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EINSTEIN TELESCOPE: INAUGURATO A FIRENZE IL LABORATORIO DI OTTICA ADATTIVA ADONI-ET 

Firenze, 13 maggio 2025 – Nel quadro del progetto PNRR ETIC è stato inaugurato oggi, martedì 13 maggio, il laboratorio di ottica adattiva ADONI-ET all’Osservatorio Astrofisico di Arcetri, la sede fiorentina dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). L’evento inaugurale è stato aperto dai saluti istituzionali di Simone Esposito, direttore dell’INAF di Arcetri, e Giovanni Passaleva, direttore della sezione di Firenze dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN). A seguire, prima del tradizionale taglio del nastro, Michele Punturo, coordinatore scientifico del progetto ETIC e responsabile internazionale di Einstein Telescope, e Armando Riccardi, responsabile di ADONI-ET, hanno illustrato rispettivamente le sfide del progetto ET e del nuovo laboratorio di ottica adattiva.

La realizzazione del laboratorio ADONI-ET rientra nel progetto Einstein Telescope Infrastructure Consortium (ETIC), finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR), nell’ambito della Missione 4 del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), di cui l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) è capofila.

INAF partecipa al progetto PNRR ETIC attraverso il laboratorio nazionale per ottiche adattive ADONI, che ha nella propria missione il trasferimento delle tecnologie adattive sviluppate per i telescopi ottici in altri campi scientifici.

Nel campo degli interferometri gravitazionali come l’Einstein Telescope, l’obiettivo del laboratorio ADONI-ET è studiare un concetto innovativo per la correzione degli specchi di ET, che utilizza fasci infrarossi per controllare la forma di un elemento correttore mediante il riscaldamento locale. È previsto che il sistema funzioni in ciclo chiuso, regolando il riscaldamento locale utilizzando le informazioni di un canale di misura che verifica la forma effettiva degli specchi da controllare.

«Il laboratorio, progettato e realizzato grazie ai fondi del PNRR-ETIC, nasce dall’esperienza consolidata dell’Istituto Nazionale di Astrofisica e del suo laboratorio ADONI, punto di riferimento a livello nazionale e internazionale nel campo dell’ottica adattiva per applicazioni astronomiche», sottolinea il direttore di INAF Arcetri Simone Esposito. «Le tecniche sviluppate in questo ambito trovano nuova applicazione nel controllo dei fasci ottici degli interferometri gravitazionali. Il programma PNRR-ETIC ha quindi offerto un impulso molto importante allo sviluppo multidisciplinare dell’ottica adattiva, estendendone l’uso a strumenti scientifici d’avanguardia come gli interferometri gravitazionali».

«Come direttore della Sezione INFN di Firenze, sono particolarmente felice e orgoglioso dell’inizio delle attività del laboratorio ETIC-ADONI, presso l’Osservatorio di Arcetri. ETIC-ADONI è stato finanziato nell’ambito del progetto PNRR ETIC, con capofila l’INFN, che si occupa dello studio di fattibilità e della caratterizzazione del sito italiano candidato a ospitare Einstein Telescope e della creazione di una rete di laboratori di ricerca per lo sviluppo delle tecnologie che saranno adottate dal nuovo osservatorio gravitazionale, coinvolgendo molte università ed enti di ricerca italiani, tra cui l’INAF», aggiunge il direttore di INFN Firenze Giovanni Passaleva. «L’INAF è un partner fondamentale per ETIC e con il laboratorio ETIC-ADONI giocherà un ruolo chiave, trasferendo le proprie competenze di eccellenza nell’ottica adattiva nell’ambito della ricerca sulle onde gravitazionali. Si aggiunge così un altro tassello all’eccellenza della ricerca fiorentina, che vede INFN e INAF collaborare insieme a uno dei progetti scientifici più importanti e rivoluzionari dei prossimi decenni, sulla storica collina di Arcetri che ospitò giganti della scienza come Galileo, Fermi, Occhialini, Hack e Pacini».

«I segnali generati dalle onde gravitazionali sono talmente deboli da richiedere strumenti perfettamente isolati e privi di distorsioni ottiche, per evitare che gli effetti di tali “imperfezioni” riducano drasticamente la sensibilità della detezione. Questo è particolarmente vero per l’Einstein Telescope, che si propone di aumentare di un ordine di grandezza la sensibilità rispetto all’attuale generazione di telescopi gravitazionali (LIGO, Virgo), richiedendo soluzioni innovative per il controllo del sistema. In particolare ogni differenza delle ottiche del fascio di misura dalla loro forma ideale, che sia un inevitabile residuo di fabbricazione o una deformazione dovuta alla variazione della loro temperatura, deve essere compensata. L’ottica adattiva ha esattamente questo scopo: agire con un elemento correttore all’interno del sistema per compensare gli effetti delle deformazioni delle ottiche in tempo reale», spiega il responsabile di ADONI-ET Armando Riccardi. «Il laboratorio ADONI-ET, presso l’Osservatorio Astrofisico di Arcetri, ha lo scopo di trasferire l’esperienza acquisita in INAF con le tecniche di ottica adattiva, per la correzione degli effetti della turbolenza atmosferica sulle immagini astronomiche, a Einstein Telescope. In particolare, nel laboratorio stiamo sviluppando e verificheremo la capacità di uno specchio deformabile di modulare la luce di un laser di potenza, per variare la mappa di temperatura di un’ottica da utilizzare come elemento correttore dei fasci di misura di ET (compensation plate) e verificare che le distorsioni del fronte d’onda ottenute siano in accordo con le accuratezze richieste da questo formidabile strumento per la detezione delle onde gravitazionali».

Con questo progetto del laboratorio ADONI, INAF si candida concretamente a contribuire allo sviluppo di un sistema adattivo per ET anche attraverso la formazione di giovani ricercatrici e ricercatori.

Il consorzio ETIC è composto da quattordici università ed enti di ricerca italiani, con l’obiettivo di sostenere la candidatura italiana a ospitare il futuro osservatorio di onde gravitazionali di nuova generazione Einstein Telescope (ET), una delle più grandi e ambiziose infrastrutture di ricerca che saranno costruite in Europa nei prossimi decenni, incluso nella roadmap di ESFRI (European Strategy Forum on Research Infrastructure), l’organismo che indica su quali infrastrutture scientifiche è decisivo investire in Europa.

A fronte di un investimento totale di 50 milioni di euro, le attività di ETIC si stanno concentrando, da un lato, sulla caratterizzazione del sito candidato a ospitare ET, nell’area intorno alla miniera dismessa di Sos Enattos, nel Nuorese, in Sardegna, e dall’altro sulla realizzazione o potenziamento di una rete di laboratori di ricerca per lo sviluppo delle tecnologie che saranno adottate dal nuovo osservatorio gravitazionale.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

CEFEO A HW2: ECCO COME SI FORMANO LE PROTOSTELLE MASSICCE

Lo studio a guida INAF di Cefeo A HW2, una stella massiccia in formazione, mostra sorprendenti caratteristiche di questo oggetto celeste, avvolto da un enorme disco di polveri e gas in cui è stata individuata una forte concentrazione di ammoniaca calda. I risultati, pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics, non solo migliorano la nostra comprensione dei processi di formazione delle stelle più massicce, ma anche dei fenomeni legati all’ evoluzione galattica e all’arricchimento chimico nell’universo.

Come si formano e come si accrescono le stelle di grande massa? Uno studio guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) affronta queste domande risolvendo per la prima volta un dibattito di lungo corso riguardante l’esistenza, o meno, di un disco di accrescimento attorno a Cefeo A HW2, la seconda protostella supermassiccia più vicina al Sole avente una massa di sedici volte quella della nostra stella. Grazie a osservazioni effettuate con i radiotelescopi del Jansky Very Large Array (VLA), il disco e i gas che si muovono al suo interno sono stati osservati con un dettaglio finora mai raggiunto. Le simulazioni di laboratorio hanno completato il quadro gettando così nuova luce su come le stelle giganti accumulino un’enorme massa proveniente dal disco di accrescimento durante i loro primi millenni di vita.

In ambito astronomico e divulgativo sentiamo spesso parlare delle “supernove” e del fatto che siano ciò che resta di incredibili esplosioni dovute al collasso di enormi stelle ormai esauste. Non è però comune sentir parlare di come queste stelle massicce, che per definizione hanno una stazza di almeno otto masse solari, riescano a formarsi e ad accrescere la loro massa quando sono ancora molto giovani. La risposta sta nell’esistenza e nelle proprietà del cosiddetto disco di accrescimento, ovvero una grande concentrazione di gas e polveri che gravita spiraleggiando intorno alle protostelle durante la loro formazione e le nutre aumentandone la massa. Il tutto, prima ancora che avvenga l’innesco di una fusione nucleare stabile che possa definirle come stelle vere e proprie.

Una delle questioni più intriganti discusse tra gli specialisti negli ultimi decenni è stata capire se i dischi di accrescimento fossero caratteristici solo di stelle medio-piccole come il Sole, che è una nana gialla, o se fossero in grado di sostenere anche gli enormi flussi di materia necessari ad accrescere una giovane stella decine di volte più massiccia della nostra.

Cefeo A HW2 protostella
Cefeo A HW2: ecco come si formano le protostelle massicce, secondo uno studio pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics

A dissolvere questo dubbio è arrivato uno studio, appena pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics, che coinvolge una dozzina di centri di ricerca e università tra Stati Uniti, Europa e Sudamerica, tra cui quattro osservatori dell’INAF: Cagliari, Arcetri (Firenze), Bologna e Napoli. Le osservazioni sono state eseguite con una potente rete di radiotelescopi che si trova negli Stati Uniti, il Jansky Very Large Array per osservare la radio-sorgente Cepheus A HW2. Questa sorgente possiede alcune interessanti caratteristiche che la fanno ritenere una protostella piuttosto massiccia, tra l’altro molto osservata dagli astronomi negli ultimi 40 anni. Dista infatti solo 2300 anni luce da noi e ciò consente di poterla osservare con il VLA alla definizione minima di 100 unità astronomiche ovvero con un dettaglio sufficiente a individuarne il disco. Inoltre, HW2 possiede una massa stimata in ben sedici volte quella del Sole.

Per poter verificare l’esistenza di un disco di accrescimento intorno a HW2, risolvendone struttura e proprietà, il radiotelescopio americano – finanziato dalla National Science Foundation (NSF) e gestito dal National Radio Astronomy Observatory (NRAO) – ha osservato la sorgente a una  frequenza di circa 24 GHz, alla ricerca di un tracciante in particolare: l’ammoniaca interstellare (NH3). Questa molecola, così comune e utilizzata sulla Terra, è anche la prima molecola poliatomica (ovvero con tre o più atomi) rilevata al di fuori del Sistema solare e tra le più abbondanti specie presenti nelle comete.

Nel caso di HW2 è stato dunque osservato un denso anello di ammoniaca calda che si estende per raggi che vanno da 200 a 700 unità astronomiche intorno alla stella e che mostra anche densità differenti da zona a zona. Per avere un facile riscontro, basti pensare che Nettuno, l’ultimo dei grandi pianeti gassosi, dista dal Sole circa 30 unità astronomiche, ovvero 30 volte la distanza Terra-Sole. Tuttavia queste distanze che oggi appaiono troppo piccole e impossibili da osservare su HW2 con il Vla, potranno verosimilmente – come sottolinea Todd Hunter di NRAO – essere raggiunte nel giro di 10 anni con lo sviluppo del next generation VLA. Il comportamento dell’ammoniaca è stato poi direttamente confrontato con simulazioni di laboratorio effettuate da André Oliva, professore dell’Università e Space Research Center della Costa Rica, che hanno permesso di riprodurre le osservazioni spiegando allo stesso tempo la dinamica del gas attorno alla protostella.

I risultati confermano quindi che i dischi protostellari possono sostenere tassi di accrescimento di massa molto alti, anche quando la stella centrale ha già raggiunto una massa decine di volte superiore a quella del nostro Sole.

“Le nostre osservazioni – afferma Alberto Sanna, ricercatore INAF e primo autore dell’articolo scientifico – forniscono una prova diretta che anche stelle massicce possono formarsi attraverso un disco di accrescimento fino a decine di masse solari. HW2 è la seconda stella giovane e massiccia più vicina alla Terra e, da decine d’anni, costituisce un laboratorio privilegiato per mettere alla prova le attuali teorie sulla formazione stellare. In particolare, il nostro studio risolve un dibattito di lunga data sull’esistenza o meno di un disco di accrescimento attorno ad HW2”.

Questo studio ha consentito inoltre una misura diretta della quantità di gas e polveri che fluisce attorno alla stella, arrivando alla conclusione che la materia in “caduta libera” verso HW2 ammonta a circa due masse del pianeta Giove all’anno, uno dei tassi più alti mai osservati, che corrisponde a una crescita ipotetica della stella pari a ben due masse solari ogni mille anni. Tuttavia, molte domande rimangono ancora aperte.

“Se da una parte – puntualizza infatti Sanna – i nostri risultati dimostrano che dischi circumstellari attorno a giovani stelle massicce sono in grado di sostenere gli alti tassi di accrescimento previsti dalla teoria, allo stesso tempo ci chiediamo: quanto di quell’enorme flusso di materia osservato diventerà effettivamente parte della massa finale della stella?”

Questo lavoro non solo migliora la nostra comprensione delle dinamiche che portano alla formazione delle stelle più massicce, ma ha anche implicazioni più ampie sull’evoluzione galattica e l’arricchimento chimico nell’universo. Sono proprio queste stelle extra large che, durante tutto il loro ciclo evolutivo ma in particolare nella turbolenta e catastrofica fase finale, disseminano le galassie di elementi pesanti e specie molecolari più complesse, creati proprio dalle immense temperature e pressioni che solo questi oggetti sono in grado di generare.


Riferimenti bibliografici:

L’articolo “Gas infall via accretion disk feeding Cepheus A HW2”, di A. Sanna, A. Oliva, L. Moscadelli, C. Carrasco-González, A. Giannetti, G. Sabatini, M. Beltrán, C. Brogan, T. Hunter, J.M. Torrelles, A. Rodríguez-Kamenetzky, A. Caratti o Garatti, R. Kuiper, è stato pubblicato online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

KEPLER-10c: UN PIANETA DI ACQUA SVELATO DAI CIELI DELLE CANARIE

Un team guidato dall’INAF ha misurato con grande precisione la massa del pianeta Kepler-10c, definendolo come un possibile mondo in gran parte composto da ghiaccio di acqua. Lo studio, pubblicato oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics e realizzato grazie ai dati raccolti dallo spettrografo HARPS-N installato al Telescopio Nazionale Galileo, ha permesso anche di confermare la presenza di un altro pianeta nel sistema di Kepler-10, fornendo nuove informazioni per comprendere la formazione dei pianeti e le origini del nostro Sistema solare.

Un team internazionale guidato da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha determinato la massa e la densità del pianeta Kepler-10c con precisione e accuratezza senza precedenti. Grazie a circa 300 misure di velocità radiale raccolte con lo spettrografo High Accuracy Radial velocity Planet Searcher for the Northern hemisphere (HARPS-N) installato al Telescopio Nazionale Galileo (TNG) che scruta il cielo dalle Isole Canarie, è stato possibile stimarne la sua composizione – in gran parte di acqua allo stato solido ma forse anche liquido – e capire come si possa essere formato. Lo studio è stato pubblicato oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Kepler-10 è un sistema esoplanetario storico: ospita Kepler-10b, la prima super-Terra rocciosa scoperta dalla missione spaziale Kepler della NASA con un periodo orbitale inferiore al giorno terrestre, e Kepler-10c, un pianeta con un periodo orbitale di 45 giorni, classificato come sub-Nettuno, ovvero un pianeta con raggio e massa inferiori a quelli di Nettuno. Per anni, la massa di Kepler-10c è stata oggetto di grande incertezza: stime discordanti avevano reso difficile capire di cosa fosse fatto.

I dati acquisiti con HARPS-N sono stati elaborati con un nuovo metodo che corregge per effetti strumentali e variazioni dell’attività magnetica della stella madre, anche se di bassa intensità, e sono stati analizzati indipendentemente da tre gruppi dentro il team, raggiungendo gli stessi risultati. Questo lavoro ha permesso di capire che probabilmente Kepler-10c è un water world, ovvero un pianeta con gran parte della sua massa in acqua allo stato solido (ghiaccio) e forse, in piccola percentuale, anche liquido. I ricercatori ritengono che il pianeta si sia formato oltre la cosiddetta linea di condensazione dell’acqua a circa due o tre unità astronomiche dalla sua stella, e che poi si sia progressivamente avvicinato fino alla sua attuale orbita.

Ma non è tutto: il team ha anche confermato l’esistenza di un terzo pianeta, non visibile nei transiti ma rivelato per una piccola anomalia che esso induce sull’orbita di Kepler-10c, riscontrabile nelle  variazioni dei tempi di transito proprio del pianeta Kepler-10c, in modo analogo alla scoperta di Nettuno grazie alle anomalie osservate nell’orbita di Urano. Questo pianeta “fantasma” era stato ipotizzato in precedenza, ma solo ora è stato possibile determinarne in modo accurato il periodo orbitale di 151 giorni e la massa minima, grazie all’eccezionale qualità delle misure di velocità radiale HARPS-N.

“L’analisi delle velocità radiali e delle variazioni dei tempi di transito, dapprima singolarmente e poi in combinazione tra loro, ha dato dei risultati in ottimo accordo sui parametri del terzo pianeta; abbiamo così corretto precedenti stime inaccurate delle sue proprietà”, commenta Luca Borsato dell’INAF di Padova, secondo autore dell’articolo.

Aldo Bonomo dell’INAF di Torino, primo autore dell’articolo, aggiunge: “L’esistenza dei water world è stata prevista teoricamente dai modelli di formazione e migrazione planetarie, ma non ne abbiamo ancora una conferma certa. Tuttavia, una quindicina di pianeti attorno a stelle di tipo solare come Kepler-10c sembrano avere proprio la composizione prevista da questi modelli. La prova del nove dell’esistenza dei water world dovrebbe venire dallo studio delle loro atmosfere con il telescopio spaziale James Webb, perché ci aspettiamo che essi abbiano delle atmosfere particolarmente ricche di vapore acqueo”.

Lo studio del sistema Kepler-10 ci aiuta a capire come si formano i pianeti attorno alle loro stelle. Super-terre come Kepler-10b e sub-Nettuni come Kepler-10c, così comuni nella Galassia ma assenti nel nostro Sistema solare, rappresentano un tassello cruciale per comprendere la varietà dei mondi che orbitano attorno ad altre stelle. In particolare, studiare la composizione dei pianeti cosiddetti sub-nettuniani e capire se sono ricchi o poveri di ghiaccio, può fornire indicazioni non solo sulla loro origine, ma anche sulle prime fasi di formazione dei sistemi planetari e quindi del nostro stesso Sistema solare. Conoscere come e dove si formano questi pianeti e i loro moti di migrazione verso la loro stella, significa guardare indietro nel tempo per scoprire qualcosa in più sulle origini della Terra e forse anche  della vita.


 

Riferimenti Bibliografici:

L’articolo In-depth characterization of the Kepler-10 three-planet system with HARPS-N radial velocities and Kepler transit timing variations, di A. S. Bonomo, L. Borsato, V.M. Rajpaul, L. Zeng, M. Damasso, N.C. Hara, M. Cretignier, A. Leleu, N. Unger, X. Dumusque, F. Lienhard, A. Mortier, L. Naponiello, L. Malavolta, A. Sozzetti, D.W. Latham, K. Rice, R. Bongiolatti, L. Buchhave, A.C. Cameron, A.F. Fiorenzano, A. Ghedina, R.D. Haywood, G. Lacedelli, A. Massa, F. Pepe, E. Poretti e S. Udry è stato pubblicato online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

QUANDO UN BUCO NERO SI È RISVEGLIATO: LAMPI DI RAGGI X DA ANSKY

Un buco nero supermassiccio si è recentemente risvegliato, emettendo potenti lampi di raggi X. Grazie alle osservazioni del telescopio XMM-Newton, un team internazionale a cui partecipa anche l’Istituto Nazionale di Astrofisica, ha studiato questo raro fenomeno, offrendo nuove e preziose informazioni sul comportamento dei buchi neri supermassicci.

Un buco nero supermassiccio al centro della galassia SDSS1335+0728, situata a 300 milioni di anni luce dalla Terra, ha recentemente iniziato a rilasciare intensi e regolari lampi di raggi X, attirando l’attenzione degli astrofisici. Dopo decenni di inattività, questo colosso dalla smisurata forza di attrazione gravitazionale si è improvvisamente “risvegliato”, dando vita a un fenomeno raro che offre una straordinaria opportunità per studiare il comportamento di un buco nero in tempo reale. L’osservazione di questi lampi, resa possibili grazie al telescopio spaziale XMM-Newton dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), ha portato a scoperte senza precedenti sugli eventi energetici generati dai buchi neri supermassicci. I risultati del lavoro condotto da un team di ricercatrici e ricercatori internazionali, di cui fa parte anche l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), è stato pubblicato oggi sulla rivista Nature Astronomy.

Sebbene i buchi neri supermassicci (con masse di milioni o addirittura miliardi pari a quella del nostro Sole) siano noti per nascondersi al centro della maggior parte delle galassie, la loro stessa natura li rende difficili da individuare e quindi studiare. In contrasto con l’idea popolare che i buchi neri “divorino” continuamente materia, questi mostri gravitazionali possono passare lunghi periodi in una fase dormiente. Questo è stato il caso del buco nero al centro di SDSS1335+0728, soprannominato Ansky, che per decenni è rimasto inattivo. Nel 2019 qualcosa cambia, quando gli astronomi osservano un’improvvisa “accensione” della galassia, seguita da straordinari lampi di raggi X. Questi segnali hanno portato alla conclusione che il buco nero fosse entrato in una nuova fase attiva, trasformando la galassia che lo ospita in un nucleo galattico attivo.

Nel febbraio 2024, il team di ricerca guidato da Lorena Hernández-García, ricercatrice presso l’Università di Valparaíso in Cile, ha iniziato a osservare i lampi regolari di raggi X provenienti da Ansky.

“Questo raro evento ci permette di osservare il comportamento di un buco nero in tempo reale, utilizzando i telescopi spaziali XMM-Newton e quelli della NASA NICER, Chandra e Swift”, spiega. “Questo fenomeno è conosciuto come eruzione quasi periodica (in inglese Quasiperiodic Eruption, QPE) di breve durata ed è la prima volta che osserviamo un tale evento in un buco nero che sembra essersi risvegliato”.

Tali fenomeni sono stati finora associati a piccole stelle od oggetti che interagiscono con la materia in orbita attorno al buco nero stesso, il cosiddetto disco di accrescimento, ma nel caso di Ansky, non ci sono prove che una stella sia stata distrutta. Gli astronomi ipotizzano che i lampi possano derivare da oggetti più piccoli che disturbano ripetutamente il materiale del disco di accrescimento, generando potenti shock che liberano enormi quantità di energia. Ognuna di queste eruzioni sta rilasciando cento volte più energia rispetto alle eruzioni quasi periodiche tipiche: sono infatti dieci volte più lunghe e luminose, e con una cadenza mai osservata prima di circa 4,5 giorni, che mette alla prova i modelli teorici esistenti sui buchi neri.

Rappresentazione artistica del disco di accrescimento attorno al buco nero massiccio Ansky e della sua interazione con un piccolo oggetto celeste (crediti ESA)
Rappresentazione artistica del disco di accrescimento attorno al buco nero massiccio Ansky e della sua interazione con un piccolo oggetto celeste (crediti ESA)

Osservare l’evoluzione di Ansky in tempo reale offre agli astronomi un’opportunità unica per approfondire la comprensione dei buchi neri e degli eventi energetici che li alimentano. Attualmente, esistono ancora più modelli che dati sulle eruzioni quasi periodiche, e saranno quindi necessarie ulteriori osservazioni per comprendere a pieno il fenomeno.

“Nonostante la notevole attività nella banda dei raggi X, Ansky risulta ancora sopito nella banda radio”, commenta Gabriele Bruni, ricercatore dell’INAF e co-autore del lavoro pubblicato. “Infatti, né le nostre osservazioni con il radiotelescopio australiano ATCA, né le campagna osservativa radio che hanno osservato la sua regione di cielo negli ultimi anni hanno rilevato emissione dalla sua direzione, escludendo così la presenza di un getto relativistico prodotto durante la riattivazione del buco nero. Nei prossimi mesi continueremo a tenere d’occhio Ansky per scovare la possibile nascita di un getto come già verificato in altri casi di nuclei galattici attivi riattivati”.

Le eruzioni ripetitive di Ansky potrebbero anche essere associate alle onde gravitazionali, obiettivo dalla futura missione LISA dell’ESA. L’analisi di questi dati nei raggi X, insieme agli studi sulle onde gravitazionali, aiuterà a risolvere il mistero di come i buchi neri massicci evolvono e interagiscono con l’ambiente circostante.


Riferimenti bibliografici:

L’articolo “Discovery of extreme Quasi-Periodic Eruptions in a newly accreting massive black hole”, di Lorena Hernández-García, Joheen Chakraborty, Paula Sánchez-Sáez, Claudio Ricci, Jorge Cuadra, Barry McKernan, K.E. Saavik Ford, Arne Rau, Riccardo Arcodia, Patricia Arevalo, Erin Kara, Zhu Liu,Andrea Merloni, Gabriele Bruni, Adelle Goodwin, Zaven Arzoumanian, Roberto Assef, Pietro Baldini, Amelia Bayo, Franz Bauer, Santiago Bernal, Murray Brightman, Gabriela Calistro Rivera, Keith Gendreau,  David Homan, Mirko Krumpe, Paulina Lira, Mary Loli Martínez-Aldama, Mara Salvato e Belén Sotomayor è stato pubblicato online sulla rivista Nature Astronomy, (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41550-025-02523-9

Testo e immagini dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

Grazie ai venti da loro generati, che accelerano improvvisamente a grandi distanze, i buchi neri non sono solo divoratori di materia ma veri propri architetti cosmici, giocando un ruolo chiave nell’evoluzione delle galassie

Ricerca internazionale su Nature Astronomy guidata dall’Università di Firenze e da INAF – Osservatorio Astrofisico di Arcetri

Mosaico di immagini RGB delle galassie analizzate
Mosaico di immagini RGB delle galassie analizzate

buchi neri che si trovano al centro delle galassie non sono solo divoratori di materia ma veri propri architetti cosmici.

È la conclusione a cui è giunto un gruppo di ricercatori internazionali guidati dall’Università di Firenze e da INAF – Osservatorio Astrofisico di Arcetri, protagonisti di un lavoro pubblicato su Nature Astronomy (“Evidence of the Fast Acceleration of AGN-Driven Winds at Kiloparsec Scales” https://www.nature.com/articles/s41550-025-02518-6). Lo studio ha dimostrato per la prima volta che i venti generati dai buchi neri subiscono un’improvvisa accelerazione quando si allontanano dal centro galattico, giocando un ruolo chiave nell’evoluzione delle galassie.

“Ogni galassia ospita al centro un buco nero supermassiccio”, spiegano i primi firmatari dell’articolo Cosimo Marconcini e Alessandro Marconi, rispettivamente dottorando e docente di Astrofisica del Dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Firenze. “Questi nuclei galattici attivi (AGN) mentre «mangiano» materia, generano forti venti di gas che si diffondono nello spazio circostante”.

Gli scienziati hanno scoperto un comportamento sorprendente: nei primi 3.000 anni luce (1 kiloparsec) dalla sorgente, i venti si muovono a velocità costante o addirittura rallentano un po’; in seguito, subiscono una drastica espansione, si riscaldano e accelerano, raggiungendo velocità tali da espellere dalla galassia tutto il gas che incontrano lungo la strada. A questo risultato i ricercatori sono arrivati analizzando i venti di 10 galassie osservate con il Very Large Telescope (VLT – European Southern Observatory) in Cile – la più importante struttura al mondo per l’astronomia – e con un nuovo strumento per la modellizzazione 3D dei dati, chiamato MOKA3D e da loro sviluppato.

Perché questa acquisizione è così importante? Perché i buchi neri supermassivi possono spingere il gas fuori dalle galassie, fermando la formazione stellare e influenzando la loro evoluzione.

“Infatti – spiegano i due ricercatori – i venti generati dagli AGN regolano la nascita delle stelle, perché se il vento spazza via troppo gas, la galassia avrà meno «carburante» per formarne di nuove. Possono, quindi, influenzare la distribuzione del gas e degli elementi chimici e addirittura fermare la crescita della galassia: se il vento è abbastanza forte da espellere il gas nello spazio intergalattico, la galassia stessa potrebbe smettere di crescere”.

La prossima frontiera consisterà nello studiare altre galassie, anche molto lontane, per capire se nell’universo è comune questo fenomeno, che fa dei buchi neri i modellatori delle galassie in cui vivono.

Immagine RGB della galassia Circinus
Immagine RGB della galassia Circinus (un’immagine RGB è anche detta immagine a falsi colori, in cui si evidenzia l’emissione di componenti diversi della galassia con colori diversi: blu=gas ionizzato che traccia i venti emessi dai buchi neri; rosso=emissione da parte di stelle giovani e parzialmente anche i venti provenienti dai buchi neri; verde=emissione diffusa delle stelle nella galassia)

Riferimenti bibliografici:

Marconcini, C., Marconi, A., Cresci, G. et al., Evidence of the fast acceleration of AGN-driven winds at kiloparsec scales, Nat Astron (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41550-025-02518-6

 

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Unità funzionale comunicazione esterna dell’Università degli studi di Firenze

Distinguere i buchi neri: sarà più facile grazie a un nuovo metodo basato sull’intelligenza artificiale sviluppato dall’Università di Milano-Bicocca

Pubblicato sulla rivista Physical Review Letters, lo studio rivoluziona i metodi tradizionali dell’astronomia delle onde gravitazionali.

Milano, 31 marzo 2025 – Un innovativo metodo basato sull’intelligenza artificiale che migliora la precisione nella classificazione di buchi neri e stelle di neutroni. È quello sviluppato da un team di ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca, guidato dal professor Davide Gerosa e supportato dallo European Research Council. Lo studio, pubblicato sulla rivista Physical Review Letters, mette in discussione un’ipotesi ritenuta valida per decenni e apre la strada a un’analisi più accurata dei segnali cosmici.

L’astronomia delle onde gravitazionali permette di osservare coppie di oggetti compatti quali stelle di neutroni e buchi neri: le onde gravitazionali sono infatti prodotte dallo spiraleggiamento e dalla fusione di questi sistemi binari. Le analisi tradizionali assumono a priori come distinguere i due oggetti in ciascuna binaria.

«Fino a oggi, il metodo più diffuso per l’identificazione degli oggetti prevedeva di etichettare il più massiccio come “1” e il meno massiccio come “2”. Tuttavia, questa scelta, apparentemente intuitiva, introduce ambiguità nelle misure, specialmente nei sistemi binari con masse simili. Ci siamo chiesti: è davvero la scelta migliore?», spiega Gerosa.

Il nuovo studio propone di superare questa limitazione utilizzando una tecnica di intelligenza artificiale chiamata spectral clustering che analizza l’insieme completo dei dati senza applicare etichette rigide a priori. Questo nuovo metodo consente di ridurre le incertezze nelle misure degli spin dei buchi neri, ovvero nella determinazione della velocità e della direzione di rotazione di questi oggetti. Una corretta misurazione dello spin è fondamentale per comprendere la formazione e l’evoluzione dei buchi neri. Il nuovo approccio migliora notevolmente la precisione di queste misure e rende più affidabile la distinzione tra buchi neri e stelle di neutroni.

«Questa pubblicazione mette in discussione un presupposto di lunga data che è alla base di tutte le analisi delle onde gravitazionali fino a oggi, e che è rimasto indiscusso per decenni», continua l’astrofisico. «I risultati sono sorprendenti: le misurazioni dello spin sono più precise e distinguere i buchi neri dalle stelle di neutroni diventa più affidabile».

Davide Gerosa, Università di Milano-Bicocca
Davide Gerosa, Università di Milano-Bicocca, alla guida del team di ricercatori che ha prodotto lo studio su Physical Review Letters, che impiega l’intelligenza artificiale per un nuovo metodo al fine di distinguere i buchi neri

Lo studio condotto ha immediate ricadute per l’analisi dei dati raccolti con gli attuali rivelatori di onde gravitazionali LIGO e Virgo, nonché con quelli di futura costruzione quali LISA e l’Einstein Telescope. Questa ricerca apre la strada a una revisione delle tecniche di analisi delle onde gravitazionali e sottolinea, inoltre, il ruolo crescente dell’intelligenza artificiale nella ricerca astrofisica.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa Università di Milano-Bicocca.

SPIRALI DI PLASMA NELLO SPAZIO: LO STRUMENTO METIS A BORDO DELLA MISSIONE SOLAR ORBITER SVELA LA NATURA CONTORTA DEL VENTO SOLARE, OSSERVANDO UNA STRUTTURA RADIALE NELLA CORONA SOLARE CHE EVOLVE PER DIVERSE ORE 

Osservata per la prima volta dallo strumento Metis a bordo della missione Solar Orbiter, con una risoluzione spaziale e temporale mai raggiunta prima, una struttura radiale nella corona solare che evolve per diverse ore fino a distanze di tre raggi solari.

Immagine in luce visibile ottenuta dal coronografo Metis il 12 ottobre 2022, durante il passaggio al perielio della sonda Solar Orbiter. Al centro del campo di vista, il Sole ripreso dallo strumento EUI nella lunghezza d'onda di 174 Angstrom. Il riquadro giallo ritrae la struttura elicoidale oggetto dello studio.Crediti: Metis e EUI (Solar Orbiter/ESA). L'immagine è stata realizzata da Vincenzo Andretta (INAF di Napoli)
Immagine in luce visibile ottenuta dal coronografo Metis il 12 ottobre 2022, durante il passaggio al perielio della sonda Solar Orbiter. Al centro del campo di vista, il Sole ripreso dallo strumento EUI nella lunghezza d’onda di 174 Angstrom. Il riquadro giallo ritrae la struttura elicoidale oggetto dello studio.
Crediti: Metis e EUI (Solar Orbiter/ESA). L’immagine è stata realizzata da Vincenzo Andretta (INAF di Napoli)

Roma, 26 marzo 2025 – Il 12 ottobre 2022, durante un passaggio ravvicinato al Sole, le riprese ottenute dal coronografo italiano Metis a bordo della missione Solar Orbiter dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) hanno catturato un fenomeno spettacolare e inedito per livello di dettaglio: l’evoluzione, nella corona solare, di una lunga struttura radiale che si anima di un moto elicoidale persistente per diverse ore. Per la prima volta, con una risoluzione spaziale e temporale mai raggiunte prima, è stato possibile osservare direttamente l’espulsione di strutture a spirale dalla corona solare, compatibili con le torsioni magnetiche che i modelli teorici associano all’origine del vento solare.

Grazie alla combinazione di immagini in luce visibile e tecniche di elaborazione avanzate, Metis – progettato da Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), Università di Firenze, Università di Padova, CNR-IFN, e realizzato dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) con la collaborazione dell’industria italiana – ha mostrato come il Sole possa trasferire energia e materia verso lo spazio in forma di onde e plasma intrecciati tra loro, rivelando un meccanismo fondamentale nella dinamica dell’eliosfera.

Alla guida dello studio, pubblicato oggi sul sito web della rivista The Astrophysical Journal, c’è Paolo Romano, primo ricercatore dell’INAF di Catania. Romano, che ha coordinato il lavoro di un ampio team internazionale, afferma:

“È la prima volta che osserviamo direttamente un fenomeno così esteso e duraturo, compatibile con la riconnessione magnetica in una struttura chiamata pseudostreamer. Questa osservazione offre una finestra inedita sulla fisica che sta alla base della formazione del vento solare. Questo risultato non solo conferma teorie elaborate da anni, ma fornisce finalmente un riscontro visivo diretto”.

Ma cos’è uno pseudostreamer? Si tratta di una configurazione del campo magnetico solare in cui due regioni chiuse di polarità opposta sono immerse in un ambiente di campo magnetico aperto. Nella corona, gli pseudostreamer sono le “canne del vento” del Sole: regioni da cui, in seguito a un’eruzione, possono aprirsi nuovi canali per il flusso del plasma verso lo spazio interplanetario.

Nel caso dell’evento ripreso da Metis, tutto ha avuto inizio con l’eruzione di una protuberanza polare – un gigantesco arco di plasma “appeso” ai campi magnetici nella regione nord del Sole – che ha innescato una piccola espulsione di massa coronale (CME). Ma il vero spettacolo è arrivato dopo, nella lunga fase di rilassamento che ha seguito l’eruzione. È lì che Metis ha osservato il susseguirsi di strutture filamentose, luminose e scure, che si attorcigliano lungo la linea radiale della corona, a distanze comprese tra 1,5 e 3 raggi solari.

Il team ha interpretato questi segnali come la firma visibile di un processo previsto da tempo: la riconnessione magnetica, che trasferisce il plasma e la torsione magnetica dalle regioni chiuse del campo solare verso quelle aperte, innescando onde di tipo torsionale – le onde di Alfvén – e lanciandole nello spazio.

Un tassello fondamentale è arrivato dal confronto con sofisticate simulazioni numeriche condotte da Peter Wyper, della Durham University, in collaborazione con Spiro Antiochos del NASA Goddard Space Flight Center. Le immagini sintetiche prodotte da queste simulazioni mostrano un’evoluzione sorprendentemente simile a quella ripresa da Metis: strutture elicoidali che si propagano lungo il campo aperto, con caratteristiche geometriche e dinamiche in forte accordo con i dati osservati.

“Le prestazioni uniche di Metis in termini di risoluzione spaziale e temporale aprono una nuova finestra sulla comprensione dell’origine del vento solare”, commenta Marco Romoli, dell’Università di Firenze e responsabile scientifico dello strumento Metis. “Per la prima volta vediamo l’intera evoluzione di un processo di rilascio di energia magnetica, dalle sue radici nel Sole fino all’apertura nello spazio interplanetario”.

“Le onde di Alfvén torsionali e in generale i meccanismi fisici che innescano fluttuazioni magnetiche di questo tipo – dichiara Marco Stangalini responsabile del programma Solar Orbiter per l’Agenzia Spaziale Italiana – sono da tempo ritenuti tra i principali meccanismi alla base dell’accelerazione del vento solare. Metis, grazie alla elevata cadenza temporale delle sue immagini, ci offre la possibilità di osservare direttamente questi processi fisici, consentendo anche un miglioramento della modellistica fisica ad essi associata”.

Le osservazioni di Metis non solo confermano i modelli teorici più avanzati, ma suggeriscono che lo stesso meccanismo – la riconnessione magnetica a piccola scala – possa avvenire continuamente sulla superficie del Sole, generando quei “microgetti” che alimentano il vento solare Alfvénico rivelato anche dalla sonda Parker Solar Probe.

In altre parole, quella spirale luminosa che Metis ha visto danzare nella corona potrebbe essere solo la versione gigante di un processo che avviene ovunque, continuamente, e che rende possibile l’esistenza stessa del vento solare.

Per maggiori informazioni:

Il video pubblicato dall’ESA con immagini composite del Sole che evidenziano la presenza di spirali di plasma in propagazione nella corona solare (Crediti: V. Andretta e P. Romano (INAF), ESA & NASA/Solar Orbiter/Metis/EUI).

L’articolo Metis Observations of Alfvenic Outflows Driven by Interchange Reconnection in a Pseudostreamer di P. Romano, P. Wyper, V. Andretta, S. Antiochos, G. Russano, D. Spadaro, L. Abbo, L. Contarino, A. Elmhamdi, F. Ferrente, R. Lionello, B.J. Lynch, P. MacNeice, M. Romoli, R. Ventura, N. Viall, A. Bemporad, A. Burtovoi, V. Da Deppo, Y. De Leo, S. Fineschi, F. Frassati, S. Giordano, S.L. Guglielmino, C. Grimani, P. Heinzel, G. Jerse, F. Landini, G. Naletto, M. Pancrazzi, C. Sasso, M. Stangalini, R. Susino, D. Telloni, L. Teriaca, M. Uslenghi è stato pubblicato online sulla rivista The Astrophysical Journal.

 

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF e dall’Agenzia Spaziale Italiana – ASI

ERUZIONI? NO, ESPLOSIONI DI STELLE – SVELATA LA NATURA DI TRANSIENTI ROSSI A LUMINOSITÀ INTERMEDIA

Un team internazionale coordinato da ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha osservato quattro transienti rossi a luminosità intermedia (in inglese intermediate-luminosityred transients o ILRT), ovvero enigmatiche sorgenti variabili nel tempo di cui finora era incerta l’origine. Le accurate indagini svolte, pubblicate in due articoli sulla rivista Astronomy & Astrophysics, indicano che questi transienti sono con ogni probabilità delle vere esplosioni di stelle, e non delle semplici eruzioni.

ell’immagine la galassia NGC 300 (nota anche come C 70) in direzione della costellazione dello Scultore e nel riquadro rosso al centro l’evento transiente NGC300OT. Nell'inserto in alto a destra viene mostrata - con dati del telescopio Spitzer della NASA - l'evoluzione negli anni di questo transiente, dal progenitore (nel 2003) fino alla completa sparizione sotto la soglia di rilevamento del telescopio" (nel 2019). Le immagini di Spitzer sono nell'infrarosso, mentre l'immagine della galassia è nella luce visibile. Crediti: INAF/G. Valerin
nell’immagine la galassia NGC 300 (nota anche come C 70) in direzione della costellazione dello Scultore e nel riquadro rosso al centro l’evento transiente NGC300OT. Nell’inserto in alto a destra viene mostrata – con dati del telescopio Spitzer della NASA – l’evoluzione negli anni di questo transiente, dal progenitore (nel 2003) fino alla completa sparizione sotto la soglia di rilevamento del telescopio” (nel 2019). Le immagini di Spitzer sono nell’infrarosso, mentre l’immagine della galassia è nella luce visibile. Crediti: INAF/G. Valerin

Il cielo si accende e si spegne continuamente, in ogni direzione, con segnali che possono durare da pochi millesimi di secondo fino a settimane, mesi o anni prima di non essere più rilevabili dai nostri strumenti. Analisi e studi negli ultimi anni hanno permesso di comprendere la natura di molti di essi, mentre altri sono ancora di origine ignota.

Il team di ricerca ha monitorato l’evoluzione dei quattro transienti ILRT, con l’obiettivo di determinare il meccanismo che genera questi fenomeni: sono forse delle violente eruzioni, a cui però la stella sopravvive, oppure sono vere e proprie esplosioni terminali, significativamente più deboli rispetto alle “classiche” esplosioni che già conosciamo? La luminosità di queste particolari sorgenti transienti si trova a metà strada tra due fenomeni ben noti: le nove, violente eruzioni stellari a cui la stella sopravvive, e le supernove, brillanti esplosioni dove la stella viene definitivamente distrutta, lasciando dietro di sé una stella di neutroni o un buco nero.

“In seguito alla scoperta di tre nuovi ILRT nel 2019, abbiamo colto la possibilità di studiare e capire meglio questi fenomeni”, commenta Giorgio Valerin, ricercatore postdoc INAF e primo autore dei due articoli su queste sorgenti appena pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics. “Abbiamo quindi raccolto dati per anni attraverso telescopi sparsi in tutto il mondo (la Palma, la Silla, las Campanas, Asiago, solo per citare l’ubicazione dei telescopi più usati) e perfino diversi telescopi in orbita (SWIFT, Spitzer, WISE, JWST). Abbiamo anche ripreso la campagna osservativa di NGC 300 OT, l’ILRT più vicino mai osservato, ad ‘appena’ sei milioni e mezzo di anni luce da noi”.

E aggiunge: “Le prime immagini di NGC 300 OT risalgono al 2008, e in questo lavoro l’abbiamo osservato nuovamente per studiarne l’evoluzione dopo più di dieci anni. L’analisi delle immagini e degli spettri raccolti durante queste campagne osservative ci ha consentito di monitorare l’evoluzione nel tempo dei nostri target, ottenendo informazioni come la luminosità, la temperatura, la composizione chimica e le velocità del gas associate a ogni ILRT che abbiamo studiato”.

 Immagine della Galassia Vortice (M51) ottenuta con il James Webb Space Telescope. In basso, nello zoom, viene evidenziata la posizione di AT 2019abn, uno dei transienti analizzati. Crediti: INAF/G. Valerin, A. Rigutti
transienti rossi a luminosità intermedia sono con ogni probabilità delle vere esplosioni di stelle, e non delle semplici eruzioni. Immagine della Galassia Vortice (M51) ottenuta con il James Webb Space Telescope. In basso, nello zoom, viene evidenziata la posizione di AT 2019abn, uno dei transienti analizzati. Crediti: INAF/G. Valerin, A. Rigutti

L’osservazione di oggetti come NGC 300 OT sul lungo periodo ha permesso di ottenere un indizio fondamentale per rispondere alla domanda su cosa siano esattamente questi transienti. In particolare, le immagini dell’oggetto ottenute con il telescopio spaziale Spitzer mostrano come questo sia diventato fino a dieci volte più debole della stella progenitrice nel corso di sette anni, per poi sparire sotto alla soglia di rilevamento del telescopio. E non sarebbe l’unico caso fra quelli analizzati dagli autori. Un simile destino sembra attendere anche la sorgente denominata AT 2019abn: grazie a osservazioni effettuate con il James Webb Space Telescope, a cinque anni dalla sua scoperta si è visto che anche questo transiente è diventato più debole della sua stella progenitrice, e il suo costante declino in luminosità non sembra volersi arrestare.

Ai ricercatori la conclusione sembra dunque chiara: vere e proprie esplosioni di stelle, e non delle semplici eruzioni. Le stelle che danno loro origine, in gergo le progenitrici, sono circondate da uno spesso strato di gas e polvere, che vengono improvvisamente scaldati a temperature intorno ai 6000 kelvin nel corso dei pochi giorni che vanno dalla scoperta dell’evento al momento di massima luminosità osservato. Contemporaneamente, il gas viene accelerato a velocità che possono raggiungere i 700 chilometri al secondo.

“Questa velocità è decisamente inferiore a quella di una supernova in esplosione, che raggiunge spesso anche i 10 mila chilometri al secondo”, commenta Leonardo Tartaglia, ricercatore INAF e coautore degli articoli. “Eppure, riteniamo che la stella possa essere davvero esplosa, lanciando materiale a migliaia di chilometri al secondo in ogni direzione, ma che questa esplosione sia stata parzialmente soffocata dalla densa coltre di gas e polvere circumstellare, che si scalda come conseguenza del violento urto”.

Un’ipotesi, questa, che troverebbe conferma proprio nella diminuzione di luminosità degli ILRT sul lungo periodo. Non solo. Date queste premesse gli autori sono riusciti a dare un nome e un cognome a questo fenomeno osservativo: supernova a cattura elettronica (in inglese electron capture supernovae), un tipo di supernova previsto dalla teoria ma di cui c’è carenza di controparti osservative. Si tratta di particolari esplosioni stellari che hanno origine da stelle con massa tra 8 e 10 masse solari.

Nonostante le teorie di evoluzione stellare ne prevedano l’esistenza, l’osservazione delle supernovae a cattura elettronica è stata difficile. Alcuni oggetti sono stati interpretati come tali, ma studi recenti suggeriscono l’esistenza di un’intera classe associata a queste sorgenti. Secondo l’evoluzione stellare, le stelle con massa superiore a 10 masse solari esploderanno come supernove “classiche”, mentre quelle con meno di 8 masse solari finiranno come nane bianche.

Le supernovae a cattura elettronica sono quindi particolarmente interessanti, poiché segnano il confine tra queste due categorie.

“Stiamo finalmente osservando quegli eventi che separano le stelle destinate a esplodere come classiche supernove dalle stelle che si spegneranno lentamente come nane bianche”, conclude Valerin.


 

Per ulteriori informazioni:

Gli articoli sono stati pubblicati su Astronomy & Astrophysics:
“A study in scarlet I. Photometric properties of a sample of intermediate-luminosity red transients”, di G. Valerin et al.

“A study in scarlet II. Spectroscopic properties of a sample of intermediate-luminosity red transients”, di G. Valerin et al.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

Nuove immagini ad alta definizione dell’universo primordiale dall’Atacama Cosmology Telescope nel deserto cileno

Una nuova ricerca nell’ambito della collaborazione internazionale Atacama Cosmology Telescope (ACT), a cui ha preso parte anche la Sapienza, ha prodotto le immagini più chiare mai ottenute dell’universo primordiale, rivelando la formazione delle antiche nubi di idrogeno ed elio che presto si sarebbero trasformate nelle prime stelle e galassie.

La collaborazione dell’esperimento Atacama Cosmology Telescope (ACT), un progetto internazionale situato a 5200 m nel deserto di Atacama in Cile, che in Italia include i gruppi di Elia Battistelli presso l’Università Sapienza di Roma (di cui fanno parte anche Giovanni Isopi, Eleonora Barbavara, e Valentina Capalbo), e di Federico Nati presso l’Università di Milano-Bicocca, ha sottoposto il modello standard della cosmologia ad una nuova e rigorosa serie di test, dimostrandone la straordinaria solidità. Le nuove immagini dell’universo primordiale mostrano i dettagli della prima luce emersa dagli albori dell’Universo con una chiarezza senza precedenti, rivelando la formazione delle antiche nubi di idrogeno ed elio che presto si sarebbero trasformate nelle prime stelle e galassie.

 a sinistra la nuova mappa a mezzocielo, in intensità, della radiazione di fondo cosmico realizzata dall'Atacama Cosmology Telescope, in aggiunta a quelle di Planck. In basso, un ingrandimento della stessa di 10 x 10 gradi, in cui i punti rossi rappresentano galassie e i punti blu ammassi di galassie. È visibile anche la galassia dello Scultore. Il rosso e il blu indicano regioni più calde e più fredde.A destra la nuova mappa in polarizzazione con un ingrandimento (in basso) e la regione galattica della nebulosa di Orione (in alto). Il rosso e il blu indicano il movimento nelle antiche nubi di idrogeno ed elio. Il blu mostra dove i modelli di polarizzazione della luce sono radiali, con la materia che fluisce verso l'interno; il rosso traccia i modelli di polarizzazione tangenziali, dove la materia fluisce verso l'esterno. Crediti per le immagini: ACT Collaboration; ESA/Planck
a sinistra la nuova mappa a mezzocielo, in intensità, della radiazione di fondo cosmico realizzata dall’Atacama Cosmology Telescope, in aggiunta a quelle di Planck. In basso, un ingrandimento della stessa di 10 x 10 gradi, in cui i punti rossi rappresentano galassie e i punti blu ammassi di galassie. È visibile anche la galassia dello Scultore. Il rosso e il blu indicano regioni più calde e più fredde.
A destra la nuova mappa in polarizzazione con un ingrandimento (in basso) e la regione galattica della nebulosa di Orione (in alto). Il rosso e il blu indicano il movimento nelle antiche nubi di idrogeno ed elio. Il blu mostra dove i modelli di polarizzazione della luce sono radiali, con la materia che fluisce verso l’interno; il rosso traccia i modelli di polarizzazione tangenziali, dove la materia fluisce verso l’esterno.
Crediti per le immagini: ACT Collaboration; ESA/Planck

Le immagini più nitide dell’infanzia dell’universo

Una nuova ricerca della collaborazione Atacama Cosmology Telescope (ACT) ha prodotto le immagini più chiare mai ottenute dell’universo primordiale, provenienti dal tempo cosmico più lontano a cui l’umanità abbia mai avuto accesso. Misurando una luce che ha viaggiato per oltre 13 miliardi di anni prima di raggiungere il telescopio situato sulle Ande cilene, queste immagini rivelano l’universo quando aveva circa 380.000 anni – l’equivalente di fotografie di un neonato in un cosmo ormai maturo.

“Stiamo osservando i primi passi verso la formazione delle stelle e delle galassie più antiche”, ha dichiarato Suzanne Staggs, direttrice di ACT e docente di fisica all’Università di Princeton. “E non vediamo solo chiaro e scuro, ma anche la polarizzazione della luce ad alta risoluzione. Questo è un elemento distintivo che differenzia ACT da Planck e da altri telescopi precedenti.”

Le nuove immagini della radiazione cosmica di fondo (CMB) forniscono una risoluzione più alta rispetto a quelle ottenute più di un decennio fa dal telescopio spaziale Planck. Misurando sia l’intensità che la polarizzazione della luce con ACT, ora abbiamo una seconda immagine ad alta fedeltà dello stesso momento cosmico. L’immagine della polarizzazione svela il movimento dettagliato della materia nell’infanzia cosmica.

“Prima potevamo vedere dove si trovavano le cose, ora possiamo anche vedere come si muovono”, ha detto Staggs. “Proprio come le maree rivelano la presenza della Luna, il movimento tracciato dalla polarizzazione della luce ci dice quanto fosse forte l’attrazione gravitazionale in diverse regioni dello spazio.”

“Nelle prime centinaia di migliaia di anni dopo il Big Bang”, spiega Elia Battistelli, professore di fisica della Sapienza di Roma, “il plasma primordiale era così caldo che la luce non poteva propagarsi liberamente, rendendo l’universo di fatto opaco. La CMB rappresenta il primo stadio della storia dell’universo che possiamo osservare”.

“Le immagini forniscono una visione straordinariamente dettagliata delle variazioni, per quanto minime, nella densità e nella velocità dei gas. Quello che sembrano nuvole sfocate nell’intensità della luce sono in realtà regioni più e meno dense in un mare di idrogeno ed elio – colline e valli che si estendono per milioni di anni luce”, aggiunge Federico Nati, professore dell’Università di Milano-Bicocca. “Nei miliardi di anni successivi, la gravità ha attirato le regioni più dense di gas, dando origine a stelle e galassie”.

Queste immagini dettagliate dell’universo appena nato stanno aiutando gli scienziati a rispondere a domande di lunga data sulle origini del cosmo. “Osservando quel periodo, quando tutto era molto più semplice, possiamo ricostruire la storia di come l’universo si è evoluto fino alla complessità che vediamo oggi”, ha spiegato Jo Dunkley, docente di fisica e scienze astrofisiche a Princeton e responsabile dell’analisi di ACT.

“Abbiamo misurato con precisione che l’universo osservabile si estende per quasi 50 miliardi di anni luce in tutte le direzioni e contiene una quantità di massa equivalente a quasi 2 trilioni di trilioni di Soli”,

ha dichiarato Erminia Calabrese, docente di astrofisica all’Università di Cardiff. Di questi solo una minima parte rappresenta la materia normale – quella che possiamo osservare e misurare. Il resto è costituito da materia oscura e dall’energia oscura, le misteriose componenti che permeano il cosmo.

La tensione di Hubble

Negli ultimi anni, i cosmologi hanno ottenuto misure in leggero ma chiaro disaccordo sulla costante di Hubble, un parametro della teoria cosmologica che misura il tasso di espansione dello spazio. Le misurazioni basate sulla radiazione cosmica di fondo indicano costantemente un tasso di espansione di 67-68 km/s/Mpc, mentre le misure delle galassie vicine suggeriscono un valore più alto, fino a 73-74 km/s/Mpc. I nuovi dati di ACT confermano il valore più basso con una precisione persino maggiore.

Uno degli obiettivi principali dello studio era testare modelli alternativi che potessero spiegare la discrepanza, tuttavia i dati ACT non mostrano alcuna evidenza di nuove particelle o effetti non previsti dal modello standard e restringono ulteriormente il campo delle alternative possibili.

Il futuro della cosmologia

La radiazione cosmica di fondo misurata da ACT trasporta segnali estremamente deboli, difficilissimi da isolare dalle possibili contaminazioni.

“Per ottenere queste nuove immagini, abbiamo effettuato un’esposizione di cinque anni con un telescopio sensibile alle lunghezze d’onda millimetriche”,

ha spiegato Mark Devlin, vicedirettore del progetto. ACT ha completato le sue osservazioni nel 2022 e l’attenzione si sta ora spostando verso il più avanzato Simons Observatory, situato nella stessa area del deserto di Atacama, in Cile, per il quale Federico Nati presso l’Università di Milano-Bicocca guida un ambizioso programma di calibrazione che fa uso di stelle artificiali trasportate da droni, grazie al prestigioso finanziamento europeo ERC Advanced.

Questa ricerca è supportata dalla U.S. National Science Foundation (AST-0408698, AST-0965625 e AST-1440226 per il progetto ACT, oltre ai grant PHY-0355328, PHY-0855887 e PHY-1214379), dall’Università di Princeton, dall’Università della Pennsylvania e da un grant della Canada Foundation for Innovation. Il progetto è guidato dall’Università di Princeton e dall’Università della Pennsylvania, con 160 collaboratori provenienti da 65 istituzioni. In Italia, le attività del gruppo di F. Nati presso l’Università di Milano Bicocca sono supportate dal finanziamento europeo ERC, POLOCALC, 101096035. ACT ha operato dal 2007 al 2022.

Atacama Cosmology Telescope sulle Ande Cilene. Crediti per la foto: Debra Kellner
Atacama Cosmology Telescope sulle Ande Cilene. Crediti per la foto: Debra Kellner

Riferimenti

The Atacama Cosmology Telescope: DR6 Maps https://doi.org/10.48550/arXiv.2503.14451

The Atacama Cosmology Telescope: DR6 Constraints on Extended Cosmological Models https://doi.org/10.48550/arXiv.2503.14454

The Atacama Cosmology Telescope: DR6 Power Spectra, Likelihoods and ΛCDM Parameters https://doi.org/10.48550/arXiv.2503.14452

Testi, video e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma e dall’Ufficio stampa Università di Milano-Bicocca

Big Wheel” (Ruota Panoramica), scoperta una galassia a disco sorprendentemente grande nell’universo primordiale

In un articolo su “Nature Astronomy”, Sebastiano Cantalupo e Weichen Wang, professore e post-doc del gruppo di ricerca “Cosmic Web” dell’Università di Milano-Bicocca, descrivono la rapida e inaspettata crescita di un enorme disco galattico nelle prime fasi di sviluppo dell’universo. Uno studio condotto grazie ai dati ricevuti dal James Webb Space Telescope e che apre una nuova finestra sulle fasi iniziali della formazione delle galassie.

La galassia Big Wheel (al centro) e il suo ambiente cosmico
La galassia Big Wheel (al centro) e il suo ambiente cosmico. La galassia è un gigantesco disco rotante a redshift z = 3,25, con chiari bracci a spirale. È finora unica per le sue grandi dimensioni del disco, che si estende per più di 30 kpc, più grande di qualsiasi altro disco di galassia confermato in questa epoca dell’universo

Milano, 17 marzo 2025 – Una galassia a disco sorprendentemente grande nell’universo primordiale, ovvero in un periodo cosmico iniziale – circa due miliardi di anni dopo il Big Bang – e che presenta quindi dimensioni più tipiche dei dischi galattici giganti dell’Universo attuale. È la scoperta del gruppo di ricerca “Cosmic Web”, nato all’interno dell’Unità di Astrofisica del dipartimento di Fisica dell’Università di Milano-Bicocca, riportata in un articolo pubblicato oggi su “Nature Astronomy” (“A giant disk galaxy two bilion years after the Big Bang”, DOI: 10.1038/s41550-025-02500-2), a firma di Weichen Wang e Sebastiano Cantalupo, rispettivamente assegnista di ricerca (post-doc) e professore ordinario dell’ateneo, oltre agli altri membri del gruppo “Cosmic Web” e collaboratori internazionali. Una scoperta basata sui dati ottenuti dai ricercatori di Milano-Bicocca dal James Webb Space Telescope (JWST), l’osservatorio spaziale più grande e potente mai costruito finora, erede di Hubble, frutto di una partnership tra la NASA, l’ESA e l’Agenzia spaziale canadese (Canadian Space Agency).

«Quando e come si formano i dischi galattici è ancora un enigma nell’astronomia moderna – afferma Sebastiano Cantalupo – I primi anni di osservazioni del James Webb Space Telescope hanno rivelato una pletora di dischi galattici nell’Universo primordiale, che corrisponde a un’epoca cosmica di undici miliardi di anni fa, o due miliardi di anni dopo il Big Bang. Prima della nostra osservazione, erano tuttavia stati scoperti da JWST solo dischi galattici molto più piccoli di quelli che vediamo nell’universo locale. Per questo motivo, si pensava fino ad ora che la formazione dei dischi più grandi avesse richiesto la maggior parte dell’età dell’universo. Per poter fare nuova luce sulla questione, abbiamo rivolto la nostra attenzione all’Universo primordiale e, in particolare, ad uno speciale ambiente cosmico».

Gli studiosi del Cosmic Web Group, hanno condotto il loro studio utilizzando nuove osservazioni dal JWST, integrate da dati provenienti da altre strutture come il telescopio spaziale Hubble, il Very Large Telescope (VLT) e l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA). Queste osservazioni erano mirate verso una specifica regione del cielo, che si trova a 11-12 miliardi di anni luce di distanza da noi e che è incorporata in una struttura su larga scala che probabilmente evolverà in un ammasso di galassie, una regione quasi unica nell’universo, eccezionalmente densa, con un’alta concentrazione di galassie, gas e buchi neri. «Un laboratorio nel quale si possono studiare i meccanismi di formazione delle galassie. Infatti, grazie alla velocità finita della luce, osservazioni e immagini del telescopio sono una foto di quella regione di cielo quando l’universo aveva “solo” 2 miliardi di anni».

«Utilizzando i dati di due strumenti – prosegue Weichen Wang – la Near-Infrared Camera e il Near-Infrared Spectrograph, a bordo del JWST, abbiamo identificato le galassie all’interno di questa regione iperdensa e abbiamo analizzato i loro redshift, la loro morfologia e la loro cinematica, tutti necessari per l’identificazione dei dischi galattici. Le osservazioni ci hanno portato alla scoperta di un disco sorprendentemente grande nella struttura su larga scala. Questa galassia, che abbiamo chiamato “Big Wheel”, o “Ruota Panoramica” in italiano date le sue enormi dimensioni (Figura 1), ha un raggio effettivo (cioè il raggio che contiene metà della luce totale) di circa 10 kiloparsec. “Big Wheel” è circa tre volte più grande delle galassie scoperte in precedenza con masse stellari e tempi cosmici simili, ed è anche almeno tre volte più grande di quanto previsto dalle attuali simulazioni cosmologiche. È invece paragonabile alle dimensioni della maggior parte dei dischi massicci visti nell’attuale Universo».

Ulteriori analisi spettroscopiche hanno confermato che “Big Wheel” è un disco che ruota come una galassia a spirale, ovvero come la Via Lattea, la nostra galassia».

La crescita precoce e rapida di questo disco potrebbe essere correlata al suo ambiente altamente sovradenso, che, a differenza di quanto dicano i modelli di formazione galattica più diffusi, potrebbe offrire condizioni fisiche favorevoli a questa formazione precoce.

«Ambienti eccezionalmente densi come quello che ospita la Big Wheel rimangono un territorio relativamente inesplorato – conclude Sebastiano Cantalupo –. Sono necessarie ulteriori osservazioni mirate per costruire un campione statistico di dischi giganti nell’Universo primordiale e aprire così una nuova finestra sulle fasi iniziali della formazione delle galassie».

Il gruppo di ricerca Cosmic Web. Il quarto da sinistra Sebastiano Cantalupo. In piedi Weichen Wang
Il gruppo di ricerca Cosmic Web. Il quarto da sinistra Sebastiano Cantalupo. In piedi Weichen Wang

Sebastiano Cantalupo, Weichen Wang e il Cosmic Web Group

Classe 1980, Sebastiano Cantalupo è professore ordinario di Astrofisica all’Università di Milano-Bicocca. Vincitore di un finanziamento ERC (European Research Council) nel 2020, rientra in Italia dopo 17 anni all’estero (Politecnico di Zurigo,Università di CambridgeUniversità della California a Santa Cruz), scegliendo l’Università di Milano-Bicocca per proseguire le sue linee di ricerca. Cantalupo guida un team chiamato “Cosmic Web”, dal nome del suo progetto di ricerca, formato da otto ricercatori e, oltre all’ERC, ha ricevuto nel 2020 un finanziamento da Fondazione Cariplo (bando “Attrattività e competitività su strumenti dell’European Research Council”) e un ulteriore supporto, nel 2021, dal bando Fare, il programma MUR (Ministero Università e Ricerca) per la ricerca di eccellenza.

Weichen Wang è nato nel 1994. Si è laureato (bachelor degree) in Fisica nel 2016 alla Tsinghua University di Pechino e ha conseguito nel 2022 un dottorato in Astrofisica alla Johns Hopkins University di Baltimora. Dal 2022 è assegnista di ricerca (post-doc) all’Università di Milano-Bicocca.

Da sinistra, Sebastiano Cantalupo e Weichen Wang
Da sinistra, Sebastiano Cantalupo e Weichen Wang

Testo e immagini dall’Ufficio stampa Università di Milano-Bicocca