QUEL PICCOLO, GRANDE PUNTO ROSSO: ECCO BiRD, IL BUCO NERO CRESCIUTO IN FRETTA 10 MILIARDI DI ANNI FA, IDENTIFICATO NEL CAMPO CIRCOSTANTE IL QUASAR J1030+0524 LA SCOPERTA ITALIANA CON IL JAMES WEBB SPACE TELESCOPE
Al “mezzogiorno cosmico”, quando l’universo brillava come un enorme laboratorio in piena attività, è stato scoperto un raro punto rosso. Si chiama BiRD, acronimo di big red dot (in italiano, grande punto rosso), il nuovo oggetto cosmico scoperto con il James Webb Space Telescope da un team internazionale guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). L’oggetto è un raro rappresentante della misteriosa classe dei little red dot (LRD o in italiano piccoli punti rossi), identificati solo recentemente grazie alle capacità infrarosse del satellite delle agenzie spaziali statunitense ed europea NASA ed ESA. A produrre la luminosità di BiRD ci sarebbe un buco nero supermassiccio della massa di 100 milioni di volte quella del nostro Sole. La scoperta è in pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.
Osservando una regione remota del cielo, in un’epoca cosmica che gli addetti ai lavori chiamano “mezzogiorno cosmico” – ovvero un periodo compreso tra 10 e 11 miliardi di anni fa – è stato individuato un insolito punto rosso: non è una stella né un pianeta, eppure brilla con caratteristiche uniche. Grazie al James Webb Space Telescope (JWST), questa scoperta apre una finestra sulle prime fasi di crescita dei buchi neri supermassicci e rivela dinamiche finora nascoste dell’universo, offrendo dati che mettono alla prova gli attuali modelli teorici.
Immagine di BiRD – I “puntini rossi” individuati nella regione di cielo attorno al quasar J1030. Bird è l’oggetto al centro: spicca rispetto agli altri puntini rossi perché più vicino e, dunque, più brillante. Crediti: F. Loiacono, NASA, ESA, CSA
BiRD è stato identificato inaspettatamente nel campo circostante il quasar J1030+0524, una regione del cielo studiata da anni dal gruppo INAF. Analizzando con attenzione immagini e spettri ottenuti con lo strumento NIRCam a bordo di JWST, il team di ricerca ha rilevato una sorgente insolita: un punto brillante, mai rilevato nei cataloghi X e radio precedenti.
Secondo gli autori, questa scoperta rappresenta un’occasione unica per fare luce su una popolazione di oggetti cosmici ancora sconosciuta e fondamentale per comprendere l’origine e l’evoluzione dei buchi neri nell’universo.
“L’area osservata è quella attorno al quasar J1030. A partire dalle immagini calibrate, è stato elaborato un catalogo delle sorgenti presenti nel campo. È lì che ci siamo accorti di BiRD: un oggetto puntiforme, brillante, che però non era una stella e non compariva nei cataloghi X e radio già esistenti”, spiega Federica Loiacono, assegnista di ricerca INAF alla guida del team e prima autrice dello studio, “Io ho analizzato il suo spettro, che ci racconta la composizione chimica e alcune delle proprietà fisiche dell’oggetto. Abbiamo trovato segnali chiari dell’idrogeno – in particolare la riga chiamata Paschen gamma (un’impronta luminosa che rivela la presenza di idrogeno ionizzato) – e dell’elio, visibile anche in assorbimento. Questi dettagli ci hanno permesso di stimare la distanza di BiRD, scoprendo che si trova relativamente vicino a noi rispetto alla maggior parte dei little red dot finora conosciuti. Sempre dall’analisi dello spettro di questa sorgente, abbiamo potuto stimare la massa del buco nero centrale: circa 100 milioni di volte quella del Sole”.
I little red dot sono sorgenti celesti molto compatte e rosse, con proprietà spettroscopiche insolite. Si pensa che siano legate a buchi neri supermassicci in fase di crescita, ma la loro natura resta ancora misteriosa. La loro scoperta è stata possibile solo grazie alla sensibilità infrarossa del telescopio spaziale JWST. Un aspetto sorprendente è la loro assenza nelle osservazioni ai raggi X: un comportamento inatteso, visto che i buchi neri in accrescimento di solito emettono intensamente proprio in quella banda. Secondo alcune teorie, i LRD potrebbero rappresentare le prime fasi evolutive dei “semi” da cui si formano i buchi neri supermassicci, ancora nascosti da spessi strati di gas che bloccano gran parte della radiazione emessa nelle loro vicinanze.
“Prima di BiRD, a questa stessa distanza cosmica erano noti solo altri due LRD con le stesse caratteristiche spettrali, comprese le righe di elio e la Paschen gamma”, prosegue Loiacono. “Confrontando le proprietà spettrali di BiRD con quelle degli altri due, abbiamo trovato forti analogie: la larghezza delle righe, l’assorbimento, la massa del buco nero e la densità del gas sono molto simili. Questo ci ha portato a concludere che BiRD appartiene alla stessa famiglia di LRD”.
Il gruppo di ricerca ha stimato l’abbondanza dei LRD nell’universo in corrispondenza del “mezzogiorno cosmico”. I risultati hanno rivelato che questi oggetti erano ancora numerosi in quel periodo, contraddicendo studi precedenti che invece indicavano un drastico calo già in epoche ancora più antiche. Una scoperta che obbliga a rivedere i modelli sull’evoluzione dei LRD e, di conseguenza, di quella dei buchi neri supermassicci.
“La sfida ora è estendere lo studio a un numero maggiore di LRD vicini, che possiamo studiare più nel dettaglio rispetto a quelli distanti, per costruire un quadro più completo”, conclude Loiacono. “JWST ha aperto una nuova frontiera nell’astrofisica extragalattica, rivelandoci oggetti di cui non sospettavamo neppure l’esistenza, e siamo solo all’inizio di questa avventura”.
Federica Loiacono
Lo studio ha coinvolto anche altri istituti come l’Università di Bologna, STSCI, Johns Hopkins University, Universitat de Barcelona, ICREA, Clemson University, Eureka Scientific, Yale University, Università degli Studi Roma Tre, University of Cambridge (UK), University College London, Max-Planck-Institut für extraterrestrische Physik e si basa su dati spettroscopici e fotometrici ottenuti con NIRCam e accuratamente calibrati e interpretati dal team italiano.
Riferimenti bibliografici:
L’articolo “A big red dot at cosmic noon” di Federica Loiacono, Roberto Gilli, Marco Mignoli, Giovanni Mazzolari, Roberto Decarli, Marcella Brusa, Francesco Calura, Marco Chiaberge, Andrea Comastri, Quirino D’Amato, Kazushi Iwasawa, Ignas Juodžbalis, Giorgio Lanzuisi, Roberto Maiolino, Stefano Marchesi, Colin Norman, Alessandro Peca, Isabella Prandoni, Matteo Sapori, Matilde Signorini, Paolo Tozzi, Eros Vanzella, Cristian Vignali, Fabio Vito, e Gianni Zamorani, è stato accettato per la pubblicazione su Astronomy & Astrophysics.
Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF
LIGO, Virgo e KAGRA osservano per la prima volta buchi neri di “seconda generazione”, GW241011 e GW241110
Due fusioni di buchi neri speciali, rivelate a un mese di distanza l’una dall’altra alla fine del 2024, aggiungono un nuovo importante tassello alla nostra comprensione dei fenomeni più violenti del nostro universo. Alcune caratteristiche di queste fusioni suggeriscono infatti che si tratti di buchi neri di “seconda generazione”, cioè di buchi neri generati a loro volta da precedenti fusioni, avvenute in ambienti cosmici molto densi e affollati, come gli ammassi stellari, dove è più probabile che i buchi neri si scontrino e si fondano ripetutamente.
fusione di buchi neri. Crediti Carl Knox/OzGrav-Swinburne
fusione di buchi neri. Crediti Carl Knox/OzGrav-Swinburne
fusione di buchi neri. Crediti Carl Knox/OzGrav-Swinburne
In un nuovo articolo pubblicato oggi su The Astrophysical Journal Letters, la Collaborazione Internazionale LIGO-Virgo-KAGRA ha annunciato la rilevazione di due segnali di onde gravitazionali avvenuta nell’ottobre e nel novembre dello scorso anno, in cui i buchi neri presentano degli spin, ovvero caratteristiche di rotazione, insoliti. Un’osservazione che aggiunge un nuovo importante tassello alla nostra comprensione dei fenomeni più elusivi dell’universo. Le onde gravitazionali sono “increspature” nello spazio-tempo che derivano da cataclismi dello spazio profondo: i segnali più intensi di questa natura sono spesso generati dalla collisione di buchi neri. Utilizzando algoritmi e modelli matematici estremamente sofisticati, è possibile ricostruire dall’analisi di questi segnali molte caratteristiche fisiche dei buchi neri che li hanno generati: la loro massa, la distanza dalla Terra e persino la velocità e la direzione della loro rotazione attorno al proprio asse, chiamata spin.
La prima fusione rivelata, GW241011 (11 ottobre 2024), si è verificata a circa 700 milioni di anni luce di distanza dalla Terra ed è stata causata dalla collisione di due buchi neri con una massa pari a circa 17 e 7 volte quella del nostro sole. Il più grande dei due buchi neri in GW241011 è uno dei buchi neri che ruota più rapidamente tra quelli osservati fino ad oggi. Quasi un mese dopo, il 10 Novembre 2024, è stato rilevato GW24111010, un segnale proveniente da circa 2,4 miliardi di anni luce dalla Terra, proveniente dalla fusione di buchi neri con una massa pari a circa 16 e 8 volte quella del nostro sole. Mentre la maggior parte dei buchi neri osservati ruotano nella stessa direzione della loro orbita, il buco nero primario di GW241110 ruota invece in direzione opposta e rappresenta il primo caso del genere osservato fino ad oggi.
“Ogni nuova rivelazione fornisce importanti indicazioni sull’universo, poiché ogni fusione osservata è sia una scoperta astrofisica che un laboratorio eccezionale per sondare le leggi fondamentali della fisica”, afferma il coautore del lavoro Carl-Johan Haster, assistant professor di astrofisica presso l’Università del Nevada, Las Vegas (UNLV). “Binarie come queste erano state previste, ma questa è la prima prova diretta della loro esistenza”.
Entrambe le rivelazioni, inoltre, indicano la possibilità di buchi neri di “seconda generazione”.
“GW241011 e GW241110 sono tra gli ultimi eventi delle diverse centinaia osservati dalla rete LIGO-Virgo-KAGRA”, afferma Stephen Fairhurst, professore all’Università di Cardiff e portavoce della collaborazione scientifica LIGO. “Entrambi gli eventi hanno un buco nero significativamente più massiccio dell’altro e in rapida rotazione, e forniscono indicazioni interessanti che questi buchi neri si siano formati da precedenti fusioni di buchi neri”.
In particolare gli indizi evidenziati dai ricercatori sono la differenza di dimensioni tra i buchi neri in ciascuna fusione (il più grande era quasi il doppio del più piccolo) e l’orientamento di rotazione dei buchi neri più grandi in ciascun evento. Una spiegazione naturale di queste peculiarità è che i buchi neri siano il risultato di precedenti fusioni. Fenomeni di questo tipo, chiamati fusioni gerarchiche, avvengono solitamente in regioni cosmiche estremamente ‘affollate’, come gli ammassi stellari, dove i buchi neri sono più propensi a scontrarsi e quindi a fondersi ripetutamente.
“Queste rivelazioni evidenziano le straordinarie capacità dei nostri osservatori di onde gravitazionali”, afferma Gianluca Gemme, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e portavoce della Collaborazione Virgo. “Le insolite configurazioni di spin osservate in GW241011 e GW241110 non solo sfidano la nostra comprensione della formazione dei buchi neri, ma offrono anche prove convincenti di fusioni gerarchiche in alcuni ambienti cosmici: ci insegnano che alcuni buchi neri non esistono solo come partner isolati, ma probabilmente come membri di una folla densa e dinamica. Queste scoperte evidenziano, ancora una volta, il ruolo cruciale della rete internazionale di interferometri gravitazionali per svelare i fenomeni più elusivi dell’universo”.
Alla scoperta delle proprietà nascoste delle fusioni di buchi neri
Le onde gravitazionali furono previste per la prima volta da Albert Einstein nel 1916 come parte della sua teoria della relatività generale, ma sebbene la loro esistenza fu dimostrata negli anni ’70, la loro prima osservazione diretta risale a soli 10 anni fa, quando le collaborazioni scientifiche LIGO e Virgo annunciarono di avere rivelato onde gravitazionali risultanti dalla fusione di due buchi neri. Oggi, LIGO, Virgo e KAGRA costituiscono una rete mondiale di rivelatori avanzati di onde gravitazionali e stanno per concludere il loro quarto ciclo di osservazioni, O4. La campagna attuale è iniziata alla fine di maggio 2023 e dovrebbe continuare fino a metà novembre di quest’anno. Ad oggi, sono state osservate circa 300 fusioni di buchi neri attraverso le onde gravitazionali, compresi i candidati identificati nella campagna O4 in corso che sono in attesa di validazione finale.
Inoltre, nel caso dell’osservazione annunciata oggi, la precisione con cui è stato misurato GW241011 ha permesso di testare in condizioni estreme alcune delle previsioni chiave della teoria della relatività generale di Einstein.
Infatti questo evento può essere confrontato con le previsioni della teoria di Einstein e con la soluzione del matematico Roy Kerr per i buchi neri in rotazione. La rapida rotazione del buco nero lo deforma leggermente, lasciando un’impronta caratteristica nelle onde gravitazionali che emette. Analizzando GW241011, il team di ricerca ha trovato un eccellente accordo con la soluzione di Kerr e ha verificato, ancora una volta, la previsione di Einstein, ma con una precisione senza precedenti.
Inoltre, poiché le masse dei singoli buchi neri differiscono in modo significativo, il segnale delle onde gravitazionali contiene il “ronzio” di un’armonica superiore, simile agli armonici degli strumenti musicali, ‘ascoltato’ solo in tre diversi segnali gravitazionali fino ad oggi. Una di queste armoniche è stata osservata con estrema chiarezza e conferma un’altra previsione della teoria di Einstein.
“Questa scoperta significa anche che siamo più sensibili che mai a qualsiasi nuova fisica che possa andare oltre la teoria di Einstein”, afferma Haster.
Ricerca avanzata di particelle elementari
I buchi neri in rapida rotazione come quelli osservati in questo studio hanno un’altra applicazione: la fisica delle particelle. Scienziate e scienziati possono utilizzarli per verificare l’esistenza di alcune particelle elementari leggere e ipotizzare la loro massa.
Queste particelle, chiamate bosoni ultraleggeri, sono previste da alcune teorie che vanno oltre il Modello Standard della fisica delle particelle, che descrive e classifica tutte le particelle elementari conosciute. Se i bosoni ultraleggeri esistono, possono essere generati dall’energia rotazionale dei buchi neri. Quanta energia si disperda in queste particelle e quanto la rotazione dei buchi neri rallenti nel tempo dipende dalla massa, che non conosciamo, degli ipotetici bosoni. L’osservazione che il buco nero massiccio nel sistema binario che ha emesso GW241011 continua a ruotare rapidamente anche milioni o miliardi di anni dopo la sua formazione è un’idicazione che ci permette di escludere un’ampia gamma di masse di bosoni ultraleggeri.
“La rivelazione e lo studio di questi due eventi dimostrano quanto sia importante far funzionare i nostri rivelatori in sinergia e sforzarsi di migliorarne la sensibilità”, afferma Francesco Pannarale, professore alla Sapienza – Università di Roma e ricercatore della Collaborazione Virgo – “Gli strumenti LIGO e Virgo ci hanno insegnato nuovamente qualcosa su come si formano le binarie di buchi neri nel nostro Universo”, aggiunge, “e sulla fisica fondamentale che le regola nella loro essenza. Con il potenziamento dei nostri strumenti, saremo in grado di approfondire questi e altri aspetti grazie alla maggiore precisione delle nostre osservazioni”.
Riferimenti bibliografici:
“GW241011 and GW241110: Exploring Binary Formation and Fundamental Physics with Asymmetric, High-Spin Black Hole Coalescences” è stato pubblicato il 28 ottobre su The Astrophysical Journal Letters, DOI: http://dx.doi.org/10.3847/2041-8213/ae0d54
Scoperta acqua pesante (acqua doppiamente deuterata) nel disco protoplanetario della stella V883 Ori (nella costellazione di Orione): una svolta per comprendere l’origine dell’acqua nel Sistema solare
Un team internazionale di ricercatori, guidato dall’Università Statale di Milano, ha rilevato per la prima volta acqua doppiamente deuterata (D₂O, nota anche come “acqua pesante”) in un disco protoplanetario, il luogo in cui nascono i pianeti. Il team ha dimostrato che l’acqua presente in tale disco è più antica della sua stella V883 Ori (nella costellazione di Orione). Un indizio che potrebbe suggerire che anche l’acqua presente sulla Terra e nei corpi celesti del nostro Sistema solare abbia origini più antiche del Sole stesso. Lo studio è stato pubblicato su Nature Astronomy.
Milano, 15 ottobre 2025 – L’acqua è un elemento presente nell’Universo e fondamentale per la vita. Ma da dove provenga e quando si sia formata è ancora uno dei grandi misteri dell’astronomia.
Un passo importante verso la comprensione di questo enigma arriva da un nuovo studio condotto dall’Università Statale di Milano in collaborazione con i ricercatori di Purdue University, Harvard & Smithsonian Center for Astrophysics, Universidad de Chile, University of Tokyo, RIKEN institute e National Radio Astronomy Observatory e pubblicato su Nature Astronomy.
Grazie alle osservazioni effettuate con il telescopio ALMA (Atacama Large Millimeter Array) in Cile, gli astronomi hanno rilevato acqua doppiamente deuterata (D₂O) nel disco protoplanetario (il luogo in cui si formano i pianeti) che circonda la giovane stella V883 Ori (nella costellazione di Orione).
“La presenza di acqua deuterata dimostra indiscutibilmente che l’acqua presente nel disco protoplanetario è più antica della stella centrale e che si è formata nelle primissime fasi della nascita della stella e dei suoi pianeti” spiega Margot Leemker, prima autrice dello studio e ricercatrice presso il Dipartimento di Fisica dell’Università degli Studi di Milano.
Prima di questa scoperta, infatti, gli scienziati ipotizzavano due possibili scenari sull’origine dell’acqua che si trova nelle comete e nei pianeti: l’ereditarietà o il reset chimico.Nel primo caso si riteneva che l’acqua provenisse direttamente dalla nube molecolare primordiale, cioè dalla fase iniziale della formazione di stelle e pianeti. Nel secondo, che la maggior parte dell’acqua originaria venisse distrutta durante il collasso della nube molecolare — a causa di riscaldamento, radiazioni e shock — per poi riformarsi nel disco protoplanetario, ma con una composizione chimica diversa (il processo di distruzione e ricombinazione è noto come reset chimico). La distinzione tra i due scenari si basa sull’analisi dei rapporti isotopologici dell’acqua.
Ora l’individuazione di acqua pesante già nel disco di formazione del pianeta attorno a V883 Ori, dimostra che la maggior parte della riserva d’acqua sopravvive al passaggio da nube molecolare al disco protoplanetario, avvalorando così lo scenario dell’ereditarietà. L’acqua pesante è una forma specifica di acqua in cui entrambi gli atomi di idrogeno sono sostituiti da deuterio, un isotopo dell’idrogeno. Questa molecola si forma solo in condizioni molto fredde e non si riforma facilmente se viene distrutta. È quindi un tracciante sensibile per capire se l’acqua è “antica” o “riformata”.
Misurando il rapporto isotopico D₂O/H₂O, gli scienziati hanno rilevato un rapporto pienamente coerente con il valore atteso per l’ereditarietà. Questo indica che l’acqua nel disco si è generata nella nube molecolare prima della nascita della stella e dei pianeti.
“Si tratta di un’importante svolta per comprendere anche l’origine dell’acqua nel nostro Sistema Solare e, in ultima analisi, sulla Terra” conclude Margot Leemker.
Riferimenti bibliografici:
Leemker, M., Tobin, J.J., Facchini, S. et al., Pristine ices in a planet-forming disk revealed by heavy water, Nat Astron (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41550-025-02663-y
Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano
JVAS B1938+666: UN SOTTILISSIMO ARCO GRAVITAZIONALE RIVELA UN ELUSIVO CORPO CELESTE A MILIARDI DI ANNI LUCE
Grazie alla rete mondiale di radiotelescopi VLBI – tra cui la parabola INAF di Medicina – e alla tecnica delle cosiddette lenti gravitazionali è stata ottenuta l’immagine più nitida mai realizzata di un arco gravitazionale. Dalle osservazioni è emersa la presenza del più piccolo oggetto celeste mai individuato a distanze cosmologiche grazie al solo effetto della forza di gravità.
Immagine in falsi colori dell’arco gravitazionale del sistema JVAS B1938+666 osservato alla frequenza radio di 1,7 GHz con la tecnica VLBI. Crediti: J. P. McKean et al. / MNRAS 2025
Grazie a una rete mondiale di radiotelescopi, con la partecipazione dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), un team internazionale ha ottenuto l’immagine radio più definita mai realizzata di un arco gravitazionale prodotto dalla deformazione delle onde radio provenienti da una galassia a 11 miliardi di anni luce, riuscendo a ricostruirne la struttura reale. Dalla stessa serie di osservazioni è emersa anche la presenza del più piccolo oggetto celeste mai individuato a distanze cosmologiche grazie al solo effetto della forza di gravità. I due risultati, pubblicati oggi rispettivamente su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society e su Nature Astronomy, aprono nuove prospettive nello studio delle galassie lontane e della materia oscura.
Il primo studio presenta osservazioni ad altissima risoluzione della lente gravitazionale JVAS B1938+666, già nota da tempo: una galassia ellittica massiccia in “primo piano”, a circa 6,5 miliardi di anni luce, agisce come lente gravitazionale e deforma la radiazione ottica e radio di una sorgente ancora più distante, a oltre 11 miliardi di anni luce, creando immagini multiple e un anello di Einstein quasi completo nel vicino infrarosso.
Il fenomeno della lente gravitazionale, previsto dalla relatività generale di Einstein, si verifica quando una massa molto grande curva lo spazio-tempo circostante. La luce proveniente da un oggetto posto dietro a questa massa viene deviata, come se passasse attraverso una lente ottica, producendo immagini multiple, archi o persino anelli. Lo studio di queste immagini distorte è oggi uno degli strumenti più potenti per indagare la materia oscura, che non possiamo osservare direttamente, ma che rivela la sua presenza solo attraverso gli effetti della forza di gravità.
In questo caso la lente gravitazionale è stata osservata con la tecnica del VLBI (Very Long Baseline Interferometry), collegando 22 radiotelescopi sparsi in tutto il mondo: l’European VLBI Network, il Very Long Baseline Array americano e il Green Bank Telescope negli Stati Uniti. Tra gli strumenti utilizzati c’è anche la parabola da 32 metri “Gavril Grueff” di Medicina (vicino a Bologna), gestita dall’INAF. La correlazione delle osservazioni di tutti questi radiotelescopi è stata effettuata presso JIVE (il Joint Institute for VLBI-ERIC nei Paesi Bassi), di cui INAF è membro. Questa tecnica consente di simulare un’unica gigantesca antenna virtuale con diametro pari alla distanza tra le parabole più distanti e, di conseguenza, di raggiungere un dettaglio estremo nelle osservazioni, pari a un millesimo di secondo d’arco. Alla distanza della radiosorgente osservata, questo equivale a distinguere strutture grandi appena una trentina di anni luce, cioè una decina di volte la distanza che separa il Sole dalla sua stella più vicina.
Le osservazioni di JVAS B1938+666 condotte alla frequenza radio di 1,7 GHz, per un totale di 14 ore, hanno rivelato un arco gravitazionale sottilissimo e quasi completo, il più definito mai osservato con questa tecnica. Il team è poi riuscito a ricostruire la morfologia reale della radiosorgente di sfondo, modellando con grande precisione la distribuzione di massa della galassia-lente.
I risultati indicano che la sorgente, situata a 11 miliardi di anni luce, è una radiosorgente molto compatta e simmetrica, considerata una fase giovanile dell’attività di un buco nero supermassiccio. La struttura ricostruita appare estesa per circa 2000 anni luce, con due regioni di emissione radio poste ai lati della galassia ospite, prive di un nucleo centrale evidente e caratterizzate da zone brillanti ai bordi.
“Questo articolo è il primo di una serie e presenta le osservazioni VLBI, che sono state particolarmente complesse – afferma Cristiana Spingola, ricercatrice INAF e co-autrice dello studio. “Si tratta di un aspetto cruciale di questo lavoro: abbiamo utilizzato 22 antenne – tra cui la parabola di Medicina – il che ha richiesto un notevole impegno sia nella correlazione dei dati sia nella calibrazione”.
“Fin dalla prima immagine ad alta risoluzione, abbiamo immediatamente notato una certa anomalia nell’arco gravitazionale, segno rivelatore che eravamo sulla buona strada. Solo la presenza di un altro piccolo accumulo di massa tra noi e la radiogalassia lontana avrebbe potuto causare questo effetto” – aggiunge John McKean, ricercatore all’Università di Groningen e all’Università di Pretoria che ha coordinato le osservazioni ed è primo autore di questo articolo.
Il secondo studio, pubblicato su Nature Astronomy e basato sullo stesso gruppo di osservazioni VLBI delle sottili distorsioni dell’arco gravitazionale, ha portato all’identificazione del più piccolo oggetto mai individuato nell’Universo lontano grazie al solo effetto della forza di gravità.
Sovrapposizione dell’emissione infrarossa (in bianco e nero) con l’emissione radio (a colori) dell’arco gravitazionale del sistema JVAS B1938+666. L’oggetto oscuro e di piccola massa si trova nel vuoto nella parte luminosa dell’arco sul lato destro. Crediti: Keck/EVN/GBT/VLBA/John McKean
Per analizzare l’enorme e complesso set di dati, il team ha dovuto sviluppare nuovi algoritmi avanzati che potessero essere eseguiti su supercomputer, confrontando modelli di massa per l’oggetto che agisce da lente gravitazionale con le osservazioni reali. La piccola anomalia riscontrata nell’arco gravitazionale rappresenta la firma inequivocabile della presenza di massa addizionale lungo la linea di vista, troppo debole e compatta per essere osservata direttamente.
“I dati sono così grandi e complessi che abbiamo dovuto sviluppare nuovi approcci numerici per modellarli. Non è stato semplice, perché non era mai stato fatto prima”, dice Simona Vegetti dell’Istituto Max Planck per l’astrofisica. “Ci aspettiamo che ogni galassia, compresa la nostra Via Lattea, sia piena di ammassi di materia oscura, ma trovarli e convincere la comunità scientifica della loro esistenza richiede un’enorme quantità di calcoli”.
Immagine in falsi colori della sorgente compatta con massa pari a 1 milione di soli, identificata nello studio pubblicato su Nature Astronomy. Crediti: D. M. Powell, et al. / Nature Astronomy
Si tratta di una concentrazione di massa probabilmente situata alla stessa distanza della galassia massiccia che agisce da lente gravitazionale, ossia circa 6,5 miliardi di anni luce dalla Terra. La sua massa è di circa un milione di Soli, un valore di gran lunga inferiore ai mille miliardi tipici di una galassia. La scoperta è rivoluzionaria: mai prima d’ora era stato possibile identificare un oggetto di massa così ridotta a una distanza cosmologica così grande.
“È la prima volta che un oggetto di massa così ridotta viene rilevato a una distanza cosmologica basandosi unicamente sul suo effetto gravitazionale”, aggiunge Spingola, coinvolta anche in questo lavoro. “La possibilità di individuare corpi oscuri di questa scala rappresenta un test cruciale per comprendere la natura della materia oscura. “Infatti, ci si aspetta la presenza di oggetti di questa massa in scenari con materia oscura fredda, cioè coerenti con il modello cosmologico standard”.
Cristiana Spingola, co-autrice dello studio e ricercatrice INAF presso l’Istituto di Radioastronomia, Bologna. Crediti: INAF
Ulteriori osservazioni e analisi sono in corso per chiarire la natura di questo oggetto celeste: potrebbe trattarsi di un alone di materia oscura, di un ammasso stellare molto compatto o di una piccola galassia nana spenta. Il team sta anche cercando altri casi di questo tipo in altre parti dell’universo utilizzando la stessa tecnica e, se verranno trovati, alcune teorie sulla materia oscura potrebbero essere definitivamente escluse.
Per altre informazioni:
Il Joint Institute for VLBI ERIC (JIVE) ha come missione primaria quella di gestire e sviluppare il correlatore dei dati dell’European VLBI Network, un potente supercomputer che combina i segnali dei radiotelescopi dislocati in tutto il pianeta. Fondato nel 1993, JIVE è diventato nel 2015 un Consorzio Europeo per le Infrastrutture di Ricerca (ERIC), con sette paesi membri: Francia, Italia, Lettonia, Paesi Bassi, Regno Unito, Spagna e Svezia. Ulteriore supporto è fornito da istituti partner in Cina, Germania e Sudafrica. La sede del JIVE si trova negli uffici dell’Istituto Olandese per la Radioastronomia (ASTRON) nei Paesi Bassi. L’European VLBI Network (EVN) è una rete interferometrica di radiotelescopi distribuiti in Europa, Asia, Sudafrica e Americhe, che svolge osservazioni radioastronomiche uniche e ad alta risoluzione di sorgenti radio cosmiche. Fondato nel 1980, l’EVN è cresciuto fino a diventare la rete VLBI più sensibile al mondo, includendo oltre 20 telescopi individuali, tra cui alcuni dei radiotelescopi più grandi e sensibili a livello globale. L’EVN è composto da 13 Istituti Membri Effettivi e 5 Istituti Membri Associati.
Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF
DA GALILEO AL FUTURO DELL’ASTRONOMIA: UNA CELEBRAZIONE PER L’AVVIO DELL’OSSERVATORIO CTAO (CHERENKOV TELESCOPE ARRAY OBSERVATORY)
Padova, 06 ottobre 2025 – Oggi, presso la Sala dei Giganti dell’Università di Padova si è celebrato l’avvio delle attività del Cherenkov Telescope Array Observatory (CTAO) che, una volta completato, sarà il più grande e potente al mondo per l’osservazione dell’Universo nello spettro dei raggi gamma. La cerimonia, voluta dal Ministero dell’Università e della Ricerca, ha visto la presenza del Ministro Anna Maria Bernini e la partecipazione di autorità e delegati dei Membri Fondatori del CTAO.
“Con l’avvio delle attività del Cherenkov Telescope Array Observatory – dichiara il Ministro dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini – celebriamo un momento di grande orgoglio per la ricerca e per l’Italia. Padova, la città dove Galileo trascorse gli anni più proficui per i suoi studi, segnando l’inizio di una nuova stagione per la scienza, oggi rafforza il suo ruolo di protagonista dell’innovazione grazie a questo progetto internazionale di straordinaria portata. Il CTAO conferma la capacità dell’Italia di essere centrale nella costruzione delle più avanzate infrastrutture di ricerca. Il nostro Paese non è soltanto tra i fondatori del CTAO ERIC, ma continua a offrire un contributo decisivo in termini di competenze e tecnologie. Il Veneto concorre così a rafforzare la competitività dell’intero sistema Paese, creando opportunità per i giovani ricercatori e aprendo nuove strade di collaborazione a livello globale. È così che onoriamo la nostra tradizione scientifica, da Galileo ad oggi, guardando al futuro con la fiducia di chi sa che la conoscenza è la chiave del progresso”.
Il CTAO ERIC (acronimo di Consorzio Europeo di Infrastrutture di Ricerca CTAO, forma giuridica di diritto comunitario) vede il supporto internazionale di 10 Paesi e di un’organizzazione intergovernativa. Tra essi l’Italia che, oltre a esserne tra i Membri Fondatori e anche il Paese che ha guidato e ospitato i negoziati per la sua costituzione, ospita la sede centrale del CTAO e contribuisce allo sviluppo tecnologico, alla costruzione e alle operazioni dell’Osservatorio.
“Il CTAO è diventato un ERIC, un’organizzazione europea con una portata e un sostegno che si estendono oltre il continente. Con questo passo, siamo stati in grado di avviare attività di costruzione su larga scala nel nostro sito meridionale e di aumentare il nostro supporto per le attività del sito settentrionale. Tutto ciò è stato possibile solo grazie al sostegno di un numero sempre crescente di membri da tutto il mondo, ai quali siamo grati”, spiega Stuart McMuldroch, Direttore Generale del CTAO. “È un piacere essere qui oggi per celebrare questo progresso internazionale che porterà a importanti scoperte scientifiche”.
L’ambizioso progetto scientifico e tecnologico del CTAO prevede la costruzione di una schiera di oltre 60 telescopi di tre differenti dimensioni distribuiti in due siti, presso l’isola di La Palma (arcipelago delle Canarie, Spagna) per l’emisfero boreale e in Cile per quello australe. Presso il sito CTAO-Nord è attualmente in fase di collaudo il prototipo dei telescopi più grandi, cosiddetti Large-Sized Telescope o LST, che hanno uno specchio principale di 23 metri di diametro, insieme ad altri tre LST in diversi stadi di costruzione. Nei prossimi anni saranno costruiti altri tre LST e un telescopio di dimensioni intermedie (Medium-Sized Telescope, MST), con uno specchio principale di circa 12 metri. Presso il sito CTAO-Sud, presto inizieranno i lavori di installazione dei primi cinque telescopi di piccola taglia, denominati Small-Sized Telescopes (SST) e due MST, la cui consegna è prevista il prossimo anno. L’Osservatorio potrà gestire configurazioni intermedie di telescopi già a partire dal 2027. Queste sottomatrici della configurazione finale saranno già più sensibili di qualsiasi analogo strumento oggi operativo, avvicinando l’Osservatorio ai suoi primi risultati scientifici.
Il CTAO studierà le sorgenti cosmiche più violente dell’Universo, come buchi neri, pulsar e supernove, per comprendere i fenomeni fisici ad altissime energie che li governano e fornire una visione senza precedenti dell’Universo. Obiettivi che saranno raggiunti grazie allo sviluppo e all’utilizzo di tecnologie all’avanguardia e sistemi informatici di raccolta, analisi e archiviazione di enormi quantità di dati di ultima generazione.
“L’Istituto Nazionale di Astrofisica anche in questo caso fa gioco di squadra, sia nella collaborazione internazionale, sia con la continua e proficua collaborazione con Enti ed Università italiane”, dice Roberto Ragazzoni, Presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica. “Di particolare menzione la collaborazione con l’INFN, coinvolgendo in maniera sinergica le diverse strutture dell’INAF, valorizzandone le specificità e le competenze guadagnate nel tempo. Questo nuovo osservatorio dedicato alla radiazione elettromagnetica di alta energia rappresenta un altro importante tassello nella creazione di infrastrutture con capacità multimessaggera”.
Il CTAO è anche un progetto che produrrà Big Data e genererà centinaia di petabyte di dati in un anno. Basandosi sul suo impegno verso l’Open Science, il CTAO sarà il primo osservatorio di raggi gamma del suo genere a operare come osservatorio aperto, guidato da proposte, fornendo accesso pubblico ai suoi dati scientifici di alto livello e ai prodotti software. Il trattamento dei dati sarà gestito presso il suo Centro di Gestione dei Dati Scientifici in Germania.
Il CTAO è stato riconosciuto come “Punto di Riferimento” nella Roadmap 2018 del Forum Europeo Strategico sulle Infrastrutture di Ricerca (ESFRI) ed è stato classificato come la principale priorità tra le nuove infrastrutture da terra nella Roadmap 2022-2035 di ASTRONET. I membri del CTAO ERIC sono Austria, Croazia, European Southern Observatory (ESO), Francia, Germania, Italia, Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia, Spagna, e Svizzera. Altri Paesi (Australia, Brasile, Giappone, Stati Uniti e Sudafrica) sono attualmente impegnati nel processo di adesione al CTAO ERIC con lo status di Strategic Partner o Third Party.
Cherenkov Telescope Array Observatory – CTAO: avvio delle attività dell’osservatorio che sarà il più grande e potente al mondo per l’osservazione dell’Universo nello spettro dei raggi gamma. rendering dei telescopi CTAO
Testo e immagine dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF
EINSTEIN PROBE: RIVELATA LA COMPLESSITÀ DEI FLASH DI RAGGI X NELL’EVENTO EP241021a
Un team di ricerca, con la guida e il contributo fondamentale dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha di recente analizzato nel dettaglio l’evento EP241021a, una sorgente di raggi X nota come flash di raggi X (X-Ray Flash o XRF) scoperta il 21 ottobre 2024 dalla missione cinese Einstein Probe. La ricerca, frutto di un’imponente campagna osservativa multibanda accettata per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics, getta nuova luce sull’origine e la natura di questi misteriosi e fugaci transienti cosmici, storicamente legati ai più noti lampi di raggi gamma (Gamma Ray Burst o GRB).
“Cugini” dei transienti veloci di raggi X (FXRT, dall’inglese fast X-ray transient), gli XRF sono brevissime esplosioni di raggi X, con durata che varia dai 10 secondi ai 10 minuti, prodotte da sorgenti extragalattiche. Identificati nei primi anni ’90 dal satellite italo-olandese BeppoSAX, questi eventi condividono molte caratteristiche con i lampi di raggi gamma, ma si differenziano per spettri più “soffici” e un picco energetico meno intenso. Lo strumento Wide-field X-ray Telescope (WXT) a bordo del satellite Einstein Probe, caratterizzato da una capacità unica di osservazione di vaste regioni del cielo in raggi X ad alta sensibilità, ha permesso di rivelare nuovi flash di raggi X e di studiarne in modo accurato la complessa emissione.
Un disegno dello scenario proposto dal team di ricerca per EP241021a. A piccoli angoli polari viene prodotto un getto relativistico con un nucleo e ali ampie, mentre a grandi angoli polari il getto è circondato da un bozzolo strutturato. La linea di vista dell’osservatore si trova all’interno delle ali del getto. Crediti: G. Gianfagna (INAF) / A&A 2025
EP241021a si distingue per la ricchezza delle sue componenti. Giulia Gianfagna, prima autrice dell’articolo e assegnista di ricerca presso l’INAF di Roma, spiega:
“EP241021a è probabilmente l’XRF scoperto dall’Einstein Probe che presenta nella sua emissione il maggior numero di componenti, e, di conseguenza, un grado di complessità nell’interpretazione fisica non indifferente. Ma, per lo stesso motivo, è l’evento che più dà informazioni sulla famiglia di questi oggetti”.
L’evento transiente presenta, infatti, la caratterizzazione di un getto strutturato che si evolve rapidamente e un ambiente stellare denso che ne modella la forma e la dinamica. Dopo l’emissione nei raggi X scoperta da Einstein Probe, osservazioni nel visibile e soprattutto nelle frequenze radio e millimetriche, grazie all’utilizzo di telescopi e network come ALMA, uGMRT, e-MERLIN e ATCA, hanno permesso di identificare le peculiarità.
“Tutte le componenti – dice Gianfagna – sono consistenti con il collasso di una stella massiccia: subito dopo il collasso, si è creato un sistema formato da un getto centrale stretto ed energetico (detto nucleo o core), circondato da ‘ali’ a più basse energie e meno veloci. Circonda le ali un ‘bozzolo’ sferico (detto cocoon), composto a sua volta da due componenti concentriche, con velocità che diminuisce verso l’esterno. L’emissione dei raggi gamma, quindi il lampo di raggi gamma, viene prodotta dal core del getto”.
Questa emissione gamma non è però visibile in quanto il getto punta lontano dalla Terra.
Einstein Probe: rivelata la complessità dei flash di raggi X nell’evento EP241021a; lo studio accettato su Astronomy & Astrophysics. Rappresentazione artistica del telescopio spaziale Einstein Probe. Crediti: Chinese Academy of Sciences
Tali osservazioni sono un modello unificato secondo cui i flash di raggi X sono varianti dei lampi di raggi gamma, viste da angolazioni diverse o influenzate da condizioni ambientali peculiari, come la densità e la struttura del materiale espulso dalla stella progenitrice. EP241021a è inoltre il primo caso in cui tutte queste componenti si osservano simultaneamente con tale dettaglio.
“Terminata la missione BeppoSAX all’inizio degli anni 2000”, commenta Luigi Piro, dirigente di ricerca INAF e coautore dello studio, “osservare questi transienti è diventato molto più difficile a causa del ridotto campo di vista degli strumenti attivi. Einstein Probe, lanciato nel gennaio 2024, ha riportato in orbita un rilevatore con un ampio campo visivo e una sensibilità superiore. La capacità di osservare porzioni così ampie di cielo ci ha permesso, finalmente, di ricominciare a scoprire nuovi flash di raggi X”.
Gianfagna conclude: “Dimostrare che questo flash di raggi X può essere modellizzato come un lampo di raggi gamma, probabilmente con delle caratteristiche particolari, in un contesto più ampio porterebbe ad avere un’idea più chiara su come muoiono le stelle massicce e cosa producono dopo la loro morte”.
Lo studio in questione è il primo guidato da ricercatrici e ricercatori europei sull’analisi di eventi XRF con dati provenienti da Einstein Probe, segnando una tappa fondamentale nella collaborazione internazionale e nello studio delle esplosioni cosmiche.
Riferimenti bibliografici:
L’articolo di Giulia Gianfagna, Luigi Piro, Gabriele Bruni, Aishwarya Linesh Thakur, Hendrik Van Eerten, Alberto Castro-Tirado, Yong Chen, Ye-hao Cheng, Han He, Shumei Jia, Zhixing Ling, Elisabetta Maiorano, Rosita Paladino, Roberta Tripodi, Andrea Rossi, Shuaikang Yang, Jianghui Yuan, Weimin Yuan, Chen Zhang, “The soft X-ray transient EP241021A: a cosmic explosion with a complex off-axis jet and cocoon from a massive progenitor”, è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.
Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF
LVK: a dieci anni dalla scoperta, le onde gravitazionali verificano il teorema dell’area dei buchi neri di Stephen Hawking
LIGO, Virgo e KAGRA celebrano questa settimana l’anniversario della prima rilevazione delle onde gravitazionali e annunciano la verifica del teorema dell’area dei buchi neri di Stephen Hawking
Il 14 settembre 2015 è arrivato sulla Terra un segnale generato da una coppia di buchi neri che, dopo aver spiraleggiato uno attorno all’altro a velocità impressionanti, si erano fusi, liberando una enorme quantità di energia. Per raggiungerci il segnale aveva viaggiato per circa 1,3 miliardi di anni alla velocità della luce, ma non si trattava di un segnale luminoso, era un fremito dello spazio-tempo chiamato onda gravitazionale, teorizzato per la prima volta da Albert Einstein 100 anni prima. Quella prima rivelazione diretta delle onde gravitazionali effettuata dai due rilevatori gemelli LIGO negli Stati Uniti, sarà annunciata al mondo dalle collaborazioni LIGO e Virgo, dopo molti mesi di analisi e verifiche, solo nel febbraio 2016. E porterà l’anno successivo alla assegnazione del premio Nobel per la Fisica, a tre dei fondatori di LIGO: Rainer Weiss, professore emerito di fisica dell’MIT (recentemente scomparso all’età di 92 anni), Barry Barish e Kip Thorne di Caltech.
Oggi i rivelatori gravitazionali statunitensi LIGO negli stati di Washington e Louisiana, Virgo, progetto fondato dall’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e dal francese CNRS in Italia e KAGRA in Giappone opera in modo coordinato e osserva circa una fusione di buchi neri ogni tre giorni. Il network LVK (LIGO, Virgo e KAGRA) ha osservato un totale di circa 300 fusioni di buchi neri, alcune delle quali sono state confermate mentre altre sono in attesa di ulteriori analisi. Nel corso dell’attuale periodo di osservazione scientifico, cominciato a giugno 2023, LVK ha rivelato circa 230 segnali candidati a essere fusioni di buchi neri, più del doppio di quelli rilevati nei primi tre periodi.
Dieci anni di scoperte di LVK Questo grafico illustra le scoperte effettuate dalla rete LIGO-Virgo-KAGRA (LVK) dalla prima rilevazione di LIGO, nel 2015, di onde gravitazionali provenienti da una coppia di buchi neri in collisione. Le rivelazioni consistono principalmente in fusioni di buchi neri, ma una manciata coinvolge stelle di neutroni (collisioni buco nero-stella di neutroni o stella di neutroni-stella di neutroni). Finora, durante l’attuale quarto ciclo scientifico, i rivelatori LVK hanno individuato circa 220 fusioni, più del doppio del numero (90) trovato nei primi tre cicli combinati. L’evento più vicino osservato finora, mostrato nel Run 2 e indicato dalla freccia in basso, è una fusione binaria di stelle di neutroni nota come GW170817, situata a soli 130 milioni di anni luce di distanza. In questo grafico, le masse totali degli oggetti iniziali sono rappresentate dalle dimensioni, mentre l’intensità del segnale è indicata dal colore. Il grafico dimostra che nel corso del tempo gli osservatori di onde gravitazionali stanno trovando un maggior numero di buchi neri e li rivelano con un rapporto segnale/rumore più elevato, grazie ai progressi compiuti dai rivelatori. Si noti che le rivelazioni di buchi neri nell’ultima metà del quarto run sono grigie e appaiono della stessa dimensione, perché questi dati non sono stati rilasciati per intero, a eccezione dell’evento denominato GW250114. Questo evento, il segnale più chiaro mai rilevato da LIGO, appare come un punto luminoso arancione sul grafico del quarto run. Crediti immagine: LIGO/Caltech/MIT/R. Hurt (IPAC)
Il notevole aumento del numero di osservazioni di LVK nell’ultimo decennio è dovuto a diversi miglioramenti apportati ai rivelatori, alcuni dei quali sfruttano l’ingegneria di precisione quantistica di ultima generazione. Questi interferometri per onde gravitazionali sono di gran lunga il più preciso strumento di misurazione mai creato dall’umanità. Le distorsioni spazio-temporali indotte dalle onde gravitazionali sono incredibilmente minuscole. Per osservarle, LIGO,Virgo e KAGRA devono rivelare cambiamenti nello spazio-tempo più piccoli di un decimillesimo della dimensione di un protone. Vale a dire 700.000 miliardi di volte più piccole dello spessore di un capello umano.
Il segnale più chiaro finora
La maggiore sensibilità degli strumenti è esemplificata dalla recente scoperta di una fusione di buchi neri denominata GW250114 (i numeri indicano la data in cui il segnale delle onde gravitazionali è arrivato sulla Terra: 14 gennaio 2025). L’evento non è molto diverso dalla prima rivelazione in assoluto (denominata GW150914): entrambi coinvolgono buchi neri in collisione a circa 1,3 miliardi di anni luce di distanza, con masse da 30 a 40 volte quelle del nostro Sole. Ma grazie a 10 anni di progressi tecnologici che hanno ridotto il rumore strumentale, il segnale di GW250114 è molto più nitido.
“Possiamo sentirlo forte e chiaro, e questo ci permette di testare le leggi fondamentali della fisica”,
dice Katerina Chatziioannou, membro di LIGO e Assistant Professor di fisica a Caltech, tra i principali autori di un nuovo studio su GW250114 pubblicato su Physical Review Letters.
Analizzando le frequenze delle onde gravitazionali emesse dalla fusione, il team di LVK è stato in grado di fornire la migliore prova osservativa finora acquisita di quello che è noto come il teorema dell’area dei buchi neri, un’idea avanzata da Stephen Hawking nel 1971 secondo cui le superfici totali dei buchi neri non possono diminuire. Quando i buchi neri si fondono, le loro masse si uniscono, aumentando la superficie. Ma perdono anche energia sotto forma di onde gravitazionali. Inoltre, la fusione può far sì che il buco nero combinato aumenti il suo spin, il che porterebbe a ridurre la sua area. In realtà Il teorema dell’area del buco nero afferma che, nonostante questi fattori in competizione, la superficie totale del buco nero finale deve comunque crescere In seguito, Hawking e il fisico Jacob Bekenstein conclusero che l’area di un buco nero è proporzionale alla sua entropia, o grado di disordine. Queste scoperte hanno aperto la strada a successivi lavori rivoluzionari nel campo della gravità quantistica, che cerca di unire due pilastri della fisica moderna: la relatività generale e la fisica quantistica.
Credito immagine: Lucy Reading-Ikkanda/Simons Foundation
In sostanza, la rivelazione ha permesso al team di “ascoltare” i due buchi neri che crescevano mentre si fondevano in uno solo, verificando il teorema di Hawking. I buchi neri iniziali avevano una superficie totale di 240.000 chilometri quadrati (circa la dimensione del Regno Unito), mentre l’area finale era di circa 400.000 chilometri quadrati (quasi la dimensione della Svezia). Questo è il secondo test del teorema dell’area del buco nero; un primo test è stato eseguito nel 2021 utilizzando i dati del primo segnale GW150914, ma poiché quei dati non erano così chiari, i risultati avevano un livello di confidenza del 95% rispetto al 99,999% dei nuovi dati. Kip Thorne ricorda che Hawking gli telefonò per chiedergli se LIGO potesse essere in grado di testare il suo teorema subito dopo aver appreso della rivelazione delle onde gravitazionali nel 2015. “Se Hawking fosse ancora vivo, si avrebbe certamente gioito nel vedere che l’analisi dei dati di GW250114 mostri che l’area dei buchi neri uniti effettivamente aumenta”, dice Thorne. (Hawking è scomparso nel 2018)
Credito immagine: Lucy Reading-Ikkanda/Simons Foundation
Nello studio pubblicato oggi, infatti, i ricercatori sono riusciti a misurare con precisione i dettagli della cosiddetta fase di ringdown, in cui, dopo la fusione, il buco nero finale vibra come una campana colpita. Ciò ha permesso loro di calcolare la massa e lo spin del buco nero e di determinarne quindi la superficie. In questo studio,in effetti, sono stati individuati per la prima volta, con sicurezza, due distinti “modi” di onde gravitazionali nella fase di ringdown. I modi sono come i suoni caratteristici di una campana, quando viene colpita: hanno frequenze simili ma si estinguono a velocità diverse, il che li rende difficili da identificare. Grazie al miglioramento dei dati relativi a GW250114, il team ha potuto estrarre per la prima volta i modi, dimostrando che il ringdown del buco nero si è verificato esattamente come previsto dai modelli matematici. Infine un altro studio di LIGO – Virgo – KAGRA, presentato oggi a Physical Review Letters, pone dei limiti alla previsione di un terzo tono più acuto nel segnale di GW250114 ed esegue alcuni dei test più rigorosi finora condotti sull’accuratezza della relatività generale nel descrivere la fusione dei buchi neri.
“Analizzare i dati dei rivelatori per individuare segnali astrofisici transitori, inviare alerts per attivare osservazioni di follow-up da parte dei telescopi e pubblicare i risultati raccogliendo informazioni da centinaia di eventi è un processo piuttosto lungo e complesso”, aggiunge Nicolas Arnaud, ricercatore del CNRS in Francia e coordinatore del quarto ciclo di osservazioni di Virgo. “Dietro a tutti questi passaggi ci sono. però, esseri umani, in particolare quelli che sono in turno costantemente a sorvegliare i nostri strumenti, in tutte le regioni del pianeta: letteralmente, il Sole non tramonta mai sulle nostre collaborazioni!”.
Spingersi oltre i limiti
LIGO e Virgo hanno anche osservato stelle di neutroni nell’ultimo decennio. Come i buchi neri, le stelle di neutroni si formano dopo la morte esplosiva delle stelle massicce, ma sono meno pesanti e emettono luce. Nell’agosto 2017, LIGO e Virgo hanno assistito all’epica collisione tra una coppia di stelle di neutroni – una kilonova – che ha disperso nello spazio oro e altri elementi pesanti. Lo stesso fenomeno è stato immediatamente segnalato a decine di telescopi suulla Terra e nello Spazio, che hanno potuto catturare altri segnali generati dallo stesso evento: dai raggi gamma ad alta energia alle onde radio a bassa energia. Questo evento astronomico “multi-messaggero” ha segnato una tappa epocale. La ricerca di altre collisioni di stelle di neutroni resta oggi una delle frontiere più promettenti per la comunità astronomica e il network LVK è al centro di un sistema di alerts, che consente ai telescopi di cercare nei cieli i segni di una nuova potenziale kilonova.
“La rete globale fdi rivelatori gravitazionali è essenziale per l’astronomia delle onde gravitazionali”, afferma Gianluca Gemme, portavoce di Virgo e dirigente di ricerca dell’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare). “Con tre o più rivelatori che operano all’unisono, possiamo individuare gli eventi cosmici con maggiore precisione, estrarre informazioni astrofisiche più ricche e consentire segnalazioni rapide per il follow-up di più messaggeri. La Collaborazione Virgo è orgogliosa di contribuire a questa impresa scientifica mondiale”.
Guardando al futuro, gli scienziati stanno lavorando a rivelatori ancora più grandi. Il progetto europeo, chiamato Einstein Telescope, prevede di costruire uno o due enormi interferometri sotterranei con bracci di oltre 10 chilometri, mentre quello statunitense, chiamato Cosmic Explorer, sarebbe simile all’attuale LIGO ma con bracci lunghi 40 chilometri. Osservatori di questa portata consentirebbero di ascoltare le prime fusioni di buchi neri nell’universo e, forse, l’eco delle scosse gravitazionali dei primissimi istanti dopo il Big Bang.
“Questo è un momento straordinario per la ricerca sulle onde gravitazionali: grazie a strumenti come Virgo, LIGO e KAGRA, possiamo esplorare un universo oscuro che prima era completamente inaccessibile”, ha dichiarato Massimo Carpinelli, professore all’Università di Milano Bicocca e direttore dell’Osservatorio Gravitazionale Europeo di Cascina. “Le conquiste scientifiche di questi 10 anni stanno innescando una vera e propria rivoluzione nella nostra visione dell’Universo. Stiamo già preparando una nuova generazione di rivelatori come Einstein Telescope in Europa e Cosmic Explorer negli Stati Uniti, oltre all’ interferometro spaziale LISA, che ci porteranno ancora più lontano nello spazio e nel tempo. Nei prossimi anni, saremo in grado di affrontare queste straordinarie sfide solo grazie a una sempre più ampia e solida collaborazione tra scienziati, Paesi e istituzioni diverse, sia a livello europeo che globale.”
A dieci anni dalla scoperta, le onde gravitazionali verificano il teorema dell’area dei buchi neri di Stephen Hawking. Una sinfonia cosmica rivelata. Quest’opera d’arte ci immerge in GW250114, una potente collisione tra due buchi neri osservata con le onde gravitazionali dal progetto LIGO della National Science Foundation statunitense. Raffigura la vista da uno dei buchi neri mentre si dirige a spirale verso il suo partner cosmico. Dieci anni dopo la storica rilevazione delle onde gravitazionali da parte di LIGO, i rivelatori migliorati hanno permesso di “sentire” questa collisione celeste con una chiarezza senza precedenti. I dati sulle onde gravitazionali hanno permesso agli scienziati di distinguere molteplici toni che risuonano come una campana cosmica attraverso l’universo (immaginato qui come un intreccio di fili musicali che si dirigono a spirale verso il centro). Sebbene solo LIGO fosse online durante l’osservazione di GW250114, ora opera abitualmente come parte di una rete con altri rivelatori di onde gravitazionali, tra cui Virgo in Europa e KAGRA in Giappone. Credit immagine: Aurore Simonnet (SSU/EdEon)/LVK/URI
Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa EGO e Virgo
UNA “STELE DI ROSETTA”, IL PROGETTO ROSETTA STONE PER STUDIARE LA FORMAZIONE STELLARE
Coordinato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica e sostenuto dall’European Research Council, il progetto Rosetta Stone propone un confronto senza precedenti tra simulazioni numeriche e osservazioni astronomiche nello studio della formazione stellare. I primi tre articoli, pubblicati su Astronomy & Astrophysics, mostrano come le simulazioni possano essere trattate come vere osservazioni per analizzare con maggiore precisione i processi che portano alla nascita delle stelle.
Questa sequenza mostra come una regione di formazione stellare simulata (a sinistra) sia trasformata passo dopo passo per ottenere immagini sempre più simili a quelle reali osservate dai telescopi millimetrici. Dall’immagine al computer dei “semi” delle protostelle (stelle), passando per la simulazione dell’emissione della polvere, fino a una mappa praticamente indistinguibile da un’osservazione astronomica. L’ultimo pannello mostra l’identificazione delle nuove stelle nascenti, così come le vedremmo con i nostri strumenti. Sommando tutti i parametri esplorati dal progetto Rosetta Stone, sono state prodotte più di 700 mappe analizzate e post-processate come in questo esempio. Crediti: A. Nucara/Progetto Rosetta Stone
Le immagini mostrano dall’alto in basso la densità di gas, la velocità media e la temperatura di una nube che dà origine a stelle, osservate in tre diverse fasi evolutive. L’efficienza di formazione stellare (SFE) indica quanto gas si è trasformato in protostelle (segnate dai simboli in alto). Crediti: Ugo Lebreuilly/Progetto Rosetta Stone
Immagine ingrandita di una delle simulazioni mostrate nell’immagine precedente. Si possono notare diverse strutture filamentose che ospitano i semi di formazione stellare e che si muovono convergendo verso i centri di attrazione gravitazionale maggiore. Crediti: Ugo Lebreuilly
Il progetto Rosetta Stone, coordinato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e finanziato dall’European Research Council nell’ambito del Synergy Grant ECOGAL, rivoluziona lo studio della formazione stellare con un approccio innovativo e senza precedenti. Per la prima volta in questo campo, simulazioni numeriche sofisticate e osservazioni astronomiche vengono trattate con gli stessi metodi e algoritmi, creando un linguaggio comune che consente un confronto diretto e preciso tra teoria e realtà.
Link al progetto: https://www.the-rosetta-stone-project.eu/
La nascita delle stelle, un processo complesso e ancora poco compreso, viene così analizzata grazie a tre articoli appena pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics, che illustrano come le simulazioni possano essere “post-processate” per replicare fedelmente le immagini e le osservazioni reali ottenute con strumenti di punta come l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA).
Il primo articolo (guidato da Ugo Lebreuilly dell’Università di Parigi-Saclay) presenta una vasta gamma di simulazioni magneto-idrodinamiche (RMHD) di regioni di formazione stellare massiva, in cui sono stati variati parametri chiave come massa, raggio, livello di turbolenza e intensità del campo magnetico. Il secondo studio (con prima firma Ngo-Duy Tung dell’Università di Parigi-Saclay) si concentra sulla generazione di immagini artificiali e “ideali” nella banda delle onde millimetriche e sub-millimetriche, simili a quelle ottenute da ALMA e dal satellite Herschel. Nel terzo lavoro (questa volta a prima firma Alice Nucara di INAF), un codice ad hoc sviluppato all’interno del software CASA ha permesso di creare simulazioni di osservazioni ALMA estremamente realistiche, basate sui dati della survey SQUALO (Star formation in QUiescent And Luminous Objects).
Alessio Traficante, ricercatore INAF e coordinatore del progetto, afferma: “Per la prima volta, grazie al progetto Rosetta Stone, è possibile estrarre informazioni dalle simulazioni trattate con le stesse tecniche e gli stessi algoritmi usati per le osservazioni, permettendo di verificare se le informazioni che deduciamo dalle osservazioni hanno un riscontro nelle simulazioni e viceversa, con un’accuratezza nel confronto mai ottenuta prima nel campo della formazione stellare. È possibile infatti dedurre se effettivamente i parametri chiave osservativi, come il rapporto tra la luminosità e la massa, riflettano caratteristiche chiave degli addensamenti di gas e polveri come età ed efficienza di formazione stellare, e misurare l’effetto di fattori non osservabili direttamente, come l’intensità del campo magnetico”.
La prima versione del progetto, chiamata Rosetta Stone 1.0, è solo il punto di partenza. Sono già in preparazione le successive due nuove fasi: RS2.0, che includerà simulazioni di dati ALMA relativi alla survey ALMAGAL che includono una fisica più ampia e complessa, e RS3.0, focalizzata sullo studio della chimica delle regioni di formazione stellare e sull’analisi delle righe spettrali necessarie per tracciare la dinamica e l’evoluzione chimica di queste zone.
“Il progetto è il culmine di tre anni di lavoro, milioni di ore di calcolo su supercomputer, la produzione di centinaia di mappe e una stretta collaborazione tra gruppi teorici e osservativi. Con questo approccio innovativo, il progetto Rosetta Stone inaugura un nuovo modo di studiare la nascita delle stelle, rendendo possibile per la prima volta un confronto realmente diretto tra simulazione e osservazione”, conclude Traficante.
CALVERA È ESPLOSA DOVE NON DOVEVA: UNA PULSAR “IN FUGA” SFIDA LE REGOLE DELLA VIA LATTEA
Un’esplosione stellare, una pulsar in fuga e un resto di supernova: è la storia di Calvera, un sistema scoperto a oltre 6500 anni luce sopra il piano galattico, che sta mettendo in discussione ciò che sappiamo sull’evoluzione delle stelle. A raccontarla è un team di ricerca dell’INAF in uno studio pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics.
Immagine nei raggi X della stella di neutroni Calvera, indicata dal cerchio giallo, e della regione di emissione diffusa oggetto di studio di questo articolo, identificata dall’ellisse bianca. Il materiale responsabile dell’emissione osservata ha una temperatura compresa tra 1 e 10 milioni di gradi Celsius. Crediti: E. Greco, INAF
Un gruppo di ricerca guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell’Università degli Studi di Palermo ha approfondito lo studio di un sistema unico nel suo genere: una pulsar e un resto di supernova situati a oltre 6500 anni luce sopra il piano della nostra galassia, la Via Lattea, in una zona finora considerata estremamente rarefatta e quasi priva di oggetti di questo tipo. Grazie a nuove osservazioni e analisi, pubblicate sulla rivista Astronomy & Astrophysics, la ricerca sfida l’idea che queste regioni periferiche della galassia siano poco attive dal punto di vista energetico, offrendo nuovi importanti spunti sull’origine e l’evoluzione delle stelle massicce.
A oltre 6500 anni luce sopra il piano della Via Lattea, dove la densità di stelle si dirada e il vuoto interstellare domina, un sistema estremo sfida le regole dell’evoluzione stellare. È lì che è stato identificato un raro resto di supernova associato a una pulsar in fuga, nota con il nome di Calvera, un omaggio all’antagonista del film “I Magnifici 7”, film western del 1960 diretto da John Sturges. Come il suo omonimo cinematografico, Calvera si muove ai margini, fuori dalle regole, e sta riscrivendo ciò che sappiamo sulla vita e la morte delle stelle massicce nelle regioni più estreme della nostra galassia.
La storia del resto di supernova di Calvera inizia nel 2022, quando grazie allo strumento LOFAR – un network europeo di radiotelescopi progettato per osservare il cielo a basse frequenze – viene individuata una struttura estesa e quasi perfettamente circolare, interpretabile come un resto di supernova. Si trova a circa 37 gradi di latitudine galattica, molto lontano dal piano della galassia, dove solitamente si concentrano le esplosioni stellari. A pochi arcominuti di distanza, una pulsar già nota agli astronomi per la sua intensa emissione nei raggi X e battezzata anch’essa Calvera, si presenta come potenziale compagna del resto di supernova. Tuttavia, la sua traiettoria mostra un moto proprio molto marcato, circa 78 milliarcosecondi all’anno, che suggerisce che si stia allontanando dal centro dell’esplosione. Il quadro che emerge è quello di un legame fisico tra i due oggetti: una stella massiccia esplosa migliaia di anni fa, che ha lasciato dietro di sé un guscio di gas in espansione e una stella di neutroni in fuga.
Per ricostruire questa storia cosmica, un team guidato da Emanuele Greco dell’INAF ha analizzato osservazioni dettagliate nella banda dei raggi X ottenute con il satellite XMM-Newton dell’Agenzia Spaziale Europea. Le proprietà del gas caldo all’interno del resto di supernova, combinate con il moto della pulsar e le informazioni multi-banda raccolte da diversi strumenti, hanno permesso di stimare età e distanza del sistema. Le analisi indicano che il resto di supernova si trova a una distanza compresa tra 13.000 e 16.500 anni luce, e che ha un’età tra i 10.000 e i 20.000 anni. Dati perfettamente compatibili con quelli della pulsar, che rafforzano l’ipotesi di un’origine comune.
“Le stelle massicce – cioè almeno otto volte più grandi del Sole – si formano quasi esclusivamente sul piano galattico, dove la densità del gas è più alta e favorisce la nascita stellare”, spiega Greco. “Trovarne i resti a simili distanze dal piano è estremamente raro. La nostra analisi ha permesso di stimare con maggiore precisione la distanza, l’età e perfino le caratteristiche della possibile stella progenitrice che ha originato sia la pulsar Calvera che il suo resto di supernova”.
A rendere il quadro ancora più interessante è il fatto che il sistema si trovi in un ambiente molto diverso da quello tipico del piano galattico. L’emissione di raggi gamma rilevata nel sistema proviene, infatti, da un ambiente estremamente rarefatto, lontano dalle regioni dense del piano galattico. Tradizionalmente si pensa che per attivare uno dei principali meccanismi di produzione della radiazione gamma siano necessarie elevate densità di particelle, soprattutto di protoni. Questo risultato, invece, mostra che anche nelle “periferie” della galassia, considerate per lo più “vuote”, possono esistere le condizioni sufficienti ad attivare meccanismi energetici intensi, capaci di produrre emissione gamma in modo efficiente.
“Grazie ai telescopi spaziali come XMM-Newton e Fermi/LAT, e a strumenti terrestri come il Telescopio Nazionale Galileo, possiamo analizzare i resti di supernova e le pulsar in diverse bande dello spettro elettromagnetico”, prosegue Greco. “Nel caso di Calvera, abbiamo mostrato che anche in ambienti rarefatti può esserci emissione di plasma a milioni di gradi, se l’onda d’urto dell’esplosione incontra addensamenti locali. Questi addensamenti, a loro volta, raccontano qualcosa sulla storia evolutiva della stella che è esplosa”.
Il lavoro nasce dalla collaborazione tra le sedi INAF di Palermo e Milano, che hanno unito competenze complementari: da un lato lo studio degli oggetti compatti come le pulsar, dall’altro l’analisi delle strutture diffuse associate ai resti di supernova. Le osservazioni effettuate con il Telescopio Nazionale Galileo mostrano la presenza di filamenti di idrogeno ionizzato, mentre nei raggi X si evidenzia una struttura estesa ma compatta, coerente con l’impatto dell’onda d’urto sui materiali presenti nell’ambiente e rilasciati dalla stella progenitrice di Calvera. Questo indica che la zona, seppur remota, può presentare localmente degli addensamenti di materia, al contrario di quanto si assume per le regioni ad alta latitudine galattica.
La scoperta – e il legame tra la pulsar Calvera e il suo resto di supernova – dimostrano che anche lontano dal piano galattico possono trovarsi, in modo del tutto inatteso, stelle massicce. Alcune di queste riescono a sfuggire al loro luogo di origine e a esplodere come supernovae in regioni remote della Galassia, lasciando dietro di sé una nube di gas in espansione e un oggetto compatto come una stella di neutroni.
“Il nostro studio mostra che anche le zone più tranquille e apparentemente vuote della galassia possono nascondere processi estremi”, conclude Greco. “Non solo abbiamo vincolato le proprietà fisiche del sistema Calvera con precisione, ma abbiamo anche dimostrato che, localmente, è possibile trovare densità sufficienti a generare emissioni X e gamma anche molto lontano dal piano galattico. Una scoperta che ci invita a guardare con occhi nuovi alle periferie della Via Lattea”.
Emanuele Greco, ricercatore INAF presso la sede di Palermo
TOI-5800 b, TOI-5817 b E TOI-5795 b: TRE ESOPIANETI NETTUNIANI CALDI RIVELANO NUOVI INDIZI SULLA FORMAZIONE DEI SISTEMI PLANETARI
Un team internazionale guidato da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell’Università di Roma Tor Vergata ha confermato e caratterizzato tre nuovi esopianeti della categoria “Nettuniani caldi” — pianeti extrasolari con dimensioni e masse simili a quelle di Urano e Nettuno ma che si muovono intorno alle loro stelle su orbite molto più strette (pochi giorni invece di un centinaio di anni). Le scoperte sono state rese possibili grazie al programma Hot Neptune Initiative (HONEI) e alle misure di alta precisione effettuate con gli spettrografi HARPS all’Osservatorio La Silla dell’ESO in Cile e HARPS-N installato sul Telescopio Nazionale Galileo dell’INAF nelle Canarie, in Spagna, integrando i dati raccolti dal telescopio spaziale TESS della NASA.
Rappresentazione artistica di TOI-5800 b, l’esopianeta più eccentrico mai osservato all’interno del cosiddetto “deserto dei Nettuniani caldi”. Crediti: INAF
Tra i tre pianeti spicca TOI-5800 b, il nettuniano più eccentrico mai osservato all’interno del cosiddetto “deserto dei Nettuniani caldi” — una regione dello spazio dove si riscontra una marcata scarsità di pianeti di dimensioni simili a quelle di Nettuno ma su orbite molto vicine alle proprie stelle, scarsità che può essere causata da diversi fenomeni, come la “migrazione planetaria”, in cui l’orbita dei pianeti viene modificata, l’evaporazione atmosferica che porta a una diminuzione delle loro dimensioni o l’interazione gravitazionale con altri corpi relativamente vicini. In particolare, questa “zona desertica” comprende pianeti con raggi da circa 3 a 7 volte quelli terrestri e periodi orbitali inferiori a pochi giorni.
Nato da una collaborazione tra ricercatori italiani e statunitensi, il programma HONEI ha come obiettivo quello di scoprire e misurare con grande precisione le masse e le altre proprietà fisiche e orbitali dei candidati “Nettuniani caldi” identificati dal satellite TESS. Tali misure permettono di selezionare i migliori target da puntare con i telescopi di nuova generazione come il James Webb Space Telescope, per determinare la composizione chimica delle atmosfere di questi pianeti. La capacità di misurare le masse con strumenti di alta precisione consente di confermare la natura planetaria di questi corpi e di valutare la loro evoluzione dinamica e strutturale. I primi risultati del programma HONEI sono stati presentati per la prima volta in due articoli scientifici appena accettati per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.
Rappresentazione artistica di TOI-5800 b, l’esopianeta più eccentrico mai osservato all’interno del cosiddetto “deserto dei Nettuniani caldi”. Crediti: INAF
Come spiega Luca Naponiello, primo autore del primo articolo, ex studente di dottorato all’università di Roma Tor Vergata, ora post-doc INAF e fondatore del programma HONEI,
“TOI-5800 b è un sub-Nettuno molto vicino alla propria stella, con un periodo orbitale di soli 2,6 giorni. Ha un raggio di circa 2,5 volte quello terrestre e una massa di circa 9,5 volte quella terrestre. Ciò che ne testimonia l’unicità è l’elevata eccentricità orbitale, inusuale per pianeti con orbite così strette che, per effetto delle forze mareali, di norma si ‘circolarizzano’ rapidamente. Questa eccentricità lascia ipotizzare che il pianeta sia ancora in fase di migrazione orbitale o influenzato gravitazionalmente da un altro corpo celeste nel sistema, ancora da individuare. Inoltre, TOI-5800 b si sta progressivamente avvicinando alla sua stella, perdendo momento angolare, e in futuro potrebbe stabilizzarsi in una regione ancora più interna del deserto dei Nettuniani caldi”.
TOI-5800 b, TOI-5817 b e TOI-5795 b: tre esopianeti nettuniani caldi rivelano nuovi indizi sulla formazione dei sistemi planetari. Rappresentazione artistica di un nettuniano caldo e della sua stella realizzata con software d’intelligenza artificiale. Crediti: INAF
Il secondo pianeta, classificato come TOI-5817 b, ha un’orbita più ampia di circa 15,6 giorni ed è ideale per studi atmosferici grazie alla luminosità della sua stella ospite.
In un secondo articolo del programma HONEI, con prima autrice Francesca Manni, dottoranda presso il dipartimento di Fisica dell’università di Roma Tor Vergata sotto la supervisione del professor Luigi Mancini, viene presentata la scoperta di TOI-5795 b, un “super-Nettuno caldo” in orbita con un periodo di 6,14 giorni attorno a una stella povera di metalli (ovvero di elementi più pesanti dell’idrogeno e dell’elio).
Francesca Manni spiega: “L’esopianeta è stato scoperto dal satellite TESS intorno alla stella TOI-5795, a circa 162 parsec (ossia circa 528 anni luce) dalla Terra. È stato poi osservato anche con lo spettrografo HARPS, per misurare le variazioni di velocità radiale e quindi stimare la massa del pianeta. La stella è un po’ più grande del Sole ma più povera di metalli. Il pianeta ha un’orbita molto stretta e circolare, e caratteristiche da ‘super-Nettuno caldo’, ovvero massa e raggio superiori a quelli di Nettuno, ma temperature elevate”.
E aggiunge: “Questo pianeta si inserisce al confine del deserto dei Nettuniani caldi e la sua orbita quasi circolare e la composizione stellare pongono sfide ai modelli di formazione planetaria attuali, suggerendo che dinamiche successive alla formazione abbiano modellato la sua configurazione attuale”.
Naponiello sottolinea: “Dopo la scoperta del pianeta ultra-denso TOI-1853 b, confermiamo l’interesse cruciale della comunità scientifica per il deserto dei Nettuniani caldi. Questi risultati gettano nuova luce sui processi di migrazione e perdita atmosferica, fondamentali per capire la formazione di questo tipo di mondi”.
Tali risultati, ottenuti mediante l’impiego di spettrografi di eccellenza gestiti con il coinvolgimento rilevante di INAF, pongono solide basi per il futuro studio delle atmosfere planetarie con il telescopio spaziale James Webb e con telescopi terrestri di nuova generazione come l’Extremely Large Telescope (ELT), e saranno fondamentali per comprendere la diversità dei sistemi planetari e la storia evolutiva del nostro stesso Sistema solare.