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UN NUOVO MODELLO PER COMPRENDERE LE ORIGINI DELL’UNIVERSO – Superare il paradigma teorico inflazionario che è troppo “addomesticabile”: pubblicato su «Physical Review Research Letters» il lavoro del team internazionale di ricerca di cui fa parte l’Università di Padova

Un team di scienziati, tra cui Daniele Bertacca e Sabino Matarrese del Dipartimento di Fisica e Astronomia G. Galilei dell’Università di Padova, in collaborazione con i colleghi Raúl Jiménez dell’Università di Barcellona e Angelo Ricciardone dell’Università di Pisa, ha pubblicato su «Physical Review Research Letters» un articolo dal titolo “Inflation without an inflaton” in cui si propone una nuova teoria sull’origine del nostro Universo. La nuova visione teorica introduce un cambiamento radicale sulla comprensione dei primissimi istanti di vita dell’Universo, senza fare affidamento su alcuni elementi speculativi tradizionalmente ipotizzati nella teoria standard dell’Inflazione.

Svelare il mistero della nascita dell’Universo

Per decenni i cosmologi hanno lavorato adottando il paradigma dell’Inflazione, un modello che suggerisce come l’Universo si sia espanso in modo incredibilmente rapido preparando il terreno per tutto ciò che osserviamo oggi. Il paradigma inflazionario è in grado di spiegare perché il nostro universo sia così omogeneo e isotropo e, allo stesso tempo, perché contenga strutture disomogenee, come galassie e ammassi di galassie.

Ma c’è un problema: questa teoria include troppi parametri “liberi”, ovvero parametri “regolabili”, che possono essere modificati a piacimento. Nella scienza troppa flessibilità può essere problematica perché rende difficile capire se un modello adottato stia veramente prevedendo qualcosa o se si stia semplicemente adattando, a posteriori, ai dati osservati.

Il team internazionale di ricerca ha proposto un nuovo modello in cui l’Universo primordiale non ha bisogno di nessuno di questi parametri arbitrari, ma di una sola scala di energia che determina tutte le predizioni osservabili. I ricercatori partono da uno stato cosmico ben consolidato noto come spazio-tempo di de Sitter. Quest’ultimo è un modello geometrico di Universo dominato dall’energia del vuoto che si espande accelerando: uno spazio-tempo che si espande in modo accelerato in ogni punto, come un palloncino che si gonfia sempre più velocemente.

Il ruolo delle onde gravitazionali

Il nuovo modello non si basa su ipotetici campi o particelle come, ad esempio, il campo chiamato “inflatone”. Piuttosto suggerisce che le naturali oscillazioni quantistiche dello spazio-tempo stesso sotto forma di onde gravitazionali quantistiche (“gravitoni”) siano state sufficienti a innescare le minuscole fluttuazioni di densità che alla fine hanno dato origine a galassie, stelle e pianeti.

Queste increspature gravitazionali evolvono in modo non lineare, il che significa che interagiscono e costruiscono complessità nel tempo, portando a previsioni verificabili che i ricercatori possono oggi analizzare, vagliare e confrontare con i dati misurati da esperimenti terrestri e dallo spazio.

«Comprendere l’origine dell’Universo non è solo una ricerca filosofica, ci aiuta a rispondere a domande fondamentali su chi siamo e da dove proviene tutto. Questa nuova proposta fornisce un quadro essenziale ma potente: offre previsioni chiare che le future osservazioni, come la misurazione dell’ampiezza delle onde gravitazionali primordiali e lo studio statistico della struttura cosmica, potranno eventualmente confermare o confutare – dicono gli autori della nuova teoria pubblicata -. Non solo, questo nuovo approccio dimostra che non sono necessari ulteriori ingredienti speculativi per spiegare il cosmo, ma solo di una profonda comprensione della gravità e della fisica quantistica. Questo modello potrebbe segnare un nuovo capitolo nel modo in cui pensiamo alla nascita dell’Universo».

Daniele Bertacca, Raul Jimenez, Sabino Matarrese e Angelo Ricciardone, Inflation without an inflaton” – «Physical Review Research Letters» 2025, link alla ricerca: https://journals.aps.org/prresearch/abstract/10.1103/vfny-pgc2

Padova, 22 luglio 2025

foto di cielo stellato
Un nuovo modello per comprendere le origini dell’universo e superare il paradigma teorico inflazionario; lo studio è pubblicato su Physical Review Research Letters. Foto di Hans 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

PSR J1023+0038, TRA GLI ALTI E BASSI DI UNA PULSAR: IL SEGRETO È NELLA SUA POLARIZZAZIONE

Un team internazionale guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica ha misurato per la prima volta la polarizzazione della luce emessa da una pulsar al millisecondo transizionale in tre diverse bande dello spettro elettromagnetico. Lo studio, pubblicato su The Astrophysical Journal Letters, indica che l’emissione è dominata dal vento di particelle prodotto della pulsar e non dalla materia che la pulsar stessa sta risucchiando alla sua stella compagna.

Rappresentazione artistica delle regioni centrali del sistema PSR J1023+0038, che mostra la pulsar, il disco di accrescimento interno e il vento della pulsar. Crediti: Marco Maria Messa (Università di Milano e INAF) e Maria Cristina Baglio (INAF)
Rappresentazione artistica delle regioni centrali del sistema PSR J1023+0038, che mostra la pulsar, il disco di accrescimento interno e il vento della pulsar. Crediti: Marco Maria Messa (Università di Milano e INAF) e Maria Cristina Baglio (INAF)

Un team internazionale, guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha individuato nuove prove su come le pulsar al millisecondo transizionali, una particolare classe di resti stellari, interagiscono con la materia circostante. Il risultato, pubblicato su The Astrophysical Journal Letters, è stato ottenuto grazie a osservazioni effettuate con l’Imaging X-ray Polarimetry Explorer (IXPE) della NASA, il Very Large Telescope (VLT) dell’European Southern Observatory (ESO) in Cile e il Karl G. Jansky Very Large Array (VLA) nel New Mexico: si tratta di una delle prime campagne osservative di polarimetria multi-banda mai realizzate su una sorgente binaria a raggi X, coprendo simultaneamente le bande X, ottica e radio.

La missione spaziale IXPE in preparazione prima del lancio. Crediti: NASA
La missione spaziale IXPE in preparazione prima del lancio. Crediti: NASA

La sorgente analizzata è PSR J1023+0038, una cosiddetta pulsar al millisecondo transizionale. Questi oggetti sono particolarmente interessanti perché alternano fasi in cui si comportano come pulsar “canoniche” – ovvero stelle di neutroni isolate che ruotano su sé stesse centinaia di volte in un secondo, emettendo fasci di luce pulsata – a fasi in cui attraggono e accumulano materia da una stella compagna vicina, formando un disco di accrescimento visibile nei raggi X.

“Le pulsar al millisecondo transizionali sono laboratori cosmici che ci aiutano a capire come le stelle di neutroni evolvono nei sistemi binari”, spiega Maria Cristina Baglio, ricercatrice INAF e prima autrice dello studio. “J1023 è una sorgente particolarmente preziosa di dati perché transita chiaramente tra il suo stato attivo, in cui si nutre della stella compagna, e uno stato più dormiente, in cui si comporta come una pulsar standard emettendo onde radio rilevabili. Durante le osservazioni, la pulsar era in una fase attiva a bassa luminosità, caratterizzata da rapidi cambiamenti tra diversi livelli di luminosità in raggi X”.

Maria Cristina Baglio
Maria Cristina Baglio

In questo studio, per la prima volta, si è misurata simultaneamente la polarizzazione della luce emessa da questa sorgente in tre bande dello spettro elettromagnetico: raggi X (con IXPE), luce visibile (con il VLT) e onde radio (con il VLA). In particolare, IXPE ha rilevato un livello di polarizzazione nei raggi X di circa il 12%, il più elevato mai osservato finora in un sistema binario come quello di J1023. Nella banda ottica, la sorgente mostra una polarizzazione più bassa (circa 1%), ma con un angolo perfettamente allineato a quello della radiazione X, suggerendo una comune origine fisica. Nelle onde radio, invece, è stato fissato un limite massimo di polarizzazione di circa il 2%.

“Questa osservazione, data la bassa intensità del flusso X, è stata estremamente impegnativa, ma la sensibilità di IXPE ci ha permesso di rilevare e misurare con sicurezza questo notevole allineamento tra la polarizzazione ottica e quella nei raggi X”, afferma Alessandro Di Marco, ricercatore INAF e co-autore del lavoro. “Questo studio rappresenta un modo ingegnoso per testare scenari teorici grazie a osservazioni polarimetriche su più lunghezze d’onda”.

I risultati confermano una previsione teorica pubblicata nel 2023 da Maria Cristina Baglio e Francesco Coti Zelati, ricercatore presso l’Istituto di scienze spaziali di Barcellona, Spagna e co-autore dello studio, secondo cui l’emissione polarizzata osservata sarebbe generata dall’interazione tra il vento della pulsar e la materia del disco di accrescimento. La forte polarizzazione nei raggi X prevista, tra il 10 e il 15%, è stata effettivamente rilevata, confermando il modello teorico. Si tratta di un’indicazione chiara che le pulsar al millisecondo transizionali sono alimentate principalmente dalla rotazione e dal vento relativistico della pulsar, piuttosto che dal solo accrescimento di materia dalla stella compagna.

Capire cosa alimenta davvero queste stelle ultra-compatte, che alternano due nature profondamente diverse, rappresenta un passo fondamentale per decifrare il comportamento della materia e dell’energia in condizioni estreme. Questo studio porta la comunità scientifica un passo più vicino a comprendere meccanismi universali che regolano fenomeni come i getti dei buchi neri e le nebulose da vento di pulsar.

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “Polarized multiwavelength emission from pulsar wind – accretion disk interaction in a transitional millisecond pulsar”, di M. C. Baglio, F. C. Zelati, A. Di Marco, F. La Monaca, A. Papitto, A. K. Hughes, S. Campana, D. M. Russell, D. F. Torres, F. Carotenuto, S. Covino, D. De Martino, S. Giarratana, S. E. Motta, K. Alabarta, P. D’Avanzo, G. Illiano, M. M. Messa, A. M. Zanon e N. Rea, è stato pubblicato online sulla rivista Astrophysical Journal Letters.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

INTEGRAL E IL MISTERO DELL’ORIGINE DEL LITIO: SCOPERTA LA TRACCIA DEL BERILLIO NELL’ESPLOSIONE DI UNA NOVA, QUELLA RELATIVA A V1369 CENTAURI

Per la prima volta, un team internazionale guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha rilevato direttamente, nei raggi gamma, la firma del Berillio-7 prodotta durante un’esplosione di nova. Poiché questo isotopo decade in Litio, la scoperta conferma il ruolo delle Novae come principale sorgente di Litio nella Via Lattea. Il risultato, ottenuto grazie ai dati del satellite INTEGRAL e pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics, contribuisce a risolvere un mistero astrofisico decennale.

Un team internazionale di astronomi a guida dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha osservato direttamente per la prima volta la produzione di berillio-7 durante l’esplosione di una nova (dal latino stella nova, a indicare un nuovo astro apparso all’improvviso nel cielo). Il berillio-7 è un isotopo instabile che decade nel corso di circa 53 giorni, trasformandosi in un altro elemento, il litio: la sua identificazione rappresenta un passo decisivo verso la comprensione della genesi del litio nell’universo. La scoperta, basata su osservazioni del satellite INTEGRAL dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e pubblicata sulla rivista Astronomy & Astrophysics, fornisce una prova diretta e indipendente del ruolo cruciale delle nove come “fabbriche di litio”, il terzo elemento più leggero della tavola periodica.

Il segnale osservato nei raggi gamma è associato all’esplosione della stella V1369 Centauri, registrata nel dicembre 2013. Grazie all’analisi dettagliata dei dati raccolti dallo spettrometro SPI, a bordo del satellite europeo, il gruppo di ricerca ha identificato una debole ma significativa emissione gamma con energia di 478 KeV, emessa dal berillio-7 prima del suo decadimento, e considerata la firma inequivocabile della presenza di questo elemento tra i prodotti dell’esplosione. Una volta terminato il processo di decadimento, tutto il berillio prodotto si trasformerà in litio, con un’abbondanza calcolata perfettamente compatibile con quella stimata dalle osservazioni ottiche della stessa nova effettuate nel 2015.

Una nova è un sistema binario in cui una nana bianca – il prodotto finale della vita di una stella come il Sole – sottrae idrogeno alla propria compagna, un’altra stella di piccola massa. Quando l’idrogeno si accumula sulla superficie della nana bianca, innesca una serie di  reazioni termonucleari, provocando un’esplosione in grado di aumentare la luminosità del sistema fino a 100mila volte. Nonostante tempi evolutivi brevi, dell’ordine di giorni o settimane, questi eventi, che si verificano circa 30 volte l’anno nella Via Lattea, espellono quantità significative di gas, contribuendo all’evoluzione chimica della nostra galassia. L’origine del litio rappresenta da decenni un problema aperto dell’astrofisica. Sebbene sia noto che una piccola parte del litio presente nell’universo odierno si sia formata nei primi minuti dopo il Big Bang, l’abbondanza osservata nelle stelle più antiche della Via Lattea è molto più bassa di quanto previsto dai modelli cosmologici (enigma noto come il “problema del litio primordiale”), mentre quella nelle stelle giovani è sorprendentemente più alta (“problema del litio galattico”).

“Osservazioni ottiche precedenti avevano stimato la quantità tipica di berillio-7 prodotta dalle esplosioni di novae”, commenta Luca Izzo, primo autore dell’articolo e ricercatore INAF. “Inizialmente, la distanza stimata di V1369 Centauri rendeva improbabile la rilevazione della riga a 478 keV. Ma grazie al satellite Gaia, abbiamo scoperto che la nova era molto più vicina (circa 3200 anni luce) di quanto stimato in precedenza, rendendo possibile la rilevazione da parte di INTEGRAL. Analizzando i dati di INTEGRAL, raccolti circa 25 giorni dopo l’esplosione, abbiamo trovato un eccesso alla frequenza di 478 keV. Misure accurate dell’intensità di questa riga indicano una quantità di berillio-7 che, una volta decaduto in litio, risulta perfettamente coerente con l’abbondanza di litio misurata tramite osservazioni spettroscopiche nell’ottico e nel vicino ultravioletto, sia in questa nova che, più in generale, in altre novae in cui è stato rilevato litio”.

“Il problema dell’origine del litio ha sfidato gli astrofisici per decenni. Già cinquant’anni fa, teorici come Arnould, Norgaard e Starrfield ipotizzarono che le novae potessero essere la sua sorgente principale”, afferma Massimo della Valle, tra gli autori del lavoro e associato INAF. “Francesca D’Antona e Francesca Matteucci recepirono per prime questa intuizione nei loro modelli di evoluzione chimica della Via Lattea, mostrando che il contributo delle novae era essenziale. L’osservazione della riga a 478 keV è la prova dell’esistenza del berillio-7 negli inviluppi delle novae. Sebbene il rapporto segnale/rumore sia modesto, il fatto che l’emissione sia stata osservata in coincidenza temporale con l’esplosione della nova, esattamente all’energia prevista e con l’intensità attesa, rende altamente improbabile una coincidenza casuale, portando la significatività statistica ben oltre i 3 sigma”.

Rappresentazione artistica di un sistema binario, progenitore di una nova classica, dove la componente primaria, una nana bianca, accresce materia da una compagna evoluta. Crediti: Nasa / ESA L. Hustak (STScI)
Grazie al satellite Integral, novità circa l’origine del litio: scoperta firma del berillio-7 nell’esplosione della nova di V1369 Centauri. Rappresentazione artistica di un sistema binario, progenitore di una nova classica, dove la componente primaria, una nana bianca, accresce materia da una compagna evoluta. Crediti: Nasa / ESA L. Hustak (STScI)

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Possible evidence for the 478 keV emission line from 7Be decay during the outburst phases of V1369 Cen”, di Izzo L., Siegert T., Jean P., Molaro P., Bonifacio P., Della Valle M. e Parsotan T., è stato pubblicato online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testo, video e immagine dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

LE PRIME IMMAGINI DALL’OSSERVATORIO VERA C. RUBIN (VERA C. RUBIN OBSERVATORY)

Dalle Ande cilene questo telescopio di nuova generazione è pronto a scrutare tutto il cielo australe. Nuove viste mozzafiato delle nebulose Laguna e Trifida, dell’ammasso di galassie della Vergine e molto altro nelle prime quattro immagini rilasciate dal Rubin Observatory, che rappresentano una piccola anteprima della missione scientifica finalizzata a esplorare e comprendere alcuni dei più grandi misteri dell’universo. Inizia ufficialmente il programma osservativo LSST (Legacy Survey of Space and Time).

L’Osservatorio Vera C. Rubin, situato a oltre 2.600 metri di altitudine sul Cerro Pachón, in Cile, è pronto a rivoluzionare l’astronomia moderna. A dimostrarlo, le nuove immagini che verranno svelate oggi al mondo e che mostrano le regioni di formazione stellare Laguna e Trifida, rispettivamente a 4000 e 5000 anni luce da noi, nella costellazione del Sagittario, le galassie dell’ammasso della Vergine, a circa 60 milioni di anni luce e molto altro ancora. In meno di dieci ore di osservazioni, il potente telescopio ha già catturato una moltitudine  di galassie e stelle nella nostra galassia, la Via Lattea, nonché moltissimi asteroidi nel nostro “vicinato cosmico”, il Sistema solare. Queste immagini e video, che verranno presentate in Italia durante il Watch Party nella Sala Piersanti Mattarella del Palazzo dei Normanni a Palermo, sono solo un assaggio delle straordinarie scoperte che questo osservatorio all’avanguardia potrà realizzare.

Frutto di una vasta collaborazione scientifica internazionale, l’Osservatorio Vera C. Rubin è stato progettato per realizzare la più estesa mappatura continua del cielo australe mai tentata grazie alla Legacy Survey of Space and Time (LSST), una campagna osservativa che, ogni notte per i prossimi dieci anni, raccoglierà una quantità di dati sull’universo senza precedenti (nello specifico circa 20 terabyte a notte).

Dal 2017 l’Italia partecipa attivamente al progetto attraverso l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), che rappresenta il nostro Paese nella comunità scientifica internazionale dell’Osservatorio Vera C. Rubin e coordina il contributo italiano all’analisi scientifica dei dati. L’INAF svolge un ruolo fondamentale anche nella gestione e nell’analisi di questa enorme mole di dati, garantendo alla comunità scientifica italiana l’accesso a questa straordinaria risorsa, promuovendo il contributo nazionale all’analisi e all’interpretazione dei dati, alla formazione di giovani ricercatori e ricercatrici, al raggiungimento di importanti risultati scientifici che apriranno nuove sfide, e allo sviluppo di tecnologie avanzate.

“L’Osservatorio Vera C. Rubin ci consentirà di aggiungere profondità e dinamismo all’osservazione dell’Universo”, afferma Roberto Ragazzoni, presidente INAF. “Con questo telescopio di classe 8 metri in grado di mappare continuamente il cielo australe ogni tre giorni, entriamo nell’epoca dell’’astro-cinematografia’, esplorando una nuova dimensione: quella del tempo, con la quale ci aspettiamo di studiare il cosmo con una nuova prospettiva, che oggi è possibile grazie anche all’uso di nuove tecnologie informatiche per trattare una mole di dati altrimenti imperscrutabile. L’Istituto Nazionale di Astrofisica, con le sue ricercatrici e ricercatori, anche in questa occasione coglie l’opportunità di partecipare a questo nuovo importante progetto”.

Al centro del progetto c’è la fotocamera astronomica più grande mai costruita: 3.200 megapixel, capace di riprendere ogni notte enormi porzioni del cielo australe con sensibilità e risoluzione eccezionali. Ogni immagine copre un’area del cielo grande come 45 volte la luna piena e per ammirarla in tutta la sua risoluzione servirebbero 400 monitor televisivi da 4K. Grazie a un design innovativo, l’Osservatorio Rubin sarà in grado di puntare una nuova porzione di cielo in meno di cinque secondi, osservando l’intero cielo australe in circa 3-4 notti. Nel corso del prossimo decennio, l’osservatorio sarà dunque in grado di riprendere ogni regione del cielo circa 800 volte, creando così un vero e proprio “film” del cosmo ad altissima risoluzione.

“Il Vera C. Rubin Observatory e il suo primo progetto LSST sono un’opportunità unica per la nuova generazione”, commenta Sara (Rosaria) Bonito, la quale rappresenta l’INAF nel Board of Directors della LSST Discovery Alliance del Vera C. Rubin Observatory ed è co-chair della Transients and Variable Stars Science Collaboration (TVSSC). “È una grande eredità per chiunque voglia avvicinarsi alle discipline scientifiche, offrendo uno strumento rivoluzionario per l’astrofisica e le nuove tecnologie per l’interpretazione  dei dati. L’astrofisica che si potrà fare con Rubin è estremamente diversificata: una singola campagna osservativa ci permetterà di rispondere a temi scientifici molto vasti, che riguardano la nostra Galassia ma anche la materia oscura, il nostro Sistema solare e anche i fenomeni più imprevedibili che si verificano nel cielo. Differenti gruppi di ricerca da tutto il mondo con differenti competenze hanno contribuito all’ottimizzazione della strategia osservativa e allo sviluppo di metodologie di analisi dati interdisciplinari. Il progetto coinvolge modelli teorici, big data e data science per indagare ambiti che vanno dalle esplosioni di supernove ai nuclei galattici attivi, fino alle stelle in formazione”, aggiunge.

La survey LSST, che avrà inizio nei prossimi mesi, permetterà di rilevare oggetti estremamente deboli fino a oggi difficili da osservare, ma fondamentali per affrontare questioni chiave della cosmologia e dell’astrofisica moderna: la natura della materia e dell’energia oscura, la struttura a grande scala del cosmo, l’evoluzione delle galassie, l’archeologia galattica, la formazione stellare, i fenomeni transienti e la sorveglianza di oggetti potenzialmente pericolosi. L’osservatorio porta il nome di Vera C. Rubin, astrofisica statunitense i cui studi sulla rotazione delle galassie rappresentano una delle prime prove a favore dell’esistenza della misteriosa materia oscura.

Uno degli ambiti di ricerca che beneficerà maggiormente di questa impresa è lo studio delle stelle variabili, oggetti che cambiano luminosità nel tempo. L’osservatorio sarà in grado di osservare oltre 100 milioni di stelle variabili permettendo studi senza precedenti sui meccanismi che regolano queste variazioni. Questi fenomeni possono derivare da processi interni alle stelle stesse – come pulsazioni dovute a instabilità termiche – oppure da fattori esterni, come eclissi da parte di stelle o pianeti compagni. Grazie alla sua precisione fotometrica, l’Osservatorio Rubin permetterà di esplorare la struttura interna delle stelle.

Non solo: l’osservatorio sarà anche testimone di milioni di esplosioni stellari, eventi catastrofici legati alla morte delle stelle. Analizzando la luce proveniente da alcune di queste esplosioni, le supernove di tipo Ia, sarà inoltre possibile stimare le distanze di galassie lontanissime, esplorando la storia di espansione dell’universo e la sua accelerazione, che si pensa sia causata dalla misteriosa energia oscura.

Bonito sottolinea: “Rubin è dotato della camera digitale più grande mai costruita per l’astronomia, che ha già ottenuto un altro record mondiale, quello della sua lente ottica più grande al mondo. Nonostante le sue dimensioni, è un telescopio molto veloce. Se qualcosa nel cielo si muove o cambia, Rubin lo rileverà e distribuirà l’informazione in tempo reale a tutto il mondo. Questo significa che potremo osservare fenomeni transienti in azione, rendendo possibili nuove scoperte astrofisiche, spesso inaspettate”.

E conclude: “Rubin produrrà un vero e proprio film multicolore del cielo, lungo un’intera decade. Un film che ci permetterà di vedere l’Universo come mai prima: non solo attraverso immagini statiche, ma in evoluzione dinamica”.

Capofila di questa imponente impresa sono il National Science Foundation (NSF) e il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti (DOE), in collaborazione con il NOIRLab e lo SLAC National Accelerator Laboratory.

Testi, video e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

YSES-1 B E YSES-1 C: PIOVE SABBIA SUGLI ESOPIANETI

Osservate per la prima volta nubi di silicati nell’atmosfera di un esopianeta, il gigante gassoso YSES-1 c, a 300 anni luce da noi. Lo studio, reso possibile dal telescopio spaziale James Webb (JWST), ha osservato anche il suo pianeta gemello, svelando intorno a esso un disco di polveri da cui potrebbero formarsi delle lune. Alla scoperta, pubblicata su Nature, ha partecipato Valentina D’Orazi, ricercatrice presso l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e l’Università di Roma Tor Vergata.

Spesso si invoca l’enorme numero di granelli di sabbia che coprono le spiagge del nostro pianeta per provare a immaginare l’altrettanto vasta moltitudine di stelle che popolano l’universo. E se qualcuno dei pianeti intorno a queste stelle fosse coperto – o circondato – di sabbia? È l’interessante scenario che emerge da un nuovo studio basato sulle osservazioni di due pianeti extrasolari realizzate con il telescopio spaziale James Webb (JWST), i cui risultati sono stati pubblicati oggi sulla rivista Nature.

Illustrazione artistica del sistema planetario YSES-1. La stella è visibile al centro, il pianeta YSES-1 b con il disco di polvere circumplanetario si trova a destra mentre a sinistra si vede l’altro pianeta, YSES-1 c, con l’atmosfera contenente nubi di silicati. Crediti: Ellis Bogat
Illustrazione artistica del sistema planetario YSES-1. La stella è visibile al centro, il pianeta YSES-1 b con il disco di polvere circumplanetario si trova a destra mentre a sinistra si vede l’altro pianeta, YSES-1 c, con l’atmosfera contenente nubi di silicati. Crediti: Ellis Bogat

I pianeti in questione orbitano attorno alla stella YSES-1, un giovane sole con un’età di appena 16,7 milioni di anni, che si trova a circa 300 anni luce dal nostro Sistema solare. Osservando direttamente la luce di questi esopianeti, un gruppo di ricerca internazionale guidato dall’astrofisica Kielan Hoch dello Space Telescope Science Institute di Baltimora, negli Stati Uniti, ha scoperto che l’atmosfera di uno dei due pianeti contiene nubi di silicati, composte da minerali che le conferiscono un colore rossiccio. L’altro pianeta del sistema, invece, appare circondato da un disco circumplanetario, anch’esso formato da silicati, dal quale potrebbero in futuro prendere forma corpi più piccoli, come ad esempio delle lune.

La scoperta, che sarà presentata oggi durante il 246° meeting dell’American Astronomical Society in corso ad Anchorage, in Alaska, offre nuove prospettive sulle fasi iniziali della formazione dei sistemi planetari come il nostro, fornendo a ricercatrici e ricercatori l’opportunità di studiare in tempo quasi reale come nasce e si evolve un pianeta simile a Giove.

“Osservare le nubi di silicati, che sono praticamente delle nuvole di sabbia, nelle atmosfere dei pianeti extrasolari è importante perché ci aiuta a capire meglio come funzionano i processi atmosferici e come si formano  i pianeti, un tema ancora in discussione poiché non c’è accordo sui diversi modelli”, spiega la coautrice Valentina D’Orazi, ricercatrice presso l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e l’Università di Roma Tor Vergata, attualmente visiting research scholar all’Università del Texas a Austin nell’ambito del programma Fulbright. “La scoperta di queste nuvole di sabbia, che restano in alto grazie a un ciclo di sublimazione e condensazione simile a quello dell’acqua sulla Terra, ci svela meccanismi complessi di trasporto e formazione nell’atmosfera. Questo ci permette di migliorare i nostri modelli sui processi climatici e chimici in ambienti molto diversi da quelli del Sistema solare, ampliando così la nostra conoscenza di questi sistemi”.

Si tratta di due pianeti giganti gassosi, con masse pari a 14 volte quella di Giove per YSES-1 c e a 6 volte quella di Giove per YSES-1 b. Entrambi i pianeti si trovano molto lontano dalla loro stella, a distanze circa 5 e 10 volte superiori rispetto alla distanza tra il Sole e Nettuno, il pianeta più esterno del Sistema solare. È proprio la loro orbita molto estesa che ha permesso al team di osservare i due pianeti con JWST attraverso la tecnica dell’imaging diretto, la cui applicazione è ancora oggi limitata a un piccolo numero di pianeti con caratteristiche molto particolari. Lo studio dimostra la capacità del potente telescopio spaziale di fornire dati spettrali di alta qualità per esopianeti osservati attraverso questa tecnica, aprendo nuove strade per lo studio delle atmosfere e degli ambienti circumstellari.

La presenza di nubi di silicati nelle atmosfere degli esopianeti era già stata prevista teoricamente e dedotta indirettamente da osservazioni precedenti, ma questa ricerca fornisce la prima osservazione diretta e spettroscopica di nubi di silicati in un esopianeta specifico, YSES-1 c. Questo permette di comprendere meglio la composizione atmosferica di un giovane gigante gassoso, confermando la presenza di nuvole di silicati ad alta quota, contenenti pirosseno ricco di ferro oppure una combinazione di bridgmanite (MgSiO3) e forsterite (Mg2SiO4).

Per quanto riguarda il pianeta gemello YSES-1 b, questo lavoro presenta la prima rilevazione di emissione di silicati da un disco circumplanetario, una specie di “mini-Sistema solare” in formazione. Solo due simili dischi circumplanetari sono stati osservati in precedenza, e la nuova ricerca fornisce informazioni dirette sulla composizione e sui processi fisici in questi ambienti: la presenza di granelli di olivina con dimensioni inferiori al micron, infatti, suggerisce un meccanismo di formazione attraverso collisioni di piccoli corpi, detti planetesimi, all’interno del disco.

“Studiando questi pianeti riusciamo a capire meglio come si formano i pianeti in generale, un po’ come sbirciare nel passato del nostro Sistema solare”, conclude D’Orazi. “I risultati supportano l’idea che la composizione delle nubi negli esopianeti giovani e i dischi circumplanetari svolgano un ruolo cruciale nel determinare la composizione chimica atmosferica. Inoltre, questo studio sottolinea la necessità di modelli atmosferici dettagliati per interpretare i dati osservativi di alta qualità ottenuti con telescopi come JWST”.

 

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “Silicate clouds and a circumplanetary disk in the YSES-1 exoplanet system”, di K. Hoch, M. Rowland, S. Petrus, E. Nasedkin, C. Ingebretsen, J. Kammerer, M. Perrin, V. D’Orazi, W. O. Balmer, T. Barman, M. Bonnefoy, G. Chauvin, C. Chen, R. J. De Rosa, J. Girard, E. Gonzales, M. Kenworthy, Q. M. Konopacky, B. Macintosh, S. E. Moran, C. V. Morley, P. Palma-Bifani, L. Pueyo, B. Ren, E. Rickman, J.-B. Ruffio, C. A. Theissen, K. Ward-Duong, Y. Zhang, è stato pubblicato sulla rivista Nature.

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

Ricevitore MISTRAL, un vento d’innovazione nelle osservazioni di SRT

MISTRAL è un ricevitore di nuova generazione per osservazioni nelle lunghezze d’onda millimetriche realizzato nell’ambito del recente progetto di potenziamento del Sardinia Radio Telescope per lo studio dell’universo radio ad alta frequenza. Le caratteristiche principali di questo strumento consistono nel grandissimo numero di rivelatori che vengono raffreddati a temperature prossime allo zero assoluto e di un’ottica fredda dedicata che permettono di ottenere immagini di grande nitidezza. MISTRAL ha effettuato la sua “prima luce” osservando ben tre diversi oggetti celesti: la nebulosa di Orione, i lobi radio del buco nero supermassiccio nella galassia M87 e il resto di supernova Cassiopea A. Queste immagini rappresentano le prime osservazioni scientifiche a 90 GHz ottenute utilizzando SRT.

MISTRAL è il ricevitore di nuova generazione installato sul Sardinia Radio Telescope (SRT) e costruito da Sapienza Università di Roma per l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) nell’ambito del potenziamento del radiotelescopio per lo studio dell’universo alle alte frequenze finanziato da un progetto PON (Programma Operativo Nazionale), concluso nel 2023 e che oggi vede risultati sempre più concreti. MISTRAL, in questo caso, sta per “MIllimetric Sardinia radio Telescope Receiver based on Array of Lumped elements kids” , ovvero “ricevitore di onde millimetriche per il Sardinia Radio Telescope basato su una rete di rivelatori a induttanza cinetica”.

MISTRAL è un ricevitore innovativo sotto molteplici aspetti. I ricevitori radioastronomici sono tipicamente “mono pixel”, cioè sensibili alla radiazione proveniente da una sola direzione e questo richiede lunghe scansioni con il telescopio per poter realizzare immagini panoramiche della zona di cielo di interesse. Una soluzione per superare questa limitazione è costruire ricevitori “multi pixel”, sensibili cioè alla radiazione proveniente da più direzioni simultaneamente. MISTRAL porta questo concetto all’estremo. Al suo interno è infatti custodito un cuore ultra-freddo composto da una matrice di 415 rivelatori a induttanza cinetica (KIDs) sviluppati in collaborazione con il CNR-IFN di Roma e raffreddati ad appena una frazione di grado dalla temperatura di zero assoluto, pari a -273,15 gradi Celsius.

“È proprio questo elevato numero di rivelatori accoppiato con un sistema ottico sviluppato appositamente a rendere MISTRAL uno strumento estremamente efficace e rapido per l’imaging a largo campo di sorgenti deboli ed estese”, commenta Paolo de Bernardis, Coordinatore Scientifico del ricevitore per Sapienza Università di Roma.

MISTRAL è stato installato nel maggio 2023 nel fuoco gregoriano, localizzato al centro della grande parabola di 64 metri di diametro di SRT. Subito dopo è iniziata la messa in servizio del ricevitore, il cosiddetto commissioning, un’intensa serie di test tecnici e osservativi con l’obiettivo di integrare il ricevitore nel sistema del telescopio. Un team di ricercatori di INAF e Sapienza sta lavorando fianco a fianco con l’obiettivo di portare MISTRAL alle sue massime prestazioni e poterlo quindi offrire alla comunità scientifica per osservazioni regolari.

“Il commissioning – spiega Matteo Murgia, Responsabile Scientifico del ricevitore per INAF – è normalmente un passaggio di routine nella installazione di nuova strumentazione. Tuttavia, si trasforma in una vera sfida nel caso di un ricevitore nel millimetrico come MISTRAL, che richiede che le prestazioni del telescopio siano spinte al limite sotto ogni aspetto”.

“Inizialmente – dichiara Elia Battistelli, Project Manager del ricevitore per Sapienza Università di Roma – si sono affrontati e superati diversi ostacoli legati alla criogenia davvero eccezionale del ricevitore, ottenendo infine la temperatura necessaria per mettere in misura i KIDs, ossia appena 0,2 gradi sopra lo zero assoluto”.

Il miglioramento delle prestazioni della superficie attiva di SRT ha permesso a partire da settembre 2024 di raggiungere la sensibilità adeguata per calibrare lo strumento. È stato quindi possibile procedere all’ ottimizzazione dell’allineamento tra le ottiche di MISTRAL e quelle di SRT.

Il team di commissioning ha inoltre lavorato senza sosta per sviluppare le procedure e il software necessari per il puntamento e la messa a fuoco. Contemporaneamente, INAF e Sapienza hanno realizzato le procedure di calibrazione e composizione delle immagini. A questo punto MISTRAL era finalmente pronto per le osservazioni di “prima luce” di sorgenti radio estese. In successione sono stati osservati tre oggetti celesti iconici: la Nebulosa di Orione, la radiogalassia M87, e il resto di supernova Cassiopea A. Queste osservazioni hanno evidenziato la grande versatilità di MISTRAL e confermato le sue capacità di realizzare immagini di grande dettaglio di oggetti celesti in contesti astrofisici anche molto diversi tra loro.

“Il traguardo raggiunto con le immagini di prima luce di SRT a 90 GHz – commenta Isabella Pagano, Direttrice Scientifica dell’INAF – segna un passo importante nell’ampliamento degli orizzonti scientifici del radiotelescopio che dimostra così di essere in grado di operare con successo alle alte frequenze radio per le quali era stato progettato”.

Con la “prima luce” ottenuta osservando questi affascinanti oggetti cosmici, si conclude questa prima fase di test tecnici e inizia una fase, non meno importante, di validazione scientifica, volta a verificare le prestazioni di MISTRAL con sorgenti sempre più deboli, per garantire che sia pronto per le numerose sfide scientifiche per cui è stato progettato. MISTRAL affronterà un’ampia gamma di questioni scientifiche, dalla cosmologia e fisica degli ammassi di galassie, allo studio dei nuclei galattici attivi, della struttura delle nubi molecolari e della loro relazione con la formazione stellare nelle galassie vicine e nella Via Lattea, fino allo studio dei corpi celesti del nostro Sistema Solare. Le attività del team di commissioning continuano quindi con l’obiettivo di verificare le prestazioni di MISTRAL in ciascuno di questi casi scientifici e di rendere il ricevitore disponibile alla comunità scientifica il prima possibile.

 

Le prime immagini acquisite da MISTRAL

A dicembre 2024 MISTRAL è stato puntato verso la famosa Nebulosa di Orione (nota anche come M42) al centro della omonima costellazione. Situata a una distanza di circa 1350 anni luce dalla Terra, M42 è una delle regioni di formazione stellare attive più vicine ed è caratterizzata da idrogeno ionizzato eccitato da un gruppo di stelle massicce, noto come il Trapezio. M42 fa parte di un vasto complesso di nubi molecolari che si estende per 30 gradi nel cielo, mentre MISTRAL ne ha osservato la parte centrale ad una risoluzione angolare di 12 secondi d’arco. Nell’immagine è ben visibile la Barra di Orione a sud, che segna un confine netto tra la regione di idrogeno ionizzato e la nube molecolare sottostante. Si notano inoltre i picchi di emissione in prossimità delle stelle del Trapezio e della Nebulosa Kleinmann–Low, una densa nube molecolare di formazione stellare che ospita un ammasso stellare interessato in passato da un evento esplosivo. L’ emissione di M42 visibile a 90 GHz è una miscela pressoché uguale di radiazione prodotta dall’idrogeno ionizzato e quella delle polveri fredde contenute nel complesso di nubi molecolari sottostante.

Nel riquadro a sinistra si mostra l’immagine della nebulosa M42 realizzata a 90 GHz con il ricevitore MISTRAL. A destra una sovrapposizione dell’immagine MISTRAL con una immagine a più largo campo ottenuta dall’ Hubble Space Telescope (Credits: MISTRAL commissioning team; NASA, ESA, and The Hubble Heritage Team (STScI/AURA))
Nel riquadro a sinistra si mostra l’immagine della nebulosa M42 realizzata a 90 GHz con il ricevitore MISTRAL. A destra una sovrapposizione dell’immagine MISTRAL con una immagine a più largo campo ottenuta dall’ Hubble Space Telescope (Crediti per l’immagine: MISTRAL commissioning team; NASA, ESA, and The Hubble Heritage Team (STScI/AURA))

A febbraio 2025 MISTRAL ha osservato, sempre alla frequenza di 90 GHz, la radiogalassia M87, il cui nucleo attivo contiene un ormai famoso buco nero supermassiccio presente nella costellazione della Vergine, il primo di cui è stata ottenuta una immagine diretta grazie alla storica osservazione dell’Event Horizon Telescope nel 2019. La sorgente radio che circonda M87 ha una struttura complessa, costituita da lobi interni delle dimensioni di circa trentamila anni luce (poco più della distanza che ci separa dal centro della Via Lattea) circondati da una bolla di plasma esterna su più larga scala. Queste strutture sono il risultato dell’attività del buco nero centrale nel corso dei precedenti milioni di anni. Nell’immagine di MISTRAL sono visibili I lobi radio interni, le strutture più recenti tuttora alimentate da una coppia di getti radio relativistici che si propagano dal buco nero centrale. Osservare queste strutture a frequenze così alte fornisce informazioni nuove e preziose sui meccanismi fisici che alimentano le particelle radio emittenti all’interno della sorgente.

Immagine della sorgente radio attorno a M87 rivelata da MISTRAL a 90 GHz rappresentata in toni di rosso e curve di livello, sovrapposta ad una immagine ottica, in toni di blu, della galassia (Crediti per la foto: MISTRAL commissioning team; Sloan Digital Sky Survey)
Immagine della sorgente radio attorno a M87 rivelata da MISTRAL a 90 GHz rappresentata in toni di rosso e curve di livello, sovrapposta ad una immagine ottica, in toni di blu, della galassia (Crediti per la foto: MISTRAL commissioning team; Sloan Digital Sky Survey)

Infine, nell’ultima sessione di aprile 2025, MISTRAL ha osservato, attraverso due scansioni incrociate di circa mezz’ora ciascuna, il resto di supernova Cassiopea A (Cas-A) una delle più intense radio sorgenti del cielo avente una dimensione angolare di circa 5 minuti d’arco (circa un sesto del diametro apparente della luna piena). Il guscio di gas in espansione è visibile nella sua interezza e, grazie alla risoluzione angolare di SRT a queste lunghezze d’onda, si possono apprezzare i dettagli e le variazioni di luminosità della struttura filamentare.

Immagine del resto di supernova Cassiopea A realizzata a 90 GHz con il ricevitore MISTRAL (Crediti per l'immagine: MISTRAL commissioning team)
Immagine del resto di supernova Cassiopea A realizzata a 90 GHz con il ricevitore MISTRAL (Crediti per l’immagine: MISTRAL commissioning team)

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma e dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

IXPE SVELA LA POLARIZZAZIONE DEI RAGGI X DI UNA MAGNETAR ATTIVA, 1E 1841-045

IXPE ha osservato per la prima volta la magnetar 1E 1841-045 durante una fase di attivazione, rilevando l’emissione di raggi X polarizzati. Questa scoperta fornisce nuovi indizi sul campo magnetico della stella e sui meccanismi di produzione di radiazione ad alta energia nelle pulsar altamente magnetizzate.

Osservata per la prima volta la polarizzazione di una magnetar dopo una fase di attivazione, chiamata outburst, grazie all’Imaging X-ray Polarimetry Explorer (IXPE), missione spaziale nata dalla collaborazione tra la NASA e l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI). I due lavori che riportano l’osservazione, uno guidato da ricercatrici e ricercatori italiani dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell’Università degli Studi di Padova, e l’altro da ricercatrici e ricercatori che lavorano negli Stati Uniti, sono stati pubblicati oggi sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.

La magnetar 1E 1841-045, una stella di neutroni situata nei resti della supernova Kes 73 a circa 28.000 anni luce dalla Terra, ha sorpreso la comunità scientifica riattivandosi il 20 agosto 2024. È stata osservata da tutti i telescopi sensibili alle alte energie, compreso IXPE che per la prima volta in assoluto è riuscito a osservare la radiazione X polarizzata di una magnetar in uno stato di attività. La luce polarizzata è la luce in cui le onde elettromagnetiche oscillano su un piano preferenziale, e non in modo disordinato come succede con la luce “normale”. Misurare come e quanto la luce è polarizzata offre indizi cruciali sulla sua origine e sull’ambiente che ha attraversato per giungere fino a noi.

Una stella di neutroni è il residuo di una stella massiccia che, giunta alla fine del suo ciclo evolutivo, collassa su se stessa, lasciando un nucleo estremamente denso, con una massa simile a quella del Sole, ma compresso in una sfera dal diametro paragonabile all’estensione di una città come Roma. Poiché le stelle di neutroni esaltano le proprietà delle loro stelle progenitrici, come la velocità di rotazione e l’intensità del campo magnetico, danno luogo ad alcuni dei fenomeni fisici più estremi dell’universo osservabile, offrendo opportunità uniche per studiare condizioni che sarebbero impossibili da replicare in un laboratorio sulla Terra.

Le magnetar, stelle di neutroni con campi magnetici estremamente intensi, sono tra gli oggetti più affascinanti ed enigmatici dell’universo. Quando una di queste stelle si attiva, può rilasciare fino a mille volte l’energia che emetterebbe normalmente, dando luogo a fenomeni fisici ancora più estremi. Tuttavia, i meccanismi alla base di queste fluttuazioni energetiche non sono ancora del tutto compresi. In questo contesto, la misurazione della luce polarizzata gioca un ruolo cruciale: i dati raccolti mostrano che l’emissione di raggi X da 1E 1841-045 diventa sempre più polarizzata a livelli di energia più elevati, pur mantenendo lo stesso angolo di polarizzazione. Questo significa che le diverse componenti di emissione sono legate tra loro e che quella più ad alta energia, finora la più elusiva, è fortemente influenzata dal campo magnetico.

“È la prima volta che riusciamo a osservare la polarizzazione di una magnetar in stato di attività e questo ci ha permesso di vincolare i meccanismi e la geometria di emissione che si celano dietro a questi stati attivi”, dice Michela Rigoselli, ricercatrice dell’INAF di Milano e prima autrice dell’articolo. “Ora sarà interessante osservare 1E 1841-045 una volta tornata allo stato di quiescenza per monitorare l’evoluzione delle sue proprietà polarimetriche”.

Questa osservazione evidenzia chiaramente le potenzialità della scienza delle magnetar, che può ancora essere approfondita attraverso la polarimetria ad alta energia.

Rappresentazione artistica di una magnetar, una stella di neutroni che possiede un forte campo magnetico.Crediti: ESA
IXPE svela la polarizzazione dei raggi X della magnetar 1E 1841-045, stella di neutroni situata nei resti della supernova Kes 73. Rappresentazione artistica di una magnetar, una stella di neutroni che possiede un forte campo magnetico.
Crediti: ESA


 

Per ulteriori informazioni:

Lanciata il 9 dicembre 2021 dal Kennedy Space Center della NASA su un razzo Falcon 9, la missione IXPE fa parte della serie Small Explorer della NASA. IXPE, frutto di una collaborazione tra NASA e Agenzia Spaziale Italiana (ASI), è una missione interamente dedicata allo studio dell’universo attraverso la misura della polarizzazione dei raggi X. Utilizza tre telescopi installati a bordo con rivelatori finanziati dall’ASI e sviluppati da un team di scienziati dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), con il supporto industriale di Ohb-Italia.

L’articolo “IXPE detection of highly polarized X-rays from the magnetar 1E 1841-045”, di Rigoselli M., Taverna R., Mereghetti S., Turolla R., Israel G.L., Zane S., Marra L., Muleri F., Borghese A., Coti Zelati F., De Grandis D., Imbrogno M., Kelly R. M. E., Esposito P., Rea N., è stato pubblicato online sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.

L’articolo “X-ray polarization of the magnetar 1E 1841-045”, di Stewart R., Younes G., Harding A.K., Wadiasingh Z., Baring M.G., Negro M., Strohmayer T.E., Ho W.C.G., Ng M., Arzoumanian, Z., Dinh Thi H., Di Lalla N., Enoto T., Gendreau K., Hu C., van Kooten A., Kouveliotou C., McEwen A., è stato pubblicato online sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.

 

Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

FONDI FIS2/MUR: ALL’INAF 1,2 MILIONI DI EURO PER STUDIARE L’UNIVERSO OSCURO COL PROGETTO DARKER

Con il sostegno del Fondo Italiano per la Scienza, la ricercatrice INAF Cristiana Spingola guiderà l’ambizioso progetto DARKER per cercare minuscole lenti gravitazionali e sondare i misteri di energia e materia oscura.

 

Il progetto DARKER – Accurate constraints on dark energy and dark matter using strong lensing in the era of precision cosmology riceve un finanziamento di 1,2 milioni di euro grazie al Fondo Italiano per la Scienza – FIS 2, erogato dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR). A guidare la ricerca sarà Cristiana Spingola, ricercatrice dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), con l’obiettivo di sondare alcuni degli enigmi più profondi della cosmologia: energia oscura e materia oscura, che insieme costituiscono circa il 95% dell’intero Universo.

Il progetto DARKER ha l’obiettivo di scoprire nuove lenti gravitazionali molto piccole che, come potentissimi telescopi naturali, permetteranno di indagare in modo ancora più accurato alcuni aspetti dell’Universo lontano. Il fenomeno della lente gravitazionale, o lensing in inglese, è un effetto previsto dalla teoria della relatività generale di Albert Einstein.

“Se un oggetto molto massiccio – come una galassia o un ammasso di galassie – si trova tra noi e una sorgente luminosa lontana – come un quasar – il suo potenziale gravitazionale può deviare la radiazione, producendo immagini multiple della sorgente di sfondo”, spiega Cristiana Spingola.

“Ogni variazione di intensità luminosa avverrà in tempi diversi nelle diverse immagini, ovvero con un ritardo temporale (time delay). È proprio quest’ultima proprietà che DARKER sfrutterà per cercare questi oggetti estremamente rari, finora sfuggiti all’osservazione”.

La particolarità del progetto risiede quindi nel suo approccio innovativo: per la prima volta, la ricerca di lenti gravitazionali verrà condotta nel dominio temporale (time-domain) invece che tramite immagini statiche. Per la conferma delle “candidate lenti” serviranno osservazioni ad altissima risoluzione angolare. In questo contesto osservazioni con i tre radiotelescopi italiani dell’INAF – il Sardinia Radio Telescope (Cagliari) e le parabole gemelle di Medicina (Bologna) e Noto (Siracusa) – in modalità VLBI (Very Long Baseline Interferometry), saranno fondamentali per determinare la natura di queste rarissime lenti gravitazionali di piccolissima massa.

“Sappiamo ancora troppo poco di materia ed energia oscura. Grazie a questo approccio innovativo, potremo identificare simultaneamente lenti gravitazionali molto piccole e sorgenti variabili sullo sfondo, finora invisibili con le tecniche tradizionali”,

commenta Spingola, la quale svolgerà il suo progetto presso l’Istituto di Radioastronomia e in collaborazione con l’Osservatorio di Astrofisica e Scienza dello Spazio, le due sedi bolognesi dell’INAF.

Il progetto punta quindi a identificare centinaia di nuove lenti usando dati raccolti in passato dai telescopi spaziali GAIA e Fermi, cercando in particolare oggetti molto compatti con masse di pochi milioni di masse solari, la cui esistenza – o assenza – potrebbe aiutare a chiarire la vera natura della materia oscura, distinguendo tra modelli ‘freddi’ o ‘caldi’.

Spingola Aggiunge: “La conferma finale della natura di questi oggetti sarà possibile solo usando la tecnica della Very Long Baseline Interferometry, di cui l’INAF vanta un’esperienza storica ed è oggi tra i protagonisti della tecnica VLBI in Europa, con le sue strutture radioastronomiche che rappresentano un’eccellenza riconosciuta a livello internazionale”.

DARKER contribuirà anche alla determinazione precisa della costante di Hubble (H₀), parametro che misura la velocità di espansione dell’Universo.

“Questa misura sarà indipendente da quelle attualmente disponibili e potrà aiutare a risolvere una delle più grandi controversie dell’astrofisica moderna, la cosiddetta ‘tensione di Hubble’, che consiste nel disaccordo tra le stime di H₀ ottenute da osservazioni dell’universo primordiale e quelle basate su misure più vicine a noi. DARKER potrebbe rappresentare, quindi, un passo importante per fare luce sull’Universo oscuro”, conclude la ricercatrice.

La ricercatrice INAF Cristiana Spingola davanti al radiotelescopio Hartebeesthoek in Sudafrica. Crediti: INAF
La ricercatrice INAF Cristiana Spingola davanti al radiotelescopio Hartebeesthoek in Sudafrica. Crediti: INAF

Originaria di Perugia e laureata in Astrofisica all’Università di Bologna, Cristiana Spingola si è formata scientificamente tra Italia e Paesi Bassi, dove ha conseguito il dottorato all’Università di Groningen. Ricercatrice a tempo indeterminato dal 2023, è esperta di interferometria radio e lensing gravitazionale, e partecipa attivamente alla preparazione scientifica della prossima generazione di interferometri radio, come quelli del progetto SKA.

Il finanziamento complessivo è stato erogato nell’ambito del macrosettore Physical Sciences and Engineering – Universe Sciences del FIS 2. I fondi FIS sostengono ogni anno progetti di ricerca altamente innovativi nei principali settori scientifici, seguendo il modello dell’European Research Council (ERC).


Testo e immagine dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

UNA STELLA FATTA A PEZZI DA UN BUCO NERO: RARO EVENTO COSMICO OSSERVATO IN DUE GALASSIE IN COLLISIONE; L’EVENTO DI DISTRUZIONE MAREALE AT 2022wtn, NEL NUCLEO DELLA GALASSIA MENO MASSICCIA DELLA COPPIA (SDSSJ232323.79+104107.7)

 

Pubblicato sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society un articolo scientifico a guida dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) riporta l’osservazione di un raro evento di distruzione mareale (o TDE, dall’inglese Tidal Disruption Event) in una coppia di galassie in interazione. Chiamato AT 2022wtn, il fenomeno è stato segnalato alla comunità astronomica dalla Zwicky Transient Facility (ZTF) e quindi classificato come TDE grazie a osservazioni spettroscopiche a cui ha fatto seguito una campagna multi-frequenza nell’ambito della collaborazione ePessto+, coprendo lo spettro elettromagnetico dalla banda radio agli infrarossi, per arrivare fino ai raggi X. Questo studio apre nuove prospettive sui processi che si innescano quando una stella si avvicina troppo a un buco nero supermassiccio al centro di una galassia e sulla connessione tra questi eventi distruttivi e l’evoluzione dinamica delle galassie.

L’evento di distruzione mareale si è verificato nel nucleo della galassia meno massiccia della coppia (denominata SDSSJ232323.79+104107.7), circa dieci volte più piccola della sua compagna, in un sistema in fase iniziale di “fusione” che ha probabilmente già subito un primo passaggio ravvicinato.

AT 2022wtn mostra caratteristiche particolarmente insolite rispetto agli eventi simili già noti, come spiega Francesca Onori, assegnista di ricerca dell’INAF in Abruzzo e prima autrice dello studio.

“È un evento peculiare. La sua curva di luce è caratterizzata de un plateau nella fase di massima luminosità – della durata di circa 30 giorni – accompagnato da un brusco crollo della temperatura e una sequenza spettrale che mostra lo sviluppo di due righe in emissione in corrispondenza delle lunghezze d’onda dell’elio e dell’azoto. Qualcosa che non avevamo mai osservato con tanta chiarezza”.

Gli eventi di distruzione mareale si verificano quando una stella si avvicina a un buco nero supermassiccio, generalmente situato al centro di una normale galassia. La potente forza gravitazionale esercitata dal buco nero supera la forza di gravità che tiene insieme la stella, riuscendo prima a deformarla e poi a distruggerla, allungandola sino a formare sottili filamenti, in un processo, chiamato “spaghettificazione”, durante il quale viene rilasciata un’enorme quantità di energia osservabile da Terra. I frammenti stellari catturati formano un disco di materiale che orbita intorno al buco nero (il disco di accrescimento) che, cadendo su di esso, si riscalda a temperature altissime ed emette radiazioni intense alle frequenze X, UV e del visibile.

Tra gli aspetti più sorprendenti riportati nell’articolo c’è anche la rilevazione di un’emissione radio transiente, segno della presenza di flussi di materia in uscita (outflow in inglese), e forti variazioni nel tempo delle velocità delle linee spettrali. Tutti questi indizi indicano che una stella di bassa massa è stata completamente distrutta da un buco nero supermassiccio di circa un milione di masse solari, generando il disco di accrescimento e una sorta di “bolla” quasi sferica di gas espulso in espansione.

“Abbiamo trovato tracce chiare della dinamica del materiale circostante anche in alcune righe in emissione – spiega Francesca Onori – che mostrano caratteristiche compatibili con una veloce propagazione verso l’esterno. Grazie alla nostra campagna di monitoraggio siamo riusciti a proporre un’interpretazione dell’origine della radiazione osservata: AT2022wtn ha dato luogo a una rapida formazione del disco attorno al buco nero e alla successiva espulsione di parte della materia stellare. Questo risultato è particolarmente rilevante, poiché la sorgente della luce visibile e le condizioni fisiche della regione da cui essa proviene, nei TDE, sono ancora oggetto di studio”.

Il gruppo di ricerca si è inoltre concentrato sull’ambiente galattico dell’evento. AT 2022wtn è il secondo TDE osservato in una coppia di galassie in interazione, una coincidenza che, secondo quanto si legge nello studio, non è casuale: le prime fasi delle fusioni galattiche potrebbero infatti favorire un aumento della frequenza di questi fenomeni estremi, ancora poco compresi.

“Questa eccellente scoperta scientifica mette in luce quanto l’astrofisica moderna richieda sempre maggiori conoscenze interdisciplinari e notevoli capacità di analisi multibanda. È davvero molto importante che l’INAF sia pronto a raccogliere queste sfide scientifiche con giovani ricercatrici come Francesca Onori”, conclude Enzo Brocato, dirigente di ricerca presso l’INAF a Roma e tra gli autori dell’articolo.

Immagine dal Legacy Survey DR10 del campo di AT 2022wtn. Nel riquadro viene mostrato il transiente che si è verificato nel nucleo della galassia minore in interazione, indicata dalla croce blu. Sono ben visibili le code mareali, risultato dell’interazione gravitazionale e della fusione tra le due galassie. Crediti: Legacy Surveys / D. Lang (Perimeter Institute) / INAF / F. Onori
Immagine dal Legacy Survey DR10 del campo di AT 2022wtn. Nel riquadro viene mostrato il transiente che si è verificato nel nucleo della galassia minore in interazione, indicata dalla croce blu. Sono ben visibili le code mareali, risultato dell’interazione gravitazionale e della fusione tra le due galassie. Crediti: Legacy Surveys / D. Lang (Perimeter Institute) / INAF / F. Onori

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “The case of AT2022wtn: a Tidal Disruption Event in an interacting galaxy”, di F. Onori, M. Nicholl, P. Ramsden, S. McGee, R. Roy, W. Li, I. Arcavi, J. P. Anderson, E. Brocato, M. Bronikowski, S. B. Cenko, K. Chambers, T. W. Chen, P. Clark, E. Concepcion, J. Farah, D. Flammini, S. González-Gaitán, M. Gromadzki, C. P. Gutiérrez, E. Hammerstein, K. R. Hinds, C. Inserra, E. Kankare, A. Kumar, L. Makrygianni, S. Mattila, K. K. Matilainen, T. E. Müller-Bravo, T. Petrushevska, G. Pignata, S. Piranomonte, T. M. Reynolds, R. Stein, Y. Wang, T. Wevers, Y. Yao, D. R. Young, è stato pubblicato sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

LA VIOLENTISSIMA TEMPESTA COSMICA NEL CUORE DEL QUASAR PDS 456, PRODOTTA DA UN BUCO NERO SUPERMASSICCIO

Roma, 14 maggio 2025 – Immaginate una tempesta colossale che si scatena appena al di fuori di un buco nero supermassiccio: è proprio ciò che ha rivelato Resolve, il nuovo spettrometro ad altissima risoluzione nei raggi X a bordo del satellite XRISM, nel contesto di una missione spaziale guidata dall’agenzia spaziale JAXA (Giappone), con la partecipazione di NASA (Stati Uniti) ed ESA (Europa).

Grazie ai dati ad altissima precisione di XRISM, è stato possibile – per la prima volta – identificare cinque componenti distinte di questo vento nel cuore del quasar PDS 456, ognuna espulsa dal buco nero centrale a velocità relativistiche, comprese tra il 20% e il 30% della velocità della luce.  Per fare un confronto, basti pensare che le tempeste più violente sulla Terra – come un uragano di categoria 5 – raggiungono al massimo 300 km/h. Questa “tempesta cosmica” è milioni di volte più veloce.

Lo studio nato da questa collaborazione internazionale (JAXA, NASA, ESA) nell’ambito della missione XRISM, a cui partecipano anche ricercatrici e ricercatori dell’Università di Roma Tor Vergata e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), è pubblicato oggi sulla rivista internazionale Nature, con un articolo dal titolo “Structured ionized winds shooting out from a quasar at relativistic speeds”, che evidenzia la scoperta di cinque distinti flussi di plasma che fuoriescono dal disco di accrescimento del buco nero centrale a velocità estreme, pari al 20–30% di quella della luce.

“Il nostro gruppo ha giocato un ruolo chiave nell’interpretazione di questi dati, grazie a tecniche spettroscopiche avanzate nei raggi X e a modelli teorici innovativi per la fisica dei venti prodotti dai buchi neri.  Questi risultati aprono una nuova finestra sullo studio dell’universo estremo, e gettano le basi per comprendere meglio come i buchi neri influenzano l’evoluzione delle galassie”.  Commenta così Francesco Tombesi, professore associato di Astrofisica presso il dipartimento di Fisica dell’università di Roma Tor Vergata e associato INAF. In qualità di XRISM Guest Scientist selezionato dall’ESA (uno dei soli due in Italia insieme a James Reeves, associato INAF), Tombesi ha partecipato alla pianificazione e all’analisi dell’osservazione del quasar PDS 456, il più luminoso dell’universo locale, utilizzando il nuovo spettrometro ad alta risoluzione Resolve.

“Roma Tor Vergata ha avuto un ruolo di primo piano – prosegue Tombesi – anche grazie al contributo di due giovani ricercatori cresciuti all’interno del nostro Ateneo: Pierpaolo Condò, dottorando al secondo anno del PhD in Astronomy, Astrophysics and Space Science (AASS), e Alfredo Luminari, ricercatore post-doc presso INAF ed ex dottorando AASS”.

Un’energia così enorme e una struttura così complessa rivoluzionano la nostra comprensione dell’ambiente estremo intorno ai buchi neri supermassicci e mettono in seria discussione i modelli attuali di feedback tra buco nero e galassia. “Le teorie finora accettate – conclude Tombesi – non riescono a spiegare una simile combinazione di forza e frammentazione: è chiaro che serviranno nuovi modelli per descrivere questi mostri cosmici”.

“PDS456 è un laboratorio prezioso per studiare nell’universo locale i potentissimi venti prodotti dai buchi neri supermassivi. Questa  nuova osservazione ci ha permesso di misurare la geometria e distribuzione in velocità del vento con un livello di dettagli impensabile prima dell’avvento di XRISM”, aggiunge Valentina Braito, ricercatrice INAF a Milano.

Un ruolo vincente all’interno della campagna osservativa di PDS456 lo ha avuto ancora una volta l’osservatorio spaziale Neil Gehrels Swift, satellite NASA con una importante partecipazione dell’INAF con l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI). È stato infatti grazie a un programma osservativo Swift – ottenuto da Valentina Braito – che il team è riuscito a costruire i modelli specifici per PDS456 utilizzati nell’analisi dei dati XRISM.

 

Riferimenti bibliografici:

XRISM collaboration, Structured ionized winds shooting out from a quasar at relativistic speeds, Nature (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41586-025-08968-2

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF