News
Ad
Ad
Ad
Tag

Zoologia

Browsing

Cambiamento climatico: rondini più piccole ma non per selezione naturale

 Un gruppo di ricercatori dell’Università di Milano ha esaminato le dimensioni corporee di 9000 rondini nidificanti in Pianura Padana dal 1993 al 2023, evidenziando una riduzione della massa corporea e della lunghezza di ali e sterno negli ultimi anni. Lo studio, pubblicato su Journal of Animal Ecology, ipotizza come causa di questa alterazione i cambiamenti ambientali.

 

Milano, 3 aprile 2025 – Più piccole e forse più a rischio. Con l’aumento delle temperature, la dimensione delle rondini è diminuita. Tuttavia, non si tratta di un adattamento evolutivo che garantirebbe un miglior adattamento al clima sempre più caldo in cui si riproducono, ma potrebbe essere una conseguenza di condizioni ambientali peggiorate e compromettere la loro sopravvivenza a lungo termine.

È questa la conclusione a cui è giunto un team di ricercatori del Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università degli Studi di Milano e pubblicato su Journal of Animal Ecology.

La ricerca, condotta sulla popolazione italiana di rondini (Hirundo rustica) nidificanti in Pianura Padana nell’arco di 31 anni (1993-2023) ha evidenziato come in questi decenni si sia verificato un calo significativo nella massa corporea, nella lunghezza dello sterno e delle ali, mentre il becco e le zampe non hanno subito variazioni altrettanto evidenti.

I ricercatori si sono quindi domandati se questa alterazione fosse dovuta a un adattamento evolutivo o se la causa risiedesse in altro. Da un lato, questo cambiamento è in linea con le regole ecogeografiche di Bergmann (dal biologo tedesco Christian Bergmann) e di Allen (Joel Asaph Allen, zoologo e ornitologo statunitense) che mettono in relazione le dimensioni degli animali e delle loro appendici (ad esempio code, zampe, orecchie, becchi) con le condizioni termiche dell’ambiente in cui vivono: nelle regioni calde sono più comuni animali di piccole dimensioni (regola di Bergmann) con appendici corporee estese (regola di Allen), rispetto agli ecosistemi freddi. Gli animali di taglia piccola hanno infatti un rapporto tra superficie e volume maggiore rispetto agli animali più grossi. Questa caratteristica, amplificata dalla presenza di appendici corporee estese, consente una più efficiente dissipazione del calore, un chiaro vantaggio per gli organismi che vivono in ambienti caldi. Il rimpicciolimento del corpo delle rondini, unito alla minima variazione di becco e zampe, sembrerebbe quindi coerente con un adattamento evolutivo all’aumento delle temperature primaverili-estive verificatesi nell’area di studio.

Tuttavia, analizzando i dati relativi all’intera vita di quasi 9000 individui diversi (catturati e misurati in anni successivi), i risultati hanno mostrato che la selezione naturale non favorisce gli individui più piccoli, né in termini di sopravvivenza annuale né di numero di figli prodotti in ciascuna stagione riproduttiva. Al contrario, gli individui più grandi sembrano godere di un vantaggio riproduttivo maggiore, contraddicendo l’idea che la selezione favorisca una riduzione delle dimensioni corporee.

È pertanto probabile che tale fenomeno sia dovuto a una risposta fenotipica plastica (ovvero non causata da cambiamenti genetici come avverrebbe nel caso in cui si trattasse di un processo evolutivo) forse mediata dal deterioramento delle condizioni ecologiche nei luoghi di riproduzione e/o di svernamento, piuttosto che a una selezione naturale diretta verso individui più piccoli” spiega Andrea Romano, professore associato presso il Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università degli Studi di Milano e primo firmatario dello studio.

I ricercatori sono quindi giunti all’ipotesi che i cambiamenti ambientali, come la diminuzione delle risorse alimentari e l’aumento delle temperature estive durante lo sviluppo dei pulcini, possano influenzare significativamente la morfologia delle rondini. Questa ipotesi troverebbe riscontro in altri studi recenti su diverse specie, che mostrano come un aumento significativo della temperatura nel nido porti a dimensioni corporee minori e becchi relativamente più grandi, senza però migliorare la sopravvivenza.

Questi risultati sollevano interrogativi sulla capacità delle specie migratrici di adattarsi ai cambiamenti climatici. Se la diminuzione è una risposta plastica a condizioni ambientali peggiorate, la sopravvivenza a lungo termine delle rondini potrebbe essere compromessa. Lo studio invita quindi alla cautela nell’interpretare sistematicamente la riduzione delle dimensioni corporee degli animali come un adattamento evolutivo al riscaldamento globale. In generale, questi risultati sottolineano l’importanza di monitorare le risposte delle specie ai cambiamenti climatici e di considerare più fattori ambientali quando si analizzano le variazioni fenotipiche nel tempo” conclude Romano.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano

Corna, zanne e palchi: un innovativo protocollo per la ricostruzione digitale 3D di crani complessi apre nuove frontiere 

Un team di ricercatori della Sapienza ha sviluppato un innovativo protocollo per la ricostruzione digitale 3D di crani complessi, offrendo nuove opportunità per la ricerca e per l’insegnamento. La procedura è stata pubblicata sulla rivista “STAR Protocols”.

Ricostruzione del Cranio del Damaliscus lunatus (AN.CO.ac331) dopo il processo di fotogrammetria
Ricostruzione del Cranio del Damaliscus lunatus (AN.CO.ac331) dopo il processo di fotogrammetria

Un team di ricercatori della Sapienza Università di Roma ha sviluppato un innovativo protocollo finalizzato alla digitalizzazione morfologica di crani. La procedura, pubblicata sulla rivista “STAR Protocols” del gruppo “CellPress”, permette di creare modelli tridimensionali altamente accurati, e di superare le sfide legate alla ricostruzione digitale di strutture complesse come corna, zanne e palchi.

La pubblicazione di questo protocollo e il suo approccio innovativo forniscono una guida pratica e dettagliata per i ricercatori e aprono nuove prospettive nel campo della paleontologia, della zoologia e della conservazione museale.

Il protocollo fa uso della tecnica della fotogrammetria 3D, la quale permette con grande precisione di ricostruire digitalmente le dimensioni di un oggetto e la sua posizione nello spazio partendo da fotografie.

L’impiego di questo metodo permette di conservare e analizzare digitalmente campioni preziosi, riducendo al minimo sia il rischio di danneggiamento dovuto alla manipolazione fisica sia i costi, offrendo quindi un’alternativa accessibile e di alta precisione per musei, università e centri di ricerca.

“Grazie a questo protocollo ­– spiega Naomi De Leo, dottoranda di Sapienza e prima autrice dello studio – riusciamo a ottenere modelli tridimensionali fedeli alla realtà anche per strutture ossee particolarmente complesse, migliorando le possibilità di analisi morfologica e di collaborazione scientifica a livello internazionale”.

Una parte dei modelli esaminati è ospitata nelle collezioni del Polo Museale Sapienza, in particolare del Museo di Zoologia e del Museo di Anatomia comparata “B. Grassi”. L’analisi di queste collezioni, recentemente incluse in un ambizioso progetto di digitalizzazione museale con l’obiettivo di accrescere l’accessibilità delle collezioni naturalistiche, permette di condurre studi comparativi su larga scala e di rendere i reperti consultabili dalla comunità scientifica attraverso archivi digitali.

“Questo strumento – specifica Davide Tamagnini, ricercatore della Sapienza e co-autore dello studio – rappresenta un passo avanti nella conservazione e condivisione dei dati morfologici, offrendo nuove opportunità per la ricerca e per l’insegnamento”

Riferimenti bibliografici:

Protocol for 3D photogrammetry and morphological digitization of complex skulls / DE LEO, Naomi; Chimenti, Claudio; Maiorano, Luigi; Tamagnini, Davide. – In: STAR PROTOCOLS. – ISSN 2666-1667. – 6:1(2025). [10.1016/j.xpro.2024.103572]

Teschio di Damaliscus lunatus
Teschio di Damaliscus lunatus

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

ANCHE I PINGUINI AFRICANI SI RICONOSCONO DAL “TIMBRO DELLA VOCE”

Uno studio dell’Università di Torino sulla comunicazione acustica dei pinguini africani descrive i meccanismi e le strutture anatomiche coinvolte nella produzione dei segnali vocali, evidenziando convergenze evolutive con i mammiferi e l’uomo.

Mercoledì 11 ottobre – Sulla rivista scientifica Proceedings of the Royal Society B, è stato pubblicato un nuovo articolo sulla comunicazione vocale nei pinguini. L’articolo è frutto di una collaborazione tra due dipartimenti dell’Università di Torino (DBIOS e Scienze Veterinarie), l’Università Jean-Monnet (Francia), l’Università UWC (Sudafrica) e la Fondazione SANCCOB.

Utilizzando una combinazione di tecniche di diagnostica per immagini, modellistica computazionale e registrazioni in vivo, un gruppo di ricercatori guidato dal Prof. UniTo Livio Favaro e dalla Dott.ssa Anna Zanoli ha scoperto che i pinguini africani utilizzano le risonanze dei condotti vocali per codificare nei segnali acustici le informazioni che permettono loro di riconoscersi individualmente. Un meccanismo evolutivamente analogo a quello che utilizzano i mammiferi e l’uomo stesso, per riconoscersi dal timbro della voce.

Tra i pinguini, il pinguino africano (Spheniscus demersus) è una specie modello ideale per studiare come le risonanze del tratto vocale codificano informazioni biologicamente rilevanti. Infatti, questa specie è monogama, fortemente territoriale e, a causa delle pressioni selettive e allo stile di vita coloniale, è stato riscontrato che i richiami di contatto e i canti riproduttivi (ecstatic display songs) variano significativamente tra gli individui, permettendo loro di riconoscersi tra “vicini di nido” e membri di una coppia.

I pinguini africani (Spheniscus demersus) si riconoscono dal timbro della voce. Gallery

Le vocalizzazioni dei pinguini sono prodotte da uno specifico organo chiamato “siringe”, al cui interno, delle membrane vengono messe in vibrazione al passaggio dell’aria, generando un segnale periodico caratterizzato dalla frequenza fondamentale (corrispondente alla velocità di vibrazione delle membrane) e dalle relative componenti armoniche. Tale segnale passa poi nella trachea e nella bocca, dove viene modificato in base alle frequenze di risonanza (dette formanti) di queste cavità anatomiche. 

Gli autori dello studio hanno registrato numerosi pinguini africani nell’aprile 2019 presso la Southern African Foundation for the Conservation of Coastal Birds (SANCCOB) di Città del Capo, in Sudafrica. Contestualmente, hanno studiato l’apparato vocale di altri individui adulti trovati morti lungo le coste della provincia sudafricana di Western Cape. In particolare, iniettando della gomma siliconica catalizzata, è stato ottenuto un calco preciso dell’intero apparato fonatorio. I calchi sono stati successivamente trasportati al Dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Torino, dove sono stati sottoposti a Tomografia Assiale Computerizzata (TAC). Infine, presso il DBIOS e utilizzando il centro di calcolo interdipartimentale c3s UniTo, sono stati costruiti modelli computazionali a partire dai risultati della TAC e dalle registrazioni degli animali in vivo.

I ricercatori hanno dimostrato che, nel pinguino africano, leggere variazioni della lunghezza e della sezione trasversale delle regioni tracheali e della cavità laringofaringea causano un ampio spostamento nelle formanti delle vocalizzazioni. Tali regioni possono quindi svolgere un ruolo cruciale nel determinare il pattern formantico delle vocalizzazioni e, di conseguenza, nel determinare l’identità vocale degli individui, analogamente a quanto avviene nelle cavità nasali e nella cavità orale dei mammiferi e dell’uomo stesso.

“I nostri risultati – suggerisce il Prof. Livio Favaro, biologo marino e coordinatore della ricerca sui pinguini africani presso l’Università di Torino – sottolineano come le frequenze di risonanza dei condotti vocali possano essere utilizzate per riconoscersi tra individui in numerosi altri vertebrati oltre all’uomo e ai mammiferi.”

“Le tecniche di diagnostica per immagini – continua il Prof. Alberto Valazza, co-autore dello studio e docente di clinica chirurgica veterinaria – possono contribuire enormemente alla caratterizzazione dell’apparato fonatorio degli uccelli, finora largamente inesplorato.”

Infine, i ricercatori hanno notato una mancanza di correlazione tra le frequenze di risonanza del condotto vocale e la dimensione dei pinguini. 

“Per quanto ne sappiamo – aggiunge la Dott.ssa Anna Zanoli, etologa e prima autrice dello studio – la mancanza di correlazione tra frequenze formanti e dimensioni dello scheletro è stata riportata anche nei pinguini di Humboldt e di Magellano, il gabbiano reale e il re di quaglie.”

Nell’uomo, tale assenza di correlazione è frutto della discesa della laringe nel condotto vocale come prerequisito per lo sviluppo del linguaggio. 

“I risultati del nostro studio – sottolinea il Prof. Marco Gamba, zoologo ed esperto in bioacustica comparata – forniscono ulteriori evidenze che in altri tetrapodi oltre all’uomo ci si possa aspettare una debole relazione tra le formanti e le dimensioni del corpo.” 

“Questo è particolarmente evidente – continua il Prof. David Reby, docente di etologia presso l’Università Jean Monnet di Saint-Étienne – quando si esaminano individui dello stesso sesso e della stessa classe di età.”

Negli uccelli, questa condizione potrebbe essere ancestrale e diffusa al di là delle specie (es. cigni e gru) nelle quali è noto un allungamento “sproporzionato” della trachea rispetto alle dimensioni corporee.

 

“Le frequenze formanti e le dimensioni dello scheletro sono indipendenti nel pinguino africano – conclude la Prof.ssa Frine Scaglione, co-autrice e anatomo patologa veterinaria – perché lo scheletro non vincola anatomicamente la trachea.”

Lo studio della comunicazione vocale nel pinguino africano, infine, si auspica possa contribuire allo sviluppo di sistemi di monitoraggio acustico passivo delle colonie in natura. Questa specie, infatti, è fortemente minacciata di estinzione e la comunità scientifica internazionale è al lavoro per sviluppare sistemi di monitoraggio non invasivo, che possano contribuire alla sua gestione e conservazione.

Testi, video, audio e immagini dall’Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

La tigre dai denti a sciabola dell’Era Glaciale sarà uno dei reperti esposti al Museo della Natura e dell’Uomo (MNU) dell’Università di Padova che aprirà il 23 giugno 2023 al Complesso di Palazzo Cavalli.

MERAVIGLIE IN VISTA / 1

«Nasce a Padova un nuovo luogo di partecipazione collettiva e democratica alla conoscenza, un grande museo scientifico inclusivo, che incentra la sua narrazione su migliaia di reperti originali di straordinario valore – dice Telmo Pievani, Responsabile scientifico del Museo della Natura e dell’Uomo –. Al MNU si farà ricerca, conservazione, didattica, condivisione dei saperi scientifici, sensibilizzazione sui temi ambientali, aprendosi ai pubblici più diversi, soprattutto giovani e giovanissimi. Sarà un teatro appassionante di cittadinanza scientifica».

«La nostra Università sta per compiere un altro grande salto verso il futuro con un progetto museale unico a livello universitario in Europa e probabilmente tra i più importanti progetti museali al mondo nel suo genere – afferma Fabrizio Nestola, Presidente del Centro di Ateneo per i Musei –. Da un Ateneo come il nostro non potevamo aspettarci che questo: un enorme investimento economico e di risorse umane completamente dedicato alla cultura e al territorio. Siamo tutti pronti ad iniziare questa entusiasmante avventura con l’obiettivo di educare ed ispirare le future generazioni».

Il Museo della Natura e dell’Uomo (MNU) dell’Università di Padova, che aprirà venerdì 23 giugno 2023, nasce dalla fusione delle ricchissime collezioni naturalistiche che sono state costruite nei secoli da studiosi ed esploratori dell’Università patavina, a fini di ricerca e didattica. Il nuovo allestimento riunisce in un unico percorso espositivo i preesistenti musei universitari di Mineralogia, Geologia e Paleontologia, Antropologia e Zoologia, integrandoli in una narrazione coerente e appassionante, arricchita da un intelligente apparato grafico, testuale e multimediale, a raccontare una storia planetaria dai suoi esordi, più di quattro miliardi di anni fa, fino ai giorni nostri.

Il MNU si articola in 38 sale per un totale di circa 3.800 mq, cui si aggiungono un ambiente per le esposizioni temporanee di circa 300 metri quadri.

tigre dai denti a sciabola Museo della Natura e dell’Uomo MNU

Una delle sezioni del museo sarà quella di Geologia e Paleontologia – Dalla comparsa della vita a Homo sapiens con 6 sale e 940 metri quadri a disposizione per illustrare ed esporre i suoi reperti: tra questi anche la tigre dai denti a sciabola dell’Era Glaciale.

«La tigre dai denti a sciabola, Smilodon fatalis, unico esemplare nel suo genere in Italia e fra i pochi presenti nei musei europei, è un fossile che risale al Pleistocene Superiore e proviene da Rancho La Brea in California (USA), uno tra i più importanti giacimenti fossiliferi al mondo per quantità e varietà di specie ivi recuperate – sottolinea Mariagabriella Fornasiero, conservatrice della sezione di Geologia e Paleontologia –. Il genere Smilodon è vissuto nelle Americhe circa 2 milioni di anni fa. Carattere distintivo di questo grosso felino sono i denti canini enormemente sviluppati che lo rendevano un temibile predatore. Probabilmente viveva in branco e poteva cacciare grossi erbivori, come ad esempio i mammut, ma non è escluso che si nutrisse anche di carcasse. Lungo più di 2 metri e alto circa 1,20 metri (al garrese), poteva pesare fino a 300 chilogrammi».

Smilodon fatalis

«Recentemente l’esemplare è stato oggetto di studio. Ricerche d’archivio hanno consentito di stabilire che esso è stato donato nel 1933 dal Museum of Paleontology dell’Università di Berkeley (California) in cambio di un reperto di Ursus spelaeus proveniente dal Carso triestino. Grazie ai codici numerici individuati per la prima volta sullo scheletro – conclude Luca Giusberti, referente scientifico della sezione di Geologia e Paleontologia –  è stato possibile definire con precisione la provenienza delle singole ossa che lo compongono e stabilire che il loro recupero è avvenuto negli anni tra il 1906 e il 1913. La tigre con i denti a sciabola è da sempre l’animale icona dell’era Glaciale che più colpisce l’immaginario di grandi e piccoli».

tigre dai denti a sciabola Museo della Natura e dell’Uomo MNU

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Università di Padova

I CAMBIAMENTI CLIMATICI POTREBBERO CAUSARE L’ESTINZIONE DELLE SALAMANDRINE

Foto di G. Bruni

Uno studio appena pubblicato su Scientific Reports di Nature dai paleontologi dell’Università di Torino e dell’Istituto Catalano di Paleontologia Miquel Crusafont ha messo in luce le potenziali connessioni tra i cambiamenti climatici del passato e le cause della scomparsa in gran parte d’Europa delle salamandrine, che oggi rappresentano l’unico genere di vertebrato esclusivo della Penisola Italiana. I cambiamenti climatici previsti per i prossimi decenni a causa delle crescenti emissioni di CO2 e altri gas serra potrebbero causarne l’estinzione definitiva.

Un gruppo di paleontologi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino e dell’Istituto Catalano di Paleontologia Miquel Crusafont, in un recente studio pubblicato su Scientific Reports di Nature, ha indagato le variabili climatiche in cui vivono le salamandrine e come queste si possano relazionare alle condizioni del passato e del futuro. I fossili sono l’unico strumento a disposizione dei ricercatori e delle ricercatrici per avere accesso diretto al passato e capire come gli organismi abbiano reagito ai diversi cambiamenti a cui è andata incontro la Terra. Il gruppo di ricerca di paleontologia dell’Università di Torino si occupa da molti anni di capire ciò che il record fossile del passato ci può insegnare sugli organismi attuali. Nel caso delle salamandrine, i fossili ci raccontano che questi animali, che oggi si trovano esclusivamente nell’Italia appenninica con due specie, in un periodo compreso tra circa 20 e 5 milioni di anni fa abitavano molte altre aree d’Europa, sparse tra Germania, Grecia, Spagna e Ungheria. 

Salamandrine cambiamenti climatici

Le analisi effettuate dal gruppo di lavoro, basate su metodi di modellizzazione della nicchia ecologica, hanno evidenziato che durante i cicli di glaciazione degli ultimi milioni di anni, il clima della maggior parte dell’Europa non era adatto alle salamandrine, ed è plausibile che i cambiamenti climatici avvenuti in questo intervallo di tempo ne abbiano causato l’estinzione da tutta l’Europa a esclusione dell’Italia peninsulare. Nello stesso tempo, le proiezioni sui modelli climatici futuri, sotto diversi scenari di riduzione di emissioni di CO2, hanno messo in luce una drastica riduzione dell’idoneità climatica per le salamandrine anche all’interno della nostra penisola nei prossimi 50 anni.

 
“Sebbene le salamandrine non siano ancora inserite tra gli organismi a rischio di estinzione, dovremmo avere un particolare occhio di riguardo per questo piccolo anfibio che rappresenta un’inestimabile ricchezza del patrimonio naturalistico italiano” sottolinea Loredana Macaluso, attualmente ricercatrice al Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino e primo autore dell’articolo.
“Non solo questa salamandra rappresenta l’unico genere di vertebrato endemico della Penisola Italiana, ma è anche un animale unico a livello mondiale sia per quanto riguarda il suo aspetto colorato, sia per quanto riguarda il suo particolare comportamento. Ricordiamoci che questo abitante del sottobosco italiano è una delle poche salamandre del mondo a mostrare il cosiddetto unkenreflex, un comportamento con cui mostra l’accesa colorazione di ventre, zampe e coda per intimorire i predatori, ed è l’unica al mondo attualmente nota per essere in grado di alzarsi sulle zampe posteriori e assumere una posizione bipede in determinate circostanze”. 
 
Questo contributo alla paleobiologia della conservazione rappresenta uno dei primi tentativi di collegare in modo diretto ciò che il record fossile ci testimonia e il futuro degli anfibi viventi, che sono in grave pericolo a causa dei cambiamenti climatici che stiamo inducendo tramite un utilizzo sconsiderato delle tecnologie a nostra disposizione, mostrando ancora una volta l’importanza di provvedimenti su larga scala per ridurre in modo più rapido possibile le emissioni di CO2.
Salamandrine salamandrina cambiamenti climatici
Foto di G. Bruni
 
Gli altri autori dell’articolo sono Andrea Villa, attualmente ricercatore post-doc presso l’Istituto Catalano di Paleontologia Miquel Crusafont di Barcellona, il Prof. Giorgio Carnevale e il Prof. Massimo Delfino, coordinatore del progetto, entrambi afferenti all’Università di Torino.
Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino

IL SENSO DEL RITMO DEI “LEMURI CANTANTI” DEL MADAGASCAR, COSÌ SIMILI AGLI UMANI

Per 12 anni i ricercatori dell’Università di Torino hanno studiato i canti di questi primati a rischio estinzione, riscontrando categorie ritmiche simili a quelle della musica umana

ritmo lemuri indri ritmi categorici musica
Il senso del ritmo negli indri, lemuri cantanti del Madagascar. Credits: Filippo Carugati

Oggi, lunedì 25 ottobre, sulla rivista scientifica Current Biology è stato pubblicato l’articolo “Categorical rhythms in a singing primate”, firmato dai ricercatori dell’Università di Torino, dell’ENES Lab di Saint-Etienne e dell’Istituto Max Planck di Psicolinguistica di Nijmegen. Attraverso questa ricerca gli autori hanno studiato gli indri, i ‘primati cantanti’ del Madagascar. I loro canti, registrati nelle foreste pluviali montane, possiedono categorie ritmiche simili a quelle della musica umana. La scoperta di tratti musicali condivisi da specie diverse può fare luce sulla biologia e l’evoluzione di ritmo e musica.

Credits: Filippo Carugati

Mentre gli uccelli canori possiedono, come l’uomo, il senso del ritmo, nei mammiferi questa è una caratteristica rara. Un team di ricerca internazionale guidato dai ricercatori senior Marco Gamba (Università di Torino) e Andrea Ravignani (Max Planck Institute) si è messo alla ricerca di abilità musicali nei primati.

 “C’è un interesse di lunga data nel cercare di capire come si è evoluta la musicalità umana – dichiara Andrea Ravignani – ma questo tratto non è in realtà presente solo negli esseri umani. Cercare abilità musicali in altre specie ci permette sia di costruire un albero evolutivo di queste caratteristiche, sia di capire come le capacità ritmiche si sono originate ed evolute negli umani”.

Per capire se altri mammiferi, oltre a noi, possiedono il senso del ritmo, il team ha deciso di studiare uno dei pochi primati “cantanti”, il lemure Indri indri, al momento in pericolo critico di estinzione. I ricercatori, in particolare, volevano capire se i canti di indri possedessero ritmi categorici, una caratteristica musicale universale presente nelle culture umane. Un ritmo si può definire categorico quando gli intervalli tra un suono e l’altro hanno esattamente la stessa durata (ritmo 1:1) o l’uno è il doppio dell’altro (ritmo 1:2). Nella musica, questo tipo di ritmo rende una melodia facilmente riconoscibile, anche se eseguita a velocità diverse. Gli indri, dunque, possiedono questi ritmi tipicamente umani?

ritmo lemuri indri ritmi categorici musica
Il senso del ritmo negli indri, lemuri cantanti del Madagascar. Credits: Filippo Carugati

Per dodici anni i ricercatori di Torino hanno effettuato spedizioni nelle foreste pluviali del Madagascar, collaborando con un gruppo locale che si occupa della protezione e studio dei primati. I ricercatori hanno registrato i canti di venti diversi gruppi di indri (39 animali in tutto) nel loro habitat naturale. Ogni membro di un gruppo famigliare di indri canta insieme agli altri in duetti e cori coordinati. Il team ha scoperto che questi canti possiedono effettivamente le due classiche categorie ritmiche (1:1 e 1:2), insieme ad un peculiare ritandando tipico di diverse tradizioni musicali. Inoltre, nonostante maschi e femmine cantino secondo tempi diversi, essi possiedono lo stesso ritmo.

ritmo lemuri indri ritmi categorici musica
Il senso del ritmo negli indri, lemuri cantanti del Madagascar. Credits: Filippo Carugati

Secondo la prima autrice Chiara De Gregorio e i suoi colleghi, questa è la prima evidenza della presenza di un “universale musicale” in un mammifero che non sia l’uomo. Perché un altro primate, oltre a noi, produce ritmi categorici che somigliano a quelli che caratterizzano la musica umana? Visto che l’ultimo antenato comune tra indri e umani risale a 77.5 milioni di anni fa, questa abilità potrebbe essersi evoluta in maniera indipendente tra specie “cantanti”. Il ritmo, infatti, potrebbe rendere più semplice non solo la produzione e il processamento dei canti, ma anche il loro apprendimento.

“I ritmi categorici – spiega Ravignani – sono solo uno dei sei universali musicali che sono stati identificati fino ad ora. Ci piacerebbe andare alla ricerca di altri universali musicali in indri e altre specie, come ad esempio di una organizzazione gerarchica dei beat. Incoraggiamo anche lavori comparativi su indri e altre specie in pericolo per ottenere maggiori evidenze, prima che sia troppo tardi per ascoltare e ammirare i loro incredibili canti”.

Il senso del ritmo negli indri, lemuri cantanti del Madagascar. Credits: Filippo Carugati

Articolo:

Chiara De Gregorio, Daria Valente, Teresa Raimondi, Valeria Torti, Longondraza Miaretsoa, Olivier Friard, Cristina Giacoma, Andrea Ravignani & Marco Gamba (2021). “Categorical rhythms in a singing primate”. Current Biology, 31, R1–R3. https://doi.org/10.1016/j.cub.2021.09.032.

 

 

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino

COME GLI ESSERI UMANI, ANCHE I PINGUINI RICONOSCONO I LORO SIMILI ATTRAVERSO I SENSI

Uno studio dei ricercatori UniTo ha svelato l’interazione multisensoriale dei pinguini africani, aprendo nuove strade per la conservazione di questa specie a rischio estinzione

Pinguini africani

Oggi, mercoledì 13 ottobre, sulla rivista scientifica Proceeding of the Royal Society B, è stato pubblicato uno studio dei ricercatori dell’Università di Torino, dal titolo “Cross-modal individual recognition in the African penguin and the effect of partnership”, che mostra come i pinguini africani riconoscano i loro compagni di colonia attraverso i sensi. Gli autori della ricerca, Dott. Luigi BaciadonnaDott. Cwyn SolviSara La CavaDott.ssa Cristina PilengaProf. Marco Gamba e Dott. Livio Favaro, hanno scoperto che la capacità di riconoscere i propri simili utilizzando diversi sensi, caratteristica tipica dell’essere umano, è presente anche in questa specie di volatili a rischio estinzione.

Il cervello umano è in grado di memorizzare le informazioni in modo tale che possano essere recuperate da diversi sensi. Questa integrazione multisensoriale ci permette di formare immagini mentali del mondo ed è alla base della nostra consapevolezza cosciente e della nostra comunicazione sociale, fondamentale per l’interazione con i nostri simili. Le stesse modalità di interazione sono state osservate nei comportamenti dei pinguini africani.

Dopo che coppie di pinguini hanno trascorso del tempo insieme in una zona isolata, uno è stato rilasciato dalla zona, lasciando l’altro, pinguino focale, da solo. Una chiamata vocale è stata immediatamente riprodotta dalla direzione in cui il pinguino ha lasciato. Il pinguino focale ha risposto più velocemente alla chiamata se non corrispondeva all’identità del pinguino che aveva appena visto uscire. Questo comportamento dimostra che la chiamata ha violato le loro aspettative e indica che possono immaginare l’altro individuo nella loro mente e accedere a questa immagine attraverso diversi sensi.

pinguini africani sensi
Pinguini africani

“Questa forma di riconoscimento individuale – dichiara il Dott. Luigi Baciadonna, ricercatore del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi UniTo e autore principale dell’articolo – è stata precedentemente descritta solo in pochi mammiferi e nei corvi. Il fatto che un uccello filogeneticamente così distante, il pinguino africano, possa formare immagini mentali di altri individui suggerisce che questo complesso sistema di riconoscimento sociale possa essere molto più diffuso di quanto avessimo immaginato”.

“I nostri risultati – afferma il Dott. Livio Favaro, coautore senior della ricerca per l’Università di Torino – mostrano che questi pinguini non si affidano, come si pensava in precedenza, solo alle informazioni vocali per la comunicazione. Il nostro lavoro apre anche nuove strade per indagare la cognizione complessa in una specie di uccelli non precedentemente nota per la loro intelligenza”.

“I pinguini africani – prosegue la Dott.ssa Cristina Pilenga, coautrice della ricerca con sede allo ZooMarine di Roma, dove si è svolto lo studio – sono classificati come specie in pericolo dalla IUCN, e quindi la conoscenza delle loro capacità cognitive può essere particolarmente preziosa per aumentare la consapevolezza del loro stato di conservazione”.

“Estendere lo studio della cognizione a specie comportamentalmente distinte – conclude il Prof. Marco Gamba, docente di Zoologia all’Università di Torino – ha il potenziale di rivelare come i sistemi sociali e le pressioni ambientali in cui vivono gli animali abbiano modellato le differenze nella cognizione attraverso l’evoluzione”.

 

Testo e foto dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino