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UN NUOVO STUDIO, PUBBLICATO SU NATURE COMMUNICATIONS, CHE VEDE PROTAGONISTI VIMM – UNIVERSITÀ DI PADOVA VA AD INDIVIDUARE UN NUOVO GENE CHE REGOLA L’INTEGRITÀ DEL MUSCOLO SCHELETRICO

Lo studio del gruppo di ricerca guidato da Marco Sandri, Principal Investigator dell’Istituto Veneto di Medicina Molecolare (VIMM) e Professore dell’Università di Padova è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista “Nature Communications”.

Anais Franco e Marco Sandri al VIMM gene integrità muscolo scheletrico
Anaïs Franco Romero e Marco Sandri al VIMM

La perdita di forza è una condizione condivisa da molteplici e frequenti situazioni fisiopatologiche e che impatta fortemente sulla qualità della vita dei soggetti. L’ invecchiamento, l’immobilizzazione, la malnutrizione, le infezioni, i tumori, il diabete e l’obesità, le patologie epatiche, cardiache, renali e polmonari sono tutte condizioni che frequentemente inducono la perdita di massa muscolare – processo noto con il termine di atrofia muscolare – e l’insorgenza di uno stato di debolezza ed affaticamento che causa anche una minore risposta alle terapie.

Purtroppo, i meccanismi molecolari che inducono l’atrofia muscolare non sono ancora completamente definiti, e ad oggi non esistono terapie atte a prevenirla o contrastarla. Un aiuto importante può arrivare dalla ricerca, e in particolare da quella rivolta a conoscere e studiare i geni che hanno un ruolo nella regolazione della massa muscolare, con il fine di identificare nuovi bersagli per future terapie farmacologiche.

Tuttavia, un ostacolo importante a questo tipo di ricerca nasce dall’elevato numero di geni sconosciuti tra quelli che codificano le proteine: dei 20.000 geni conosciuti, più di 5.000 sono infatti inesplorati (i cosiddetti geni oscuri o dark genes).

Uno degli scopi del laboratorio del Prof. Marco SandriPrincipal Investigator dell’Istituto Veneto di Medicina Molecolare (VIMM) e Professore Ordinario in Patologia Clinica e Direttore del Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Padova è proprio quello di studiare i “geni oscuri” e capirne la loro funzione all’interno del muscolo scheletrico.

In quest’ottica, i risultati pubblicati sulla prestigiosa rivista “Nature Communications” dal Gruppo di ricerca del Prof. Sandri, contenuti all’interno dello studio coordinato da Anaïs Franco Romero e Jean Philipe Leduc-Gaudet (primi co-autori dello studio) hanno portato all’identificazione di un nuovo gene – chiamato MYTHO (Macroautophagy and YouTH Optimizer) – importante per l’integrità del muscolo scheletrico e in particolare del processo di degradazione delle proteine e degli organelli.

Questo processo cellulare deve funzionare correttamente e in modo bilanciato: un eccesso di degradazione proteica potrebbe infatti portare a una diminuzione della massa muscolare, mentre al contrario un blocco di questo processo potrebbe portare ad un accumulo di organelli e di proteine danneggiate che impediscono una normale contrazione muscolare.

Nello specifico, i ricercatori hanno visto come l’inibizione acuta di questo nuovo gene abbia un ruolo protettivo in caso di tumore, immobilizzazione e assenza di nutrimenti. Tuttavia, poiché la funzione di questo gene è critica per la pulizia della cellula, non si può ridurre la sua funzione per periodi prolungati perché si causa un accumulo di materiale non degradato, risultando in una degenerazione cellulare e diminuzione della forza muscolare. Quest’ultima situazione sembra verificarsi in una malattia muscolare genetica chiamata Distrofia muscolare di tipo 1 (DM1), in cui i ricercatori hanno trovato una riduzione di espressione di questo nuovo gene.

“La scoperta di nuovi geni che controllano la qualità dei nostri muscoli apre nuovi orizzonti non solo terapeutici – con la possibilità di sviluppare nuovi farmaci che preservino la forza – ma anche diagnostici” ha sottolineato Marco Sandri.

“Grazie alla conoscenza di questi geni e del loro funzionamento saremo in grado di identificare nuove cure per tutti i pazienti che hanno malattie ereditarie, di cui non si conosce il gene mutato”.

Lo studio, sostenuto in Italia da Fondazione Cariparo e in Francia dalla Fondazione AFM Telethon è stato condotto in stretta collaborazione con un team di ricercatori della prestigiosa McGill University di Montreal, diretto da Gilles Gouspillou Sabah NA Hussain.

 

Titolo dello studio:

MYTHO is a novel regulator of skeletal muscle autophagy and integrity

Nature Communications – 2023

Link alla pubblicazone:

https://www.nature.com/articles/s41467-023-36817-1

Autori:

Jean-Philippe Leduc-Gaudet,  Anaïs Franco-Romero,  Marina Cefis, Alaa Moamer, Felipe E. Broering, Giulia Milan, Roberta Sartori, Tomer Jordi Chaffer, Maude Dulac, Vincent Marcangeli, Dominique Mayaki, Laurent Huck, Anwar Shams, José A Morais, Elise Duchesne, Hanns Lochmuller, Marco Sandri, Sabah NA Hussain, Gilles Gouspillou.

 

Testo e immagini dagli Uffici Stampa VIMM e dell’Università di Padova

PiQuET – Piemonte Quantum Enabling Technology: INAUGURATA L’INFRASTRUTTURA DI RICERCA APPLICATA, IL FRUTTO DELLA COLLABORAZIONE TRA ISTITUTO NAZIONALE DI RICERCA METROLOGICA, POLITECNICO DI TORINO E UNIVERSITÀ DI TORINO

L’infrastruttura con sede a Torino sarà la base per lo sviluppo di molti progetti di ricerca innovativi nel campo dei dispositivi quantum, micro e nano, alcuni anche finanziati con i fondi del PNRR, a favore sia della comunità scientifica che dell’innovazione industriale.

PiQuET – Piemonte Quantum Enabling Technology 

PiQuET – Piemonte Quantum Enabling Technology – è un’infrastruttura di ricerca applicata, una facility innovativa, competitiva, all’avanguardia e a servizio del mondo industriale e accademico per lo sviluppo di nuove linee di ricerca e per affrontare sfide scientifiche e problemi ingegneristici nel campo dei dispositivi micro, nano e quantum. PiQuET – inaugurata oggi presso la sede dell’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica alla presenza del professor Pietro Asinari, Direttore scientifico dell’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica, della professoressa Giuliana MattiazzoVice Rettrice per il Trasferimento Tecnologico del Politecnico di Torino e della professoressa Cristina PrandiVice Rettrice alla ricerca dell’Università degli Studi di Torino – si pone come centro di riferimento per le tecnologie di micro e nano-fabbricazione, anche grazie alla sinergia tra un ambiente in grado di favorire lo scambio e il confronto del know-how di scienziati, ingegneri e partner industriali.

L’infrastruttura nasce da un progetto finanziato dal POR FESR 2014-2020 della Regione Piemonte, con la partecipazione dell’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica, del Politecnico di Torino e dell’Università degli Studi di Torino.

L’obiettivo di PiQuET è quello di porsi come strumento abilitante per lo sviluppo di linee di ricerca ambiziose a favore sia della comunità scientifica che dell’innovazione industriale.

Tra le dotazioni di PiQuET spicca una clean room di 400m2 in classe ISO5 e ISO6 con sei aree tecnologiche: litografia ottica/elettronica/ionica, etching e deposizione di film sottili, packaging e processi chimici wet, caratterizzazione dispositivi micro, nano e quantumInoltre sono presenti alcuni laboratori con macchinari all’avanguardia per la ricerca nel campo della Metrologia e della Comunicazione quantistica, della Microfluidica, di Additive manufacturing e di NanoBioFotonica.

L’infrastruttura – che è anche partner di It-FAB, il network italiano delle infrastrutture di ricerca nel campo delle micro e nanotecnologie – si presenta come un’eccellenza nella progettazione, fabbricazione e caratterizzazione di dispositivi di metrologia quantistica, oltre che nella crescita, caratterizzazione e lavorazione dei materiali alla micro e nanoscala per la fabbricazione di MEMS (acronimo di micro electro-mechanical systems, ovvero la tecnologia dei dispositivi microscopici che incorporano parti sia elettroniche che mobili), microsensori e Lab-On-Chip. Tutto questo grazie alla presenza costante di personale qualificato dell’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica, del Politecnico di Torino e dell’Università di Torino.

Le capacità tecnologiche dell’infrastruttura e del personale sono applicate e sviluppate nel campo della metrologia, della comunicazione, del sensing, del monitoraggio biomedico, energetico e ambientale, dei sistemi industriali e dell’additive manufacturing.

Le strutture e i macchinari di PiQuET saranno accessibili alle imprese per ricevere formazione, supporto allo sviluppo di nuovi materiali micro e nanostrutturali, alla misura e alla caratterizzazione di dispositivi per applicazioni on demand e per la progettazione e la fabbricazione di dispositivi e componenti funzionali.

L’infrastruttura di ricerca PiQuET si basa sulla sinergia strategica con il Politecnico e con l’Università di Torino e mette al centro di un progetto articolato l’eccellenza della ricerca e la capacità di fare innovazione a beneficio del territorio, dell’industria e del posizionamento internazionale delle istituzioni coinvolte –commenta il professor Pietro Asinari, Direttore scientifico dell’INRiM –  Mettiamo a fattor comune le nostre risorse, soprattutto i talenti, per creare la casa comune delle tecnologie quantistiche, della nanofabbricazione, della scienza delle misure di domani, con l’obiettivo di essere sempre più incisivi nell’innovazione e dare le risposte che le comunità di riferimento ci chiedono, siano esse locali, nazionali o europee. Questa infrastruttura è fondamentale anche per promuovere la competitività del Paese nel programma Next Generation EU (PNRR), in cui ritroviamo la visione e i valori che ci hanno guidato fin qui”.

“L’inaugurazione di PiQuET è la conclusione positiva di un percorso nato anni fa insieme a INRiM e all’Università, ma si pone anche come punto di partenza per le sfide presenti e future della ricerca e del rapporto con le imprese – commenta la professoressa Giuliana Mattiazzo, Vice Rettrice per il Trasferimento tecnologico del Politecnico di Torino – L’infrastruttura all’avanguardia infatti è a disposizione dei progetti finanziati dal PNRR per portare avanti linee di ricerca innovative e dare una mano all’evoluzione del Paese, ma è a disposizione anche del territorio per aiutare le aziende a rinnovarsi e a formare personale qualificato, in un’ottica di amplificazione dell’impatto della comunità scientifica sul tessuto imprenditoriale”.

“La realizzazione dell’infrastruttura PiQuET – dichiara la professoressa Cristina PrandiVice Rettrice per la ricerca delle scienze naturali e agrarie dell’Università di Torino – rappresenta un ottimo esempio di sinergia e di utilizzo virtuoso di fondi pubblici, e di condivisione di visione tra UNITO, POLITO e INRiM. L’investimento in infrastrutture di eccellenza consente di valorizzare il potenziale di ricerca e di innovazione di un territorio, di rafforzare i rapporti con il settore privato, di acquisire una valenza nazionale ed internazionale, attraverso l’integrazione di tali infrastrutture nelle reti paneuropee di ricerca e sviluppo. PiQuET verrà integrata e valorizzata nell’ambito delle innumerevoli attività di ricerca e trasferimento tecnologico previste nei progetti finanziati nell’ambito PNRR, realizzando così, attraverso le sinergie tra fondi, percorsi di valorizzazione di competenze, di formazione, di innovazione e di ricerca di eccellenza che contribuiranno a collocare il nostro Paese tra i più tecnologicamente avanzati a livello internazionale”.

Testo, video e immagini dall’Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino.

GRB 221009A, IL LAMPO GAMMA PIÙ LUMINOSO DI TUTTI I TEMPI

Il potente lampo di raggi gamma scoperto il 9 ottobre 2022 è un evento estremamente raro, che si verifica una volta ogni 10mila anni. Le osservazioni, realizzate da telescopi nello spazio e a terra con forte coinvolgimento italiano, saranno determinanti per comprendere le colossali esplosioni da cui hanno origine i lampi gamma. L’annuncio oggi durante una conferenza stampa presso il meeting della High Energy Astrophysics Division della American Astronomical Society, alle Hawaii, in occasione della pubblicazione dei primi risultati, che vedono la partecipazione di numerosi team di ricerca dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e Agenzia Spaziale Italiana.

I raggi X del lampo gamma GRB 221009A sono stati rilevati per settimane come luce diffusa dalla polvere nella nostra galassia, portando alla comparsa di una serie di anelli in espansione. Questa animazione mostra le immagini catturate nel corso di 12 giorni dal telescopio a raggi X a bordo del Neil Gehrels Swift Observatory della NASA.
Crediti: NASA/Swift/A. Beardmore (University of Leicester)

Il 9 ottobre 2022, numerosi telescopi spaziali in orbita attorno alla Terra e sonde operanti in diverse aree del Sistema solare hanno rivelato un forte impulso di radiazione ad altissima energia, seguita da un’emissione prolungata su tutto lo spettro elettromagnetico. La sorgente era un lampo di raggi gamma (gamma ray burst, GRB), una delle esplosioni più potenti dell’universo, così eccezionale da guadagnarsi subito il soprannome di “BOAT” dall’inglese “Brightest Of All Time”, ovvero “il più luminoso di tutti i tempi”.

GRB 221009A, il lampo gamma più luminoso di tutti i tempi
GRB 221009A, il lampo gamma più luminoso di tutti i tempi. Il telescopio spaziale XMM-Newton dell’ESA ha registrato 20 anelli di polvere, 19 dei quali sono mostrati in questa immagine, che combina le osservazioni effettuate due e cinque giorni dopo la scoperta del GRB 221009A. Le strisce scure indicano gli spazi tra i rilevatori del telescopio. L’anello più grande visibile in questa immagine è paragonabile alle dimensioni apparenti della luna piena in cielo.
Crediti: ESA/XMM-Newton/M. Rigoselli (INAF)

Chiamato correntemente GRB 221009A, il lampo è stato rivelato per la prima volta dal Fermi Gamma-Ray Space Telescope della NASA, che vede un fondamentale contributo dell’Italia attraverso l’Agenzia spaziale italiana (ASI), l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), mentre il primo a dare l’annuncio è stato il satellite Neil Gehrels Swift Observatory, sempre della NASA, anch’esso con una forte partecipazione italiana attraverso ASI e INAF. Inizialmente si riteneva che la sua sorgente potesse trovarsi nella nostra galassia, la Via Lattea, ma ulteriori dati raccolti da Swift e Fermi e dal satellite INTEGRAL dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) hanno indicato un’origine molto più lontana. Grazie alle osservazioni realizzate poche ore dopo con lo strumento X-Shooter sul Very Large Telescope dell’ESO, in Cile, si è potuta finalmente identificare la sorgente del GRB: una galassia a circa 2 miliardi di anni-luce da noi. Si tratta di una distanza ragguardevole dalla Via Lattea ma relativamente vicina se si considerano le immense scale cosmiche. È il GRB più intenso di cui sia mai stata misurata la luminosità, e il più luminoso mai visto dalla Terra nei 55 anni da quando i primi satelliti per lo studio dei raggi gamma sono stati messi in orbita. È inoltre uno dei più vicini mai osservati tra i GRB lunghi, quelli la cui emissione iniziale dura più di 2 secondi.

Marco Tavani, presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, dichiara: “Il lampo gamma cosmico GRB 221009A è un evento a dir poco eccezionale per vari motivi. Prima di tutto, per la sua intrinseca potenza, durata e straordinaria intensità; ma anche per il fatto che si sia verificato, in termini cosmici, relativamente vicino alla Terra. Una combinazione rara, che non ha eguali tra i lampi gamma cosmici osservati negli ultimi decenni. La radiazione X e gamma delle prime fasi di GRB 221009A, e di seguito quella radio, ottica e X nella fase di emissione ritardata, è stata rivelata da diversi telescopi da terra e dallo spazio in cui l’Istituto Nazionale di Astrofisica è fortemente coinvolto se non primo attore. I telescopi utilizzati nello studio di questo GRB sono equipaggiati con strumenti all’avanguardia per poter catturare la radiazione dalla sorgente associata a GRB 221009A, analizzarla e comprendere i dettagli della poderosa esplosione da cui ha avuto origine. Il lavoro delle nostre ricercatrici e dei nostri ricercatori, che hanno guidato diversi studi sin dalle prime fasi di GRB 221009A, è stato fondamentale per caratterizzare questo peculiare lampo gamma cosmico e coglierne a pieno le sue potenzialità per la comprensione dei fenomeni più energetici dell’Universo che portano alla formazione delle stelle di neutroni e dei buchi neri”.

L’analisi dei dati, confrontati con quelli di circa 7mila GRB osservati nei decenni passati con il telescopio spaziale Fermi e lo strumento russo Konus a bordo del satellite NASA Wind, ha permesso di stimare la frequenza con cui si verifica un evento così luminoso e relativamente vicino: una volta ogni 10mila anni. Il lampo era così luminoso che ha letteralmente accecato la maggior parte degli osservatori spaziali a raggi gamma, che non hanno potuto misurare la reale intensità dell’emissione. Dopo aver ricostruito i dati mancanti di Fermi e grazie al confronto con i risultati del team russo che lavora sui dati Konus e con i team cinesi che analizzano le osservazioni del rivelatore GECAM-C a bordo del satellite SATech-01 e degli strumenti a bordo dell’osservatorio Insight-HXMT, si è dimostrato che l’esplosione è stata 70 volte più luminosa di qualsiasi altra mai vista.

L’evento è stato così brillante che la sua radiazione residua, il cosiddetto afterglow, è ancora visibile e rimarrà tale per molto tempo. I risultati sono stati presentati oggi durante il meeting della High Energy Astrophysics Division della American Astronomical Society a Waikoloa, Hawaii. Gli articoli che presentano i risultati sono stati pubblicati in un numero speciale della rivista The Astrophysical Journal Letters e su Astronomy & Astrophysics.

Hanno osservato il GRB anche lo strumento NICER a bordo della Stazione spaziale internazionale, il telescopio spaziale NuSTAR della NASA, la sonda Voyager 1 che esplora lo spazio interstellare, il satellite italiano AGILE, realizzato dall’ASI con il contributo di INAF e INFN, e diversi satelliti dell’ESA, tutti con importanti contributi italiani: dai telescopi spaziali XMM-Newton e INTEGRAL alle sonde Solar Orbiter e BepiColombo fino al satellite Gaia. INTEGRAL, trovandosi in posizione ottimale, ne ha registrato sia l’emissione immediata sia l’afterglow con un’accuratezza senza precedenti. Gli scienziati ritengono che i GRB lunghi, come questo, derivino dal collasso del nucleo di una stella massiccia e la conseguente nascita di un buco nero, che emette getti di particelle ad altissima energia in direzioni opposte mentre ingurgita la materia circostante. Osservare l’afterglow del GRB, causato proprio da questi getti bipolari, ha permesso di testare i diversi modelli teorici che descrivono i processi fisici in atto nelle fasi iniziali dell’esplosione.

“Si tratta di una scoperta importante – commenta il presidente dell’ASI Giorgio Saccoccia – resa possibile anche grazie al contribuito di tutte le sonde come Fermi, Swift, INTEGRAL, AGILE, NuSTAR, IXPE, XMM, Solar Orbiter, Bepi Colombo, Gaia e CSES. Satelliti in orbita a cui ASI ha dato il suo contributo. Il merito va anche al nostro Space Science Data Center (SSDC) che mette da diverso tempo a fattor comune i dati scientifici provenienti da tutte queste missioni che hanno a bordo strumentazioni fornite da ASI. Questa visione multidisciplinare della scienza spaziale rappresenta il percorso vincente per aumentare le competenze italiane nello studio dell’Universo. Si tratta di una forte capacità dell’ASI che, da sempre, lavora insieme all’intera comunità scientifica, per lo sviluppo di tecnologie all’avanguardia, che consentono di avere una visione dell’Universo più completa”.

Dopo aver viaggiato attraverso lo spazio intergalattico, la radiazione proveniente dal GRB 221009A si è imbattuta nelle nubi di polvere presenti nel mezzo interstellare che permea la nostra galassia, la Via Lattea. Quando i raggi X incontrano la polvere, una parte di essi viene dispersa, creando anelli concentrici che sembrano espandersi verso l’esterno: una sorta di eco luminosa del lampo mentre attraversa la galassia. Il telescopio spaziale XMM-Newton ha fornito un’immagine profonda e dettagliata di 20 anelli, osservando in diversi giorni dopo la scoperta del GRB, mentre il satellite Swift ne ha monitorato l’evoluzione nel tempo. L’anello più distante è sorto dall’impatto con una nube di polvere situata a 61mila anni luce di distanza, dall’altro lato della Via Lattea, mentre il più vicino, visto solo da Swift, si è formato a circa 700 anni luce da noi. Il modo in cui una nube di polvere diffonde i raggi X dipende dalla sua distanza, dalle dimensioni dei granelli di polvere e dall’energia dei raggi X: l’analisi degli anelli creati dal GRB ha permesso di ricostruire parte della sua emissione iniziale a raggi X ma anche la distribuzione e composizione delle nubi di polvere nella nostra galassia. I dati indicano che i granelli di polvere sono composti principalmente da grafite, una forma cristallina del carbonio.

Gli anelli di polvere sono stati rivelati anche dall’osservatorio spaziale IXPE, una collaborazione tra NASA e ASI con un importante contributo di INAF e INFN, che osserva la polarizzazione dei raggi X. Il piccolo grado di polarizzazione misurato da IXPE nella fase di afterglow conferma che uno dei due getti è stato osservato in direzione quasi frontale. Da questo tipo di GRB, gli scienziati si aspettano di osservare anche una supernova poche settimane dopo, che però non è stata rivelata. Uno dei possibili motivi della mancata osservazione potrebbe essere l’attenuazione da parte di spesse nubi di polvere nel piano della Via Lattea. Tuttavia, non ha sortito successo nemmeno la ricerca nell’infrarosso effettuata con il telescopio spaziale James Webb, che ha osservato l’afterglow in contemporanea con il Telescopio Nazionale Galileo (TNG) dell’INAF. Può darsi che la stella fosse così massiccia che, dopo l’esplosione iniziale, abbia immediatamente formato un buco nero che ha inghiottito tutto il materiale circostante, impedendo la formazione di una nube di gas, il cosiddetto resto di supernova.

“Un evento davvero unico per la sua intensità e vicinanza cosmica – spiega Marco Pallavicini, vicepresidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare – che conferma il potere diagnostico delle misure di polarizzazione offerte da IXPE e dallo strumento innovativo che INFN ha sviluppato e messo a disposizione della missione, il quale si innesta in una ormai consolidata tradizione di successi ottenuti nell’ambito della realizzazione di rivelatori spaziali di sempre maggiore efficacia e capacità risolutive. Risultati certificati anche dai contributi forniti a molti degli osservatori spaziali, tra cui Fermi e AGILE, protagonisti della caratterizzazione di questo GRB senza precedenti.”

Anche sulla Terra il GRB 221009A ha fatto sentire i suoi effetti, rilasciando nei pochi minuti della sua durata circa un gigawatt di potenza nella porzione superiore della nostra atmosfera, ionizzando fortemente la parte alta della ionosfera su una larga regione geografica centrata sull’India e che ha interessato anche Europa e Asia. L’aumento del flusso di elettroni correlato con il GRB è stato misurato dal rivelatore di particelle cariche HEPP-L a bordo del China Seismo-Electromagnetic Satellite (CSES-01), che vede la partecipazione di ASI e INFN, il quale stava orbitando sopra l’Europa al momento dell’arrivo del GRB.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

IL GENOMA “IMMENSO” DEL KRILL (EUPHASIA SUPERBA) – Sequenziato il genoma del krill antartico: è 15 volte quello umano ed è il più grande di tutto il mondo animale mai sequenziato fino ad ora. Su «Cell» lo studio internazionale firmato anche da un team di ricercatori dell’Università di Padova che aiuta a comprendere meglio gli effetti del riscaldamento globale.

Il krill antartico (Euphausia superba) è l’organismo animale più abbondante sul pianeta, con una biomassa totale compresa tra i 300 e i 500 milioni di tonnellate. Questo piccolo gamberetto riveste un ruolo vitale per l’ecosistema antartico poiché rappresenta il principale collegamento tra i produttori primari che compongono il fitoplancton e i livelli più alti della catena alimentare come uccelli marini, foche, pinguini e balene. Grazie alla sua enorme biomassa, il krill incide in modo significativo su fondamentali processi biogeochimici globali quali i cicli del carbonio e il riciclo del ferro: studiarne la biologia e comprenderne le potenzialità di adattamento a un ambiente in continua evoluzione a causa degli effetti del riscaldamento globale risulta, quindi, fondamentale. Fino ad ora, l’impossibilità di ricostruire la sequenza del genoma di krill – ben 15 volte più grande di quello umano – ha rappresentato un ostacolo tecnico insormontabile per l’approfondimento degli aspetti fisiologici, molecolari e genetici del krill.

Nella ricerca dal titolo The enormous repetitive Antarctic krill genome reveals environmental adaptations and population insights, pubblicata su «Cell» e firmata da Changwei Shao del Yellow Sea Fisheries Research Institute di Qingdao in collaborazione con un team di ricercatori del Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova – composto da Cristiano De Pittà, Gabriele Sales e Alberto Biscontin (ora all’Università di Udine) –, grazie alle più innovative tecnologie di sequenziamento e ai più aggiornati metodi di analisi è stato possibile ricostruire per la prima volta l’intero genoma di krill che risulta essere il più grande di tutto il mondo animale mai sequenziato fino ad ora.

Le sue enormi dimensioni sembrano essere il risultato della duplicazione e spostamento di numerosi segmenti di DNA – gli elementi trasponibili – in posizioni diverse del genoma, e non di duplicazioni dell’intero genoma, come osservato in altre specie. In particolare, sono stati identificati due eventi recenti di accumulo degli elementi trasponibili, collegati entrambi a cambiamenti climatici, che potrebbero essere responsabili delle attuali grandi dimensioni del genoma.

«Il krill si estende dal circolo polare antartico fino alle coste meridionali dell’America latina e dell’Australia: questi ambienti sono caratterizzati da condizioni ambientali molto diverse, soprattutto in termini di temperatura, fotoperiodo e disponibilità di cibo. Questa elevata distribuzione geografica è dovuta alle grandi capacità adattative che il krill ha sviluppato per vivere in un ecosistema, quello antartico, soggetto a variazioni estreme nel corso dell’anno; si pensi ad esempio al ciclo stagionale della banchisa o alla notte polare» spiega Cristiano De Pittà, co-autore dello studio dell’Università di Padova.

Cristiano De Pittà
Cristiano De Pittà

«In tal senso, un ruolo fondamentale è svolto dall’orologio circadiano che controlla a livello molecolare l’espressione ritmica giornaliera e stagionale di numerosi geni – continua Alberto Biscontin, co-autore dello studio e ricercatore dell’Università di Padova al momento della ricerca –. Il sequenziamento del genoma ha permesso di identificare 625 geni la cui espressione risulta essere sotto il controllo diretto dell’orologio endogeno e potrebbero, quindi, rappresentare il fulcro del processo di adattamento fisiologico e comportamentale di questo organismo alle estreme variazioni stagionali a cui è sottoposto».

Alberto Biscontin
Alberto Biscontin

La presenza della corrente circumpolare antartica (ACC), inoltre, è responsabile di altissimi livelli di connettività tra le diverse aree geografiche. Per anni la popolazione di krill antartico è stata ritenuta geneticamente omogenea: il sequenziamento del genoma ha portato all’identificazione di milioni di nuovi marcatori genetici (Single Nucleotide Polymorphisms) che hanno permesso, per la prima volta, di eseguire una completa analisi della struttura della popolazione di krill antartico mettendo in luce le tracce genetiche di quattro diverse popolazioni ancestrali ancora presenti in krill provenienti da altrettante regioni geografiche.

«Il genoma di Euphausia superba, oltre ad essere una sfida tecnologica vinta, riapre il dibattito sul significato biologico dei grandi genomi e rappresenta una preziosissima risorsa che fornirà nuovi e importanti elementi per una comprensione sempre maggiore della biologia e del ruolo ecologico di questa specie» conclude Gabriele Sales, anche lui co-autore dello studio dell’ateneo patavino.

Gabriele Sales
Gabriele Sales

Link alla ricerca: https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0092867423001071

Titolo: The enormous repetitive Antarctic krill genome reveals environmental adaptations and population insights – «Cell» – 2023

Autori: Changwei Shao, Shuai Sun, Kaiqiang Liu, Jiahao Wang, Shuo Li, Qun Liu, Bruce E. Deagle, Inge Seim, Alberto Biscontin, Qian Wang, Xin Liu, So Kawaguchi, Yalin Liu, Simon Jarman, Yue Wang, Hong-Yan Wang, Guodong Huang, Jiang Hu, Bo Feng, Cristiano De Pittà, Shanshan Liu, Rui Wang, Kailong Ma, Yiping Ying, Gabriele Sales, Tao Sun, Xinliang Wang, Yaolei Zhang, Yunxia Zhao, Shanshan Pan, Xiancai Hao, Yang Wang, Jiakun Xu, Bowen Yue, Yanxu Sun, He Zhang, Mengyang Xu, Yuyan Liu, Xiaodong Jia, Jiancheng Zhu, Shufang Liu, Jue Ruan, Guojie Zhang, Huanming Yang, Xun Xu, Jun Wang, Xianyong Zhao, Bettina Meyer, Guangyi Fan

Krill antartico genoma

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Padova.

TORNA A RACCONTARE LA STRAORDINARIA TRADIZIONE CELESTE CITTADINA IL MUSEO ASTRONOMICO COPERNICANO DI ROMA, NEL SEGNO DI COPERNICO

L’evento è inserito nelle iniziative internazionali legate alle celebrazioni per il 550° anniversario della nascita dell’astronomo polacco Niccolò Copernico.

Museo Astronomico Copernicano a Roma

Il Museo Astronomico Copernicano situato sulla collina di Monte Mario a Roma, all’interno di Villa Mellini che ospita la Sede Centrale dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, si mostra rinnovato alla Città: il nuovo allestimento è stato ufficialmente presentato oggi pomeriggio, durante la cerimonia di inaugurazione che ha visto la presenza dell’Ambasciatore della Repubblica di Polonia a Roma S.E. Anna Maria Anders, del Presidente dell’INAF Marco Tavani e di rappresentanti del Ministero dell’Università e della Ricerca, del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, del Ministero della Cultura e del Comune di Roma

L’inaugurazione del nuovo allestimento museale, pensato come un ideale viaggio nell’Astronomia, dai suoi albori fino  ad oggi e con uno sguardo ai più ambiziosi progetti futuri, è inserita nelle iniziative internazionali legate alle celebrazioni per il 550° anniversario della nascita dell’astronomo polacco Niccolò Copernico.

Tavani commenta: “È una grande gioia inaugurare oggi, alla presenza di prestigiosi esponenti delle istituzioni e dell’Ambasciatore della Polonia, il nuovo allestimento del Museo Copernicano, che abbiamo fortemente voluto per rendere merito al suo valore storico e restituirlo alla cittadinanza. Come ai tempi di Copernico siamo sull’orlo di una nuova rivoluzione  nel campo dell’astrofisica e l’Istituto Nazionale di Astrofisica di questa rivoluzione è protagonista, con le sue ricerche di frontiera che porteranno a una conoscenza sempre più profonda dell’Universo in cui viviamo”.

Il Museo Astronomico e Copernicano dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Roma  possiede un patrimonio che abbraccia un periodo storico che va dall’XI secolo ai nostri giorni. Gli strumenti scientifici, i libri antichi, gli archivi, i documenti originali e i registri di osservazione provengono principalmente dai due osservatori astronomici romani dell’Ottocento, la Specola del Collegio Romano (1787) e la Specola del Campidoglio (1827), nonché dalle celebri collezioni del Museo Kircheriano (1651).

Questo patrimonio si aggiunge alla originale collezione di opere e cimeli copernicani raccolti dallo storico polacco Arturo Wolynski in occasione delle celebrazioni di Niccolò Copernico (1473-1543) nel 400° anniversario della nascita tenutesi a Roma nel 1873, che costituisce il nucleo originale del Museo e ne motiva la dedicazione al grande scienziato polacco, in visita nella Città Eterna nel corso del Giubileo del 1500.

Sua Eccellenza Ambasciatore della Repubblica di Polonia a Roma Anna Maria Anders commenta: “Per noi polacchi il Museo Astronomico Copernicano è un luogo dell’anima, perché parla della nostra Patria, della nostra cultura, della nostra storia. Questo tempio della scienza e della memoria è anche un simbolo dell’amicizia plurisecolare tra Italia e Polonia, che si rinnova qui a Roma proprio nel 550° della nascita di Copernico”.

Il percorso storico si sviluppa attraverso quattro sale – Strumenti pre-galileiani e cannocchiali antichi; Evoluzione dell’ottica; Geodesia, Topografia e computo del Tempo; Globi terrestri e Celesti – che conducono alla più ampia Sala Copernicana riservata ad esposizioni temporanee e a un’ultima stanza che illustra presente e futuro della ricerca astrofisica in cui l’Italia con l’INAF è protagonista a livello globale.

“Il nuovo allestimento inaugurato in occasione dei 550 anni della nascita di Copernico, consentirà ai visitatori di muoversi attraverso un percorso che li accompagnerà dalle origini del pensiero astronomico, alla Rivoluzione Eliocentrica che ha dato l’avvio a quella Scientifica, fino ai giorni nostri, toccando le tappe principali che hanno segnato la comprensione del nostro universo con un occhio alla ricchissima storia della scienza del cielo romana” sottolinea Lucio Angelo Antonelli, direttore dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Roma.

Nei giorni e nei mesi a venire il Museo Astronomico e Copernicano sarà coinvolto nell’ambito di numerose importanti iniziative culturali che lo vedranno spesso aperto al pubblico cittadino, tra cui le Giornate di Primavera del FAI (Fondo Ambiente Italiano), il Festival delle Scienze dell’Auditorium e il programma “Open House”.

Questo percorso condurrà ad una apertura regolare su prenotazione dopo l’estate, in coincidenza con l’avvio del nuovo anno scolastico e un grande congresso Internazionale alla fine di settembre, dedicato proprio alla figura di Copernico e alle sue relazioni con Roma e l’Italia.

Da quel momento il museo sarà visitabile da scuole, gruppi e privati cittadini con modalità che verranno pubblicizzate sul portale dell’INAF e dell’Osservatorio Astronomico di Roma.

IL MUSEO ASTRONOMICO E COPERNICANO

L’idea di un museo copernicano nacque in occasione delle celebrazioni del 4° centenario della nascita di Copernico tenutesi a Roma presso l’Università La Sapienza nel 1873.

Il principale promotore di questa iniziativa fu Artur Wolynski, uno storico polacco studioso di Copernico e di Galileo.

La collezione originaria è costituita da cimeli copernicani, volumi antichi, stampe e materiali di archivio ed è stata raccolta da Wolynski attraverso donazioni provenienti dalla Polonia.

Fu arricchita da materiale scientifico proveniente dagli osservatori astronomici italiani e in particolare da tutta la strumentazione ormai in disuso dei due osservatori astronomici romani del XIX secolo, l’Osservatorio del Collegio Romano e l’Osservatorio del Campidoglio.

Il Museo divenne quindi una collezione completa di strumenti astronomici di tutte le epoche, libri antichi e documenti d’archivio, che mostrano l’evoluzione delle conoscenze astronomiche dalle origini fino alla nascita dell’astrofisica e ai giorni nostri.

La prima sala è dedicata agli strumenti pre-galileiani e alla collezione dei cannocchiali antichi.

Nella teca centrale è esposta la collezione di astrolabi e notturnali.

L’astrolabio arabo valenziano di Ibrahim ibn Said al-Sahli è l’oggetto più antico del museo e risale al 1070. Questo astrolabio proviene dal Museo Kircheriano presso il Collegio Romano ed è stato trasferito al Museo Copernicano nel 1886.

Sempre in questa sala c’è la collezione dei cannocchiali più antichi.

I cannocchiali qui esposti sono del XVII e XVIII secolo e sono realizzati in carta, cartone, pelle e legno.

La seconda sala è dedicata all’evoluzione dell’ottica

Qui è presente anche la collezione di telescopi riflettori realizzati secondo gli schemi ottici proposti da Newton e da James Gregory.

Gli specchi venivano realizzati di metallo (una lega di rame e stagno facilmente levigabile) molto ben lucidato per diventare riflettente.

In questa sala sono esposti anche spettroscopi, che venivano utilizzati nella seconda metà del XIX secolo insieme ai telescopi, dagli astronomi Angelo Secchi e Lorenzo Respighi, direttori rispettivamente dell’Oss. Astr. del Collegio Romano e dell’Oss.Astr. del Campidoglio. Essi furono tra I pionieri dell’astrofisica. Furono tra i primi a condurre studi sistematici dello spettro della luce proveniente dal sole e dalle altre stelle per comprendere le caratteristiche chimiche e fisiche dei corpi celesti. Secchi è considerato il padre dell’astrofisica poiché fu il primo a proporre una classificazione spettrale delle stelle basata sullo studio dello spettro di circa 2000 stelle, ponendo così le basi degli studi successivi che hanno portato alla comprensione dei meccanismi evolutivi delle stelle.

La terza sala è dedicata alla geodesia e alla topografia

In questa sala sono esposte le collezioni di circoli moltiplicatori, teodoliti, grafometri, compassi, goniometri, sestanti, ottanti, orologi solari e meccanici, utilizzati per misurare le coordinate terrestri e celesti.

Questa attività era utile non solo per comprendere i movimenti delle stelle e dei pianeti, ma anche per disegnare le mappe geografiche e i confini dei territori ed anche per identificare le rotte delle navi in mare aperto.

La sala dei globi

La collezione dei globi è molto vasta ed è composta da esemplari di autori delle diverse epoche. I più antichi sono i tre globi di Gerardo Mercatore della metà del XV secolo. Il globo posto al centro della sala è stato realizzato da Vincenzo Maria Coronelli nel 1696.

Per maggiori informazioni visita questo sito: https://www.beniculturali.inaf.it/musei/roma/

Testi e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

Charme: la molecola di lncRNA che controlla lo sviluppo del cuore
Charme è un lncRNA che controlla lo sviluppo cardiaco attraverso circuiti molecolari che si instaurano nel muscolo grazie alla sua interazione con la proteina Matrin3 

La molecola di RNA è in grado di costruire specifiche reti di interazione per un controllo temporale e spaziale dei processi di formazione del cuore.

È quanto dimostrato da un nuovo studio coordinato dal Dipartimento di Biologia e biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza e pubblicato sulla rivista eLife.

Charme: la molecola di lncRNA che controlla lo sviluppo del cuore 
Crediti per l’immagine: Taliani et al.

Per affrontare la complessità dei processi biologici, le cellule sfruttano molteplici sistemi di regolazione, spesso basati sull’attività di molecole di RNA, come nel caso dei lunghi RNA non codificanti (long non coding RNA, lncRNA) che non producono proteine. Queste molecole sono in grado di costruire specifiche reti di interazione per un controllo temporale e spaziale dei processi biologici.

È il caso di Charme, un lncRNA che controlla lo sviluppo cardiaco attraverso circuiti molecolari che si instaurano nel muscolo grazie alla sua interazione con la proteina Matrin3. Matrin3 è coinvolta in diverse miopatie e in malattie neurodegenerative, come la Sclerosi laterale amiotrofica (SLA).

Un nuovo studio italiano pubblicato sulla rivista internazionale eLife e coordinato dal Dipartimento di Biologia e biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza in collaborazione con l’Istituto italiano di tecnologia e l’European Molecular Biology Laboratory ha rivelato il ruolo chiave di Charme nell’accensione di geni necessari alla maturazione delle cellule del cuore. La presenza di Charme già durante le fasi embrionali dello sviluppo cardiaco, si è rivelata fondamentale per guidare Matrin3 sui giusti contesti genomici, promuovendo la funzionalità e lo sviluppo cardiaco.

“Tra i piani futuri del laboratorio – spiega Monica Ballarino della Sapienza – c’è l’ulteriore caratterizzazione funzionale di Charme che è abbondantemente espresso nel muscolo umano. Questo permetterà una migliore comprensione della fisiologia e dello sviluppo del cuore ed il disegno di nuove strategie diagnostiche e terapeutiche per le patologie cardiache.”

Riferimenti:

The long noncoding RNA Charme supervises cardiomyocyte maturation by controlling cell differentiation programs in the developing heart – Valeria Taliani, Giulia Buonaiuto, Fabio Desideri, Adriano Setti, Tiziana Santini, Silvia Galfrè, Leonardo Schirone, Davide Mariani, Giacomo Frati, Valentina Valenti, Sebastiano Sciarretta, Emerald Perlas, Carmine Nicoletti, Antonio Musarò, Monica Ballarino – eLife 2023 https://doi.org/10.7554/eLife.81360

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Le piante delle Alpi in fuga dal caldo

Pubblicato su «PNAS» lo studio dell’Università di Padova e della Fondazione Museo Civico di Rovereto in cui si dimostra come la maggioranza delle piante delle Alpi nord orientali italiane si sposta verso quote più alte come risposta ai cambiamenti climatici. Il Bromus erectus, ad esempio, negli ultimi trent’anni si è spostato con una velocità di circa 3 metri l’anno. Il Sorghum halepense, una specie aliena, si è spostato con una velocità di 4 metri l’anno. Diverso è il caso della Pulsatilla montana, specie rara, che ha retratto la sua distribuzione storica di circa 50 metri nei trent’anni. Le piante aliene, soprattutto negli ambienti antropizzati, sono molto veloci a crescere e sottraggono le risorse alle altre specie autoctone.

È stata pubblicata sulla rivista internazionale «Proceedings of the National Academy of Sciences» (PNAS) la ricerca dal titolo “Red-listed plants are contracting their elevational range faster than common plants in the European Alps” firmato dal professor Lorenzo Marini e dalla dottoressa Costanza Geppert del Dipartimento di Agronomia, Animali, Alimenti, Risorse naturali e Ambiente dell’Università di Padova insieme ad Alessio Bertolli e Filippo Prosser, botanici della Fondazione Museo Civico di Rovereto, sulle variazioni della distribuzione geografica delle piante alpine in base ai cambiamenti a lungo termine delle temperature.

Lo studio ha monitorato non solo la presenza, ma anche la tipologia (autoctona comune, autoctona rara e aliena) della flora situata sulle Alpi Nord-orientali italiane: in questi tre decenni vi è stato uno spostamento verso quote più alte delle popolazioni di piante. Eppure la distribuzione delle specie autoctone rare non si è espansa verso l’alto in concomitanza con i cambiamenti climatici, ma si è, anzi, contratta. Infine le piante aliene, invece, si sono diffuse rapidamente a quote più alte spostandosi con la stessa velocità del riscaldamento climatico pur mantenendo la loro presenza anche a valle.

ALPI LE PIANTE IN FUGA DAL CALDO
Papaveri. Credits: Paolo Paolucci

La pubblicazione, frutto della collaborazione di Lorenzo Marini e Costanza Geppert dell’Università di Padova con Filippo Prosser e Alessio Bertolli, esperti botanici della Fondazione Museo Civico di Rovereto, dimostra che la flora alpina vive un profondo mutamento. Alcune popolazioni di piante, per effetto del cambiamento climatico, sono sottoposte a temperature troppo alte per la loro sopravvivenza. Per questa ragione alcune specie “migrano” a quote più alte, dove si trovano condizioni termiche più fredde.

Tuttavia non è solo l’innalzamento della temperatura a sconvolgere la flora alpina, anche l’attività dell’uomo ha un importante impatto poiché a valle si concentrano le attività antropiche e vi è maggiore è una pressione sull’ambiente.

Il paesaggio alpino ha subito importanti trasformazioni negli ultimi anni: sono aumentate a valle le aree urbane o agricole e, parallelamente, sono stati abbandonati i prati semi-naturali – non sfruttabili da un’agricoltura sempre più intensiva – a quote intermedie.

Le piante delle Alpi in fuga dal caldo: Pulsatilla montana. Credits: Paolo Paolucci

Come è stata calcolata la velocità di risalita? Per prima cosa si è stimata, per ogni specie, la distribuzione di densità (probabilità) in cui si verificava il fenomeno. Il margine caldo è stato collocato nel 10% (quantile) della distribuzione, quello freddo nel restante 90%. Lo spostamento è stato misurato raffrontando (in sottrazione) i quantili storici del periodo 1990-2004 da quelli attuali 2005-2019.

Per specie aliena si intende una qualsiasi specie vivente (nel nostro caso vegetale) che, a causa dell’azione dell’uomo (accidentale o deliberata), si trova ad abitare e colonizzare un territorio diverso dal suo areale di origine, autosostenendosi riproduttivamente nel nuovo sito. In particolare, nel studio, sono state considerate aliene le specie consolidate introdotte dall’uomo in Europa da un altro continente dopo il XVI secolo. Come specie aliena, il Sorghum halepense, negli ultimi trent’anni, ha spostato il margine freddo della sua distribuzione verso quote più elevate con una velocità di circa 4 metri l’anno.

Le specie comuni, quelle autoctone non inserite nella lista rossa IUCN (organismo mondiale che monitora lo stato del mondo naturale e propone misure necessarie per la sua salvaguardia), si sono spostate verso quote più elevate. Questo movimento, però, non è stato omogeneo. Un esempio può essere il Bromus erectus che si è spostato di circa 3 metri l’anno al margine freddo e 5 metri l’anno al margine caldo, restringendo, quindi, la sua distribuzione totale. La Pulsatilla montanaspecie rara, non ha conquistato quote più elevate ma ha, anzi, retratto la sua distribuzione storica di circa 50 metri.

Costanza Geppert
Costanza Geppert

«In ecologia è raro poter esaminare dati con una buona risoluzione spaziale e temporale. In questo studio abbiamo potuto analizzare i cambiamenti di distribuzione di più di un milione di record di 1.479 specie alpine in un periodo di trent’anni – spiega Costanza Geppert, prima autrice dello studio –. I valori sono stati registrati con dei rilievi floristici in campo dal team di botanici della Fondazione Museo Civico di Rovereto che ha mappato per più di trent’anni le specie presenti nella provincia di Trento.Dalla nostra analisi sono emersi risultati allarmanti: le piante rare sono in diminuzione».

Lorenzo Marini
Lorenzo Marini

«La rapida perdita delle aree di distribuzione specifica delle piante rare si è verificata in zone in cui le attività umane e le pressioni ambientali sono elevate. Questo ci suggerisce che bisognerebbe proteggere anche alcune aree a valle e non solo le zone d’alta quota più remote – afferma Lorenzo Marini, coordinatore dello studio –. Quello che abbiamo fatto è stato misurare l’abilità a competere, anche con l’uomo, delle specie vegetali. Le piante aliene in condizioni di disturbo – per fertilizzazione, rimozione della vegetazione residente per la costruzione di una casa, una strada o un parcheggio – sono molto veloci a crescere e sfruttare le risorse presenti, sottraendole alle altre specie autoctone. Dal nostro studio è emerso che proprio nelle aree più antropizzate e disturbate le piante aliene sono particolarmente abili a competere con le altre specie».

«Sono numerose le specie floristiche minacciate legate agli ambienti agricoli tradizionali e a prati e pascoli – osservano Filippo Prosser e Alessio Bertolli, botanici esperti della Fondazione Museo civico di Rovereto che hanno coordinato i rilievi di campo in Trentino –. Le zone aperte rischiano di scomparire poiché nelle aree più acclivi e scomode sono in fase di abbandono, mentre in quelle pianeggianti vicino alle strade sono soggette a sempre più eccessive concimazioni e pascolamenti, che determinano una banalizzazione della componente floristica. Il pericolo è perdere specie davvero uniche e preziose per la biodiversità delle nostre Alpi».

Link alla ricerca: https://www.pnas.org/doi/10.1073/pnas.2211531120

Titolo: “Red-listed plants are contracting their elevational range faster than common plants in the European Alps” – «PNAS» 2023

Autori: Costanza Geppert, Alessio Bertolli, Filippo Prosser, Lorenzo Marini.

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Padova.

JWST CATTURA LE GALASSIE CHE HANNO REIONIZZATO L’UNIVERSO

Un team internazionale di ricercatrici e ricercatori guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha studiato 29 galassie ai primordi dell’universo, stimando per la prima volta la frazione di luce da esse rilasciata in grado di ionizzare il gas circostante. Questo lavoro è stato reso possibile grazie al telescopio spaziale JWST e l’aiuto di un massiccio ammasso di galassie che, come una lente, ha amplificato la luce proveniente dalle galassie ancora più distanti.

Le prime stelle e galassie nella storia dell’universo, nate oltre tredici miliardi di anni fa, quando il cosmo aveva solo poche centinaia di milioni di anni d’età, si sono formate a partire da una miscela di gas neutro, costituito principalmente da atomi di idrogeno. La radiazione energetica proveniente da queste prime stelle e galassie ha poi contribuito, nelle centinaia di milioni di anni seguenti, a trasformare questo gas e ionizzarlo, cioè scinderlo in elettroni e protoni. Gli astronomi la chiamano “reionizzazione” poiché durante questa fase il mezzo intergalattico che pervade l’universo, da neutro, torna a essere ionizzato come lo era nel cosmo primordiale. Non è però ancora chiaro quali galassie abbiano contribuito maggiormente a reionizzare il mezzo intergalattico nei primi stadi di questo processo, né quale percentuale di fotoni – le particelle di luce – con energie sufficienti a ionizzare il gas circostante sia fuoriuscita dai diversi tipi di galassie presenti all’epoca.

JWST CATTURA LE GALASSIE CHE HANNO REIONIZZATO L’UNIVERSO
JWST cattura le galassie che hanno reionizzato l’universo. JWST-Abell-2744: L’ammasso di galassie Abell 2744, chiamato anche Ammasso di Pandora, osservato con il telescopio spaziale Webb. L’ammasso agisce da lente gravitazionale, amplificando la luce proveniente da sorgenti più distanti e permettendo di rilevare galassie tra le prime a formarsi nella storia dell’universo. Crediti: NASA, ESA, CSA, I. Labbe (Swinburne University of Technology), R. Bezanson (University of Pittsburgh), A. Pagan (STScI)

Con il suo specchio dal diametro di 6,5 metri e la sensibilità osservativa nella banda infrarossa, il James Webb Space Telescope (JWST), osservatorio spaziale della NASA in collaborazione con ESA e CSA, può spingersi indietro nel tempo fino alle galassie più distanti, tra le prime a formarsi nella storia dell’universo. Il progetto GLASS, una collaborazione internazionale di ricercatrici e ricercatori in 24 istituti di ricerca e università tra Italia, Stati Uniti, Giappone, Danimarca, Australia, Cina e Slovenia, che utilizza JWST per cercare risposta ai quesiti ancora aperti sulla reionizzazione cosmica, ha recentemente pubblicato un nuovo articolo a guida italiana sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

“Abbiamo studiato, tramite osservazioni spettroscopiche e fotometriche ottenute con JWST, 29 galassie lontane e siamo riuscite a misurare in maniera indiretta le loro capacità ionizzanti, dato che a distanze così elevate non è possibile osservare direttamente i fotoni di così alta energia che sono quelli che hanno portato alla reionizzazione del mezzo intergalattico”, spiega la prima autrice del nuovo articolo Sara Mascia, dottoranda in Astronomy, Astrophysics and Space Science all’Università di Roma Tor Vergata, che porta avanti la sua ricerca presso l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). “Questo studio dimostra la capacità di JWST non solo di trovare le galassie più distanti ma anche di svelarne le proprietà fisiche.”

La luce proveniente da queste galassie, catturata con gli strumenti NIRCam e NIRSPec a bordo di JWST, è stata emessa quando l’universo aveva un’età compresa tra circa 650 milioni e 1,3 miliardi di anni. Prima di queste osservazioni, le proprietà ionizzanti di queste lontanissime galassie erano ignote, soprattutto per quanto riguarda le galassie di piccola massa, molto difficili da studiare.

“Abbiamo stimato per la prima volta la capacità ionizzante delle galassie nell’epoca della reionizzazione: in particolare, siamo riusciti a stimare quanti fotoni ionizzanti fuoriescono dalle galassie di piccola massa grazie all’effetto di lente gravitazionale da parte di Abell 2744, un ammasso di galassie che si trova tra noi e le galassie distanti e amplifica il loro segnale”,

aggiunge Laura Pentericci, ricercatrice INAF a Roma e co-autrice del nuovo lavoro.

“I nostri risultati indicano che oltre l’80 percento delle galassie osservate contribuisce in maniera significativa alla reionizzazione.”

Nuove osservazioni che saranno realizzate prossimamente con JWST estenderanno questa analisi a campioni più grandi di galassie, includendo quelle con masse più elevate o più distanti. Lo scopo è di determinare se la maggior parte dei fotoni che hanno contribuito a reionizzare l’universo sia stata fornita da galassie più massicce e luminose di quelle osservate oppure se, come ritenuto dai principali modelli attuali, il contributo maggiore sia dovuto alle galassie più deboli, molto più numerose.


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Closing in on the sources of cosmic reionization: first results from the GLASS-JWST program”, di S. Mascia, L. Pentericci, A. Calabrò, T. Treu, P. Santini, L. Yang, L. Napolitano, G. Roberts-Borsani, P. Bergamini, C. Grillo, P. Rosati, B. Vulcani, M. Castellano, K. Boyett, A. Fontana, K. Glazebrook, A. Henry, C. Mason, E. Merlin, T. Morishita, T. Nanayakkara, D. Paris, N. Roy, H. Williams, X. Wang, G. Brammer, M. Bradac, W. Chen, P. L. Kelly, A. M. Koekemoer, M. Trenti, R. A. Windhorst, è stato pubblicato online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

 

Allo studio hanno partecipato anche ricercatori delle università di Ferrara e Statale di Milano.

Testo e immagine dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

Le valanghe neurali e l’epilessia: una pista per la diagnosi
Anche quando non sono in corso crisi epilettiche, il cervello di un paziente con epilessia presenta alcune alterazioni. Lo studio dell’IRCCS Medea, dell’Institut de Neurosciences des Systèmes di Marsiglia e dell’Università di Padova apre la strada ad una diagnosi meno invasiva.

diagnosi epilessia stato di riposo
Foto di Samuel Scalzo

La diagnosi dell’epilessia può essere problematica per i pazienti, che a volte devono indossare caschi ed elettrodi per periodi di tempo prolungati in attesa che si verifichi un episodio critico, in modo che i medici possano documentarlo con l’EEG. In alternativa, la crisi può essere indotta artificialmente, causando disagio.

Una nuova ricerca dello Human Brain Project, progetto europeo che sta per terminare dopo 10 anni di lavori, ha scoperto che nel cervello dei pazienti affetti da epilessia è possibile rilevare cambiamenti nelle attivazioni neuronali su larga scala in stato di riposo, anche quando non sono in corso crisi epilettiche, e apre quindi la strada ad una diagnosi meno invasiva.

Il lavoro nasce da una collaborazione tra l’IRCCS Medea – La Nostra Famiglia (Conegliano), l’Institut de Neurosciences des Systèmes di Marsiglia e il Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università di Padova. Pubblicato sulla rivista Epilepsia, lo studio ha confrontato l’elettroencefalogramma (EEG) ad alta densità di 37 pazienti con epilessia del lobo temporale con controlli sani.

Mentre il cervello è a riposo, si generano costantemente onde spontanee di attivazione neuronale. La loro funzione non è del tutto chiara, ma sembra che svolgano un ruolo importante nella funzionalità del cervello. I ricercatori hanno dimostrato che anche durante lo stato di riposo è possibile rilevare un’alterazione dei modelli di propagazione delle cosiddette “valanghe neuronali” su larga scala, suggerendo una potenziale applicazione diagnostica nell’epilessia. Queste valanghe neuronali sono innescate dall’attivazione spontanea di un gruppo di neuroni che poi si diffonde in vaste aree del cervello, con un effetto a cascata.


Questo nuovo metodo è in grado di rilevare le caratteristiche rilevanti dell’epilessia semplicemente tenendo conto dell’organizzazione funzionale basale del cervello” spiegano Gian Marco Duma e Pierpaolo Sorrentino, ricercatori rispettivamente presso IRCCS Medea e l’Institut de Neurosciences des Systèmes di Marsiglia, che hanno collaborato a questo studio. “Anche quando non si verificano crisi epilettiche, il cervello di un paziente con epilessia presenta alcune alterazioni nelle dinamiche di rete su scala cerebrale. Abbiamo quindi pensato che sarebbe stato possibile esaminare le dinamiche cerebrali aperiodiche osservando la diffusione delle valanghe neuronali spontanee”.

“Abbiamo scoperto che l’alterazione della diffusione delle valanghe neuronali nell’epilessia del lobo temporale si raggruppa intorno a quelle aree cerebrali che sono fondamentali per l’innesco e la diffusione delle crisi”, affermano Duma e Sorrentino. “Questo apre la possibilità di un nuovo metodo diagnostico preliminare, particolarmente importante per i casi difficili in cui l’EEG del cuoio capelluto non riesce a rilevare le crisi e sono necessarie ulteriori indagini “.


I risultati hanno anche rilevato un legame tra l’alterazione della diffusione della valanga neuronale e la memoria, che è spesso compromessa nei pazienti con epilessia. Il lobo temporale è specificamente associato alla memorizzazione e modelli specifici di propagazione dell’attività neuronale allo stato di riposo potrebbero essere alterati dall’epilessia alterandone il funzionamento.

“Questa scoperta ci offre ulteriori prove della rilevanza neurofisiologica e neuropsicologica delle valanghe neuronali, mettendo il relazione le dinamiche neurali con il funzionamento cognitivo”, suggeriscono i ricercatori.


Gian Marco Duma, Alberto Danieli, Giovanni Mento, Valerio Vitale, Raffaella Scotto Opipari, Viktor Jirsa, Paolo Bonanni, Pierpaolo Sorrentino
Altered spreading of neuronal avalanches in temporal lobe epilepsy relates to cognitive performance: a resting-state hdEEG study, Epilepsia
https://doi.org/10.1111/epi.17551

 

Testo dall’Ufficio Stampa IRCCS E. Medea – Ass. La Nostra Famiglia

Dal 14 marzo al 12 maggio 2023
Università di Milano-Bicocca
Spazio espositivo della Biblioteca di Ateneo
Edificio U6 “Agorà” – 2° piano
Piazza dell’Ateneo Nuovo 1, Milano

Medici in guerra. Testimonianze del primo conflitto mondiale
dagli archivi storici dell’Università di Milano-Bicocca

Medici in guerra. Testimonianze del primo conflitto mondiale
In occasione del Venticinquesimo anniversario della nascita dell’Università di Milano-Bicocca, il Polo di Archivio Storico (PAST) della Biblioteca di Ateneo e il Centro Aspi – Archivio storico della psicologia italiana mettono in mostra – in un percorso articolato in 10 sezioni – fotografie, oggetti e documenti conservati nei propri archivi.
Si tratta di materiali appartenuti a medici, neurologi, psichiatri e psicologi italiani che parteciparono in gioventù al primo conflitto mondiale, alcuni ancora studenti in medicina, altri appena laureati, altri ancora già avviati alla professione. Una tragica esperienza che influenzò le loro vite, lasciando un segno anche nei loro percorsi professionali.
Gli scatti fotografici, i diari, le corrispondenze, gli opuscoli, i cimeli, le onorificenze di questi ufficiali medici aprono una finestra sull’esperienza bellica, mostrandoci i suoi mutevoli volti e le sue tragiche ricadute sulla vita dei soldati e dei civili.
La mostra sui “Medici in guerra”, è curata da Barbara Bracco, docente di Storia Contemporanea presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Milano-Bicocca e da Dario De Santis, storico della scienza presso il Centro di ricerca Aspi – Archivio Storico della Psicologia Italiana dell’Università di Milano-Bicocca.
L’inaugurazione della mostra si terrà martedì 14 marzo alle ore 15, presso la sede centrale della Biblioteca di Ateneo (Edificio U6 “Agorà”, piazza dell’Ateneo Nuovo 1, Milano). Sarà l’occasione per parlarne con i due curatori, Barbara Bracco e Dario De Santis, e con Carlo Stiaccini, docente di Storia contemporanea dell’Università di Genova. Per tutti i dettagli, questo è il sito di riferimento.
Sarà possibile visitare la mostra presso la sede centrale della Biblioteca di Ateneo dal 14 marzo al 12 maggio 2023 nei seguenti giorni e orari:
  • dal lunedì al venerdì dalle 9.00 alle 21:30
  • il sabato dalle 9.00 alle 13.30

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca