Da Pantelleria a Marte: in un lago siciliano si sperimenta l’origine della vita
Nell’isola siciliana, un team di ricercatori italiani ha identificato un ambiente naturale con analogie geologiche con Marte e che potrebbe simulare anche le condizioni della Terra primordiale. Lo studio, pubblicato sull’International Journal of Molecular Sciences, è frutto della collaborazione tra Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), Istituto nazionale di astrofisica (INAF) e le Università della Tuscia e Sapienza di Roma, finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI).
lago Bagno dell’Acqua
lago Bagno dell’Acqua
campioni in incubazione nella sorgente termale
In una lettera del 1871 al suo amico Joseph Dalton Hooker, Charles Darwin ipotizzava che la vita potesse essere nata in ‘un piccolo stagno caldo’. Oggi, a oltre 150 anni di distanza, quell’ipotesi trova maggiori conferme grazie allo studio che un team interdisciplinare di scienziati italiani ha effettuato sull’isola di Pantelleria, in particolare presso il piccolo lago termale chiamato ‘Bagno dell’Acqua’: Questo luogo si è rivelato un laboratorio naturale ideale per simulare ambienti simili a quelli che potrebbero essere esistiti miliardi di anni fa sia sulla Terra che su Marte, offrendo preziosi indizi sui meccanismi universali dell’origine della vita.
Immagine satellitare con esperimenti
La ricerca, pubblicata sull’International Journal of Molecular Sciences, è stata condotta da ricercatori e ricercatrici del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), dell’Università della Tuscia, dell’Istituto nazionale di astrofisica (INAF), dell’Università Sapienza di Roma, con la collaborazione dell’Ente Parco nazionale Isola di Pantelleria e finanziata dall’Agenzia spaziale italiana (ASI) con i progetti ‘ExoMars’ e ‘Migliora’.
“Il lago ‘Bagno dell’Acqua’ si distingue per la combinazione unica di alta alcalinità, attività idrotermale, diversità mineralogica e attività microbica. Utilizzando l’acqua del lago, ricca di minerali, siamo riusciti a sintetizzare molecole di RNA (una delle due molecole, assieme al DNA, fondamentali per la vita) a partire da alcuni suoi precursori: i nucleotidi contenenti la guanina, una delle quattro famose basi azotate”,
spiega Giovanna Costanzo, biologa molecolare dell’Istituto di biologia e patologia molecolari del CNR (CNR-IBPM).
“A Pantelleria, in un’ambiente esterno al laboratorio, dove solitamente si svolgono le nostre attività, abbiamo verificato la possibilità di condurre esperimenti di astrobiologia, sfruttando le proprietà chimiche e fisiche di un lago con caratteristiche simili sia a quelle ipotizzate per la Terra primitiva, ovvero il nostro pianeta circa 4,5 miliardi di anni fa, che a quelle rilevate in aree marziane di grande interesse astrobiologico, come il cratere Jezero e la regione di Oxia Planum, attualmente considerati prioritari per la ricerca di antiche forme di vita”.
I ricercatori sono riusciti a sintetizzare non solo l’RNA, ma anche tutte le basi azotate presenti sia nel DNA che nell’RNA.
“Inoltre, sono stati ottenuti anche componenti del PNA (Acido Peptidico Nucleico), un potenziale precursore degli attuali acidi nucleici, che potrebbe aver rappresentato un ponte tra genetica e metabolismo” spiega il chimico organico Raffaele Saladino dell’Università della Tuscia di Viterbo. “La vita, pertanto, avrebbe potuto avere una modalità di origine chimica comune sia nel lontano passato di Marte che sulla Terra primitiva”.
Il progetto Migliora (‘Modeling Chemical Complexity: all’Origine di questa e di altre Vite per una visione aggiornata delle missioni spaziali’) si inserisce all’interno di un programma nazionale di astrobiologia che Asi sta coordinando già dal 2020.
“I risultati di questo progetto costituiscono un tassello fondamentale nella conoscenza dell’origine della vita sulla Terra” sottolinea Claudia Pacelli, Responsabile Scientifico del progetto per Asi. “Riteniamo che queste ricerche contribuiranno inoltre a rafforzare il ruolo della comunità scientifica italiana nel contesto della ricerca astrobiologica internazionale”.
microbialite Pantelleria
Riferimenti bibliografici:
Valentina Ubertini, Eleonora Mancin, Enrico Bruschini, Marco Ferrari, Agnese Piacentini, Stefano Fazi, Cristina Mazzoni, Bruno Mattia Bizzarri, Raffaele Saladino, Giovanna Costanzo, “The “Bagno dell’Acqua” Lake as a Novel Mars-like Analogue: Prebiotic Syntheses of PNA and RNA Building Blocks and Oligomers”, International Journal of Molecular Sciences, 2025, 26, 6952. https://doi.org/10.3390/ijms26146952
Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
IXPE SVELA LA POLARIZZAZIONE DEI RAGGI X DI UNA MAGNETAR ATTIVA, 1E 1841-045
IXPE ha osservato per la prima volta la magnetar 1E 1841-045 durante una fase di attivazione, rilevando l’emissione di raggi X polarizzati. Questa scoperta fornisce nuovi indizi sul campo magnetico della stella e sui meccanismi di produzione di radiazione ad alta energia nelle pulsar altamente magnetizzate.
Osservata per la prima volta la polarizzazione di una magnetar dopo una fase di attivazione, chiamata outburst, grazie all’Imaging X-ray Polarimetry Explorer (IXPE), missione spaziale nata dalla collaborazione tra la NASA e l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI). I due lavori che riportano l’osservazione, uno guidato da ricercatrici e ricercatori italiani dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell’Università degli Studi di Padova, e l’altro da ricercatrici e ricercatori che lavorano negli Stati Uniti, sono stati pubblicati oggi sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.
La magnetar 1E 1841-045, una stella di neutroni situata nei resti della supernova Kes 73 a circa 28.000 anni luce dalla Terra, ha sorpreso la comunità scientifica riattivandosi il 20 agosto 2024. È stata osservata da tutti i telescopi sensibili alle alte energie, compreso IXPE che per la prima volta in assoluto è riuscito a osservare la radiazione X polarizzata di una magnetar in uno stato di attività. La luce polarizzata è la luce in cui le onde elettromagnetiche oscillano su un piano preferenziale, e non in modo disordinato come succede con la luce “normale”. Misurare come e quanto la luce è polarizzata offre indizi cruciali sulla sua origine e sull’ambiente che ha attraversato per giungere fino a noi.
Una stella di neutroni è il residuo di una stella massiccia che, giunta alla fine del suo ciclo evolutivo, collassa su se stessa, lasciando un nucleo estremamente denso, con una massa simile a quella del Sole, ma compresso in una sfera dal diametro paragonabile all’estensione di una città come Roma. Poiché le stelle di neutroni esaltano le proprietà delle loro stelle progenitrici, come la velocità di rotazione e l’intensità del campo magnetico, danno luogo ad alcuni dei fenomeni fisici più estremi dell’universo osservabile, offrendo opportunità uniche per studiare condizioni che sarebbero impossibili da replicare in un laboratorio sulla Terra.
Le magnetar, stelle di neutroni con campi magnetici estremamente intensi, sono tra gli oggetti più affascinanti ed enigmatici dell’universo. Quando una di queste stelle si attiva, può rilasciare fino a mille volte l’energia che emetterebbe normalmente, dando luogo a fenomeni fisici ancora più estremi. Tuttavia, i meccanismi alla base di queste fluttuazioni energetiche non sono ancora del tutto compresi. In questo contesto, la misurazione della luce polarizzata gioca un ruolo cruciale: i dati raccolti mostrano che l’emissione di raggi X da 1E 1841-045 diventa sempre più polarizzata a livelli di energia più elevati, pur mantenendo lo stesso angolo di polarizzazione. Questo significa che le diverse componenti di emissione sono legate tra loro e che quella più ad alta energia, finora la più elusiva, è fortemente influenzata dal campo magnetico.
“È la prima volta che riusciamo a osservare la polarizzazione di una magnetar in stato di attività e questo ci ha permesso di vincolare i meccanismi e la geometria di emissione che si celano dietro a questi stati attivi”, dice Michela Rigoselli, ricercatrice dell’INAF di Milano e prima autrice dell’articolo. “Ora sarà interessante osservare 1E 1841-045 una volta tornata allo stato di quiescenza per monitorare l’evoluzione delle sue proprietà polarimetriche”.
Questa osservazione evidenzia chiaramente le potenzialità della scienza delle magnetar, che può ancora essere approfondita attraverso la polarimetria ad alta energia.
IXPE svela la polarizzazione dei raggi X della magnetar 1E 1841-045, stella di neutroni situata nei resti della supernova Kes 73. Rappresentazione artistica di una magnetar, una stella di neutroni che possiede un forte campo magnetico. Crediti: ESA
Per ulteriori informazioni:
Lanciata il 9 dicembre 2021 dal Kennedy Space Center della NASA su un razzo Falcon 9, la missione IXPE fa parte della serie Small Explorer della NASA. IXPE, frutto di una collaborazione tra NASA e Agenzia Spaziale Italiana (ASI), è una missione interamente dedicata allo studio dell’universo attraverso la misura della polarizzazione dei raggi X. Utilizza tre telescopi installati a bordo con rivelatori finanziati dall’ASI e sviluppati da un team di scienziati dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), con il supporto industriale di Ohb-Italia.
L’articolo “IXPE detection of highly polarized X-rays from the magnetar 1E 1841-045”, di Rigoselli M., Taverna R., Mereghetti S., Turolla R., Israel G.L., Zane S., Marra L., Muleri F., Borghese A., Coti Zelati F., De Grandis D., Imbrogno M., Kelly R. M. E., Esposito P., Rea N., è stato pubblicato online sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.
L’articolo “X-ray polarization of the magnetar 1E 1841-045”, di Stewart R., Younes G., Harding A.K., Wadiasingh Z., Baring M.G., Negro M., Strohmayer T.E., Ho W.C.G., Ng M., Arzoumanian, Z., Dinh Thi H., Di Lalla N., Enoto T., Gendreau K., Hu C., van Kooten A., Kouveliotou C., McEwen A., è stato pubblicato online sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.
Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF
LA VIOLENTISSIMA TEMPESTA COSMICA NEL CUORE DEL QUASAR PDS 456, PRODOTTA DA UN BUCO NERO SUPERMASSICCIO
Roma, 14 maggio 2025 – Immaginate una tempesta colossale che si scatena appena al di fuori di un buco nero supermassiccio: è proprio ciò che ha rivelato Resolve, il nuovo spettrometro ad altissima risoluzione nei raggi X a bordo del satellite XRISM, nel contesto di una missione spaziale guidata dall’agenzia spaziale JAXA (Giappone), con la partecipazione di NASA (Stati Uniti) ed ESA (Europa).
Rappresentazione artistica del buco nero supermassiccio PDS 456. Venti ad alta velocità — illustrati in bianco — vengono espulsi dalle vicinanze del buco nero. Crediti: JAXA
Spettro di assorbimento ai raggi X di PDS 456 ottenuto dallo spettrometro Resolve a bordo di XRISM. Il riquadro superiore mostra lo spettro osservato nel suo insieme. Le 5 zone inferiori illustrano come il gas in movimento a velocità diverse produca linee di assorbimento a energie leggermente differenti a causa dell’effetto Doppler. Le linee più profonde in ciascuna zona corrispondono a ioni di ferro simili all’elio. Crediti: JAXA
Spettro di emissione ai raggi X di PDS 456 catturato dallo strumento Resolve. In un gas stazionario, le linee di emissione del ferro simile all’elio e simile all’idrogeno appaiono rispettivamente a 6,7 keV e 6,97 keV. In questo caso, il movimento all’interno del vento causa spostamenti Doppler: le linee spostate verso il blu provengono dal gas che si avvicina alla Terra, mentre quelle spostate verso il rosso dal gas che si allontana. Questi spostamenti si sovrappongono, creando linee di emissione allargate—una prova del fatto che il gas fluisce in quasi tutte le direzioni. Crediti: JAXA
Grazie ai dati ad altissima precisione di XRISM, è stato possibile – per la prima volta – identificare cinque componenti distinte di questo vento nel cuore del quasar PDS 456, ognuna espulsa dal buco nero centrale a velocità relativistiche, comprese tra il 20% e il 30% della velocità della luce. Per fare un confronto, basti pensare che le tempeste più violente sulla Terra – come un uragano di categoria 5 – raggiungono al massimo 300 km/h. Questa “tempesta cosmica” è milioni di volte più veloce.
Lo studio nato da questa collaborazione internazionale (JAXA, NASA, ESA) nell’ambito della missione XRISM, a cui partecipano anche ricercatrici e ricercatori dell’Università di Roma Tor Vergata e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), è pubblicato oggi sulla rivista internazionale Nature, con un articolo dal titolo “Structured ionized winds shooting out from a quasar at relativistic speeds”, che evidenzia la scoperta di cinque distinti flussi di plasma che fuoriescono dal disco di accrescimento del buco nero centrale a velocità estreme, pari al 20–30% di quella della luce.
“Il nostro gruppo ha giocato un ruolo chiave nell’interpretazione di questi dati, grazie a tecniche spettroscopiche avanzate nei raggi X e a modelli teorici innovativi per la fisica dei venti prodotti dai buchi neri. Questi risultati aprono una nuova finestra sullo studio dell’universo estremo, e gettano le basi per comprendere meglio come i buchi neri influenzano l’evoluzione delle galassie”. Commenta così Francesco Tombesi, professore associato di Astrofisica presso il dipartimento di Fisica dell’università di Roma Tor Vergata e associato INAF. In qualità di XRISM Guest Scientist selezionato dall’ESA (uno dei soli due in Italia insieme a James Reeves, associato INAF), Tombesi ha partecipato alla pianificazione e all’analisi dell’osservazione del quasar PDS 456, il più luminoso dell’universo locale, utilizzando il nuovo spettrometro ad alta risoluzione Resolve.
“Roma Tor Vergata ha avuto un ruolo di primo piano – prosegue Tombesi – anche grazie al contributo di due giovani ricercatori cresciuti all’interno del nostro Ateneo: Pierpaolo Condò, dottorando al secondo anno del PhD in Astronomy, Astrophysics and Space Science (AASS), e Alfredo Luminari, ricercatore post-doc presso INAF ed ex dottorando AASS”.
Un’energia così enorme e una struttura così complessa rivoluzionano la nostra comprensione dell’ambiente estremo intorno ai buchi neri supermassicci e mettono in seria discussione i modelli attuali di feedback tra buco nero e galassia. “Le teorie finora accettate – conclude Tombesi – non riescono a spiegare una simile combinazione di forza e frammentazione: è chiaro che serviranno nuovi modelli per descrivere questi mostri cosmici”.
“PDS456 è un laboratorio prezioso per studiare nell’universo locale i potentissimi venti prodotti dai buchi neri supermassivi. Questa nuova osservazione ci ha permesso di misurare la geometria e distribuzione in velocità del vento con un livello di dettagli impensabile prima dell’avvento di XRISM”, aggiunge Valentina Braito, ricercatrice INAF a Milano.
Un ruolo vincente all’interno della campagna osservativa di PDS456 lo ha avuto ancora una volta l’osservatorio spaziale Neil Gehrels Swift, satellite NASA con una importante partecipazione dell’INAF con l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI). È stato infatti grazie a un programma osservativo Swift – ottenuto da Valentina Braito – che il team è riuscito a costruire i modelli specifici per PDS456 utilizzati nell’analisi dei dati XRISM.
SPIRALI DI PLASMA NELLO SPAZIO: LO STRUMENTO METIS A BORDO DELLA MISSIONE SOLAR ORBITER SVELA LA NATURA CONTORTA DEL VENTO SOLARE, OSSERVANDO UNA STRUTTURA RADIALE NELLA CORONA SOLARE CHE EVOLVE PER DIVERSE ORE
Osservata per la prima volta dallo strumento Metis a bordo della missione Solar Orbiter, con una risoluzione spaziale e temporale mai raggiunta prima, una struttura radiale nella corona solare che evolve per diverse ore fino a distanze di tre raggi solari.
Immagine in luce visibile ottenuta dal coronografo Metis il 12 ottobre 2022, durante il passaggio al perielio della sonda Solar Orbiter. Al centro del campo di vista, il Sole ripreso dallo strumento EUI nella lunghezza d’onda di 174 Angstrom. Il riquadro giallo ritrae la struttura elicoidale oggetto dello studio. Crediti: Metis e EUI (Solar Orbiter/ESA). L’immagine è stata realizzata da Vincenzo Andretta (INAF di Napoli)
Roma, 26 marzo 2025 – Il 12 ottobre 2022, durante un passaggio ravvicinato al Sole, le riprese ottenute dal coronografo italiano Metis a bordo della missione Solar Orbiter dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) hanno catturato un fenomeno spettacolare e inedito per livello di dettaglio: l’evoluzione, nella corona solare, di una lunga struttura radiale che si anima di un moto elicoidale persistente per diverse ore. Per la prima volta, con una risoluzione spaziale e temporale mai raggiunte prima, è stato possibile osservare direttamente l’espulsione di strutture a spirale dalla corona solare, compatibili con le torsioni magnetiche che i modelli teorici associano all’origine del vento solare.
Grazie alla combinazione di immagini in luce visibile e tecniche di elaborazione avanzate, Metis – progettato da Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), Università di Firenze, Università di Padova, CNR-IFN, e realizzato dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) con la collaborazione dell’industria italiana – ha mostrato come il Sole possa trasferire energia e materia verso lo spazio in forma di onde e plasma intrecciati tra loro, rivelando un meccanismo fondamentale nella dinamica dell’eliosfera.
Alla guida dello studio, pubblicato oggi sul sito web della rivista The Astrophysical Journal, c’è Paolo Romano, primo ricercatore dell’INAF di Catania. Romano, che ha coordinato il lavoro di un ampio team internazionale, afferma:
“È la prima volta che osserviamo direttamente un fenomeno così esteso e duraturo, compatibile con la riconnessione magnetica in una struttura chiamata pseudostreamer. Questa osservazione offre una finestra inedita sulla fisica che sta alla base della formazione del vento solare. Questo risultato non solo conferma teorie elaborate da anni, ma fornisce finalmente un riscontro visivo diretto”.
Ma cos’è uno pseudostreamer? Si tratta di una configurazione del campo magnetico solare in cui due regioni chiuse di polarità opposta sono immerse in un ambiente di campo magnetico aperto. Nella corona, gli pseudostreamer sono le “canne del vento” del Sole: regioni da cui, in seguito a un’eruzione, possono aprirsi nuovi canali per il flusso del plasma verso lo spazio interplanetario.
Nel caso dell’evento ripreso da Metis, tutto ha avuto inizio con l’eruzione di una protuberanza polare – un gigantesco arco di plasma “appeso” ai campi magnetici nella regione nord del Sole – che ha innescato una piccola espulsione di massa coronale (CME). Ma il vero spettacolo è arrivato dopo, nella lunga fase di rilassamento che ha seguito l’eruzione. È lì che Metis ha osservato il susseguirsi di strutture filamentose, luminose e scure, che si attorcigliano lungo la linea radiale della corona, a distanze comprese tra 1,5 e 3 raggi solari.
Il team ha interpretato questi segnali come la firma visibile di un processo previsto da tempo: la riconnessione magnetica, che trasferisce il plasma e la torsione magnetica dalle regioni chiuse del campo solare verso quelle aperte, innescando onde di tipo torsionale – le onde di Alfvén – e lanciandole nello spazio.
Un tassello fondamentale è arrivato dal confronto con sofisticate simulazioni numeriche condotte da Peter Wyper, della Durham University, in collaborazione con Spiro Antiochos del NASA Goddard Space Flight Center. Le immagini sintetiche prodotte da queste simulazioni mostrano un’evoluzione sorprendentemente simile a quella ripresa da Metis: strutture elicoidali che si propagano lungo il campo aperto, con caratteristiche geometriche e dinamiche in forte accordo con i dati osservati.
“Le prestazioni uniche di Metis in termini di risoluzione spaziale e temporale aprono una nuova finestra sulla comprensione dell’origine del vento solare”, commenta Marco Romoli, dell’Università di Firenze e responsabile scientifico dello strumento Metis. “Per la prima volta vediamo l’intera evoluzione di un processo di rilascio di energia magnetica, dalle sue radici nel Sole fino all’apertura nello spazio interplanetario”.
“Le onde di Alfvén torsionali e in generale i meccanismi fisici che innescano fluttuazioni magnetiche di questo tipo – dichiara Marco Stangalini responsabile del programma Solar Orbiter per l’Agenzia Spaziale Italiana – sono da tempo ritenuti tra i principali meccanismi alla base dell’accelerazione del vento solare. Metis, grazie alla elevata cadenza temporale delle sue immagini, ci offre la possibilità di osservare direttamente questi processi fisici, consentendo anche un miglioramento della modellistica fisica ad essi associata”.
Le osservazioni di Metis non solo confermano i modelli teorici più avanzati, ma suggeriscono che lo stesso meccanismo – la riconnessione magnetica a piccola scala – possa avvenire continuamente sulla superficie del Sole, generando quei “microgetti” che alimentano il vento solare Alfvénico rivelato anche dalla sonda Parker Solar Probe.
In altre parole, quella spirale luminosa che Metis ha visto danzare nella corona potrebbe essere solo la versione gigante di un processo che avviene ovunque, continuamente, e che rende possibile l’esistenza stessa del vento solare.
Per maggiori informazioni:
Il video pubblicato dall’ESA con immagini composite del Sole che evidenziano la presenza di spirali di plasma in propagazione nella corona solare (Crediti: V. Andretta e P. Romano (INAF), ESA & NASA/Solar Orbiter/Metis/EUI).
L’articolo Metis Observations of Alfvenic Outflows Driven by Interchange Reconnection in a Pseudostreamer di P. Romano, P. Wyper, V. Andretta, S. Antiochos, G. Russano, D. Spadaro, L. Abbo, L. Contarino, A. Elmhamdi, F. Ferrente, R. Lionello, B.J. Lynch, P. MacNeice, M. Romoli, R. Ventura, N. Viall, A. Bemporad, A. Burtovoi, V. Da Deppo, Y. De Leo, S. Fineschi, F. Frassati, S. Giordano, S.L. Guglielmino, C. Grimani, P. Heinzel, G. Jerse, F. Landini, G. Naletto, M. Pancrazzi, C. Sasso, M. Stangalini, R. Susino, D. Telloni, L. Teriaca, M. Uslenghi è stato pubblicato online sulla rivista The Astrophysical Journal.
Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF e dall’Agenzia Spaziale Italiana – ASI
UN ANELLO PERFETTO PER LA MISSIONE EUCLID: NGC 65o5 È LA PRIMA LENTE GRAVITAZIONALE FORTE
La missione Euclid dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) ha scoperto la sua prima lente gravitazionale forte: l’immagine di una galassia lontana che appare sotto forma di anello, grazie alla forza di gravità di una galassia molto più vicina a noi (NGC 6505) che si trova, casualmente, sulla stessa linea di vista. I risultati dello studio, guidato da una collaborazione internazionale a cui partecipano ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), dell’Università di Bologna, dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e di molti atenei italiani, sono stati pubblicati oggi su Astronomy & Astrophysics.
Immagine della galassia NGC 6505: l’anello di Einstein creato da questa lente gravitazionale si può vedere al centro dell’immagine. Crediti: ESA/Euclid/Euclid Consortium/NASA, image processing by J.-C. Cuillandre, T. Li
Lanciata nel luglio del 2023, Euclid sta scansionando il cielo in profondità per costruire la più precisa mappa 3D mai realizzata dell’Universo, spingendosi fino a 10 miliardi di anni fa per studiare la storia cosmica e indagare i misteri delle enigmatiche materia oscura ed energia oscura. La missione, che vede un forte contributo italiano attraverso l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), l’INAF, l’INFN e numerosi atenei, deve raccogliere una enorme mole di dati per raggiungere i suoi ambiziosi obiettivi scientifici. E tra questi dati si nascondono moltissime sorprese.
Una delle prime sorprese è la galassia NGC 6505, nota sin dalla fine dell’Ottocento e relativamente vicina a noi – la sua luce è partita “appena” 590 milioni di anni fa. Grazie a Euclid si è scoperto che questa galassia agisce come lente gravitazionale, deviando la luce proveniente da un’altra galassia molto più lontana, la cui luce è partita ben 4,42 miliardi di anni fa. Il risultato è un’immagine distorta di quest’ultima galassia: distorta al punto giusto da formare un anello perfetto. La ricerca è guidata da Conor O’Riordan dell’Istituto Max Plack per l’Astrofisica (Max Planck Institute for Astrophysics) di Monaco di Baviera, Germania.
Secondo la teoria della relatività generale di Einstein, i corpi dotati di massa “piegano” il tessuto dello spaziotempo che pervade l’Universo, deflettendo il percorso di qualsiasi altro oggetto nelle vicinanze, compresa la luce. Questo fenomeno, chiamato lensing gravitazionale, produce immagini distorte dei corpi celesti, proprio come quelle create da una comune lente d’ingrandimento. La missione Euclid userà il lensing gravitazionale nella sua forma “debole” per studiare l’invisibile materia oscura attraverso la sua influenza sulle immagini leggermente deformate di miliardi di galassie. In rari casi, per esempio quando galassie a diverse distanze da noi si trovano fortuitamente allineate, il lensing gravitazionale si manifesta nella sua forma più eclatante, detta “forte”, dando luogo a immagini multiple di una stessa galassia o eccezionalmente a un intero anello, detto anello di Einstein.
NGC 6505 è la prima lente gravitazionale forte scoperta dalla missione Euclid, lo studio è stato pubblicato su Astronomy & Astrophysics. Dettagli dell’anello di Einstein, immagine distorta di una galassia lontana creata dalla lente gravitazionale NGC 6505. Crediti: ESA/Euclid/Euclid Consortium/NASA, image processing by J.-C. Cuillandre, T. Li
“Questa prima lente gravitazionale forte scoperta da Euclid ha caratteristiche uniche”, spiega Massimo Meneghetti, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, associato all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, tra gli autori del nuovo studio. “È veramente raro poter trovare una galassia relativamente prossima a noi, come questa che si trova nel catalogo NGC (New galaxy catalog, uno dei cataloghi di galassie vicine), che agisca da lente gravitazionale forte. Galassie così vicine infatti non sono generalmente in grado di focalizzare la luce di sorgenti retrostanti e formare immagini multiple, a meno che non contengano enormi quantità di materia nelle loro regioni centrali. La formazione di anelli di Einstein completi come quello di NGC 6505 è un evento ancora più raro, perché richiede che la galassia lente e quella sorgente siano perfettamente allineate con il nostro telescopio. Per questi motivi, non ci aspettiamo che Euclid osserverà molte lenti come NGC 6505. Anche considerando la vasta area di cielo che verrà coperta nel corso della missione, ci aspettiamo di poter scoprire al massimo 20 lenti come questa”.
Questa lente gravitazionale è stata scoperta per caso, in una delle prime zone di cielo osservate da Euclid, analizzando i dati della fase di verifica della missione appena due mesi dopo il lancio, dall’astronomo Bruno Altieri dell’ESA: per questo il gruppo di ricerca l’ha soprannominata “lente di Altieri”. Benché la galassia NGC 6505 sia stata osservata per la prima volta nel 1884, l’anello di Einstein scoperto con Euclid non era mai stato notato prima, dimostrando le straordinarie capacità di scoperta della missione.
La distorsione indotta dal lensing gravitazionale dipende dalla distribuzione e dalla densità di materia della galassia che agisce da lente. Per questo motivo, analizzando la distorsione è possibile misurare la sua massa sia in termini di stelle che di materia oscura. In questo caso, inoltre, visto che l’anello di Einstein della lente di Altieri ha un raggio più piccolo rispetto a quello di NGC 6505, è stato possibile studiare accuratamente la composizione e la struttura delle regioni centrali, dove la materia oscura è meno prominente, e dove la galassia è dominata dalle stelle.
“Dato che il lensing gravitazionale è il metodo più preciso per misurare la massa, combinando il modello dell’anello di Einstein e della distribuzione di stelle della galassia, abbiamo potuto misurare che la frazione di massa composta da materia oscura al centro della lente è soltanto l’11 per cento”, spiega la co-autrice Giulia Despali, ricercatrice al Dipartimento di Fisica e Astronomia “Augusto Righi” dell’Università di Bologna, associata dell’INAF e dell’INFN. “Ricordiamo che la materia oscura costituisce circa l’85 per cento della materia totale del nostro Universo, quindi le regioni centrali delle galassie sono veramente particolari. Abbiamo infatti misurato le proprietà della galassia con estrema precisione, scoprendo una struttura complessa che varia con la distanza dal centro e stimando la funzione di massa iniziale, e cioè la proporzione di stelle di piccola e grande massa. Le nuove osservazioni di Euclid ci aiutano quindi a capire di più sia sull’Universo oscuro che sui processi di formazione ed evoluzione delle galassie”.
Se questa scoperta è avvenuta per caso, all’interno della collaborazione Euclid c’è un vasto gruppo dedicato alla ricerca di lenti gravitazionali, e ci si aspetta di trovarne oltre centomila nei 14mila gradi quadrati di cielo che saranno osservati nel corso della missione. Queste indagini sfruttano, da un lato, strumenti sofisticati come l’intelligenza artificiale, e dall’altro anche la citizen science, coinvolgendo il pubblico non esperto nell’ispezione visuale delle immagini, in collaborazione con la piattaforma Zooniverse. L’obiettivo è quello di realizzare una mappa dettagliata della distribuzione della materia, sia quella visibile che quella oscura, nelle galassie e negli ammassi di galassie a varie distanze dall’Universo locale per poter così studiare la natura e l’evoluzione nel tempo della materia oscura e dell’energia oscura.
Testo e immagini dagli Uffici Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
L’INATTESO BRILLAMENTO NEL GETTO DI M87 OSSERVATO DALLE ONDE RADIO AI RAGGI GAMMA
Curva di luce del brillamento a raggi gamma (in basso) e raccolta di immagini quasi-simulatneee del getto di M87 (in alto) a varie scale ottenute in radio e raggi X durante la campagna del 2018. Lo strumento, la lunghezza d’onda di osservazione e la scala sono mostrati in alto a sinistra di ogni immagine. Crediti: EHT Collaboration, Fermi-LAT Collaboration, H.E.S.S. Collaboration, MAGIC Collaboration, VERITAS Collaboration, EAVN Collaboration
È il primo episodio registrato dal 2010. I dati sono stati raccolti dalla collaborazione Event Horizon Telescope (EHT) nel corso di una campagna osservativa a diverse lunghezze d’onda del 2018 sfruttando numerosi telescopi in orbita come Fermi, HST, NuSTAR, Chandra, Swift della NASA, insieme ai tre più grandi telescopi Cherenkov sulla Terra: H.E.S.S., MAGIC e VERITAS.
Gli osservatori e i telescopi che hanno partecipato alla campagna multibanda del 2018 per la rilevazione del brillamento di raggi gamma ad alte energie dal buco nero M87*. Crediti: EHT Collaboration, Fermi-LAT Collaboration, H.E.S.S. Collaboration, MAGIC Collaboration, VERITAS Collaboration, EAVN Collaboration
La collaborazione scientifica internazionale Event Horizon Telescope (EHT), che nel 2019 aveva pubblicato la prima “foto” di un buco nero, quello supermassiccio al centro della galassia Messier 87 (denominato M87*), ha recentemente osservato e studiato a diverse lunghezze d’onda uno spettacolare brillamento (flare in inglese) proveniente dal potente getto relativistico al centro della stessa galassia, la più luminosa dell’ammasso della Vergine. Lo studio, coordinato dal gruppo di ricerca EHT-MWL che include anche l’Università degli studi di Trieste, l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), presenta i dati della seconda campagna osservativa di EHT realizzata nell’aprile del 2018 che ha coinvolto oltre 25 telescopi terrestri e in orbita. Nello studio gli autori riportano la prima osservazione in oltre un decennio di un brillamento di raggi gamma ad altissime energie – fino a migliaia di miliardi di elettronvolt – da M87* dopo aver ottenuto quasi in simultanea gli spettri della galassia con il più ampio intervallo di lunghezze d’onda finora raccolti. L’articolo è stato pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics.
“Siamo stati fortunati a rilevare un brillamento di raggi gamma da M87* durante la campagna multi-lunghezza d’onda dell’Event Horizon Telescope. Questo è il primo episodio di brillamento di raggi gamma in questa sorgente dal 2010. Le osservazioni, comprese quelle eseguite con un’infrastruttura più sensibile nel 2021 e 2022, così come quelle pianificate per i prossimi anni, ci offriranno ulteriori approfondimenti e un’incredibile opportunità per investigare la fisica attorno al buco nero supermassiccio M87*, spiegando la connessione tra il disco di accrescimento e il getto emesso, nonché l’origine e i meccanismi responsabili dell’emissione di fotoni di raggi gamma”, commenta Giacomo Principe, responsabile del progetto, ricercatore dell’Università degli studi di Trieste, associato INAF e INFN.
Il brillamento energetico, durato circa tre giorni, ha rivelato che l’emissione era sbilanciata verso energie più elevate di quelle tipiche emesse dal buco nero di M87.
“Insieme alle osservazioni sub-millimetriche dell’EHT, i nuovi dati raccolti in molteplici bande di radiazione offrono un’opportunità unica per comprendere le proprietà della regione di emissione di raggi gamma, collegarla a potenziali cambiamenti nel getto di M87 e consentire test più sensibili sulla relatività generale”, sottolinea Principe.
Spingendo materiale ad altissima energia al di fuori della galassia ospite, il getto relativistico esaminato dai ricercatori e dalle ricercatrici ha un’estensione sorprendente arrivando a dimensioni che superano quelle dell’orizzonte degli eventi del buco nero per decine di milioni di volte: come dire la differenza che c’è in termini di dimensioni tra un batterio e la più grande balenottera azzurra conosciuta.
Tra i telescopi coinvolti nella campagna troviamo Fermi (con lo strumento LAT), NuSTAR, Chandra e Swift della NASA, e i tre più grandi apparati di telescopi IACT (Imaging Atmospheric Cherenkov Telescope) per astronomia a raggi gamma di altissima energia da terra (H.E.S.S., MAGIC e VERITAS), con i quali è stato possibile osservare e studiare le caratteristiche di durata ed emissione del brillamento ad alta energia.
Elisabetta Cavazzuti, responsabile del programma Fermi per l’ASI, racconta: “Fermi-LAT ha rivelato un aumento notevole di flusso nello stesso periodo degli altri osservatori contribuendo a cercare di identificare la zona di emissione dei raggi gamma durante questi aumenti di luminosità. M87 è un laboratorio che ci dimostra ancora una volta l’importanza di avere osservazioni coordinate a più lunghezze d’onda e anche ben campionate per caratterizzare pienamente la variabilità spettrale della sorgente, variabilità che probabilmente si estende su diverse scale temporali, con una visione il più possibile completa attraverso tutto lo spettro elettromagnetico”.
Dati di elevata qualità sono stati poi raccolti nella banda dei raggi X da Chandra e NuSTAR. Le osservazioni radio VLBA (Very Long Baseline Array), per le quali sono state coinvolte anche le stazioni radioastronomiche dell’INAF, presentano un chiaro cambiamento, su base annuale, dell’angolo di posizione del getto entro pochi milliarcosecondi dal nucleo della galassia.
Principe continua: “In particolare, questi risultati offrono la prima possibilità in assoluto di identificare il punto in cui vengono accelerate le particelle che causano il brillamento, il che potrebbe potenzialmente risolvere un dibattito di lunga data sull’origine dei raggi cosmici (particelle ad altissima energia provenienti dallo spazio) rilevati sulla Terra”.
I dati pubblicati nell’articolo mostrano anche una variazione significativa nell’angolo di posizione dell’asimmetria dell’anello (il cosiddetto “orizzonte degli eventi” del buco nero), così come nella posizione del getto, rivelando connessioni tra queste strutture su scale dimensionali molto diverse. Il ricercatore spiega:
“Nella prima immagine durante la compagna osservativa del 2018 si era visto che questo anello non era omogeneo, presentava quindi delle asimmetrie (cioè delle zone più brillanti). Le successive osservazioni condotte nel 2018 e legate a questa pubblicazione scientifica hanno confermato i dati evidenziando però che l’angolo di posizione dell’asimmetria era cambiato”.
“Come e dove le particelle vengono accelerate nei getti del buco nero supermassiccio è un mistero di lunga data. Per la prima volta possiamo combinare l’imaging diretto delle regioni vicine all’orizzonte degli eventi di un buco nero durante i brillamenti di raggi gamma derivanti da eventi di accelerazione delle particelle, e possiamo testare le teorie sulle origini dei brillamenti stessi”, dice Sera Markoff, professoressa presso l’Università di Amsterdam e co-autrice dello studio.
Giacomo Principe conclude: “Queste osservazioni possono far luce su alcuni principali quesiti dell’astrofisica tuttora ancora irrisolti: come sono originati i potenti getti relativistici che vengono osservati in alcune galassie? Dove vengono accelerate le particelle responsabili dell’emissione dei raggi gamma? Quale fenomeno le accelera fino a energie del TeV (migliaia di miliardi di elettronvolt)? Qual è l’origine dei raggi cosmici?”
Sotto la superficie di Io non c’è un oceano di magma liquido, ma un mantello solido
Un nuovo studio pubblicato su Nature, basato sui dati di gravità raccolti dalla sonda Juno della NASA durante dei sorvoli della luna Io di Giove esclude la presenza di un oceano di magma sotto la sua superficie
Sotto la superficie di Io, il satellite Galileiano più vicino a Giove, non c’è un oceano di magma liquido come si era pensato fino ad oggi, ma un mantello solido. A rivelarlo è uno studio pubblicato su Nature realizzato anche grazie al lavoro di diversi ricercatori della Sapienza Università di Roma e dell’Università di Bologna.
La ricerca, coordinata da Ryan Park del Jet Propulsion Laboratory dalla NASA, ha sfruttato i dati collezionati dalla sonda Juno della NASA durante due recenti sorvoli ravvicinati della luna insieme ai dati storici della missione Galileo, la sonda della NASA che tra il 1995 e il 2003 ha esplorato il sistema di Giove.
“La combinazione dei dati acquisiti da Juno con quelli collezionati dalla sonda Galileo oltre 20 anni fa – spiega Daniele Durante, ricercatore presso il Dipartimento di Ingegneria Meccanica e Aerospaziale – ha permesso di migliorare la stima della risposta mareale di Io, che fornisce indicazioni dirette della deformabilità della struttura interna della luna.”
Io è un satellite unico nel sistema di Giove grazie alla sua intensa attività vulcanica, che lo rende l’oggetto geologicamente più attivo del sistema solare. Per decenni si è creduto che l’enorme attrazione gravitazionale di Giove fosse sufficiente a creare un oceano di magma sotto la sua superficie, che alimentasse i suoi vulcani. Le misure di induzione magnetica condotte dalla sonda Galileo avevano infatti suggerito la presenza di un oceano di magma sotto la superficie di questa luna.
Questo scenario è stato però rivisto a seguito delle nuove osservazioni realizzate da Juno, la sonda che dal 2016 sta esplorando Giove e, più recentemente, le sue lune. Juno ha sorvolato per due volte Io a circa 1.500 chilometri di quota, raccogliendo dati del campo gravitazionale della luna molto accurati. I risultati dell’analisi mostrano una risposta gravitazionale della luna alle forze di marea piuttosto modesta.
“La risposta della luna alle forze di marea esercitate da Giove è risultata piuttosto bassa – afferma Luciano Iess, professore presso il Dipartimento di Ingegneria Meccanica e Aerospaziale – indicazione dell’assenza di un oceano di magma vicino alla superficie e, piuttosto, della presenza di un mantello solido profondo al suo interno”.
Lo studio è stato pubblicato su Nature con il titolo “Io’s tidal response precludes a shallow magma ocean”. Per Sapienza Università di Roma hanno partecipato Daniele Durante e Luciano Iess, in collaborazione con i colleghi dell’Università di Bologna, Luis Gomez Casajus, Marco Zannoni, Andrea Magnanini e Paolo Tortora. Le attività di ricerca sono state realizzate nell’ambito di un accordo finanziato dall’Agenzia Spaziale Italiana.
Struttura interna di Io. La nuova misura della deformazione mareale suggerisce che la luna non abbia un oceano globale di magma vicino la superficie ma è coerente con la presenza di un mantello più solido (sfumature di verde), con una quantità significativa di materiale fuso (in giallo e arancione) che ricopre un nucleo liquido (in rosso/nero). Illustrazione di Sofia Shen (JPL/Caltech).
Riferimenti bibliografici:
Park, R.S., Jacobson, R.A., Gomez Casajus, L. et al. Io’s tidal response precludes a shallow magma ocean, Nature (2024), DOI: https://doi.org/10.1038/s41586-024-08442-5
Testo e immagine dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
AT 2021hdr, NUBE DI GAS DISTRUTTA DA UNA COPPIA DI BUCHI NERI SUPERMASSICCI AFFAMATI
Caotici e voraci, caratteristiche che potrebbero descrivere perfettamente due buchi neri mostruosi scoperti con l’Osservatorio Neil Gehrels Swift della NASA, satellite con una importante partecipazione italiana dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). Un gruppo di ricerca ha infatti rilevato, pubblicando i risultati oggi sulla rivista Astronomy and Astrophysics, per la prima volta un evento transiente di distruzione mareale in cui una coppia di buchi neri supermassivi sta interagendo con una nube di gas nel centro di una galassia distante. Il segnale di questo fenomeno, noto come AT 2021hdr, si ripete periodicamente, offrendo agli astronomi un’opportunità unica di studiare il comportamento di questi oggetti cosmici estremi. Tra gli enti di ricerca coinvolti nello studio c’è anche l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).
“È un evento molto strano, chiamato AT 2021hdr, che si ripete ogni pochi mesi”, spiega Lorena Hernández-García, ricercatrice presso il Millennium Institute of Astrophysics e il Millennium Nucleus for Transversal Research and Technology to explore Supermassive Black Holes, prima autrice dello studio e leader del team di ricerca. “Crediamo che una nube di gas abbia inghiottito i buchi neri; mentre orbitano l’uno attorno all’altro, i buchi neri interagiscono con la nube, perturbando e consumando il suo gas. Questo produce oscillazioni che si osservano nella luce del sistema”.
AT 2021hdr è stato scoperto grazie all’ALeRCE broker e osservato per la prima volta nel 2021 con lo ZTF (Zwicky Transient Facility) presso l’Osservatorio Palomar in California.
Rappresentazione artistica in cui si vede una coppia di buchi neri supermassivi che vortica in una nube di gas. L’evento si chiama AT 2021hdr, un brillamento ricorrente studiato dal Neil Gehrels Swift Observatory della NASA e dal ZTF Transient Facility presso l’Osservatorio Palomar in California. Crediti: NASA/Aurore Simonnet (Sonoma State University)
Cosa provoca questo fenomeno? Dopo aver esaminato diversi modelli per spiegare ciò che vedevano nei dati, i ricercatori hanno dapprima considerato l’ipotesi di un evento di distruzione mareale (in inglese tidal disruption event), vale a dire la distruzione di una stella che si era avvicinata troppo a uno dei buchi neri, per poi convergere su un’altra possibilità: la distruzione mareale di una nube di gas, più grande del binario stesso. Analizzando i dati raccolti, la dinamica è apparsa subito chiara: quando la nube si è scontrata con i due buchi neri, la loro forza di attrazione gravitazionale l’ha fatta a pezzi, formando filamenti attorno alla coppia. La nube si è poi riscaldata per attrito, il gas è diventato particolarmente denso e caldo vicino ai buchi neri, mentre la complessa interazione di forze ha fatto sì che parte del gas venisse espulso dal sistema a ogni rotazione.
ZTF ha rilevato esplosioni da AT 2021hdr ogni 60-90 giorni dal primo brillamento. Il gruppo di Hernández-García ha osservato la sorgente con Swift da novembre 2022. Il satellite americano Swift li ha aiutati a determinare che la coppia di buchi neri produce oscillazioni nella luce ultravioletta e nei raggi X simultaneamente a quelle viste nella luce visibile.
“È la prima volta che si osserva un evento di distruzione mareale di una nube di gas da parte di una coppia di buchi neri supermassivi”, afferma Gabriele Bruni, ricercatore presso l’INAF di Roma. “In particolare, l’oscillazione periodica misurata in banda ottica, ultravioletta, e raggi X ha una durata mai osservata in precedenza per un evento di distruzione mareale. Grazie al monitoraggio costante di ZTF è stato possibile scoprire questo peculiare sistema, e avviare osservazioni in diverse bande. La survey dello ZTF infatti copre il cielo intero ogni 3 giorni, permettendo per la prima volta di scoprire un grande numero di questi fenomeni astrofisici transitori”.
“I fenomeni transienti permettono di studiare ‘in diretta’ l’evoluzione dei sistemi di accrescimento su buchi neri supermassicci, dove la gravità e il campo magnetico si trovano a un regime energetico estremo. Sono quindi laboratori che non riusciremo mai a riprodurre sulla terra, dove testare nuove leggi della fisica”, sostiene Francesca Panessa, ricercatrice presso l’INAF di Roma.
I due buchi neri protagonisti della scoperta si trovano nel centro di una galassia chiamata 2MASX J21240027+3409114, situata a 1 miliardo di anni luce di distanza in direzione della costellazione del Cigno. I due buchi neri sono separati da circa 26 miliardi di chilometri e insieme contengono 40 milioni di volte la massa del Sole. Gli scienziati stimano che i buchi neri completino un’orbita ogni 130 giorni e che si fonderanno tra circa 70 mila anni.
Bruni sottolinea che “finora sono pochi i fenomeni transienti osservati che presentano un oscillazione nella curva di luce come questo”. E conclude: “Le coppie di buchi neri supermassicci sono ancora un fenomeno raramente osservato, e ne vedremo molti di più con la prossima generazione di antenne gravitazionali a bassa frequenza (come LISA – Laser Interferometer Space Antenna). Inoltre, si aspettiamo di scoprire altri casi come questo nei prossimi anni, anche con l’accensione del Vera Rubin Telescope, che sarà in grado di scrutare ancora più a fondo l’universo”.
Da sinistra: Francesca Panessa (INAF Roma), Lorena Hernández-García (Millennium Institute of Astrophysics), Gabriele Bruni (INAF Roma). Crediti: L. Sidoli / INAF
METIS OSSERVA COME SI PROPAGA LA TURBOLENZA NEL VENTO SOLARE
Grazie alle riprese del coronografo Metis a bordo della missione europea Solar Orbiter, un gruppo internazionale coordinato da ricercatori INAF è riuscito ad osservare la propagazione dei moti turbolenti del vento solare dalle zone più interne della corona del Sole fino allo spazio. La conoscenza dei meccanismi che guidano l’evoluzione e la propagazione di questi fenomeni nel vento solare aiuterà a migliorare le previsioni sul potenziale impatto che esso può avere nel nostro Sistema planetario e soprattutto sulla Terra. Lo studio a cui hanno collaborato anche ricercatori e ricercatrici di ASI, CNR e delle Università di Firenze, Padova, Urbino, Genova, Catania, Palermo e della Calabria, è stato pubblicato oggi sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.
Il vento solare è un flusso incessante di particelle cariche provenienti dal Sole, il cui andamento è tutt’altro che costante. Nel loro moto nello spazio, le particelle del vento solare interagiscono con il campo magnetico variabile del Sole, seguendo traiettorie caotiche e fluttuanti, un fenomeno che prende il nome di turbolenza.
Le riprese ottenute dalla missione Solar Orbiter dell’Agenzia Spaziale Europea grazie al coronografo Metis progettato da Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), Università di Firenze, Università di Padova, CNR-Ifn, e realizzato dall’Agenzia Spaziale Italiana con la collaborazione dell’industria italiana, confermano qualcosa che si sospettava da tempo: il moto turbolento del vento solare inizia molto vicino al Sole, all’interno della porzione di atmosfera solare nota come corona. Piccoli disturbi che influenzano il vento solare nella corona vengono trasportati verso l’esterno e si espandono, generando un flusso turbolento più lontano nello spazio.
“Questo risultato ha aperto una nuova finestra sulla fisica del vento solare grazie a Metis, il coronografo di nuova concezione – tutta italiana – a bordo del Solar Orbiter, che ha permesso acquisizioni ad alta cadenza di immagini coronali con un contrasto senza precedenti tra segnale coronale e background”
commenta Silvano Fineschi dell’INAF e Responsabile Scientifico del contributo italiano alla missione. Bloccando la luce diretta proveniente dal Sole, il coronografo Metis è in grado di catturare la luce visibile e ultravioletta più debole proveniente dalla corona solare. Le sue immagini ad alta risoluzione e ad alta cadenza mostrano la struttura dettagliata e il movimento all’interno della corona, rivelando come il movimento del vento solare diventi già turbolento alle sue radici. Le riprese utilizzate dal team di ricerca per osservare in dettaglio la propagazione della turbolenza sono state ottenute il 12 ottobre 2022 e messe in sequenza per realizzare una animazione video. In particolare, l’anello color rosso nel video mostra le osservazioni di Metis. A quella data, la sonda si trovava a soli 43,4 milioni di km dal Sole, meno di un terzo della distanza Sole-Terra. L’immagine del Sole al centro del video è stata scattata dall’Extreme Ultraviolet Imager (EUI) di Solar Orbiter, lo stesso giorno delle osservazioni di Metis.
“L’elevata risoluzione spaziale e temporale di Metis sta gettando nuova luce sui meccanismi fisici che regolano il vento solare e la sua propagazione, consentendo una migliore comprensione dei processi attraverso i quali il Sole determina le condizioni fisiche dello spazio interplanetario con effetti anche a Terra” dice Marco Stangalini, ricercatore e Responsabile di Programma ASI della missione Solar Orbiter. “Questo significativo risultato è solo l’ultimo di una lunga serie di successi e offre grandi speranze per il futuro. Nei prossimi anni, infatti, Solar Orbiter inclinerà la sua orbita, permettendoci di osservare il Sole da una prospettiva completamente nuova per la prima volta”.
La turbolenza influenza il modo in cui il vento solare viene riscaldato, il modo in cui si muove attraverso il Sistema solare e il modo in cui interagisce con i campi magnetici dei pianeti e delle lune che attraversa. Comprendere la turbolenza del vento solare è fondamentale per prevedere la meteorologia spaziale e i suoi effetti sulla Terra.
L’articolo “Metis observation of the onset of fully developed turbulence in the solar corona” di Daniele Telloni,Luca Sorriso-Valvo, Gary P. Zank, Marco Velli ,Vincenzo Andretta,Denise Perrone,Raffaele Marino,Francesco Carbone,Antonio Vecchio,Laxman Adhikari, Lingling Zhao,Sabrina Guastavino,Fabiana Camattari,Chen Shi,Nikos Sioulas,Zesen Huang,Marco Romoli,Ester Antonucci,Vania Da Deppo,Silvano Fineschi,Catia Grimani,Petr Heinzel,John D. Moses,Giampiero Naletto,Gianalfredo Nicolini,Daniele Spadaro,Marco Stangalini, Luca Teriaca,Michela Uslenghi,Lucia Abbo,Frederic Auchere,Regina Aznar Cuadrado,Arkadiusz Berlicki,Roberto Bruno,Aleksandr Burtovoi,Gerardo Capobianco,Chiara Casini,Marta Casti, Paolo Chioetto,Alain J. Corso,Raffaella D’Amicis,Yara De Leo,Michele Fabi,Federica Frassati,Fabio Frassetto,Silvio Giordano,Salvo L. Guglielmino,Giovanna Jerse,Federico Landini,Alessandro Liberatore, Enrico Magli,Giuseppe Massone,Giuseppe Nisticò,Maurizio Pancrazzi,Maria G. Pelizzo, Hardi Peter,Christina Plainaki, Luca Poletto,Fabio Reale,Paolo Romano,Giuliana Russano, Clementina Sasso, Udo Schuhle,Sami K. Solanki,Leonard Strachan,Thomas Straus, Roberto Susino,Rita Ventura,Cosimo A. Volpicelli, Joachim Woch, Luca Zangrilli, Gaetano Zimbardo ePaola Zuppellaè stato pubblicato oggi sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.
questa immagine satellitare dal Solar Dynamics Observatory – SDO della NASA mostra la luce ultravioletta in marrone chiaro. FotoNASA di Amy Moran, in pubblico dominio
Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).
MISSIONE JUICE: MAJIS SVELA NUOVI DETTAGLI SU TERRA E LUNA E APRE LA STRADA ALLA RICERCA DI VITA SULLE LUNE DI GIOVE
Il dati raccolti dallo spettrometro a bordo di JUICE confermano le prestazioni previste, fornendo le prove dell’esistenza degli elementi alla base della vita sulla Terra, dettagli sulla riflettanza e sull’emissione termica di mari e altopiani lunari, oltre a immagini del nostro pianeta con risoluzione spaziale e spettrale eccezionale.
Roma, 10 settembre 2024 – Durante lo storico flyby del 19 e 20 agosto 2024, la missione JUICE dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) ha puntato i suoi strumenti verso il sistema Terra-Luna, un’occasione unica per raccogliere dati scientifici e calibrare i sensori a bordo. Tra gli strumenti utilizzati, lo spettrometro franco-italiano MAJIS ha dimostrato le sue straordinarie capacità, svelando dettagli senza precedenti sulla riflettanza e l’emissione termica della superficie lunare, acquisendo immagini della Terra con una risoluzione spaziale e spettrale eccezionale, e confermando che il nostro pianeta è abitabile. Queste osservazioni rappresentano un traguardo fondamentale verso la futura esplorazione del sistema gioviano, soprattutto perché MAJIS (insieme agli altri 9 strumenti a bordo di JUICE) potrebbe scovare – nelle sottili atmosfere e sulle superfici ghiacciate dei satelliti galileiani – elementi alla base della vita come la conosciamo dando nuovo slancio al filone di ricerca che si occupa dei mondi potenzialmente abitabili.
MAJIS è stato realizzato grazie a due importanti contributi da parte della Francia e dell’Italia attraverso il supporto delle rispettive agenzie spaziali, il Centro Nazionale di Studi Spaziali francese (Centre National d’études Spatiales – CNES) e l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI). Il principale contributo scientifico e la responsabilità sono affidate all’Istituto di Astrofisica Spaziale Francese (Institut d’Astrophysique Spatiale – IAS) d’Orsay e all’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).
Giuseppe Piccioni, Co-Principal Investigator dello strumento MAJIS per l’INAF di Roma, commenta: “Dopo tanti anni di lavoro di preparazione e sviluppo di uno strumento spaziale, è sempre una bellissima emozione vedere i primi risultati di tanto sforzo. In un viaggio lungo come quello della missione JUICE – oltre 8 anni solo per arrivare a Giove – i flyby di Terra, Luna e Venere, offrono delle ghiotte occasioni per verificare le prestazioni e le calibrazioni degli strumenti, in particolare per MAJIS”.
MAJIS non si limita solo a fornire immagini; lo strumento è anche in grado di rilevare la presenza di elementi fondamentali per la vita sia nelle atmosfere che sulle superfici di corpi celesti. Durante il flyby del 20 agosto, MAJIS ha verificato questa capacità analizzando l’atmosfera terrestre, confermando la presenza di elementi adatti allo sviluppo della vita e con molta probabilità che sia effettivamente abitata.
“Queste potenzialità – dice Piccioni – si rivelano fondamentali per la missione JUICE, che esplorerà anche le lune ghiacciate di Giove, alla ricerca di ambienti potenzialmente abitabili. Le osservazioni di Terra e Luna effettuate durante il sorvolo di JUICE hanno costituito la migliore opportunità per mettere alla prova le prestazioni e la calibrazione di MAJIS con bersagli estesi, simili per dimensioni a quelli che si prevede di incontrare su Giove durante la missione nominale. D’altra parte, Luna e Terra sono oggetti molto luminosi, il che richiede l’uso di modalità di osservazione speciali per evitare la saturazione dei rilevatori, un’altra importante prova della versatilità dello strumento MAJIS”.
Il Moons And Jupiter Imaging Spectrometer (MAJIS) è uno spettrometro a mappatura che opera nella finestra di lunghezze d’onda comprese tra 0,5 e 5,56 micrometri (milionesimi di metro) con una risoluzione di 150 metri da una distanza di 1000 km, in grado di fornire uno spettro con 1016 “colori” indipendenti del bersaglio osservato. Parte di questi colori rientra nello spettro visibile, ma la maggior parte si trova nell’infrarosso, una parte della radiazione non visibile all’occhio umano. Questo spettro consente di determinare la composizione e le proprietà fisiche del bersaglio osservato. Tutte queste caratteristiche rendono MAJIS uno strumento ideale per produrre mappe dettagliate della composizione superficiale dei satelliti galileiani e delle loro esosfere, oltre che per identificare le proprietà chimico-fisiche dell’atmosfera di Giove (l’obiettivo scientifico della missione JUICE).
Piccioni sottolinea che “la qualità dei dati forniti da MAJIS è sorprendente, superiore alle più rosee previsioni, e questo apre un’ottima aspettativa per le osservazioni che verranno in futuro. Non sappiamo ancora se sarà possibile, ma il flyby di Venere potrebbe darci un’altra occasione unica per fare altre osservazioni e verificare la calibrazione dello strumento, oltre a fornirci importanti informazioni scientifiche del nostro pianeta gemello”.
“Oltre alla calibrazione – prosegue il ricercatore – le osservazioni durante il sorvolo offrono un importante contenuto scientifico. MAJIS ha fornito una copertura locale della superficie lunare con un dettaglio fino a circa 130 metri, dal visibile all’infrarosso termico. È stato possibile, ad esempio, confermare le prestazioni radiometriche dello strumento e identificare l’emissione termica e le radiazioni di riflettanza dovute ai mari lunari (o anche detti maria) e agli altopiani lunari”.
Lo strumento MAJIS. Crediti: Leonardo
Immagini infrarosse di MAJIS sovrapposte alla Terra. Crediti: ESA/Juice/MAJIS team (IAS, INAF, LPG/Osuna, CNES, ASI, ESA, e altri partner internazionali)
Una serie di 7 osservazioni effettuate in successione da MAJIS (su un totale di 19) acquisite durante il flyby della Terra il 20 agosto. La prima immagine rappresenta l’osservazione del lato notturno e termina con la parte diurna della Terra, corrispondente all’attraversamento del terminatore. Le variazioni di colore sono dovute alla presenza di nuvole e alle condizioni di illuminazione sopra l’Oceano Pacifico. La dimensione del pixel è compresa tra 1,3 e 1,5 km. Su alcune immagini (numero 4, 5 e 7) è stata applicata una selezione spaziale (una capacità molto utile dello strumento) per monitorare il potenziale segnale di luce parassita nei pixel fuori campo di MAJIS (colonne scure).
Crediti: ESA/Juice/MAJIS team (IAS, INAF, CNES, ASI, ESA e altri partner internazionali)
Una serie di 7 osservazioni effettuate in successione da MAJIS (su un totale di 19) acquisite durante il flyby della Terra il 20 agosto. La prima immagine rappresenta l’osservazione del lato notturno e termina con la parte diurna della Terra, corrispondente all’attraversamento del terminatore. Le variazioni di colore sono dovute alla presenza di nuvole e alle condizioni di illuminazione sopra l’Oceano Pacifico. La dimensione del pixel è compresa tra 1,3 e 1,5 km. Su alcune immagini (numero 4, 5 e 7) è stata applicata una selezione spaziale (una capacità molto utile dello strumento) per monitorare il potenziale segnale di luce parassita nei pixel fuori campo di MAJIS (colonne scure).
Crediti: ESA/Juice/MAJIS team (IAS, INAF, CNES, ASI, ESA e altri partner internazionali)
L’Oceano Pacifico visto da MAJIS il 20 agosto alle 21:36 da una distanza di 8700 km a diverse lunghezze d’onda selezionate per migliorare la variabilità della scena e la composizione. L’immagine 3 è stata acquisita nella lunghezza d’onda dell’infrarosso termico, che fornisce una mappa delle temperature della regione. Le macchie scure corrispondono a temperature più basse.
Crediti: ESA/Juice/MAJIS team (IAS, INAF, CNES, ASI, ESA e altri partner internazionali)
Una volta su Giove, MAJIS osserverà le nubi di Giove e analizzerà i ghiacci e i minerali sulle superfici di alcune delle sue lune. Le sue misurazioni sulla Terra stanno aiutando a preparare lo strumento per la massima efficienza scientifica su Giove dando anche un assaggio di ciò che MAJIS può fare in termini di identificazione di diverse molecole in un’atmosfera.
Crediti: ESA/Juice/MAJIS team (IAS, INAF, CNES, ASI, ESA e altri partner internazionali)
Immagine della Terra da MAJIS acquisita il 20 agosto alle 21:25 da una distanza di 11.250 km. La regione terrestre acquisita in questa immagine era completamente notturna e quindi completamente buia per una telecamera visibile. MAJIS può rilevare la luce anche nell’infrarosso termico, riuscendo così a vedere ciò che altrimenti è invisibile all’occhio umano. In questa immagine è utilizzata una combinazione di falsi colori per migliorare le diverse proprietà delle nuvole in termini di composizione e temperatura.
Crediti: ESA/Juice/MAJIS team (IAS, INAF, CNES, ASI, ESA e altri partner internazionali)
Uno zoom dell’immagine in figura 5.
Crediti: ESA/Juice/MAJIS team (IAS, INAF, CNES, ASI, ESA e altri partner internazionali)
Immagine infrarossa di MAJIS sovrapposta alla mappa lunare di sfondo (Crediti: NASA/USGS/SELENE), dalle alte terre lunari (terreni più chiari) al Mare Tranquillitatis (terreni più scuri). Crediti: ESA/Juice/MAJIS team (IAS, INAF, LPG/Osuna, CNES, ASI, ESA, e altri partner internazionali)
Spettro lunare ad alto rapporto segnale-rumore acquisito con i 2 canali di MAJIS (VI e IR) del Mare della Fecondità. L’emissione termica è modellata da un corpo nero di circa 320 K (47°C).
Crediti: ESA/Juice/MAJIS team (IAS, INAF, CNES, ASI, ESA e altri partner internazionali)
Piattaforma della sonda spaziale JUICE inclusa la testa ottica MAJIS (OH) vista dalla Juice Monitoring Camera durante il flyby della Luna il 19 agosto 2024. Crediti: ESA
Pur essendo molto simili a quelle che verranno effettuate attorno a Giove, le osservazioni effettuate da MAJIS nel sistema Terra-Luna sono state più impegnative: il flusso luminoso di Terra e Luna è molto più intenso rispetto a Giove, per la diversa distanza dal Sole; per evitare di saturare lo strumento, sono stati usati tempi di esposizione brevi e gestite condizioni termiche difficili, poiché MAJIS opera a -150°C per rilevare segnali deboli nell’infrarosso.
Le osservazioni della Terra effettuate durante il sorvolo sono composte da una serie di cubi di immagini acquisiti con risoluzioni spaziali dell’ordine del chilometro e risoluzione spettrale fino a 3,6 nanometri, coprendo una gamma di diverse geometrie di visione e illuminazione solare (dal lato notturno al lato diurno). Il procedimento di elaborazione ha poi previsto la creazione di un set di maschere per distinguere tra le diverse composizioni atmosferiche, utilizzando caratteristiche di riflettanza forti e consistenti specifiche delle singole topografie. MAJIS misura anche l’emissione termica, offrendo una vista spettacolare del lato notturno.
Questo e molto altro ci regalerà la missione JUICE all’arrivo nel sistema gioviano. Un recente articolo pubblicato sulla rivista Space Science Reviews, dal titolo “Characterization of the Surfaces and Near-Surface Atmospheres of Ganymede, Europa and Callisto by JUICE” e guidato da Federico Tosi dell’INAF di Roma, esplora lo stato attuale della ricerca sulle superfici e le sottili atmosfere dei satelliti ghiacciati di Giove – Ganimede, Europa e Callisto – basandosi su dati raccolti da missioni spaziali e osservazioni telescopiche. La missione JUICE dell’ESA giocherà, infatti, un ruolo chiave nell’approfondire la conoscenza di queste lune, studiandone la geologia, la composizione superficiale e i processi atmosferici, tra cui le misteriose emissioni di vapore d’acqua su Europa. L’articolo presenta anche mappe e misurazioni previste per ottimizzare le future osservazioni di JUICE.
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MAJIS è stato costruito da un consorzio franco-italiano guidato dall’Institut d’Astrophysique Spatiale (IAS) di Orsay, in Francia, e finanziato dal Centre National d’études Spatiales (CNES) e dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI). L’INAF ha coordinato la proposta originale dello strumento, selezionata da ESA a febbraio 2013, e in qualità di Istituto Co-PI ha poi seguito lo sviluppo del sostanziale contributo hardware italiano che riguarda la testa ottica costituita da telescopio e spettrometro, realizzati presso Leonardo (Campi Bisenzio, Firenze), e la valutazione delle performance attese. Lo strumento è stato assemblato e calibrato inizialmente presso Leonardo, poi presso IAS-Orsay. Infine, è stato alloggiato a bordo del satellite JUICE a dicembre 2021. I laboratori belgi supportati da Belspo sono stati coinvolti nella caratterizzazione dei rivelatori MAJIS.
Testo e immagini dall’Ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).