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Ritmo primordiale: cosa ci insegnano gli scimpanzé sulla musicalità umana

Uno studio, frutto della collaborazione tra la Sapienza, l’Università di St Andrews e l’Università di Vienna, ha dimostrato che gli scimpanzé selvatici tamburellano a ritmo producendo suoni diversi in base alla regione geografica dove vivono. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista “Current Biology”.

Gli alberi della foresta pluviale sono sostenuti da enormi radici che formano grandi contrafforti piatti. Su queste superfici gli scimpanzé tamburellano con mani e piedi per trasmettere segnali comunicativi che possono raggiungere anche un chilometro di distanza attraverso le foreste. Il tamburellare degli scimpanzé condivide alcune proprietà ritmiche con la musica umana e, proprio come esistono vari generi musicali, ci sono diversi stili di tambureggiamento negli scimpanzé.

Lo studio internazionale, pubblicato su “Current Biology” e condotto dalla Sapienza, dall’Università di St Andrews e dall’Università di Vienna, ha mostrato che le sottospecie di scimpanzé che vivono su differenti sponde dell’Africa producono ritmi diversi fra loro. Per giungere a questi risultati, gli autori hanno raccolto un dataset unico al mondo sui comportamenti percussivi degli scimpanzé provenienti da foreste pluviali, savane e boschi africani. Il team ha collezionato “performance” provenienti da undici comunità di sei diverse popolazioni di scimpanzé collocate sui versanti orientali e occidentali del continente.

“Abbiamo scoperto che, mentre gli scimpanzé dell’Africa occidentale spesso tamburellano in modo isocrono (regolare), gli scimpanzé dell’Africa orientale preferiscono alternare intervalli brevi e lunghi nel loro tamburellare; entrambe queste tendenze si osservano anche nella musica umana – spiega Vesta Eleuteri, autrice principale del lavoro – Gli scimpanzè dell’Africa occidentale usano anche tempi (i.e. battiti al minuto) più veloci dei loro cugini orientali”.

“Studi come il nostro aggiungono un tassello importante alla comprensione delle origini e dell’evoluzione della musicalità umana – afferma Andrea Ravignani della Sapienza e coautore senior della ricerca – Tutte le specie animali possono fornire informazioni utili per questa impresa ma i dati sugli scimpanzé sono particolarmente preziosi. Infatti, i risultati della ricerca suggeriscono che gli esseri umani condividono con questi primati almeno uno degli elementi cruciali del ritmo: il comportamento percussivo tipico della musicalità”.

“Il ritmo dà struttura alla musica e le culture umane tendono a creare musica con un’ampia varietà di ritmi musicali diversi – afferma Jelle van der Werff della Sapienza – Il più comune è l’isocronia, ovvero quando i suoni si susseguono con la stessa identica quantità di tempo tra loro: come il ticchettio di un orologio o la grancassa della batteria nella musica elettronica”.

Il nostro lavoro – afferma Catherine Hobaiter dell’Università di St. Andrews – fornisce elementi utili anche allo studio sulla conservazione della specie. Capire se diversi gruppi di scimpanzé “suonano” con ritmi diversi evidenzia il ruolo che assumono nella comunità: quando perdiamo un gruppo di scimpanzé, perdiamo anche i loro ritmi che rendono unico ogni gruppo”.

Questa ricerca assume non solo una valenza zoologica: grazie allo studio della mente di altre specie è possibile comprendere meglio quali delle nostre capacità neuro cognitive siano attribuibili tipicamente all’uomo.

Ritmo primordiale: cosa ci insegnano gli scimpanzé sulla musicalità umana Scimpanzé orientale maschio adulto della comunità di Sonso nella foresta di Budongo (Uganda). Copyright Catherine Hobaiter
Ritmo primordiale: cosa ci insegnano gli scimpanzé sulla musicalità umana. Scimpanzé orientale maschio adulto della comunità di Sonso nella foresta di Budongo (Uganda). Copyright Catherine Hobaiter

Riferimenti bibliografici:

Vesta Eleuteri, Jelle van der Werff, Wytse Wilhelm, Adrian Soldati, Catherine Crockford, Nisarg Desai, Pawel Fedurek, Maegan Fitzgerald, Kirsty E. Graham, Kathelijne Koops, Jill Pruetz, Liran Samuni, Katie Slocombe, Angela Stoeger, Michael L. Wilson, Roman M. Wittig, Klaus Zuberbühler, Henry D. Camara, Gnan Mamy, Andrea Ravignani, Catherine Hobaiter, “Chimpanzees drum rhythmically and with subspecies variation”, in “Current Biology” (2025) DOI: https://doi.org/10.1016/j.cub.2025.04.019

 

Testo, video e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Il suono degli zoccoli di un cavallo in movimento è tutta una questione di ritmo

Passo, trotto e galoppo: le andature equine seguono dei veri e propri modelli ritmici. Due studi condotti dalla Sapienza e dall’Università di Torino indagano sulla loro musicalità.

La sequenza degli zoccoli di un cavallo che colpiscono il terreno sembra intuitivamente ritmica, ma lo è davvero? Un team di ricercatori guidato da Marco Gamba dell’Università di Torino e da Andrea Ravignani della Sapienza Università di Roma, finanziato dal progetto ERC The Origins of Human Rhythm (TOHR), ha risposto a questa domanda in due studi pubblicati sul Journal of Anatomy e Annals of the New York Academy of Sciences mettendo in luce le somiglianze tra i ritmi della locomozione dei cavalli e quelli musicali. Questa connessione potrebbe spiegare perché le diverse andature equine – passo, trotto e galoppo – risultino così ritmiche e riconoscibili.

Il ritmo musicale in molte culture occidentali si basa su sequenze di intervalli temporali che seguono rapporti di numeri interi, ciascuno dei quali definisce una categoria ritmica. Una nota, per esempio, può durare quanto la precedente, oppure il doppio o il triplo. Negli ultimi anni, studi su diverse specie animali hanno già rivelato che simili rapporti si trovano nelle vocalizzazioni di altre specie, confermando il ruolo chiave di queste strutture temporali nella percezione del ritmo.

Per la prima volta, i ricercatori hanno dimostrato che anche l’andatura dei cavalli condivide queste stesse strutture temporali: gli intervalli tra zoccoli successivi che colpiscono il terreno sono caratterizzati da categorie ritmiche. In particolare, il passo e il trotto dei cavalli sono isocroni,  poiché il terreno è colpito a intervalli regolari, come il ticchettio di un orologio;  il galoppo, invece, presenta una sequenza di tre intervalli in cui il terzo dura il doppio degli altri due, vale a dire un pattern 1:1:2, richiamando il ritmo base del brano “We Will Rock You” dei Queen.

“Questo pattern di 1:1:2 incidentalmente si ritrova anche nell’Overture del Guglielmo Tell di Rossini. Forse questo spiega perché spesso questo brano venga usato come colonna sonora nei film in cui si vedono cavalli al galoppo”, dichiara Andrea Ravignani.

“Questi studi proseguono un filone di ricerca che vede unite le nostre Università al fine di indagare le caratteristiche ritmiche dei comportamenti di animali e umani, cercando di scovare similarità e differenze che sono ancora da interpretare per ciò che concerne il loro significato evolutivo”, aggiunge Marco Gamba.

Oltre alle categorie ritmiche, “un altro elemento fondamentale nella distinzione tra le andature dei cavalli è il tempo, ossia la velocità con cui si susseguono i battiti in un qualsiasi pattern ritmico, analogamente a quanto osserviamo tra diversi generi musicali” spiega Teresa Raimondi, postdoc di Sapienza Università di Roma.

In particolare, passo e trotto risultano facilmente distinguibili grazie alla maggiore durata degli intervalli, e quindi un pattern ritmico più lento nel trotto rispetto al passo.

“La scoperta di schemi ritmici comuni tra musica, comunicazione animale e locomozione rafforza l’idea che locomozione e controllo motorio possano aver giocato un ruolo cruciale nell’evoluzione del ritmo, sia nella comunicazione umana che in quella di altre specie”, conclude Lia Laffi, dottoranda dell’Università di Torino in collaborazione con la Fondazione Zoom.

I risultati delle due ricerche discriminano quantitativamente le andature dei cavalli in base al ritmo, rivelando sorprendenti comunanze con la musica umana e con alcuni segnali comunicativi animali. L’andatura e la ritmicità vocale condividono caratteristiche chiave, e la prima è probabilmente precedente alla seconda. La capacità di produrre e riconoscere ritmi legati alla locomozione potrebbe infatti aver costituito un preadattamento fondamentale per lo sviluppo di ritmi vocali più complessi in una fase evolutiva successiva. In particolare, la percezione della ritmicità locomotoria potrebbe essersi evoluta in diverse specie sotto la pressione del riconoscimento dei predatori e della selezione degli accoppiamenti; in seguito potrebbe essere stata adattata alla comunicazione vocale ritmica.

A questo sforzo di ricerca internazionale, hanno partecipato anche professori e ricercatori dell’Università di Medicina Veterinaria di Vienna, dell’Università di Copenaghen e dell’Istituto Italiano di Tecnologia.

 

Riferimenti bibliografici:

Laffi, L., Raimondi, T., Ferrante, C., Pagliara, E., Bertuglia, A., Briefer, E. F., Gamba, M., & Ravignani, A. (2024). “The rhythm of horse gaits”, Ann NY Acad Sci., 1–8. DOI: https://doi.org/10.1111/nyas.15271

Laffi, L., Bigand, F., Peham, C.,Novembre, G., Gamba, M. & Ravignani, A. (2024) “Rhythmic categories in horse gait kinematics”, Journal of Anatomy, 00,1–10. DOI: https://doi.org/10.1111/joa.14200

Il suono degli zoccoli di un cavallo in movimento è tutta una questione di ritmo, secondo due studi appena pubblicati. Un cavallo (Equus ferus caballus) frisone. Foto di Andizo [1], CC BY-SA 3.0
Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Perché umani e animali preferiscono suoni consonanti: scoperta la radice biologica


Uno studio coordinato dall’Università degli Studi di Trieste, in collaborazione con la Sapienza Università di Roma, dimostra la radice biologica della preferenza di umani e animali per i suoni consonanti, questi ultimi alla base dei segnali sociali. Lo studio è su Biology Letters.

 

I ricercatori del dipartimento di scienze della vita dell’Università degli Studi di Trieste, in collaborazione con la Sapienza Università di Roma, hanno scoperto che la preferenza delle specie animali, umane e non umane, per i suoni consonanti sarebbe in parte determinata fisiologicamente. L’ipotesi all’origine dello studio, condotto su centotrenta pulcini implumi, è che gli elementi costitutivi delle capacità musicali – di umani e animali – abbiano una radice biologica, condivisa tra specie anche filogeneticamente distanti, e non dipendono già solo dalla cultura e dall’esperienza musicale.

“Ricerche precedenti dell’Università degli Studi di Trieste già avevano condotto alla scoperta della preferenza dei pulcini, come di altre specie, per i cosiddetti intervalli musicali consonanti. Questi ultimi, infatti, sono quelli che più assomigliano al suono prodotto dagli esseri viventi, mentre quelli dissonanti richiamano la minor armonia dei suoni ambientali” spiega Andrea Ravignani, professore ordinario di psicologia generale presso il Dipartimento di Neuroscienze umane della Sapienza Università di Roma. “Allora non se ne conoscevano le ragionioggi, invece, sappiamo – grazie a studi condotti insieme, Università degli Studi di Trieste e Sapienza Università di Roma – che gli intervalli consonanti vengono prodotti in segnali sociali di tipo acustico”.

La ricerca è stata condotta su centotrenta pulcini implumi; una volta schiusi, i pulcini – che non necessitano di alcuna cura parentale, né per sviluppare il repertorio vocale né per deambulare – sono stati allevati per quattro giorni, a coppie, in gabbie rettangolari a temperatura ambiente controllata.

Per ogni pulcino sono stati registrati in arene insonorizzate i seguenti richiami: di contatto emesso dal pulcino quando prova disagio perché, ad esempio, separato dalla chioccia, di covata emesso in situazioni piacevoli e di cibo emesso quando il pulcino identifica una fonte di cibo redditizia. Questi richiami fanno parte di un complesso codice vocale che i pulcini sviluppano dalla schiusa all’età adulta per comunicare i loro bisogni agli altri conspecifici e per esprimere la natura positiva o negativa di una situazione che stanno vivendo.

I ricercatori hanno stimolato la produzione di ciascun tipo di richiamo da parte dei pulcini ricreando gradualmente la situazione naturale associata a ciascuno di essi. In particolare, hanno registrato: i richiami di contatto, lasciando soli i pulcini nell’arena vuota dopo averli separati dal compagno di allevamento e dall’oggetto per l’imprinting; i richiami di covata, inserendo un oggetto per l’imprinting al centro dell’arena dopo l’isolamento iniziale; i richiami di cibo, posizionando un piatto di cibo al centro dell’arena dopo aver rimosso l’oggetto per l’imprinting.

Analizzati i picchi minimi e massimi delle frequenze fondamentali e calcolatone il rapporto, lo studio ha rivelato una prevalenza di consonanza perfetta in tutti i tipi di richiamo, a conferma dell’idea che i suoni consonanti siano intrinsecamente presenti nella comunicazione animale. Le sole dissonanze registrate sono state rinvenute in situazioni di particolare distress, quali ad esempio contesti d’isolamento.

“Questa ricerca potrebbe aprire ad applicazioni promettenti: un pulcino che emette un suono con una certa frequenza verosimilmente sta indicando un certo tipo di situazione e oggi sappiamo che i richiami più armonici sono quelli emessi nelle situazioni più piacevoli” spiega Cinzia Chiandetti, professore associato di psicobiologia presso il dipartimento di scienze della vita dell’Università degli Studi di Trieste. “A seconda della dominanza di consonanze o dissonanze, potremo arrivare a comprendere lo status emotivo dell’animale associato al contesto in cui si trova: non siamo poi così lontani dal poter immaginare dispositivi in grado di registrare i richiami e restituire il livello di comfort o stress dell’animale che ci troviamo di fronte, anche dei polli che, come direbbe lo scrittore Andrew Lawler, sono gli uccelli che hanno alimentato la civiltà” conclude l’esperta.

Riferimenti bibliografici:

Maldarelli GianmarcoDissegna AndreaRavignani Andrea e Chiandetti Cinzia, Chicks produce consonant, sometimes jazzy, sounds, Biol. Lett. (2024)  2020240374, DOI: http://doi.org/10.1098/rsbl.2024.0374

Foto di Philipp Kleindienst

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Le basi della musicalità nella connessione delle reti cerebrali 

Un nuovo studio, frutto della collaborazione tra Sapienza Università di Roma e l’Università di Aarhus in Danimarca, ha adottato un approccio innovativo nell’analisi delle basi neurobiologiche delle abilità musicali e ha dimostrato che le differenze individuali dipendono da connessioni più o meno forti tra le regioni frontali e parietali del cervello aventi un ruolo cruciale nella memoria di lavoro.

L’attitudine umana alla musica è un fenomeno affascinante e complesso che ha stimolato l’interesse scientifico per decenni. Nel tentativo di analizzare le basi neurobiologiche delle abilità musicali, molti ricercatori hanno focalizzato l’attenzione sulle differenze individuali nella struttura e nella funzione di specifiche aree cerebrali, come le aree uditive per l’analisi dei suoni. Questo approccio, mirato a correlare variazioni in regioni cerebrali isolate con la diversità delle competenze musicali nelle popolazioni umane, ha tuttavia prodotto risultati insoddisfacenti e difficili da replicare.

Un recente studio, frutto della collaborazione fra il Dipartimento di Neuroscienze umane della Sapienza Università di Roma e il Dipartimento di Medicina clinica dell’Università di Aarhus in Danimarca, pubblicato sulla rivista Nature Communications, ha adottato un approccio innovativo. Anziché concentrarsi su singole aree cerebrali, il team ha esaminato l’organizzazione della connettività tra queste regioni, ossia come le diverse parti del cervello comunicano tra loro.

Analizzando immagini cerebrali insieme a dati cognitivi e musicali provenienti da un ampio campione di oltre 200 individui, i ricercatori hanno ricostruito le reti di connettività cerebrale. Utilizzando la teoria dei grafi – un metodo matematico che studia le proprietà delle reti – hanno scoperto una relazione significativa tra le abilità musicali e l’organizzazione di una rete che collega le regioni frontali e parietali del cervello, note per il loro ruolo cruciale nella memoria di lavoro. Minime differenze nell’organizzazione del nostro cervello potrebbero manifestarsi come variazioni nel comportamento musicale. Queste differenze, amplificate attraverso la trasmissione culturale, potrebbero contribuire alla diversità delle tradizioni musicali che osserviamo nelle varie culture umane.

“Abbiamo osservato – spiega Massimo Lumaca dell’Università di Aarhus – che la capacità di una specifica regione frontale di comunicare efficacemente con altre aree della rete cerebrale è significativamente associata sia alle prestazioni nella memoria di lavoro sia alle competenze musicali. Questo suggerisce che i meccanismi neurali alla base della musicalità non sono isolati al dominio musicale, ma coinvolgono processi cognitivi generali utilizzati in vari contesti”.

“Questo é un primo passo verso un quadro multidisciplinare della musica umana – commenta Andrea Ravignani della Sapienza – Ai secoli di ricerca delle scienze umane in tema musica, si aggiungono i nostri risultati che offrono una prospettiva complementare su cosa significhi biologicamente fare o percepire la musica”.

La ricerca apre nuove prospettive nello studio sulle fondamenta biologiche della musicalità umana e sulla sua variabilità tra individui e culture. Inoltre questi risultati potrebbero avere importanti applicazioni pratiche in ambiti quali l’educazione musicale e la neuroterapia e guidare lo sviluppo di interventi mirati, attraverso tecniche di stimolazione cerebrale per potenziare le competenze musicali o migliorare le funzioni cognitive.

Riferimenti bibliografici:

Frontoparietal network topology as a neural marker of musical perceptual abilities – Lumaca, M., Keller, P.E., Baggio, G., Pando-Naude, V., Bajada, C.J., Martinez, M.A., Hansen, J.H., Ravignani, A., Joe, N., Vuust, P. and Vulić, K., Nature Communications 2024, DOI: https://doi.org/10.1038/s41467-024-52479-z

Le basi della musicalità nella connessione delle reti cerebrali, secondo un nuovo studio pubblicato su Nature Communications. Immagine di Tumisu

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Somiglianze e differenze interculturali fra musica e linguaggio parlato

Uno studio internazionale che ha coinvolto ricercatori di 46 paesi, fra cui un team della Sapienza Università di Roma, ha analizzato le relazioni tra parole, canzoni e musica strumentale nelle varie culture del globo. I risultati, pubblicati su Science Advances, suggeriscono una maggiore regolarità della musica rispetto alla lingua parlata, legata alla formazione di legami sociali attraverso l’esecuzione collettiva.

Nonostante musica e linguaggio siano presenti in ogni società umana, fino ad oggi le somiglianze e le differenze tra lingua parlata, canzoni e composizioni strumentali non erano state oggetto di un confronto analitico.

Un nuovo studio internazionale che ha coinvolto 75 ricercatori provenienti da 46 paesi, fra cui un team della Sapienza Università di Roma, ha analizzato le relazioni tra parole, canzoni e musica strumentale nelle varie culture del globo, portando alla luce come, salvo rare eccezioni, i ritmi delle canzoni e delle melodie strumentali siano più lenti di quelli del parlato, mentre le frequenze della musica sono più alte e più stabili.

Secondo lo studio pubblicato su Science Advances, questa differenza potrebbe avere una spiegazione di natura sociale: la maggiore regolarità del canto favorisce la sincronizzazione e attraverso di essa i legami sociali, per esempio attraverso l’esecuzione corale in grandi gruppi. L’intento finale è quello di fare luce sull’evoluzione culturale e biologica di due sistemi tipicamente umani, il linguaggio e la musica.

Attingendo alle reti accademiche per una portata globale sono stati reclutati ricercatori in Asia, Africa, America, Europa e Oceania per cantare, eseguire brani strumentali, recitare testi e descrivere canzoni, fornendo campioni audio da analizzare per caratteristiche quali intonazione, timbro e ritmo. Le lingue dei partecipanti, includevano italiano, fiammingo, yoruba, mandarino, hindi, ebraico, arabo, ucraino, russo, balinese, cherokee, kannada, spagnolo, aynu, per un totale di 55 rappresentate.

Nel team della Sapienza Andrea Ravignani ha suonato il suo sassofono tenore e ha cantato in italiano, mentre Yannick Jadoul ha suonato il piano e cantato in fiammingo.

“È sorprendente vedere ricercatori delle scienze sociali, umane e naturali lavorare insieme su un obiettivo comune, ciascuno fornendo un pezzo del puzzle in base alle proprie competenze” commenta Andrea Ravignani.

Gli estratti audio raccolti sono stati analizzati digitalmente, ottenendo conferma di alcune ipotesi precedentemente formulate: rispetto al parlato, il canto utilizza una tonalità più alta e più stabile e un ritmo più lento mentre i due linguaggi si equivalgono in termini di intervalli tra tonalità diverse e brillantezza del timbro.

“Questa ricerca mostra il potenziale dell’unione tra i metodi computazionali avanzati per l’analisi acustica, una delle mie aree di ricerca, e le insostituibili conoscenze delle discipline umanistiche e delle scienze sociali” spiega Yannick Jadoul.

 

Riferimenti bibliografici: 

Yuto Ozaki, Adam Tierney et al., Globally, songs and instrumental melodies are slower and higher and use more stable pitches than speech: A Registered Report, Science Advances, DOI: 10.1126/sciadv.adm9797

musica linguaggio parlato
Somiglianze e differenze interculturali fra musica e linguaggio parlato al centro di un nuovo studio su Science Advances. Foto di Lee Murry

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Perché i cani scodinzolano? 

Uno studio della Sapienza Università di Roma indaga sulle risposte possibili a partire dal processo evolutivo

Vi siete mai chiesti perché i cani scodinzolano e perché agli esseri umani piace questo comportamento? I cani domestici sono definiti i “migliori amici dell’uomo”: un terzo di tutte le famiglie del mondo ne possiedono uno e la nostra convivenza è iniziata circa 35 000 anni fa. Molti dei loro comportamenti, tuttavia, rimangono un enigma scientifico. Un team di ricercatori di Torino, Vienna e Nimega, coordinati dal professor Andrea Ravignani della Sapienza ha condotto uno studio pubblicato sulla rivista Biology Letters che riassume i risultati dei lavori finora realizzati su meccanismi, ontogenesi, evoluzione e funzione dello scodinzolio nei cani domestici.

L‘addomesticamento – quello del cane probabilmente è iniziato durante il Paleolitico superiore – è un processo lungo che porta a una serie di cambiamenti fisiologici, morfologici e comportamentali derivanti da un’interazione ecologica: una specie gestisce attivamente la sopravvivenza e la riproduzione di un’altra, che garantisce risorse e servizi alla prima.

Nei cani e in alcuni altri mammiferi, questi cambiamenti possono riguardare la depigmentazione della pelliccia, la riduzione delle dimensioni dello scheletro facciale e dei denti, le dimensioni e le proporzioni generali del corpo, la comparsa di attributi fisici come le orecchie flosce e la coda arricciata, la riduzione dell’aggressività, l’aumento della docilità e la variazione dei livelli ormonali con conseguenti cambiamenti comportamentali, come una ridotta risposta allo stress. Inoltre, studi comparativi tra lupi e cani hanno dimostrato che il processo di addomesticamento ha plasmato la cognizione e la socievolezza dei cani sia nelle interazioni cane-cane sia in quelle cane-uomo.

Le diverse ipotesi che hanno cercato di spiegare come si siano verificati questi cambiamenti, sono riconducibili a due processi: le caratteristiche desiderabili nelle specie addomesticate sono principalmente il risultato dell’adattamento a un ambiente dominato dall’uomo, e cioè un sottoprodotto di selezione per altre caratteristiche, oppure essere frutto della selezione genetica operata dall’uomo in modo diretto. In particolare, lo scodinzolio potrebbe essere emerso durante il processo di addomesticamento seguendo due strade: o come sottoprodotto della selezione di altri tratti, come la docilità, o come tratto direttamente selezionato dall’uomo il quale è attratto dai movimenti ripetitivi e ritmici.

Nel primo caso, esisterebbe un legame genetico tra la docilità e l’anatomia della coda: le selezioni iniziali per la docilità possono aver determinato alterazioni delle cellule della cresta neurale durante lo sviluppo, con ripercussioni su vari tratti fenotipici, tra cui appunto l’anatomia della coda. Ciò è in linea con i risultati di un esperimento a lungo termine che ha cercato di replicare il processo di addomesticamento dei mammiferi e di seguire i cambiamenti nel comportamento, nella genetica e nello sviluppo. L’esperimento è stato condotto su volpi argentate (Vulpes vulpes) allevate per 40 generazioni e selezionate direttamente per addomesticabilità e docilità. La popolazione di volpi risultante mostrava tratti comportamentali, fisiologici e morfologici simili a quelli osservati nei cani: sebbene il comportamento scodinzolante non sia stato selezionato direttamente, le volpi addomesticate mostravano un comportamento scodinzolante simile a quello dei cani e avevano code più arricciate. Questo avvalorerebbe l’ipotesi che il processo di addomesticamento abbia portato a cambiamenti a livello comportamentale e anatomico che hanno alterato il comportamento scodinzolante dei cani, tanto che questi ultimi scodinzolano più spesso e in più contesti rispetto ai canidi non addomesticati.
La seconda ipotesi è invece quella dello “scodinzolio ritmico addomesticato”: il comportamento scodinzolante potrebbe essere stato uno degli obiettivi del processo di addomesticamento, con gli esseri umani che hanno (non) consapevolmente selezionato i cani che scodinzolavano più spesso e, potenzialmente, più ritmicamente. Infatti, prove multidisciplinari dimostrano che gli esseri umani hanno notevoli capacità di percepire e produrre sequenze ritmiche, in particolare schemi isocroni in cui gli eventi sono uniformemente distanziati nel tempo. Non è ancora chiaro come questa caratteristica comportamentale sia comparsa nell’uomo, ma le neuroscienze cognitive dimostrano che il cervello umano preferisce gli stimoli ritmici, che innescano risposte piacevoli e coinvolgono le reti cerebrali che fanno parte del sistema di ricompensa. Questa propensione per i ritmi isocroni potrebbe aver guidato la selezione umana per il vistoso scodinzolio ritmico nei cani e potrebbe spiegare perché i cani lo mostrano così spesso nelle interazioni uomo-cane.
Secondo entrambe le ipotesi, la selezione del comportamento scodinzolante potrebbe non essere stata uniforme tra le varie razze; ad esempio, i cani da caccia scodinzolano di più dei cani da pastore, e hanno subito pressioni selettive diverse nel corso dell’addomesticamento.
“La combinazione di tecniche di analisi comportamentale, di visione computerizzata e di fisiologia con le neuroscienze, potrà aiutare a distinguere tra i movimenti della coda sotto controllo, quindi sotto possibile selezione, da quelli derivanti da meri effetti meccanici come ad esempio, la punta della coda che si muoverebbe come conseguenza del fatto che più porzioni craniali della coda sono state sottoposte ad un’azione di selezione”
spiega Andrea Ravignani, professore ordinario di Psicologia generale
“Un’indagine più sistematica e approfondita sullo scodinzolio non solo permetterà di mappare meglio questa iconica manifestazione comportamentale del cane, ma fornirà anche indiretta sull’evoluzione dei tratti umani, come la percezione e la produzione di stimoli ritmici”.

Riferimenti:
Why do dogs wag their tails? Silvia Leonetti, Giulia Cimarelli, Taylor A. Hersh, Andrea Ravignani
Biology Letters – DOI: 
https://doi.org/10.1098/rsbl.2023.0407

 

cani scodinzolano
Foto di danielle828

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

 

PERCHÈ I CANI SCODINZOLANO? UNA RICERCA DELL’UNIVERSITÀ DI TORINO INDAGA SULLE RAGIONI DI QUESTO COMPORTAMENTO ENIGMATICO

Lo studio, condotto in collaborazione con le Università di Roma, Vienna e il Max Planck Institute for Psycholinguistics, riassume le ricerche esistenti riguardo i meccanismi, l’evoluzione e la funzione dello scodinzolio dei cani domestici.

cane Coda

Oggimercoledì 17 gennaio, sulla rivista Biology Letters, è stata pubblicata la ricerca intitolata “Why do dogs wag their tails?”, condotta dalla Dott.ssa Silvia Leonetti del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino, in collaborazione con l’Università di Roma La Sapienza, l’Università di Medicina Veterinaria di Vienna e il Max Planck Institute for Psycholinguistics. In questo lavoro vengono riassunte le ricerche che hanno indagato i meccanismi, l’evoluzione e la funzione dello scodinzolio nei cani domestici e vengono inoltre avanzate due ipotesi evolutive per spiegare l’insorgenza di questo comportamento evidente ma scientificamente ancora poco chiaro.

I cani domestici sono i carnivori più diffusi al mondo. Con una popolazione stimata di un miliardo di individui sono presenti in quasi tutte le aree abitate dall’uomo, una convivenza iniziata circa 35mila anni. Molti dei loro comportamenti, tuttavia, rimangono un enigma scientifico, come ad esempio il loro scodinzolio. Le code sono comuni a tutti i vertebrati e si sono originariamente evolute per la locomozione; molti animali le usano anche per l’equilibrio e per scacciare i parassiti. Nei canidi, le code non sono più utilizzate per la locomozione, ma piuttosto per la comunicazione rituale.

La coda dei cani è un’estensione della colonna vertebrale, ma si sa poco di come i suoi movimenti siano controllati a livello neurofisiologico. Si tratta di un comportamento asimmetrico, con i cani che mostrano movimenti lateralizzati a seconda degli stimoli che incontrano. Ciò suggerisce una lateralizzazione cerebrale, con una tendenza a scodinzolare sul lato destro, determinata dall’attivazione dell’emisfero sinistro, per gli stimoli che hanno una valenza emotiva positiva (es: quando viene mostrato il padrone o una persona familiare). Al contrario, mostrano uno scodinzolio orientato a sinistra, quindi l’attivazione dell’emisfero destro, per gli stimoli che suscitano ritiro (es: quando viene mostrato un cane sconosciuto e dominante o in situazioni di aggressività).

Associare lo scodinzolio all’eccitazione, sia positiva che negativa, suggerisce una correlazione con gli ormoni e i neurotrasmettitori legati a questo tipo di reazione. Ad esempio, esistono prove indirette che collegano l’ossitocina allo scodinzolio, soprattutto quando i cani si riuniscono a un umano familiare. Tuttavia, le associazioni tra il comportamento scodinzolante e i livelli di cortisolo non sono coerenti tra gli studi. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che i livelli di cortisolo basale possono variare con molti altri parametri (sesso, razza, età e storia di vita del cane). In aggiunta, le incongruenze del passato possono essere dovute al fatto che lo scodinzolio viene tipicamente analizzato come un’unica categoria comportamentale, senza tener conto della sua natura multidimensionale e dei suoi parametri.

“Nessuno studio – dichiara Silvia Leonetti – ha seguito lo sviluppo del comportamento scodinzolante nello stesso individuo per tutta la vita. Solo in un caso, tuttavia, sono state quantificate diverse caratteristiche comportamentali dei cuccioli di cane e di lupo, compreso lo scodinzolio. I cuccioli di entrambe le specie sono stati allevati e poi testati per verificare la loro preferenza per l’uomo che li accudisce rispetto ad altri stimoli. I cuccioli di cane di quattro-cinque settimane hanno iniziato a scodinzolare frequentemente e a manifestare preferenze per la persona che li accudiva. I cuccioli di lupo, invece, scodinzolavano molto meno”.

Sia il movimento della coda che la sua posizione trasmettono informazioni nelle interazioni cane-cane, cane-uomo e cane-oggetto. Tra i canidi, lo scodinzolio con un portamento basso è spesso usato come segno visivo di acquiescenza, sottomissione o intento non aggressivo. La combinazione di scodinzolio e portamento della coda sembra un affidabile indicatore di status di sottomissione e subordinazione formale nelle interazioni cane-cane. Lo scodinzolio è usato anche come segnale di acquiescenza o di affiliazione nelle interazioni cane-uomo. Uno studio ha rilevato che durante le situazioni di rifiuto del cibo, i cani scodinzolavano di più quando era presente un umano rispetto a quando non lo era, suggerendo che lo scodinzolio può funzionare anche come segnale di richiesta.

Una chiave per comprendere meglio le ragioni dello scodinzolio canino potrebbe essere la domesticazione, un lungo processo che porta a una serie di cambiamenti fisiologici, morfologici e comportamentali nelle specie addomesticate.

“L’addomesticamento del cane – prosegue Leonetti – è probabilmente iniziato durante il Paleolitico superiore. I cambiamenti associati alla domesticazione includono: depigmentazione della pelliccia, riduzione delle dimensioni dello scheletro facciale e dei denti, cambiamenti nelle dimensioni e nelle proporzioni generali del corpo, comparsa di attributi fisici come le orecchie flosce e la coda arricciata, riduzione delle dimensioni del cervello, riduzione dell’aggressività, aumento della docilità e la variazione dei livelli ormonali con conseguenti cambiamenti comportamentali”.

Diverse ipotesi hanno cercato di spiegare come si siano verificati questi cambiamenti. Secondo l’ipotesi della “sindrome da domesticazione”, esso può portare all’emergere di tratti geneticamente collegati ma inaspettati, che sono sottoprodotti di una selezione per un altro tratto, come ad esempio la docilità o la socievolezza nei confronti dell’uomo. Ciò potrebbe essere dovuto a un legame genetico tra la selezione per la docilità e l’anatomia della coda. Ad esempio, le selezioni iniziali per la docilità potrebbero aver portato ad alterazioni delle cellule della cresta neurale durante lo sviluppo, con ripercussioni su vari tratti fenotipici, tra cui l’anatomia della coda.

In alternativa, il comportamento scodinzolante potrebbe essere stato un obiettivo del processo di domesticazione, con gli esseri umani che hanno selezionato i cani che scodinzolavano più spesso e, potenzialmente, in modo più ritmico. Questa è l’ipotesi dello “scodinzolio ritmico addomesticato”. Molti studi multidisciplinari dimostrano che gli esseri umani hanno notevoli capacità di percepire e produrre sequenze ritmiche, in particolare schemi isocroni in cui gli eventi sono equamente spaziati nel tempo. Questa propensione per i ritmi isocroni potrebbe aver guidato la selezione umana per il vistoso scodinzolio ritmico, spiegando perché i cani lo mostrano così spesso nelle interazioni uomo-cane.

Secondo entrambe le ipotesi, la selezione del comportamento scodinzolante potrebbe non essere stata uniforme tra le varie razze; ad esempio, i cani da caccia scodinzolano di più dei cani da pastore, e hanno anche subito una selezione diversa per quanto riguarda lo scodinzolio. Ciò dimostra che lo scodinzolio sia un tratto multidimensionale che può differire in base a vari parametri, tra cui il portamento della coda, la direzione e la velocità. In teoria, ogni parametro del movimento della coda potrebbe essere sottoposto a diversi livelli di controllo neurale, avere funzioni diverse e/o trasmettere informazioni diverse.

“Lo scodinzolio dei cani – conclude Leonetti – è un comportamento evidente ma scientificamente sfuggente. La sua unicità, complessità e ubiquità sono potenzialmente associate a molteplici funzioni, ma i suoi meccanismi e la sua ontogenesi sono ancora poco conosciuti. Queste lacune ci impediscono di comprendere appieno la storia evolutiva del moderno comportamento scodinzolante e il ruolo svolto dall’uomo in questo processo. Un’indagine più sistematica e approfondita sullo scodinzolio non solo permetterà di mappare meglio questa iconica manifestazione comportamentale del cane, ma fornirà anche informazioni indirette sull’evoluzione dei tratti umani, come la percezione e la produzione di stimoli ritmici”.

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

COORDINAZIONE E REGOLARITÀ RITMICA TIPICAMENTE UMANE TROVATE IN UN ALTRO PRIMATE

I ricercatori dell’Università di Torino, studiando canti di gibboni in natura e in cattività, hanno riscontrato somiglianze ritmiche con gli esseri umani e con altre specie di primati

Foto di Giovanni Di Panfilo

Oggi, mercoledì 11 gennaio 2023, sulla prestigiosa rivista scientifica Proceedings of the Royal Society B è stato pubblicato l’articolo “Isochrony and rhythmic interaction in ape duetting”, coordinato dai ricercatori dell’Università di Torino, della King Mongkut’s University of Technology Thonburi di Bangkok e dell’Istituto Max Planck di Psicolinguistica di Nijmegen. Attraverso questa ricerca gli autori hanno studiato le vocalizzazioni dei gibboni dalle mani bianche, tra i più famosi primati che cantano duettando, registrate sia in alcuni parchi zoologici italiani, sia nelle foreste della Thailandia.

I ricercatori hanno osservato come questi canti posseggano delle regolarità ritmiche in parte simili a quelli della musica umana. Questa scoperta si inserisce in un progetto a lungo termine dell’Università di Torino e dell’Istituto Max Planck di Psicolinguistica sui tratti musicali condivisi da specie diverse. Questo filone di ricerca ha come obiettivo quello di far luce sulla biologia e l’evoluzione di ritmo e musica nella nostra specie.

Il team di ricerca internazionale, guidato dai ricercatori senior Marco Gamba (Università di Torino), Tommaso Savini (King Mongkut’s University) e Andrea Ravignani (Max Planck Institute), si è messo alla ricerca di abilità musicali nei primati.

“Da molto tempo cerchiamo di capire quali tratti della musicalità siano condivisi tra specie diverse – dichiara Andrea Ravignani – ma lo studio degli aspetti ritmici del canto dei primati è davvero agli albori. In questo studio abbiamo indagato il legame tra isocronia, quanto un ritmo individuale è regolare, e sincronia, quanto due individui si coordinano ritmicamente, in un animale non umano”.

Una parte del gruppo di ricerca si era già occupata dei canti di un altro primate cantante, il lemure Indri indri del Madagascar, ma i ricercatori volevano confrontare quei risultati con una specie di primate antropomorfo, come i gibboni. Inoltre, avevano come obiettivo quello di far luce sugli effetti di interazione che si manifestano durante i duetti di questi gibboni.

“La presenza di ritmi categorici, come l’isocronia, – dichiara Teresa Raimondi, dottoranda di Scienze Biologiche e Biotecnologie Applicatee prima autrice del lavoro – è una caratteristica musicale universale presente in tutte le culture umane che qui osserviamo anche in un primate antropomorfo come il gibbone larAbbiamo anche dimostrato che l’aumento della frequenza di emissione delle vocalizzazioni durante il canto è legata complessivamente ad un aumento dell’isocronia, suggerendo che i vincoli fisiologici respiratori svolgono un ruolo nel determinare la struttura ritmica del canto”.

Foto di Giovanni Di Panfilo

Giovanni Boris Di Panfilo ha registrato i canti dei gibboni dalle mani bianche allo Huai Kha Khaeng Wildlife Sanctuary in Thailandia, Matteo Pasquali e Martina Zarantonello, come Di Panfilo, studenti della laurea magistrale Evoluzione del Comportamento Animale e dell’Uomo, hanno invece lavorato su gruppi familiari in cattività presso il Parco Zoo Falconara e il Parco Faunistico Cappeller vicino a Bassano del Grappa.

“L’isocronia appare anche modulata a seconda del contesto di emissione. – dichiara Marco Gamba, docente del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi dell’Università di Torino – Questi animali paiono essere più isocroni quando duettano rispetto a quando cantano da soli. Abbiamo anche osservato una causalità statistica tra le note di un individuo e le note di un altro individuo. Questi studi aprono nuove prospettive di indagine in ottica comparativa e partecipano alla costruzione di un mosaico delle capacità musicali nelle specie animali”.

Coordinazione e regolarità ritmica tipicamente umane trovate in un altro primate, nei gibboni dalle mani bianche
Coordinazione e regolarità ritmica tipicamente umane trovate in un altro primate, nei gibboni dalle mani bianche. Foto di Giovanni Di Panfilo

Articolo:

Raimondi T, Di Panfilo G, Pasquali M, Zarantonello M, Favaro L, Savini T, Gamba M, Ravignani A. 2022 Isochrony and rhythmic interaction in ape duetting. Proc. R. Soc. B 20222244. https://doi.org/10.1098/rspb.2022.2244

 

Testo e foto dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino

IL SENSO DEL RITMO DEI “LEMURI CANTANTI” DEL MADAGASCAR, COSÌ SIMILI AGLI UMANI

Per 12 anni i ricercatori dell’Università di Torino hanno studiato i canti di questi primati a rischio estinzione, riscontrando categorie ritmiche simili a quelle della musica umana

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Il senso del ritmo negli indri, lemuri cantanti del Madagascar. Credits: Filippo Carugati

Oggi, lunedì 25 ottobre, sulla rivista scientifica Current Biology è stato pubblicato l’articolo “Categorical rhythms in a singing primate”, firmato dai ricercatori dell’Università di Torino, dell’ENES Lab di Saint-Etienne e dell’Istituto Max Planck di Psicolinguistica di Nijmegen. Attraverso questa ricerca gli autori hanno studiato gli indri, i ‘primati cantanti’ del Madagascar. I loro canti, registrati nelle foreste pluviali montane, possiedono categorie ritmiche simili a quelle della musica umana. La scoperta di tratti musicali condivisi da specie diverse può fare luce sulla biologia e l’evoluzione di ritmo e musica.

Credits: Filippo Carugati

Mentre gli uccelli canori possiedono, come l’uomo, il senso del ritmo, nei mammiferi questa è una caratteristica rara. Un team di ricerca internazionale guidato dai ricercatori senior Marco Gamba (Università di Torino) e Andrea Ravignani (Max Planck Institute) si è messo alla ricerca di abilità musicali nei primati.

 “C’è un interesse di lunga data nel cercare di capire come si è evoluta la musicalità umana – dichiara Andrea Ravignani – ma questo tratto non è in realtà presente solo negli esseri umani. Cercare abilità musicali in altre specie ci permette sia di costruire un albero evolutivo di queste caratteristiche, sia di capire come le capacità ritmiche si sono originate ed evolute negli umani”.

Per capire se altri mammiferi, oltre a noi, possiedono il senso del ritmo, il team ha deciso di studiare uno dei pochi primati “cantanti”, il lemure Indri indri, al momento in pericolo critico di estinzione. I ricercatori, in particolare, volevano capire se i canti di indri possedessero ritmi categorici, una caratteristica musicale universale presente nelle culture umane. Un ritmo si può definire categorico quando gli intervalli tra un suono e l’altro hanno esattamente la stessa durata (ritmo 1:1) o l’uno è il doppio dell’altro (ritmo 1:2). Nella musica, questo tipo di ritmo rende una melodia facilmente riconoscibile, anche se eseguita a velocità diverse. Gli indri, dunque, possiedono questi ritmi tipicamente umani?

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Il senso del ritmo negli indri, lemuri cantanti del Madagascar. Credits: Filippo Carugati

Per dodici anni i ricercatori di Torino hanno effettuato spedizioni nelle foreste pluviali del Madagascar, collaborando con un gruppo locale che si occupa della protezione e studio dei primati. I ricercatori hanno registrato i canti di venti diversi gruppi di indri (39 animali in tutto) nel loro habitat naturale. Ogni membro di un gruppo famigliare di indri canta insieme agli altri in duetti e cori coordinati. Il team ha scoperto che questi canti possiedono effettivamente le due classiche categorie ritmiche (1:1 e 1:2), insieme ad un peculiare ritandando tipico di diverse tradizioni musicali. Inoltre, nonostante maschi e femmine cantino secondo tempi diversi, essi possiedono lo stesso ritmo.

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Il senso del ritmo negli indri, lemuri cantanti del Madagascar. Credits: Filippo Carugati

Secondo la prima autrice Chiara De Gregorio e i suoi colleghi, questa è la prima evidenza della presenza di un “universale musicale” in un mammifero che non sia l’uomo. Perché un altro primate, oltre a noi, produce ritmi categorici che somigliano a quelli che caratterizzano la musica umana? Visto che l’ultimo antenato comune tra indri e umani risale a 77.5 milioni di anni fa, questa abilità potrebbe essersi evoluta in maniera indipendente tra specie “cantanti”. Il ritmo, infatti, potrebbe rendere più semplice non solo la produzione e il processamento dei canti, ma anche il loro apprendimento.

“I ritmi categorici – spiega Ravignani – sono solo uno dei sei universali musicali che sono stati identificati fino ad ora. Ci piacerebbe andare alla ricerca di altri universali musicali in indri e altre specie, come ad esempio di una organizzazione gerarchica dei beat. Incoraggiamo anche lavori comparativi su indri e altre specie in pericolo per ottenere maggiori evidenze, prima che sia troppo tardi per ascoltare e ammirare i loro incredibili canti”.

Il senso del ritmo negli indri, lemuri cantanti del Madagascar. Credits: Filippo Carugati

Articolo:

Chiara De Gregorio, Daria Valente, Teresa Raimondi, Valeria Torti, Longondraza Miaretsoa, Olivier Friard, Cristina Giacoma, Andrea Ravignani & Marco Gamba (2021). “Categorical rhythms in a singing primate”. Current Biology, 31, R1–R3. https://doi.org/10.1016/j.cub.2021.09.032.

 

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino