News
Ad
Ad
Ad
Author

ScientifiCult

Browsing

Individuare fenomeni quantistici attraverso rapporti di causa-effetto

Per comprendere la relazione quantistica fra due eventi, un team di ricercatori del QuantumLab della Sapienza ha sviluppato un nuovo metodo basato sulla misura della forza dei rapporti causa-effetto tra le variabili. La tecnica, eseguita sperimentalmente nei laboratori dell’Ateneo, potrà essere utilizzata per verificare il corretto funzionamento di nuove tecnologie quantistiche

Individuare fenomeni quantistici attraverso rapporti di causa-effetto: un nuovo su Science Advances

“Qual è il motivo?”, “Perché sta succedendo?” sono domande molto frequenti nella vita quotidiana, in cui spesso si è portarti a chiedersi la causa degli eventi che succedono, cercando motivi più o meno diretti o astratti. La strategia intuitivamente più efficace per capire se due eventi siano l’uno la causa dell’altro è verificare la loro correlazione, ovvero chiedersi: l’evento A succede sempre quando succede l’evento B? Come quando ogni volta che viene spinto un interruttore (evento A) si accende una lampadina (evento B). Tuttavia, questo processo, apparentemente così semplice e immediato, nasconde una grande insidia: quando due eventi sono correlati, possono sia essere la causa l’uno dell’altro ma possono anche essere influenzati da una causa comune, di cui spesso non si tiene conto. Per esempio, ogni anno, in estate, aumentano parallelamente il consumo di gelati e il numero di persone che soffrono di cali di pressione. Questi due eventi sono indubbiamente correlati, ma non sono l’uno la causa dell’altro. Avvengono simultaneamente solo perché hanno una causa comune: l’aumento delle temperature.

Comprendere se due eventi siano causati da un fattore comune o se siano direttamente collegati non è affatto semplice, per cui tali relazioni sono da sempre una sfida per gli scienziati. Secondo la fisica classica è possibile comprendere appieno la relazione causa-effetto tra due eventi effettuando una serie di opportune misurazioni. Molto più difficile è quando entrano in gioco effetti quantistici, perché i rapporti di causa-effetto tra un evento A e un evento B hanno conseguenze diverse se questi hanno una causa comune non classica. Tuttavia, la discrepanza tra predizioni classiche e quantistiche può tornare utile proprio per rilevare la presenza di fenomeni quantistici, come avviene nei cosiddetti test di Bell, effettuati per misurare le proprietà di particelle fisicamente separate ma correlate in maniera non classica.

fenomeni quantistici causa-effetto

Il gruppo QuantumLab (https://www.quantumlab.it/) della Sapienza Università di Roma ha presentato, in un lavoro recentemente pubblicato sulla rivista Science Advances, un metodo altamente innovativo che è basato sulla misura della forza dei rapporti causa-effetto tra due variabili. Lo studio è nato nell’ambito di una collaborazione internazionale dell’Ateneo romano con l’International Institute of Physics di Natal (Brasile), l’Università di Colonia (Germania) e l’Università di Gdansk (Polonia).

Il team di fisici, da tempo impegnato nello studio di questi fenomeni con l’obiettivo di creare tecniche per rilevare la presenza di fenomeni quantistici, è partito dal caso in cui un evento A è causa di un evento B e, in più, questi hanno una causa comune quantistica. In tale situazione, si può dimostrare che, per ottenere determinati effetti su B, c’è bisogno di un’influenza causale più debole da parte di A, rispetto al caso classico. Quindi, misurando la forza del rapporto causa-effetto tra A e B, è possibile capire se il processo che stiamo osservando è quantistico oppure puramente classico.

“La novità di questo approccio – afferma Iris Agresti della Sapienza – sta nel fatto che permette di individuare comportamenti quantistici del tutto nuovi, che non potevano essere individuati con le tecniche note finora”.

Per mostrare queste nuove tracce di fenomeni quantistici è stato riprodotto nei laboratori di ottica e informazione quantistica della Sapienza lo schema di rapporti causa-effetto menzionato (chiamato processo strumentale) su una piattaforma fotonica.

In dettaglio, nell’esperimento, gli eventi A e B erano i risultati di due misure su fotoni, mentre la causa comune era una sorgente di stati quantistici.

“Abbiamo generato coppie di fotoni entangled (cioè correlati quantisticamente) e abbiamo implementato il rapporto di causa-effetto tra le misure A e B, scegliendo la misura B in base al risultato di A” – spiega Fabio Sciarrino, coordinatore del gruppo. “Siccome i due fotoni da misurare vengono generati nello stesso istante, per avere il tempo di eseguire la misura A, abbiamo dovuto ritardare il fotone misurato in B tramite una fibra lunga più di 100 metri e abbiamo sfruttato un dispositivo elettro-ottico per cambiare la misura B in pochi nanosecondi”.

Questa tecnica che si basa sulla misura della forza dell’influenza causale tra due eventi per dimostrare la presenza di fenomeni quantistici, che è stata eseguita sperimentalmente dai ricercatori del QuantumLab, ha dei risvolti sia dal punto di vista applicativo, perché potrà essere utilizzata per verificare il corretto funzionamento di nuove tecnologie quantistiche, sia teorico, perché ha permesso di individuare nuove tipologie di comportamenti non classici.

Riferimenti:

Experimental test of quantum causal influences – Iris Agresti, Davide Poderini, Beatrice Polacchi, Nikolai Miklin, Mariami Gachechiladze, Alessia Suprano, Emanuele Polino, Giorgio Milani, Gonzalo Carvacho, Rafael Chaves and Fabio Sciarrino – Science Advances, Vol 8, Issue 8 https://doi.org/10.1126/sciadv.abm1515 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

PREMIATA L’UNIVERSITÀ DI TORINO PER UN PROGETTO DI RICERCA A SUPPORTO DI DATA MANAGER E INFERMIERI DI RICERCA 

Dal Bando “Roche per la ricerca clinica” un finanziamento per un progetto innovativo nell’ambito dell’oncologia

progetto data manager infermieri
Premiata l’Università di Torino per un progetto a supporto di data manager e infermieri di ricerca. Foto di Shameer Pk 

Proviene dall’Università degli studi di Torino uno dei 10 progetti selezionati da Fondazione GIMBE e premiati con 30 mila euro ciascuno nell’ambito del Bando “Roche per la ricerca clinica – A supporto delle figure di data manager e infermieri di ricerca”.

Si tratta di uno studio prospettico sull’accuratezza diagnostica della biopsia liquida (analisi DNA tumorale circolante) nei pazienti con tumore polmonare non a piccole cellule in stadio avanzato. Il tumore polmonare è diventato l’emblema dell’applicazione della medicina di precisione in oncologia e oggi circa il 30% dei pazienti con malattia in stadio avanzato sono trattati con farmaci a bersaglio molecolare al momento della diagnosi. Questo ha un indubbio impatto sulla qualità e quantità di vita dei pazienti, ma molto si può ancora fare per migliorare la capacità diagnostica (rendendola meno invasiva e più proficua), per rendere di precisione anche le sequenze di cura (targettando il meccanismo di resistenza) e ampliando la percentuale di pazienti trattati.

Il progetto, coordinato dalla La Prof.ssa Silvia Novello, guarda alla biopsia liquida come complementare e, a volte, alternativa alla valutazione su tessuto per quei pazienti in cui il tessuto non sia adeguato qualitativamente o quantitativamente, ma anche per ridurre l’invasività delle tecniche. Nello specifico, il progetto valuta KRAS, biomarcatore molto comune nel tumore polmonare, che fino ad ora non ha avuto alcun valore predittivo e lo sta finalmente assumendo con l’avvento di nuovi inibitori.

Silvia Novello è docente di oncologia medica presso il Dipartimento di Oncologia dell’Università di Torino, Responsabile della Struttura Semplice Dipartimentale di Oncologia Toracica all’AOU “San Luigi Gonzaga” di Orbassano e Presidente di WALCE (Women Against Lung Cancer in Europe). Da sempre è impegnata nello sviluppo di nuove strategie terapeutiche per il trattamento del tumore polmonare, cosi come nelle campagne di prevenzione primaria e secondaria per questa patologia.

“La medicina di precisione non è più un’utopia per molti pazienti affetti da tumore polmonare, ma molto può ancora essere fatto e soprattutto migliorato in questo contesto, a partire dal ridurre l’invasività delle procedure diagnostiche, così come nella ottimizzazione delle sequenze terapeutiche grazie al riconoscimento dei meccanismi di resistenza ai farmaci – dichiara la Prof. Silvia Novello. Oltre ai ricercatori, il personale che si occupa di data management è indubbiamente strategico e funzionale al raggiungimento di questi risultati”.

Il data manager selezionato svolgerà per 12 mesi attività di ricerca clinica presso l’Università degli Studi di Torino, avendo modo di consolidare le proprie competenze per gestire al meglio lo studio clinico e portare così non solo un miglioramento della qualità della ricerca stessa ma anche della sicurezza dei pazienti che vi partecipano.

Il Dipartimento di Oncologia è nato con l’obiettivo di unire il personale dell’Università di Torino coinvolto nella ricerca preclinica e clinica dei tumori solidi, creando una “massa critica interdisciplinare”, che coinvolge 64 tra professori e ricercatori appartenenti alle aree di Scienze Biologiche e Scienze Mediche. Il risultato è l’attuazione di percorsi eccellenti nell’ambito della medicina molecolare e di precisione, basati sul rapido trasferimento di conoscenza dai modelli preclinici alla clinica e sulla capacità di dare risposte a problemi clinici irrisolti. Di grande rilievo è il contributo dato dai gruppi di ricerca nell’ambito dell’oncologia toracica, che coinvolge clinici, chirurghi, anatomo-patologi, biologi molecolari, radioterapisti e data manager.

Stefano Geuna, Rettore dell’Università di Torino, ha dichiarato: “Questo prestigioso riconoscimento ottenuto dalla Prof.ssa Silvia Novello è la conferma che l’Università di Torino ha saputo progettare e investire nello sviluppo di conoscenze scientifiche avanzate senza perdere di vista l’obiettivo dell’alta professionalizzazione delle competenze. Il presente e il futuro della ricerca, anche in campo medico e sanitario, risiedono nell’integrazione delle discipline, che accrescono il loro potenziale d’innovazione quando fanno sinergia al servizio della ricerca. L’eccellente risultato conseguito con questo bando, insieme alle altre grandi recenti performance, conferma ancora una volta il prestigio nazionale e internazionale del nostro Ateneo”.

L’essenzialità della figura di data manager, che pur esistendo da tempo ha iniziato ad essere riconosciuta solo negli ultimi anni, è attualmente consolidata a livello nazionale non solo per l’ordinaria gestione del dato, ma soprattutto per il coordinamento delle procedure e di tutto il personale coinvolto nei trial clinici. Gli altri 9 Enti vincitori, infatti, provengono da diverse regioni d’Italia: Friuli Venezia-Giulia (ASU Friuli Centrale di Udine e ASUGI di Trieste), Lombardia (IRCCS Istituto Clinico Humanitas di Rozzano, ASST Spedali Civili di Brescia e ASST di Monza), Emilia Romagna (IRCCS di Bologna e AOU di Modena e di Parma) e Sicilia (AOU Policlinico G. Rodolico-San Marco di Catania). Oltre all’oncologia, i progetti della seconda edizione sono stati candidati per le aree ematologia oncologica, reumatologia, neuroscienze, malattie respiratorie e coagulopatie ereditarie.

Da 125 anni le attività di Ricerca e Sviluppo rappresentano per Roche un imperativo strategico, che si è tradotto in soluzioni concrete in grado di cambiare il corso naturale di diverse patologie gravi per le quali non esisteva una cura. È ormai evidente che per assicurare gli standard qualitativi ed etici richiesti nell’ambito della ricerca, il valore aggiunto sia rappresentato da figure professionali nuove, come quelle del data manager e dell’infermiere di ricerca, essenziali non solo per garantire la qualità dei dati raccolti ma soprattutto per il coordinamento degli studi clinici, delle procedure e di tutto il personale coinvolto nella sperimentazione. A supporto della formazione continua di tali figure, Roche ha confermato il suo impegno anche per il 2022, lanciando la nuova edizione del bando che finanzierà ulteriori 10 progetti nelle aree terapeutiche oncologia, ematologia oncologica, oftalmologia, neuroscienze e coagulopatie ereditarie.

 

Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino per il bando che ha premiato l’Università di Torino per un progetto innovativo nell’ambito dell’oncologia, a supporto di data manager e infermieri di ricerca.

Ritrovato a Roma il fossile del primo lupo d’Europa 

L’enigmatico fossile ritrovato nei pressi di Ponte Galeria (Roma) è stato analizzato da un gruppo di paleontologi e geologi del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza Università di Roma e dell’Università Statale di Milano. La ricostruzione 3D dei resti ha permesso di identificare il fossile come il più antico esemplare adulto di lupo (Canis lupus) in Europa, databile a circa 400.000 anni fa. I risultati dello studio, che gettano nuova luce sulle dinamiche di diffusione del lupo nel nostro continente, sono stati pubblicati sulla rivista Scientific Reports.

Ritrovato a Roma il fossile del primo lupo d’Europa
Ritrovato a Roma il fossile del primo lupo d’Europa

Il lupo è una delle specie più emblematiche della biodiversità europea, animale simbolo delle foreste del nostro continente, così radicato nel nostro immaginario da entrare a far parte della cultura, del folklore e della tradizione di tutti i popoli europei. Sebbene l’uomo conviva con il lupo da migliaia di anni, la storia evolutiva di questo predatore iconico è ancora fonte di dibattito nella comunità scientifica, con punti interrogativi sul momento in cui questo animale si è diffuso nel nostro continente.

Ritrovato a Roma il fossile del primo lupo d’Europa
Ritrovato a Roma il fossile del primo lupo d’Europa

Un gruppo di paleontologi e geologi del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza Università di Roma e del Dipartimento di Scienze della Terra “Ardito Desio” dell’Università Statale di Milano, ha esaminato un enigmatico cranio fossile di canide di grandi dimensioni sono stati ritrovati nei pressi di Roma, più precisamente a Ponte Galeria. La scansione 3D dei resti frammentari ha permesso di identificare il cranio fossile come il più antico esemplare adulto di lupo (Canis lupus), risalente a circa 400.000 anni fa (Pleistocene Medio). I risultati dello studio sono stati pubblicati su Scientific Reports, rivista scientifica internazionale del gruppo Nature.

“In particolare i frammenti fossili sono stati scansionati tramite TAC e poi uniti digitalmente per ricreare l’assetto originale del cranio, il quale è stato poi analizzato, misurato e comparato con altre scansioni di canidi moderni come lo sciacallo, o il lupo appenninico che popola attualmente la penisola italiana”, spiega Dawid A. Iurino, primo autore dello studio.

Poiché l’area di Ponte Galeria è ricca di giacimenti di diverse datazioni, il gruppo di ricerca ha analizzato il sedimento vulcanico che ricopriva e riempiva i frammenti fossili per stabilire l’età precisa del reperto.

“Prima di questa ricerca i resti fossili più antichi di lupo erano quelli datati intorno ai 300.000 anni ritrovati in Francia (Lunel-Viel) e in Italia (Polledrara di Cecanibbio, di cui però manca una descrizione formale del reperto) – commenta Raffaele Sardella, coordinatore dello studio. “Questo nuovo studio ha permesso quindi di individuare nel lupo di Ponte Galeria il resto fossile di questa specie più antico rinvenuta fino ad ora in Europa”.

Le nuove analisi hanno dimostrato come la dispersione del lupo sia avvenuta durante il “Mid-Brunhes Event”, una fase del Pleistocene caratterizzata dall’aumento dell’ampiezza dei cicli/interglaciali, che diventano più lunghi e più intensi. Questo cambiamento climatico ebbe una forte ripercussione sugli ecosistemi terrestri favorendo probabilmente la diffusione di nuove specie in Europa tra cui il lupo.

Riferimenti:

A Middle Pleistocene wolf from central Italy provides insights on the first occurrence of Canis lupus in Europe – Dawid A. Iurino, Beniamino Mecozzi, Alessio Iannucci, Alfio Moscarella, Flavia Strani, Fabio Bona, Mario Gaeta & Raffaele Sardella – Scientific Reports https://doi.org/10.1038/s41598-022-06812-5

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Il cane può provare dolore per la morte di un altro cane

La ricerca, coordinata dall’Università degli Studi di Milano e condotta con Università degli Studi di Padova, suggerisce che i cani soffrano per la perdita di un altro cane che vive nella stessa famiglia. Lo studio, condotto su oltre quattrocento proprietari di cani, è stato pubblicato su Scientific Reports.( https://www.nature.com/articles/s41598-022-05669-y).

cane dolore morte
Il cane può provare dolore per la morte di un altro cane

Un cane può provare dolore per la morte di un altro cane che vive nella stessa famiglia dimostrando comportamenti negativi, ricerca di attenzioni e apatia: questo suggeriscono i cambiamenti del comportamento e delle emozioni riportati da 426 proprietari di cani italiani coinvolti in uno studio dell’Università degli Studi di Milano condotto con l’Università di Padova e pubblicato su Scientific Reports (https://www.nature.com/articles/s41598-022-05669-y).

Sebbene siano stati segnalati comportamenti di lutto in alcune specie animali, inclusi gli uccelli e gli elefanti, non è ancora chiaro se i cani domestici soffrano per la morte di un conspecifico. Il gruppo di studio coordinato da Federica Pirrone, ricercatrice di Etologia Veterinaria dell’Università degli Studi di Milano, ha intervistato oltre quattrocento persone a cui era morto un cane, mentre in casa ve n’era almeno un altro. L’86% ha osservato cambiamenti negativi nel comportamento del cane sopravvissuto dopo la morte dell’altro cane, ma solo quando i due cani erano legati da una relazione particolarmente amichevole o addirittura genitore-figlio. Questi animali erano più alla ricerca di attenzioni, mangiavano e giocavano meno ed erano, in generale, meno attivi del solito.

Federica Pirrone

“Da un punto di vista ecologico, sia i legami di affiliazione che quelli parentali sono componenti importanti della naturale organizzazione sociale dei cani liberi e questo vale anche per i cani di casa”, spiega Federica Pirrone. “Gli animali sociali come i cani domestici hanno una forte tendenza a cooperare e sincronizzare i loro comportamenti per mantenere la coesione e poter beneficiare dei vantaggi derivanti dal vivere insieme. Questo coordinamento può essere interrotto quando muore un membro del gruppo. Dunque, l’interruzione di una routine sociale che, in virtù della forte affiliazione, si era creata tra le coppie di cani del nostro studio, quando entrambi gli animali erano in vita, potrebbe spiegare i cambiamenti osservati in quello sopravvissuto dopo l’evento fatale”.

Ines Testoni

Come sottolinea Ines Testoni, direttrice del Master Death Studies & The End of Life dell’Università di Padova, “Siamo abituati a pensare che gli animali non abbiano una coscienza e non provino sentimenti, quindi non possano né mentalizzare la morte né provare dolore per la perdita. Le nostre ricerche hanno già mostrato come tra caregiver e animale da compagnia si instauri un legame di attaccamento e che questo può influenzare il comportamento del cane che sopravvive alla perdita del conspecifico.

 

È importante sottolineare che il nostro studio, per la prima volta nel panorama scientifico, indaga contemporaneamente i comportamenti assimilabili al lutto nel cane e il lutto dei proprietari. Sorprendentemente, abbiamo notato che i diversi modi di relazionarsi agli animali e di rappresentarsi la loro vita/morte da parte del proprietario non sono apparsi correlati alle variazioni del comportamento dei cani dopo la morte del conspecifico. Questo è importante perché indica che il proprietario, nel descrivere queste variazioni, non stava semplicemente proiettando il proprio dolore sul suo cane, ed è quindi più probabile che le modifiche riportate siano reali”.

I cani sopravvissuti sono apparsi più impauriti dopo la morte del conspecifico, e su questo cambiamento emotivo potrebbe invece aver pesato lo stato emotivo del proprietario. Il livello di paura era infatti maggiore nei cani sopravvissuti i cui proprietari mostravano segni più evidenti di sofferenza, rabbia e trauma psicologico in seguito alla morte del proprio pet.

Ulteriori studi, già in corso presso il gruppo di ricerca, dimostreranno se attraverso queste reazioni i cani stanno davvero rispondendo alla morte di un compagno della propria specie, o se esse siano solo scatenate dalla perdita, ossia dalla semplice separazione da quest’ultimo.

“È un obiettivo che ci siamo riproposti di raggiungere in fretta” – conclude Pirrone“Oggi come oggi milioni di famiglie nel mondo vivono con più di un cane. Conoscere le reazioni comportamentali e le emozioni suscitate dalla morte di un consimile è quindi fondamentale perché ci permetterà di riconoscere i bisogni emotivi di tantissimi animali, che sono effettivamente a rischio di soffrire per la perdita di un compagno canino”.

cane dolore morte
Il cane può provare dolore per la morte di un altro cane

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova

DA UNA RICERCA SVOLTA IN COLLABORAZIONE TRA VIMM E UNIVERSITÀ DI PADOVA UN POSSIBILE BERSAGLIO MOLECOLARE PER CONTRASTARE LA CACHESSIA TUMORALE

Il gruppo di ricerca guidato da Bert Blaauw ha mostrato che l’attivazione della via di comunicazione cellulare Akt-mTOR può aiutare a recuperare la perdita di massa e forza muscolari dovuta alla cachessia.

Bert Blaauw bersaglio molecolare cachessia tumorale
Bert Blaauw, Principal Investigator presso l’Istituto Veneto di Medicina Molecolare (VIMM) e Professore Associato dell’Università di Padova, alla guida del gruppo di ricerca per lo studio pubblicato ul Journal of Cachexia, Sarcopenia and Muscle, che individua un possibile bersaglio molecolare per contrastare la cachessia tumorale – PI Vimm PRESS

Chiarire i meccanismi molecolari del deperimento muscolare associato a cachessia, una sorta di “esaurimento” del muscolo e del tessuto adiposo al quale vanno incontro molti pazienti con cancro, e individuare possibili meccanismi di contrasto di questo fenomeno. Sono alcuni degli obiettivi del gruppo di ricerca guidato da Bert Blaauw, Principal Investigator presso l’Istituto Veneto di Medicina Molecolare (VIMM) e Professore Associato dell’Università di Padova.

I risultati dello studio, pubblicati recentemente sul Journal of Cachexia, Sarcopenia and Muscle, hanno mostrato un possibile bersaglio molecolare sul quale lavorare per aiutare i pazienti colpiti da cachessia tumorale a recuperare massa e forza muscolari.

Nel progetto, sostenuto da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, i ricercatori sono partiti dallo studio di una via di comunicazione cellulare, chiamata via Akt-mTOR e già nota per il suo ruolo nel mantenimento dell’equilibrio funzionale del muscolo.

“Si tratta di una via che, quando è attiva, promuove la crescita delle fibre muscolari. Allo stesso tempo, però, è noto che questa via è attiva anche in vari tumori. Per questo motivo alcune componenti di tale via sono il bersaglio di numerosi farmaci antitumorali, che hanno tuttavia come effetto collaterale un aumento del deperimento muscolare”, ha spiegato Bert Blaauw. “Obiettivo della nostra ricerca è capire meglio che cosa succede alla via Akt-mTOR nel muscolo scheletrico in una situazione di cachessia tumorale, sia quando la si inibisce, sia quando la si riattiva”.

Nei soggetti con tumore che mostrano deperimento muscolare, i ricercatori hanno osservato che la via Akt-m TOR è meno attiva del normale. Inoltre, in esperimenti con animali di laboratorio, hanno dimostrato che la riattivazione della via tramite modifiche genetiche ha portato a un recupero quasi completo non solo della massa muscolare, ma anche della forza. Il recupero ha anche riguardato una serie di caratteristiche molecolari che si erano alterate nel corso del deperimento.

L’attenzione dei ricercatori si è inoltre concentrata sulle modalità per attivare la via Akt-mTOR. Tra queste vi è l’esercizio fisico, anche se resta da capire quali tipi di esercizi siano più efficaci a questo scopo e per quanto tempo debbano essere praticati per ottenere un risultato.

“Avere questa informazione permetterebbe di costruire piani mirati di attività fisica per i pazienti colpiti da cachessia, in modo che debbano fare solo quanto è strettamente necessario per avere un beneficio muscolare” sottolinea Blaauw. Un’altra opzione potrebbe essere farmacologica“Ci sono gruppi di ricerca nel mondo che stanno lavorando a tecniche per veicolare farmaci in maniera precisa per un determinato tessuto. In futuro queste tecniche potrebbero, per esempio, permettere l’attivazione di Akt-mTOR solo nel muscolo scheletrico durante la cachessia tumorale” conclude Blaauw.

 

Titolo dell’articolo: Activation of Akt–mTORC1 signalling reverts cancer-dependent muscle wasting, 2021

Autori: Geremia A, Sartori R, Baraldo M, Nogara L, Balmaceda V, Dumitras GA, Ciciliot S, Scalabrin M, Nolte H, Blaauw B.

Link alla ricercahttps://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/jcsm.12854

 

 

BERT BLAAUW

Bert Blaauw ha avviato il suo laboratorio indipendente nel 2012, dopo aver ottenuto la posizione di Assistente Professore presso l’Università di Padova e di Principal Investigator presso l’Istituto Veneto di Medicina Molecolare (VIMM).

Blaauw ha pubblicato numerosi articoli di ricerca peer-reviewed, ha collaborato come autore senior ad articoli di membri del suo team di ricerca come primi autori e ha contribuito ad oltre 80 articoli di ricerca sulla fisiologia muscolare, il signaling e la conoscenza del muscolo scheletrico.

Negli ultimi 10 anni, il team del prof. Blaauw ha avuto parecchi riconoscimenti a livello internazionale per gli studi sulla determinazione della funzione muscolare adulta a vari livelli (in vivo, ex vivo, in vitro), prestando particolare attenzione alla via di segnalazione Akt-mTORC1.

In particolare, è stato dimostrato come l’attivazione del percorso Akt-mTORC1 nel muscolo scheletrico si verifica in tutti i modelli di crescita muscolare (Frontier in Physiology, 2017), e che la sua attivazione è sufficiente per aumentare la massa e la funzione muscolare (FASEB J, 2009).

È stato inoltre dimostrato che questo percorso del muscolo scheletrico è fondamentale per il mantenimento della giunzione neuromuscolare durante l’omeostasi muscolare (JSCM 2019).

Bert Blaauw ha anche contribuito come autore senior a studi volti ad aumentare la comprensione del ruolo dell’attività muscolare e di come questo influisca sui muscoli sani (Mol Metabolism 2015, Acta Physiologica 2020) e su quelli malati (Redox Biology 2019, JSCM 2021).

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova

Come la vita e il nostro Pianeta sono evoluti insieme

Parte il progetto CoEvolve: indaga la coevoluzione della vita con la Terra

CoEvolve indaga la coevoluzione della vita con la Terra

CoEvolve, il progetto finanziato dal Consiglio Europeo delle Ricerche, guidato dal microbiologo della Federico II di Napoli, Donato Giovannelli, è ufficialmente decollato. Il progetto condurrà il team del Giovannelli-Lab dall’Artico ai deserti delle Ande cilene, e poi dal Costa Rica all’Islanda, alla ricerca di microrganismi che verranno raccolti negli ambienti estremi del nostro pianeta per capire come la Terra e la vita si sono mutualmente influenzati, in una sorta di coevoluzione tra la geosfera e la biosfera terrestre.

‘Quando guardiamo il nostro pianeta tendiamo a pensare che la geologia sia una forza inarrestabile che modella i continenti e gli oceani, e che la vita si adatti a questi cambiamenti ed evolva per tenere il passo. Questo è vero per la maggior parte del tempo, ma ci sono state diverse occasioni durante la storia della Terra in cui l’evoluzione di alcuni processi biologici hanno influenzato notevolmente la geologia, la mineralogia e quindi la traiettoria evolutiva della Terra’ – spiega il coordinator Donato Giovannelli. La realtà è che il nostro pianeta e la vita si sono coevoluti nel tempo, influenzandosi a vicenda per oltre 4 miliardi di anni. ‘È come una delicata danza in cui la vita e il pianeta Terra lavorano insieme per mantenere l’abitabilità del pianeta e sostenere la vita stessa’, dice Donato Giovannelli. Nonostante questo, l’estensione della coevoluzione e le sue forze motrici sono in gran parte sconosciute’.

Il progetto CoEvolve mira a capire come la vita, in particolare i microrganismi, e il pianeta si sono coevoluti nel tempo, concentrandosi sul ruolo dei metalli. Il progetto è finanziato con una sovvenzione di 2,1 milioni di euro dal Consiglio Europeo della Ricerca (ERC Starting Grant 2020).

I microrganismi sono fondamentali per il funzionamento del pianeta e sono stati la forza trainante nel ciclo dei nutrienti e degli elementi dall’origine della vita su questo pianeta. Per controllare il ciclo dei nutrienti e degli elementi, i microrganismi utilizzano un insieme di proteine che contengono metalli nel loro nucleo, utilizzati per controllare efficacemente le reazioni chimiche. A causa di questa relazione, il ruolo dei metalli è importante per la vita (basti pensare solo a cosa comporta un calo di ferro nel sangue).

‘Le conoscenze degli ultimi decenni sulla evoluzione della vita terrestre ci ha fatto comprendere che la disponibilità di metalli è cambiato drammaticamente nel tempo, in gran parte a causa del cambiamento delle concentrazioni di ossigeno nell’atmosfera – sottolinea Giovannelli -. In sintesi, metalli potrebbero aver controllato in una certa misura l’evoluzione della vita microbica stessa’.

Il progetto CoEvolve utilizza microrganismi raccolti in ambienti estremi, dai poli ai deserti, che sono una sorta di modello di antichi tempi geologici, per capire la relazione tra disponibilità di metallo e metabolismo microbico. Una selezione di ambienti diversi, da sorgenti termali negli altipiani del Cile all’Artico norvegese, saranno campionati nei prossimi 5 anni in una serie di missioni la cui delicata logistica richiede una lunga e attenta pianificazione.

CoEvolve coevoluzione
CoEvolve indaga la coevoluzione della vita con la Terra

Donato Giovannelli, dunque, sta raccogliendo nel Giovannelli-Lab un team di scienziati e scienziate con diversi background per affrontare la natura multidisciplinare del progetto CoEvolve, che richiede competenze in microbiologia, biologia molecolare, geochimica, geologia, astrobiologia e big data. La prima fase del progetto è attualmente in corso, con l’allestimento di un nuovo laboratorio geo-bio presso l’Università di Napoli Federico II, e a partire dal 20 febbraio 2022, il team comincia con la prima tappa delle missioni: presso la base artica Dirigibile Italia del CNR (Isole Svalbard, Norvegia) a Ny-Ålesund  (78°55′ N, 11°56′ E). La prima spedizione, i cui dati contribuiranno al CoEvolve, è finanziata con un Progetto di Ricerca in Artico del MUR.

“La mia speranza è che il progetto cambierà il modo in cui comprendiamo e interagiamo con il mondo microbico, aprendo nuove strade in diversi campi come la bioremediation, le biotecnologie e la ricerca sul microbioma umano e potrebbe anche cambiare il modo in cui cerchiamo la vita nell’Universo”, conclude Donato Giovannelli.

 

CoEvolve in breve:

–        Al via il progetto CoEvolve del Dipartimento di Biologia della Federico II di Napoli. Durerà 5 anni, beneficia di un finanziamento ERC europeo di 2.1 milioni di euro. Alla sua guida il microbiologo Donato Giovannelli.

–        Studierà organismi di ambienti estremi, raccolti in Cile, Islanda, Norvegia, Russia, Italia, Costa Rica, per comprendere come la geologia terrestre ha influenzato la vita, e come la vita, a modo suo, abbia a sua volta influenzato la geologia.

–        La prima tappa, in atto in questo momento, alle Isole Svalbard, in Norvegia, presso la base artica del CNR Dirigibile Italia. Il team di microbiologi raccoglierà microorganismi adattati ad un ambiente estremamente freddo.

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università Federico II di Napoli.

Mediterraneo, Milano-Bicocca sulle tracce della foca monaca: mappare il suo ritorno grazie al DNA ambientale

Attraverso il prelievo e il rilevamento di campioni molecolari dal mare, i ricercatori dell’ateneo milanese rilevano il passaggio del pinnipede lungo le coste italiane e in alto mare. Il metodo, descritto in un articolo appena pubblicato su “Biodiversity and Conservation”, favorirà il monitoraggio e la salvaguardia della specie.

foca monaca DNA
Foca adulta nuota in superficie. È molto raro osservare una foca monaca perché questi animali trascorrono gran parte del tempo in immersione. In alcune specie affini alla foca monaca è stato calcolato che circa l’80% tempo è trascorso in immersione. Infatti in apnea le foche mangiano, si accoppiano e dormono profondamente. Foto: E. Coppola/GFM

Milano, 22 febbraio 2022 – Da decenni la foca monaca, tra i pinnipedi più rari al mondo e l’unico presente nel Mar Mediterraneo, era considerata estinta nelle acque dei mari italiani, fino ai recenti avvistamenti nel Mar Tirreno e Ionio, che hanno fatto ipotizzare un suo ritorno. Per mapparne la presenza, i ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca hanno realizzato un metodo di rilevazione innovativo e non invasivo, basato sul recupero e analisi del DNA ambientale (eDNA) dai campioni di acqua prelevati nel Mare Nostrum. I primi test e i risultati delle azioni di monitoraggio hanno dato riscontro positivo, anticipando alcune delle recenti segnalazioni del mammifero marino al largo delle coste toscane e siciliane, in tratti di mare poco frequentati.

 

Il metodo è stato descritto in un articolo dal titolo “A species-specific qPCR assay provides novel insight into range expansion of the Mediterranean monk seal (Monachus monachus) by means of eDNA analysis”, appena pubblicato dalla rivista scientifica “Biodiversity and Conservation” (DOI: https://doi.org/10.1007/s10531-022-02382-0). Prima autrice Elena Valsecchi, ecologa molecolare del dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra dell’Università di Milano-Bicocca e docente di Marine Vertebrate Zoology.

foca monaca DNA
La foca nuota in immersione. Le foche hanno un corpo perfettamente adattato al nuoto, con le pinne posteriori utilizzate esattamente come la coda di un pesce e le pinne anteriori tenute aderenti al corpo o usate solo per migliorare l’assetto e per i rapidi spostamenti laterali. In foto, una foca monaca (Monachus monachus) del Mediterraneo, femmina adulta Riserva Naturale di Kamenjak, Istria meridionle, Croazia 12-2011. Foto: E. Coppola/GFM

Alla base del metodo, un assunto: ogni organismo vivente lascia una traccia del proprio passaggio e questa viene rivelata dal suo DNA rimasto nell’ambiente. Per esempio per la foca monaca, dal DNA che resta nella massa d’acqua in cui si muove. Elena Valsecchi coordina il gruppo di DNA ambientale marino (Marine eDna Group) dell’ateneo milanese, che da due anni ha promosso il progetto “MeD for Med – Marine environmental DNA for the Mediterranean”, sistema di monitoraggio della biodiversità marina basato proprio sull’analisi del DNA ambientale contenuto in campioni d’acqua raccolti da traghetti lungo le rotte commerciali. Un progetto nato grazie al cofinanziamento del programma Bicocca Università del Crowdfunding dell’Università di Milano-Bicocca e descritto in un articolo pubblicato lo scorso agosto su “Frontiers in Marine Science” (DOI: https://doi.org/10.3389/fmars.2021.704786).

Per mettere a punto una strategia molecolare in grado di intercettare, dall’analisi di semplici campioni d’acqua marina, la presenza della foca monaca, una volta diffusa in tutto il bacino centro-orientale del Mediterraneo ma oggi concentrata principalmente nel Mar Egeo, Elena Valsecchi ha identificato regioni “informative” del DNA mitocondriale del pinnipede, ovvero sequenze target che si trovano solo in questa specie. I ricercatori hanno così potuto sviluppare sonde specifiche per poter “pescare” all’interno di un miscuglio di milioni di molecole di DNA provenienti dagli animali più disparati – come quello presente all’interno di un campione di DNA ambientale prelevato dal mare – il DNA della foca monaca: una sorta di “calamita molecolare”.

 

Foche. La presenza delle foche viene immortalata dal sistema automatizzato di monitoraggio fotografico che scatta una foto ogni ora in punti frequentati dalle foto. Questa foto è stata scattata alla stessa data ed ora in cui un campione è stato prelevato in mare, a 70 metri dalla battigia

In collaborazione con Antonia Bruno, microbiologa del dipartimento di Biotecnologie e bioscienze, si è passati allo screening di “veri” campioni ambientali. Le sonde molecolari sono quindi state testate sul campo, attraverso il confronto con un ampio spettro di campioni, alcuni dei quali (campioni positivi) contenenti il DNA della foca monaca, come quelli prelevati nelle acque dell’Oceano Atlantico intorno dell’arcipelago portoghese di Madera, dove si trova una piccola popolazione stanziale di una trentina di esemplari di foca monaca, grazie alla collaborazione dell’Instituto das Florestas e Conservação da Natureza di Madera.

Campionamento. Mauricio Pereira, ranger del Instituto das Florestas e Conservação da Natureza di Madera, raccoglie un campione d’acqua in prossimità della Isola Grande Deserta (Madera) dove le foche monache hanno trovato riparo per dare alla luce i piccoli

I test hanno dimostrato l’efficienza delle sonde nell’intercettare la presenza del mammifero marino e hanno convinto i ricercatori a sperimentarle in campioni di DNA ambientale raccolti nel Mediterraneo, nell’ambito di altri progetti di ricerca portati avanti dal Marine eDna Group. Questi i risultati:

«Abbiamo rilevato la presenza della specie – afferma Elena Valsecchi – in circa il 50 per cento dei campioni prelevati al largo dell’isola di Lampedusa nell’estate 2020 e in alcuni campioni prelevati tra il 2018 e il 2019 da traghetto al largo dell’arcipelago Toscano nell’ambito del progetto Med for Med, lungo la rotta Livorno-Golfo Aranci (Corsica Sardinia Ferries)».

L’efficacia del test ha avuto una conferma nella realtà. «L’analisi di circa 50 campioni di acqua prelevati nei mari italiani sia sotto costa che in alto mare – prosegue l’ecologa molecolare – ha anticipato alcune delle più importanti segnalazioni e avvistamenti di foca monaca avvenute di recente in Toscana e in Sicilia e ne hanno svelato la presenza in tratti di Mediterraneo finora inesplorati».
da sinistra, Emanuele Coppola e Andrea Parmegiani, laureato all_Università di Milano-Bicocca (corso di laurea magistrale in Marine Sciences), in un campionamento. Foto: E. Coppola/GFM
Le applicazioni di questo sistema di rilevazione molecolare sono molteplici.
«Si potranno monitorare aree dove è già nota la presenza della foca monaca – osserva Emanuele Coppola, documentarista che si è occupato di foca monaca per decenni, nonché presidente del Gruppo Foca Monaca APS e coautore nella pubblicazione – al fine di stimare il passaggio stagionale dei pinnipedi e il grado di fedeltà al sito, anche durante le stagioni invernali o in orari notturni, e tenere sotto osservazione, in modo assolutamente non invasivo, siti costieri che, per conformazione fisica, costituiscono i potenziali habitat di elezione per la foca monaca, quali grotte riparate dalla forza del mare e con spiagge interne ideali per il parto».
foca monaca DNA
Femmina adulta in grotta. Le foche partoriscono a terra e per questo scelgono ambienti molto riparati, come grotte marine con ingresso subacqueo. In foto, una foca monaca (Monachus monachus) del Mediterraneo, femmina adulta Riserva Naturale di Kamenjak, dopo la muta, animale in grotta, Colombarica, Istria meridionale, Croazia 05-2013. Foto: E. Coppola/GFM
Ciò favorirà lo studio e la ricerca sulla specie, la conservazione dei siti e la tutela della foca monaca. 

da sinistra, Emanuele Coppola, Elena Valsecchi, Antonia Bruno. Foto scattata alla mostra IllusiOcean ospitata all_Università di Milano-Bicocca. Foto: E. Coppola/GFM
In questo senso, Università di Milano-Bicocca, Gruppo Foca Monaca APS e numerosi altri partner sono ora impegnati nell’iniziativa “Spot the Monk”, un ambizioso piano di campionamento del Mediterraneo che vede coinvolti anche diversi programmi di citizen science, con diversi equipaggi e imbarcazioni coinvolti nella raccolta dei campioni.
da sinistra, Emanuele Coppola ed Elena Valsecchi. Foto scattata alla mostra IllusiOcean ospitata all_Università di Milano-Bicocca. Foto: E. Coppola/GFM
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca

CLIMA DI FINE SECOLO E AGRICOLTURA “EROICA” 

Studio dell’Università di Padova dimostra che tra tre generazioni il cambiamento climatico provocherà un’espansione di zone a clima arido con condizioni di scarsità idrica.

Penalizzati saranno i paesaggi agricoli in forte pendenza, luoghi di agricoltura eroica e di grande valore storico culturale.

Clima di fine secolo e agricoltura “eroica”: coltivazione di arancio su terrazzamenti in aree ad alta pendenza a Valencia (Spagna)

Pubblicata su «Nature Food» la ricerca dal titolo “Future climate-zone shifts are threatening steep-slope agriculture”, coordinata dal Professor Paolo Tarolli del Dipartimento di Territorio e Sistemi Agro-Forestali dell’Università di Padova, in cui si mostra quale sarà l’impatto del cambiamento climatico sulle aree agricole a forte pendenza alla fine del secolo. Lo studio è basato sulla proiezione delle zone climatiche attuali (1980-2016) a fine secolo (2071-2100) secondo lo scenario di concentrazione di gas serra RCP8.5, ovvero senza l’adozione di iniziative a favore della protezione del clima e, pertanto, con crescita delle emissioni ai ritmi attuali. Sono stati utilizzati dati satellitari e territoriali open-access, analizzati tramite la piattaforma online Google Earth Engine, in modo che la metodologia possa essere replicata non solo da scienziati, ma anche da operatori del settore agricolo ed enti per la gestione del territorio.

clima agricoltura eroica
Paolo Tarolli

«In questo lavoro abbiamo prodotto una mappa globale ad alta risoluzione dei paesaggi agricoli collinari e di montagna, analizzando la loro distribuzione nelle zone climatiche attuali (tropicale, arido, temperato, freddo, polare) e nelle proiezioni climatiche future – spiega il Professor Paolo Tarolli –. La nostra analisi dimostra che le aree agricole in forte pendenza sono significativamente più minacciate dal cambiamento climatico rispetto alla media della superficie agricola globale, in particolare vi sarà un’espansione di zone a clima arido, quindi di condizioni di scarsità idrica».

clima agricoltura eroica
Mappa globale ad alta risoluzione dei paesaggi agricoli di collina e montagna, con indicati i relativi siti patrimonio dell’umanità UNESCO e patrimonio agricolo globale GIAHS (FAO)

I sistemi agricoli in aree a forte pendenza, sebbene rappresentino una frazione ridotta della superficie agricola globale, sono di grande rilevanza per diversi aspetti. La loro importanza agronomica, così come il valore storico e culturale che li contraddistingue, sono ampiamente riconosciuti dalle Nazioni Unite e protetti con iniziative come i siti patrimonio dell’umanità UNESCO e patrimonio agricolo globale GIAHS (FAO). Le coltivazioni in pendenza sono soprattutto concentrate in Messico, Italia, Etiopia e Cina: si tratta di colture di altissima “specializzazione”. Tra gli esempi si possono citare le aree terrazzate Honghe Hani nella provincia cinese dello Yunnan, gestite dalle minoranze Hani da oltre 1300 anni, le quali producono 48 varietà di riso, dando vita ad un habitat ideale anche per l’allevamento di bovini, anatre e pesci, in un’ottica di economia circolare, oppure, in Italia, la viticoltura eroica sulle colline del Prosecco e del Soave.

Sul totale, l’agricoltura in forte pendenza si trova principalmente in zone climatiche temperate (46%) e fredde (28%): insieme, esse ospitano quasi tre quarti di questi paesaggi. Le coltivazioni in aree in pendenza delle regioni tropicali sono pari al 17%, nelle aride al 9% e in quelle polari arrivano all’1%, coprendo insieme il restante quarto del totale. Il cambiamento climatico rappresenterà una seria minaccia per tutta l’agricoltura e i sistemi rurali, con un impatto su raccolti e prezzi alimentari. In particolare, esso provocherà una variazione nell’estensione delle aree climatiche globali, con ripercussioni significative sui versanti agricoli in forte pendenza.

«Tra ottant’anni, secondo le proiezioni del nostro studio, la percentuale dei terreni agricoli di collina e montagna delle zone tropicali saliranno al 27% e quelle aride al 16%: sostanzialmente raddoppieranno rispetto alla situazione attuale. All’opposto, nelle regioni fredde si osserverà una riduzione di terreni agricoli di collina e montagna dall’attuale 28% al 13%, mentre in quelle temperate si passerà dal 46% al 44% – sottolinea Paolo Tarolli –. In sole tre generazioni quindi aree agricole più estese saranno interessate da un clima più caldo che comporterà un calo della disponibilità di acqua per l’irrigazione e la produzione alimentare. La nostra ricerca dimostra che le aree agricole in forte pendenza, spesso caratterizzate da un’alta specializzazione nella gestione dell’acqua derivante da antichi saperi tradizionali, saranno quelle maggiormente minacciate dal cambiamento climatico, soprattutto dalla siccità. Data l’urgente necessità di garantire una produzione alimentare sostenibile e per tutti riteniamo che i governi e le istituzioni debbano investire di più nell’identificazione e mitigazione degli effetti del cambiamento climatico in agricoltura. In particolare il nostro studio – conclude Tarolli – evidenzia la necessità di azioni atte a migliorare, specie per i paesaggi agricoli collinari e montani, la resilienza al cambiamento climatico previsto nei prossimi decenni, al fine di preservare il loro ruolo nella produzione alimentare, reddito, valore storico e culturale, e servizi ecosistemici».

Link alla ricerca: 10.1038/s43016-021-00454-y oppure https://rdcu.be/cGZ1M

Titolo: “Future climate-zone shifts are threatening steep-slope agriculture” – «Nature Food» 2022

Autori: Wendi Wang, Anton Pijl & Paolo Tarolli*

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova. sullo studio relativo a clima di fine secolo e agricoltura “eroica”.

BioRescue crea due nuovi embrioni in una corsa contro il tempo per prevenire l’estinzione del rinoceronte bianco del nord
 
BioRescue rinoceronte bianco del nord
Fatu dopo la raccolta degli ovociti. BioRescue /Jan Zwilling

In due serie di procedure, tra ottobre 2021 e febbraio 2022, il consorzio BioRescue ha creato due nuovi embrioni di rinoceronte bianco del nord, portando il totale a 14. Gli ovociti (cellule uovo) sono stati raccolti dalla femmina Fatu in ottobre e gennaio presso Ol Pejeta Conservancy, Kenya, e sono stati maturati e fecondati nei laboratori Avantea, in Italia. Gli embrioni sono stati poi crioconservati a novembre 2021 e febbraio 2022, e attendono di essere impiantati in una o più femmine di rinoceronte bianco del sud in un prossimo futuro.

BioRescue rinoceronte bianco del nord
Fatu e Najin presso l’Ol Pejeta Conservancy. BioRescue /Jan Zwilling

Le procedure che si sono svolte ad ottobre 2021 e a gennaio 2022 a Ol Pejeta segnano il successo della settima e ottava raccolta di ovociti condotta dal team di scienziati e conservazionisti del Leibniz Institute for Zoo and Wildlife Research (Leibniz-IZW), Safari Park Dvůr Králové, Kenya Wildlife Service, Wildlife Research and Training Institute, Ol Pejeta Conservancy, Avantea e Università degli Studi di Padova. Dal 2019, grazie alle otto procedure effettuate, il team ha recuperato un totale di 119 ovociti da Fatu e da sua madre Nájin—ottenendo 14 embrioni. Nel corso del 2021 il consorzio ha deciso di cessare la raccolta di ovociti su Najin dopo aver condotto una valutazione etica dei rischi.

BioRescue rinoceronte bianco del nord
Julia Bohner e Frank Göritz supervisionano mentre Fatu viene sedata per la raccolta degli ovociti. BioRescue /Jan Zwilling

Gli ovociti raccolti sono stati trasportati per via aerea ai laboratori Avantea di Cremona, in Italia, per la maturazione, la fecondazione, lo sviluppo embrionale e la crioconservazione. Entrambi gli embrioni prodotti sono stati fecondati usando il seme del rinoceronte bianco del nord Angalifu. In totale, ci sono ora 11 embrioni di Fatu e Suni e 3 embrioni di Fatu e Angalifu conservati in azoto liquido.

Ricerca degli ovociti al microscopio. BioRescue /Jan Zwilling

 Un numero maggiore di embrioni aumenta le possibilità di vedere in futuro nascere nuovi rinoceronti bianco del nord. Il consorzio mira a ripetere la procedura di raccolta di ovociti da Fatu e lo sviluppo embrionale su base regolare, finché—considerando il benessere di Fatu e le possibilità di successo— ciò è fattibile e responsabile. Questo sarà determinato da regolari valutazioni etiche dei rischi che sono condotte prima di ogni procedura dal BioRescue sotto la guida del Laboratorio di Etica per la Medicina Veterinaria, Conservazione e Benessere Animale dell’Università di Padova.

Analisi all’ultrasuono durante la raccolta degli ovociti. BioRescue /Jan Zwilling

Istituto Leibniz per la ricerca su zoo e fauna selvatica (Leibniz-IZW)

Il Leibniz-IZW è un istituto di ricerca tedesco di fama internazionale del Forschungsverbund Berlin e.V. e membro dell’Associazione Leibniz. La nostra missione è quella di esaminare gli adattamenti evolutivi della fauna selvatica al cambiamento globale e sviluppare nuovi concetti e misure per la conservazione della biodiversità. Per raggiungere questo obiettivo, i nostri scienziati usano la loro vasta esperienza interdisciplinare che va dalla biologia e alla medicina veterinaria per condurre ricerche fondamentali ed applicate – dal livello molecolare al paesaggio – in stretto dialogo con il pubblico e le parti interessate. Inoltre, siamo impegnati in servizi unici e di alta qualità per la comunità scientifica.

www.izw-berlin.de

Parco Safari Dvůr Králové

Il Safari Park Dvůr Králové è un parco safari nella Repubblica Ceca. È uno dei migliori allevatori di rinoceronti fuori dall’Africa e l’unico posto dove il rinoceronte bianco del Nord è stato allevato in cattività; infatti, entrambe le femmine rimaste, Najin e Fatu, sono nate qui. Il Safari Park Dvůr Králové coordina gli sforzi per salvare i rinoceronti bianchi del Nord.

https://safaripark.cz/en/

Servizio della fauna selvatica del Kenya

Il Kenya Wildlife Service è la principale istituzione governativa che conserva e gestisce la fauna selvatica per i kenioti e per il mondo. Fa anche rispettare le leggi e i regolamenti relativi.

http://kws.go.ke/

Istituto di ricerca e formazione sulla fauna selvatica

Il Wildlife Research and Training Institute è una società statale istituita ai sensi del Wildlife Conservation and Management Act No. 47 del 2013 per intraprendere e coordinare la ricerca e la formazione sulla fauna selvatica attraverso approcci innovativi per consentire la fornitura di dati e informazioni accurate e affidabili per informare la formulazione delle politiche e il processo decisionale.

Ol Pejeta Conservancy

Ol Pejeta Conservancy è il più grande santuario di rinoceronti neri dell’Africa orientale, ed è l’unico posto in Kenya per vedere gli scimpanzé. È anche la casa degli ultimi due rinoceronti bianchi del nord del pianeta. La sicurezza all’avanguardia di Ol Pejeta include un’unità K-9 specializzata, telecamere con sensori di movimento lungo la recinzione elettrica a energia solare e un’unità dedicata alla protezione dei rinoceronti.

https://www.olpejetaconservancy.org/

Università di Padova

L’Università di Padova in Italia è una delle più antiche del mondo e festeggia 800 anni. Il suo Dipartimento di Biomedicina Comparata e Scienza dell’Alimentazione sta sviluppando una ricerca ed un’istruzione all’avanguardia nel campo della conservazione e del benessere della fauna selvatica, con un’attenzione particolare alla valutazione etica ed alla valutazione dei progetti di ricerca e dei programmi educativi sviluppati dal Laboratorio di Etica per la Medicina Veterinaria, la Conservazione e il Benessere degli Animali.

https://www.unipd.it/en/

BioRescue crea due nuovi embrioni in una corsa contro il tempo per prevenire l’estinzione del rinoceronte bianco del nord. Frank Göritz, Isaac Lekolool, Thomas Hildebrand, Raffaella Simone, Susanne Holtze e Jan Stejskal (da sinistra verso destra). BioRescue /Jan Zwilling
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova.
Articoli correlati: 
https://scientificult.it/2022/03/23/cellule-staminali-pluripotenti-di-rinoceronte-bianco-del-nord/

DALLA “DOPPIA VITA” DELLA VIMENTINA NUOVE TERAPIE PER LA LOTTA AL TUMORE

I risultati pubblicati sulla rivista Nucleic Acids Research da un gruppo di ricercatori dell’Università di Padova indicano che il legame tra la proteina vimentina e il DNA possa essere funzionale alla proteina stessa per far crescere e muovere le cellule tumorali.

L’articolo è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista Nucleic Acids Research, con il titolo “Vimentin binds to G-quadruplex repeats found at telomeres and gene promoters” dal gruppo coordinato dalla professoressa Claudia Sissi, del Dipartimento di Scienze del Farmaco dell’Università degli Studi di Padova. I dati sono stati ottenuti nell’ambito di una linea di ricerca in cui si tenta di utilizzare alcune peculiarità strutturali di porzioni del genoma per nuovi approcci terapeutici in campo oncologico. Nel DNA ci sono sequenze in grado di ripiegarsi in modo anomalo in strutture definite non canoniche, tra cui quelle note come G-quadruplex sono quelle a oggi più ampiamente studiate. Ma perché in alcuni segmenti del genoma queste sequenze si sistemano vicine l’una all’altra? Ci sono utili per identificare nuovi bersagli terapeutici?

«La voglia di rispondere a queste domande ci ha spinto a metterci in rete e, all’Ateneo Padova, abbiamo costituito un gruppo interdisciplinare – dice Claudia Sissi del Dipartimento di Scienze del Farmaco –. Le competenze sullo studio e la caratterizzazione degli acidi nucleici e delle proteine, presenti nel Dipartimento di Scienze del Farmaco, si sono arricchite delle capacità bioinformatiche del gruppo del Prof. Stefano Toppo, del Dipartimento di Medicina Molecolare, e dell’esperienza in ambito cellulare del gruppo della Prof.ssa Mery Giantin, del Dipartimento di Biomedicina Comparata e Alimentazione».

proteina vimentina DNA tumori
Claudia Sissi

Questo modo di lavorare ha consentito di rivelare la “doppia vita” della vimentina. Questa proteina è nota per formare dei filamenti che creano una sorta di rete, la quale rinforza la struttura della cellula e le consente di spostarsi. La vimentina è presente anche nel nucleo delle cellule dove è conservato il DNA. Studiando alcuni frammenti di DNA, che sappiamo essere importanti per controllare la crescita di cellule tumorali, è stato dimostrato che questa proteina si lega in modo specifico a siti del genoma dove due o più strutture G-quadruplex sono vicine. La distribuzione della proteina che ne risulta non è casuale: il gruppo di ricerca padovano ha osservato che si concentra proprio su quei geni necessari a vimentina per far crescere e muovere le cellule tumorali.

«Questa visione di ricerca integrata ci ha consentito di identificare un nuovo bersaglio terapeutico che può ora essere utilizzato per mettere a punto un nuovo approccio terapeutico in campo oncologico – conclude Claudia Sissi del Dipartimento di Scienze del Farmaco –. Impedendo il legame della proteina a questi siti del DNA si potrebbe forse inibire la formazione delle metastasi da parte delle cellule tumorali. Da un lato si eviterebbe così che la malattia si estenda a vari organi, dall’altro si limiterebbe la replicazione delle cellule tumorali. Questo rallentamento potrebbe dare più tempo per intervenire in modo mirato ed efficiente».

Lo studio è stato sostenuto da Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro.

Link alla ricerca: https://doi.org/10.1093/nar/gkab1274

Titolo: “Vimentin binds to G-quadruplex repeats found at telomeres and gene promoters” – «Nucleic Acids Research» 2022

Autori: Silvia Ceschi, Michele Berselli, Marta Cozzaglio, Mery Giantin, Stefano Toppo, Barbara Spolaore, Claudia Sissi*

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova.