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CEFEO A HW2: ECCO COME SI FORMANO LE PROTOSTELLE MASSICCE

Lo studio a guida INAF di Cefeo A HW2, una stella massiccia in formazione, mostra sorprendenti caratteristiche di questo oggetto celeste, avvolto da un enorme disco di polveri e gas in cui è stata individuata una forte concentrazione di ammoniaca calda. I risultati, pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics, non solo migliorano la nostra comprensione dei processi di formazione delle stelle più massicce, ma anche dei fenomeni legati all’ evoluzione galattica e all’arricchimento chimico nell’universo.

Come si formano e come si accrescono le stelle di grande massa? Uno studio guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) affronta queste domande risolvendo per la prima volta un dibattito di lungo corso riguardante l’esistenza, o meno, di un disco di accrescimento attorno a Cefeo A HW2, la seconda protostella supermassiccia più vicina al Sole avente una massa di sedici volte quella della nostra stella. Grazie a osservazioni effettuate con i radiotelescopi del Jansky Very Large Array (VLA), il disco e i gas che si muovono al suo interno sono stati osservati con un dettaglio finora mai raggiunto. Le simulazioni di laboratorio hanno completato il quadro gettando così nuova luce su come le stelle giganti accumulino un’enorme massa proveniente dal disco di accrescimento durante i loro primi millenni di vita.

In ambito astronomico e divulgativo sentiamo spesso parlare delle “supernove” e del fatto che siano ciò che resta di incredibili esplosioni dovute al collasso di enormi stelle ormai esauste. Non è però comune sentir parlare di come queste stelle massicce, che per definizione hanno una stazza di almeno otto masse solari, riescano a formarsi e ad accrescere la loro massa quando sono ancora molto giovani. La risposta sta nell’esistenza e nelle proprietà del cosiddetto disco di accrescimento, ovvero una grande concentrazione di gas e polveri che gravita spiraleggiando intorno alle protostelle durante la loro formazione e le nutre aumentandone la massa. Il tutto, prima ancora che avvenga l’innesco di una fusione nucleare stabile che possa definirle come stelle vere e proprie.

Una delle questioni più intriganti discusse tra gli specialisti negli ultimi decenni è stata capire se i dischi di accrescimento fossero caratteristici solo di stelle medio-piccole come il Sole, che è una nana gialla, o se fossero in grado di sostenere anche gli enormi flussi di materia necessari ad accrescere una giovane stella decine di volte più massiccia della nostra.

Cefeo A HW2 protostella
Cefeo A HW2: ecco come si formano le protostelle massicce, secondo uno studio pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics

A dissolvere questo dubbio è arrivato uno studio, appena pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics, che coinvolge una dozzina di centri di ricerca e università tra Stati Uniti, Europa e Sudamerica, tra cui quattro osservatori dell’INAF: Cagliari, Arcetri (Firenze), Bologna e Napoli. Le osservazioni sono state eseguite con una potente rete di radiotelescopi che si trova negli Stati Uniti, il Jansky Very Large Array per osservare la radio-sorgente Cepheus A HW2. Questa sorgente possiede alcune interessanti caratteristiche che la fanno ritenere una protostella piuttosto massiccia, tra l’altro molto osservata dagli astronomi negli ultimi 40 anni. Dista infatti solo 2300 anni luce da noi e ciò consente di poterla osservare con il VLA alla definizione minima di 100 unità astronomiche ovvero con un dettaglio sufficiente a individuarne il disco. Inoltre, HW2 possiede una massa stimata in ben sedici volte quella del Sole.

Per poter verificare l’esistenza di un disco di accrescimento intorno a HW2, risolvendone struttura e proprietà, il radiotelescopio americano – finanziato dalla National Science Foundation (NSF) e gestito dal National Radio Astronomy Observatory (NRAO) – ha osservato la sorgente a una  frequenza di circa 24 GHz, alla ricerca di un tracciante in particolare: l’ammoniaca interstellare (NH3). Questa molecola, così comune e utilizzata sulla Terra, è anche la prima molecola poliatomica (ovvero con tre o più atomi) rilevata al di fuori del Sistema solare e tra le più abbondanti specie presenti nelle comete.

Nel caso di HW2 è stato dunque osservato un denso anello di ammoniaca calda che si estende per raggi che vanno da 200 a 700 unità astronomiche intorno alla stella e che mostra anche densità differenti da zona a zona. Per avere un facile riscontro, basti pensare che Nettuno, l’ultimo dei grandi pianeti gassosi, dista dal Sole circa 30 unità astronomiche, ovvero 30 volte la distanza Terra-Sole. Tuttavia queste distanze che oggi appaiono troppo piccole e impossibili da osservare su HW2 con il Vla, potranno verosimilmente – come sottolinea Todd Hunter di NRAO – essere raggiunte nel giro di 10 anni con lo sviluppo del next generation VLA. Il comportamento dell’ammoniaca è stato poi direttamente confrontato con simulazioni di laboratorio effettuate da André Oliva, professore dell’Università e Space Research Center della Costa Rica, che hanno permesso di riprodurre le osservazioni spiegando allo stesso tempo la dinamica del gas attorno alla protostella.

I risultati confermano quindi che i dischi protostellari possono sostenere tassi di accrescimento di massa molto alti, anche quando la stella centrale ha già raggiunto una massa decine di volte superiore a quella del nostro Sole.

“Le nostre osservazioni – afferma Alberto Sanna, ricercatore INAF e primo autore dell’articolo scientifico – forniscono una prova diretta che anche stelle massicce possono formarsi attraverso un disco di accrescimento fino a decine di masse solari. HW2 è la seconda stella giovane e massiccia più vicina alla Terra e, da decine d’anni, costituisce un laboratorio privilegiato per mettere alla prova le attuali teorie sulla formazione stellare. In particolare, il nostro studio risolve un dibattito di lunga data sull’esistenza o meno di un disco di accrescimento attorno ad HW2”.

Questo studio ha consentito inoltre una misura diretta della quantità di gas e polveri che fluisce attorno alla stella, arrivando alla conclusione che la materia in “caduta libera” verso HW2 ammonta a circa due masse del pianeta Giove all’anno, uno dei tassi più alti mai osservati, che corrisponde a una crescita ipotetica della stella pari a ben due masse solari ogni mille anni. Tuttavia, molte domande rimangono ancora aperte.

“Se da una parte – puntualizza infatti Sanna – i nostri risultati dimostrano che dischi circumstellari attorno a giovani stelle massicce sono in grado di sostenere gli alti tassi di accrescimento previsti dalla teoria, allo stesso tempo ci chiediamo: quanto di quell’enorme flusso di materia osservato diventerà effettivamente parte della massa finale della stella?”

Questo lavoro non solo migliora la nostra comprensione delle dinamiche che portano alla formazione delle stelle più massicce, ma ha anche implicazioni più ampie sull’evoluzione galattica e l’arricchimento chimico nell’universo. Sono proprio queste stelle extra large che, durante tutto il loro ciclo evolutivo ma in particolare nella turbolenta e catastrofica fase finale, disseminano le galassie di elementi pesanti e specie molecolari più complesse, creati proprio dalle immense temperature e pressioni che solo questi oggetti sono in grado di generare.


Riferimenti bibliografici:

L’articolo “Gas infall via accretion disk feeding Cepheus A HW2”, di A. Sanna, A. Oliva, L. Moscadelli, C. Carrasco-González, A. Giannetti, G. Sabatini, M. Beltrán, C. Brogan, T. Hunter, J.M. Torrelles, A. Rodríguez-Kamenetzky, A. Caratti o Garatti, R. Kuiper, è stato pubblicato online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

L’origine dell’emissione persistente osservata in alcuni lampi radio veloci: sarebbe una bolla di plasma a generare questa radiazione

Un nuovo studio internazionale guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), con la partecipazione di diversi atenei italiani, ha scoperto l’origine dell’emissione persistente osservata in alcuni lampi radio veloci: sarebbe una bolla di plasma a generare questa radiazione. Questi dati permettono anche di circoscrivere la natura del “motore” alla base di queste misteriose sorgenti. I risultati pubblicati oggi su Nature.

Illustrazione artistica di una magnetar, circondata dalla bolla di plasma responsabile dell’emissione persistente osservata in alcuni lampi radio veloci.Crediti: NSF/AUI/NRAO/S. Dagnello
Illustrazione artistica di una magnetar, circondata dalla bolla di plasma responsabile dell’emissione persistente osservata in alcuni lampi radio veloci.
Crediti: NSF/AUI/NRAO/S. Dagnello

I Fast Radio Burst (FRB), o lampi radio veloci, sono uno dei misteri aperti più recenti dell’astrofisica moderna: in pochi millisecondi rilasciano una quantità di energia tra le più alte osservabili nei fenomeni cosmici. Scoperti poco più di dieci anni fa, questi forti lampi in banda radio provengono da sorgenti per lo più extragalattiche, ma la loro origine è ancora incerta e molti sono gli sforzi della comunità astrofisica di tutto il mondo per cercare di comprendere i processi fisici alla loro origine.

In pochissimi casi, il rapido lampo che caratterizza i fast radio burst coincide con un’emissione persistente, sempre in banda radio. Una nuova ricerca guidata dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha registrato l’emissione radio persistente più debole mai rilevata finora per un FRB. Si tratta di FRB20201124A, un lampo radio veloce scoperto nel 2020, la cui sorgente si trova a circa 1,3 miliardi di anni luce da noi. Oltre al lavoro di ricercatori e ricercatrici INAF, lo studio vede la collaborazione delle Università di Bologna, Trieste e della Calabria, e la partecipazione internazionale di istituti di ricerca e università in Cina, Stati Uniti, Spagna e Germania.

Le osservazioni – rese possibili dal radiotelescopio più sensibile al mondo, il Very Large Array (VLA) negli Stati Uniti – hanno permesso di verificare la predizione teorica che prevede una bolla di plasma all’origine dell’emissione radio persistente dei lampi radio veloci. I risultati sono pubblicati oggi sulla rivista Nature.

“Siamo riusciti a verificare tramite osservazioni che l’emissione persistente che accompagna alcuni fast radio burst si comporta come previsto dal modello di emissione nebulare, ovvero una ‘bolla’ di gas ionizzato che circonda il motore centrale” spiega Gabriele Bruni, ricercatore INAF a Roma e primo autore dell’articolo. “In particolare, tramite l’osservazione in banda radio di uno dei lampi più vicini, siamo riusciti a misurare la debole emissione persistente proveniente dalla stessa posizione del FRB, estendendo di due ordini di grandezza l’intervallo di flusso radio esplorato finora per questi oggetti”.

Il nuovo lavoro aiuta anche a circoscrivere la natura del motore di questi misteriosi lampi. Secondo i nuovi dati, alla base del fenomeno risiederebbe una magnetar (stella di neutroni fortemente magnetizzata) oppure una binaria a raggi X con regime di accrescimento molto alto, ovvero un sistema binario formato da una stella di neutroni o da un buco nero che accresce materiale da una stella compagna a ritmi molto intensi. Sarebbero infatti i venti prodotti dalla magnetar, oppure dal sistema binario X, a “gonfiare” la bolla di plasma che dà origine all’emissione radio persistente. C’è quindi una relazione fisica diretta tra il “motore” del FRB e la bolla, che si trova nelle sue immediate vicinanze.

La campagna osservativa è stata condotta a seguito di un altro lavoro guidato da Luigi Piro dell’INAF, coautore del nuovo articolo, nel quale era stata individuata l’emissione persistente nella galassia ospite di questo FRB, ma non ancora con una determinazione della posizione sufficientemente precisa da permettere di associare tra loro i due fenomeni.

“In questo nuovo lavoro, abbiamo condotto una campagna a risoluzione spaziale più elevata con il VLA, accompagnata anche da osservazioni in diverse bande con l’interferometro NOEMA e il Gran Telescopio Canarias (GranTeCan), che ci hanno permesso di ricostruire il quadro generale della galassia e scoprire la presenza di una sorgente radio compatta – la bolla di plasma del FRB –  immersa nella regione di formazione stellare” aggiunge Piro. “Nel frattempo, è stato pubblicato anche il modello teorico sulla nebulosa, permettendoci di testarne la validità e, infine, di confermare il modello stesso”.

Gran parte del lavoro è stato dedicato a escludere che l’emissione radio persistente provenisse proprio da una regione di formazione stellare, e che quindi non fosse legata fisicamente alla sorgente del FRB. A questo scopo, le osservazioni fatte con NOEMA in banda millimetrica hanno misurato la quantità di polveri, che tracciano le regioni di formazione stellare “oscurate”, e quelle fatte con il GranTeCan in banda ottica hanno misurato l’emissione da idrogeno ionizzato, anch’esso un tracciante del tasso di formazione di stelle.

“Le osservazioni ottiche sono state un elemento importante per studiare la regione del FRB a una risoluzione spaziale simile al radio” nota la coautrice Eliana Palazzi dell’INAF di Bologna. “Poter mappare l’emissione dell’idrogeno con questo dettaglio ci ha permesso di derivare un tasso di formazione locale di stelle che è risultato essere troppo basso per giustificare l’emissione radio continua”.

La maggior parte dei fast radio burst non presenta emissione persistente. Finora, questo tipo di emissione era stata associata soltanto a due FRB, ma a un regime di luminosità che non permetteva di verificare il modello proposto. Nel caso di FRB20201124A, invece, la sua distanza sì grande ma non eccessiva ha permesso di misurare l’emissione persistente nonostante la bassa luminosità. Capire la natura dell’emissione persistente permette di aggiungere una tessera al puzzle sulla natura di queste misteriose sorgenti cosmiche.

 


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “A nebular origin for the persistent radio emission of fast radio bursts”, di Gabriele Bruni, Luigi Piro, Yuan-Pei Yang, Salvatore Quai, Bing Zhang, Eliana Palazzi, Luciano Nicastro, Chiara Feruglio, Roberta Tripodi, Brendan O’Connor, Angela Gardini, Sandra Savaglio, Andrea Rossi, A. M. Nicuesa Guelbenzu, Rosita Paladino, è stato pubblicato online sulla rivista Nature.

Testo e immagine dall’Ufficio stampa Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

ABELL 523: SCOPERTA UN’EMISSIONE RADIO POLARIZZATA DI DIMENSIONI MAI VISTE

Un team internazionale di scienziati guidato da ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha rivelato per la prima volta un segnale polarizzato nel gas intergalattico dell’ammasso di galassie Abell 523 che si estende su scale mai osservate prima, circa ottanta volte la dimensione della Via Lattea. Questo segnale polarizzato fornisce una prova diretta della presenza di un debole ma esteso campo magnetico che pervade l’ammasso, fino alla sua periferia. Il risultato è in pubblicazione sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

Abell 523 emissione radio
ammasso di galassie Abell 523: scoperta un’emissione radio polarizzata di dimensioni mai viste

Gli ammassi di galassie sono gli oggetti più grandi nell’universo a essere tenuti insieme dalla gravità e includono fino a centinaia o migliaia di galassie. Oltre che nella banda ottica e nei raggi X, gli ammassi di galassie sono studiati anche alle lunghezze d’onda radio. Le onde radio rivelano talvolta emissione diffusa che dimostra in maniera incontrovertibile la presenza di un gas di particelle che si muovono con velocità prossime a quella della luce e di un campo magnetico nel vasto spazio che separa le galassie dell’ammasso.

Se il campo magnetico intergalattico ha una struttura ordinata su scale molto estese, il segnale radio ad esso associato che viene captato dagli strumenti sulla Terra può rivelarci una sua importante caratteristica, ovvero la sua polarizzazione, che riflette il grado di ordine del campo magnetico dell’ammasso. Questa informazione permette di condurre uno studio dettagliato delle caratteristiche magnetiche del mezzo intergalattico, contribuendo ad ampliare la conoscenza dell’origine ed evoluzione del magnetismo cosmico, uno degli obiettivi chiave della radioastronomia moderna. Con questo obiettivo, il team a guida INAF ha concentrato la sua attenzione sull’ammasso di galassie denominato Abell 523, un ammasso di galassie invisibile a occhio nudo che si trova a circa 1,6 miliardi di anni luce dal Sistema solare e appare nel cielo circa a metà strada tra la costellazione di Orione e quella del Toro. Per le osservazioni sono stati usati i dati raccolti dallo Jansky Very Large Array (VLA), una rete di radiotelescopi costruita nel New Mexico, USA. Il campo di osservazione, pari a circa un grado quadrato, ha consentito di individuare una zona di emissione polarizzata senza soluzione di continuità pari a ben 80 galassie come la Via Lattea, cioè circa 8 milioni di anni luce.

“Grazie al Very Large Array (VLA) siamo riusciti ad osservare l’emissione polarizzata associata al mezzo intergalattico dell’ammasso Abell 523 e fare luce su un fenomeno altrimenti inaccessibile. L’emissione polarizzata che abbiamo scoperto si estende su scale spaziali in cui quella in intensità totale non è infatti visibile” spiega Valentina Vacca, ricercatrice dell’INAF di Cagliari e prima autrice dello studio.

“Le osservazioni in polarizzazione sono poco interessate da alcuni limiti strumentali, per gli addetti ai lavori si parla di limite di confusione, rispetto a quelle in intensità totale. A parità di tempo osservativo e risoluzione, le osservazioni in polarizzazione possono raggiungere sensibilità molto più elevate e rivelare sorgenti deboli che non sarebbero visibili altrimenti” commenta Federica Govoni, ricercatrice presso l’INAF di Cagliari e responsabile della Divisione Nazionale Abilitante per la Radioastronomia dell’INAF.

Già altri studi in passato indicavano che sarebbe stato possibile rivelare questo tipo di segnale con radiotelescopi sempre più avanzati.

“Pensavamo però di dover aspettare alcuni decenni e l’avvento dell’Osservatorio SKA. Il risultato che abbiamo ottenuto – dice Matteo Murgia, primo ricercatore dell’INAF di Cagliari – anticipa i tempi e dimostra che questo tipo di studi può essere già svolto con gli strumenti attuali”.

Lo studio è accettato per la pubblicazione nell’articolo “Puzzling large-scale polarization in the galaxy cluster Abell 523” di Valentina Vacca, Federica Govoni, Matteo Murgia, Richard A. Perley, Luigina Feretti, Gabriele Giovannini, Ettore Carretti, Fabio Gastaldello, Filippo Cova, Paolo Marchegiani, Elia Battistelli, Walter Boschin, Torsten A. Ensslin, Marisa Girardi, Francesca Loi e Federico Radiconi sul sito web della rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

 

Testo e foto dall’Ufficio stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF