium Nazionale “Ernesto Capocci” dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Capodimonte, una delle sedi storiche di maggior prestigio dell’Ente. La due giorni vuole celebrare i 25 anni della fondazione dell’Istituto e discutere sul futuro scientifico e tecnologico dell’Ente.

Era il 26 agosto 1999 quando sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana veniva pubblicato il decreto n. 296, che sanciva la nascita dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ente di ricerca italiano, controllato dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR), con interessi e attività in campo astronomico, astrofisico e planetologico.

“L’INAF è l’Ente di Ricerca italiano per lo studio dell’Universo, è coinvolto nell’esplorazione del cosmo a tutte le lunghezze d’onda e con tutti i messaggeri celesti, dal nostro Sistema solare, attraverso il tempo e lo spazio, fino alle origini dell’universo. Una comunità di donne e uomini che contribuiscono ogni giorno a rendere più grande la nostra comprensione dell’universo in cui viviamo” dice Roberto Ragazzoni, Presidente dell’Istituto dal 5 aprile 2024, e prosegue: “Ci troviamo a Napoli non solo per  celebrare il passato, ma soprattutto per discutere degli scenari nei prossimi 25 anni: un incontro proiettato nel futuro”.

Da 25 anni l’INAF si impegna a studiare l’universo in tutti i suoi aspetti, sviluppa strumentazione all’avanguardia per osservazioni e ricerche sia da Terra sia dallo Spazio, diffonde la cultura in campo astronomico e preserva il patrimonio storico nazionale nel campo.

“Forniamo alla ricerca un contributo che la comunità internazionale riconosce essere di elevata qualità. Utilizziamo  prestigiose infrastrutture osservative a terra e nello spazio e metodologie e infrastrutture di calcolo avanzato. Sviluppiamo tecnologie di punta funzionali alla nostra ricerca e che trovano spesso applicazione in altri settori della società civile. Formiamo le nuove generazioni di studiosi a essere pronti per competere sullo scenario internazionale guardando con grande attenzione alle novità di metodi e tecnologie che possono facilitare l’accesso a nuove finestre di conoscenza. Siamo attenti alla valorizzazione e diffusione della conoscenza impegnandoci in iniziative che prevalentemente sono indirizzate a veicolare passione e bellezza verso bambini e ragazzi”, dice Isabella Pagano, Direttrice Scientifica dell’INAF dal 1 novembre 2024.

IL PROGRAMMA – Il pomeriggio del 23 gennaio sarà dedicato a interventi che descrivono l’origine del concetto di INAF, la sua fondazione, la crescita nel corso degli anni e le molte imprese e realizzazioni. Sarà inoltre presentato il volume “INAF25”, ideato e curato da Roberto della Ceca e Giampaolo Vettolani, realizzato grazie al coordinamento editoriale di Cecilia Toso e la direzione artistica di Davide Coero Borga. Un volume pensato e strutturato per raccontare cronologicamente gli eventi principali che hanno dato all’INAF e all’Italia intera la possibilità di avanzare in modo decisivo nell’esplorazione e nella conoscenza del cosmo.

Nella giornata del 24 gennaio sono previsti interventi e una tavola rotonda sul futuro dell’INAF nei prossimi 25 anni dedicata allo sviluppo delle prossime attività scientifiche e tecnologiche dell’Ente. La tavola rotonda vedrà la partecipazione, tra gli altri, di Tom Herbst dell’Istituto Max Planck per l’astronomia (Germania), Antonella Nota dello Space Telescope Science Institute (Stati Uniti), Phil Diamond (direttore generale dell’Osservatorio SKA), Roberta Zanin (project scientist dell’Osservatorio CTA), Monica Colpi (Professore Ordinario in Astrofisica presso l’Università Milano-Bicocca), Ester Antonucci (già direttrice dell’INAF-Osservatorio Astrofisico di Torino).


 

Per altre informazioni:

L’Istituto Nazionale di Astrofisica è il principale Ente di Ricerca italiano per lo studio dell’Universo. INAF è, inoltre, uno dei pochi enti al mondo a possedere al suo interno le risorse intellettuali e strumentali per osservare l’universo a tutte le lunghezze d’onda, da terra e dallo spazio, coprendo l’intero spettro elettromagnetico (dai raggi gamma alle onde radio). L’INAF promuove, realizza e coordina, anche nell’ambito di programmi dell’Unione Europea e di Organismi internazionali, attività di ricerca nei campi dell’astronomia e dell’astrofisica, sia in collaborazione con le Università che con altri soggetti pubblici e privati, nazionali, internazionali ed esteri. INAF progetta e sviluppa tecnologie innovative e  strumentazione d’avanguardia per lo studio e l’esplorazione del Cosmo. Favorisce, infine, la diffusione della cultura scientifica grazie a progetti di didattica e divulgazione dell’Astronomia che si rivolgono alla Scuola e alla Società: workshop, seminari, lezioni di astronomia e partecipazione a festival della scienza su tutto il territorio italiano e all’estero. Tali attività sono promosse o dalla Sede centrale o dalle strutture locali in collaborazione con le organizzazioni educative e gli enti locali.

INAF - Istituto Nazionale di Astrofisica

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

IL BUCO NERO SUPERMASSICCIO 1ES 1927+654, CON LA CORONA OSCILLANTE

Grazie a una lunga campagna di osservazioni realizzate con il telescopio spaziale XMM-Newton dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), un gruppo internazionale di ricerca guidato dal Massachusetts Institute of Technology (MIT), di cui fa parte anche Ciro Pinto dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, ha rilevato oscillazioni quasi periodiche dei segnali X provenienti dalla “corona” di particelle che circonda un buco nero supermassiccio situato nel cuore di una galassia vicina. L’evoluzione di queste oscillazioni non solo suggerisce la presenza di un altro oggetto celeste in orbita attorno al buco nero, ma indica inoltre che questi oggetti compatti divorano la materia in modi più complessi di quanto gli astronomi inizialmente pensassero.

I risultati dello studio, in uscita sulla rivista Nature, suggeriscono che a produrre tale variabilità possa essere una nana bianca attorno al buco nero, che viene divorata a piccoli “morsi” a ogni orbita. Il lavoro, basato su osservazioni del buco nero supermassiccio 1ES 1927+654, al centro dell’omonima galassia situata in direzione della costellazione del Dragone, è stato presentato oggi al 245mo meeting dell’American Astronomical Society in corso a National Harbor (Maryland, Stati Uniti). Durante il meeting sono stati presentati altri due studi, dedicati a osservazioni dello stesso buco nero, firmati tra gli altri da Gabriele Bruni, Francesca Panessa e Susanna Bisogni dell’INAF.

I buchi neri supermassicci sono mostri cosmici che imprigionano qualsiasi cosa varchi il loro “confine”, una regione dello spaziotempo nota come orizzonte degli eventi. Previsti dalla teoria della relatività generale di Albert Einstein, si distinguono per la loro capacità di accrescere massa attraverso un disco di accrescimento riscaldato dall’attrito, emettendo luce visibile, ultravioletta e raggi X. Intorno al disco si sviluppa una corona di particelle caldissime che emette raggi X ad alta energia, la cui intensità varia in base alla quantità di materia che fluisce verso il buco nero.

Le emissioni descritte nell’articolo di Nature sono segnali a raggi X variabili nel tempo e in frequenza, chiamate oscillazioni quasi periodiche, o QPO (dall’inglese Quasi Periodic Oscillations). Le osservazioni hanno rivelato picchi di emissione X che variano su tempi scala brevissimi, dell’ordine di 500 secondi.

Gli autori dello studio, guidato da Megan Masterson del Massachusetts Institute of Technology, negli Stati Uniti, osservano 1ES 1927+654 con XMM-Newton fin dal 2011. All’inizio il buco nero si trovava in una fase di basso accrescimento, una sorta di “regime alimentare dietetico”. Le cose sono cambiate nel 2018, quando è entrato in una fase di accrescimento estremo, caratterizzata da una potente esplosione (outburst in inglese) associata all’emissione da parte del disco di accrescimento di luce visibile e ultravioletta, come pure di potenti venti relativistici: il segno tangibile di un “pasto abbondante”. In quell’occasione, i ricercatori hanno anche osservato la scomparsa dell’emissione X ad alta energia della corona – precedentemente osservata -, sinonimo di distruzione della corona stessa.

Dopo il ripristino del flusso di raggi X emessi dalla corona nel 2021, nuove osservazioni condotte sempre con XMM-Newton a luglio del 2022 hanno però mostrato rapide variazioni di questo flusso, con periodi compresi tra 400 e 1000 secondi. Il profilo di emissione presentava picchi che si alternavano a bruschi cali del segnale: le oscillazioni quasi periodiche (QPO), fluttuazioni dell’emissione X notoriamente difficili da rilevare nei buchi neri supermassicci, e che, a distanza di anni dalla loro scoperta, non si sa ancora per certo che cosa li produca fisicamente.

“A marzo del 2024, abbiamo osservato nuovamente il buco nero con XMM-Newton e le oscillazioni erano ancora presenti” sottolinea Ciro Pinto, ricercatore INAF, tra i firmatari dello studio. “L’oggetto orbitava a quasi la metà della velocità della luce, completando un’orbita ogni sette minuti”.

Per spiegare una tale curva di luce, il team ha proposto due ipotesi alternative. La prima ipotesi è che nei pressi del buco nero si sia verificato un evento di distruzione mareale, ossia la disintegrazione di un corpo celeste, ad esempio una stella, da parte delle forze di marea del buco nero. Un tale evento potrebbe spiegare la perturbazione della nube di particelle della corona. L’altra ipotesi prevede che a determinare il profilo di emissione di 1ES 1927+654 possa essere stata invece una nana bianca, un “cadavere stellare” catturato dalla immane forza di gravità del buco nero che, orbitando rapidamente attorno a esso, avrebbe spazzato via a ogni orbita il gas della corona responsabile delle emissioni.

I calcoli effettuati dai ricercatori sembravano avallare la seconda ipotesi. Le fluttuazioni dell’emissione X erano molto probabilmente determinate da una nana bianca dieci volte meno massiccia del Sole, che completa un’orbita attorno al buco nero, a una distanza di circa cento milioni di chilometri, ogni diciotto minuti circa.

Le nuove osservazioni hanno tuttavia messo in discussione entrambe le ipotesi. Lo studio dell’evoluzione della frequenza delle emissioni nel tempo ha infatti mostrato che le oscillazioni aumentavano la loro frequenza: un simile comportamento esclude che a produrre la curva di luce possa essere stato un evento di distruzione mareale, che avrebbe causato la scomparsa dei picchi di emissione X nell’arco di alcuni mesi. In questo caso, invece, le oscillazioni sono state osservate per almeno due anni. I dati di XMM-Newton del 2024 hanno mostrato inoltre che, su tempi scala ancora più lunghi, i picchi di emissione X coronali si sono stabilizzati, il che esclude anche l’ipotesi della nana bianca, o quanto meno che la distruzione sia avvenuta in un colpo solo. Si potrebbe però considerare una nana bianca alla quale il buco nero strappa materia “a piccoli bocconi”: questa non sarebbe stata consumata in un solo pasto, dunque, ma poco a poco.

A discriminare tra i vari scenari potrebbe essere un’altra osservazione, quella di onde gravitazionali. Quando due oggetti compatti, come nane bianche o buchi neri, ruotano l’uno attorno all’altro, vengono infatti prodotte queste increspature nello spazio tempo che si propagano nel cosmo. Se l’ipotesi della nana bianca fatta a pezzi “a piccoli morsi” dal buco nero fosse vera, si dovrebbero captare questi segnali: non con gli osservatori terrestri, che osservano onde gravitazionali ad alte frequenze, ma con osservatori spaziali come la futura missione LISA, il primo osservatorio spaziale di onde gravitazionali, che l’ESA lancerà nel 2035. Progettato per rilevare onde gravitazionali esattamente nella gamma di frequenze che 1ES 1927+654 sta emettendo, LISA potrebbe confutare o confermare l’ipotesi dei ricercatori.

“A partire dagli anni 2030 per questo tipo di astrofisica si apriranno nuove frontiere”, conclude Ciro Pinto. “Il primo grande passo verso nuove scoperte sarà il lancio della missione LISA, che permetterà la rilevazione di onde gravitazionali da buchi neri supermassicci. A questo obiettivo si aggiungerà la missione NewAthena che, dotata di ottiche più potenti dei precedenti osservatori a raggi X, fornirà misurazioni di oscillazioni quasi periodiche più accurate e per più sorgenti. Tale combinazione di strumenti è indispensabile per valutare quale tra le varie interpretazioni o modelli finora disponibili circa l’origine delle oscillazioni quasi periodiche sia corretta. Tutto ciò è rilevante per comprendere i meccanismi di formazione dei buchi neri supermassicci, ancora oggi in discussione”.

Illustrazione artistica che mostra una nana bianca in orbita attorno a un buco nero supermassiccio in accrescimento. Crediti: NASA/Sonoma State University, Aurore Simonnet
Illustrazione artistica che mostra una nana bianca in orbita attorno a un buco nero supermassiccio in accrescimento. Crediti: NASA/Sonoma State University, Aurore Simonnet

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “Millihertz Oscillations Near the Innermost Orbit of a Supermassive Black Hole”, di Megan Masterson et al., in uscita su Nature.

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.