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Università di Roma “Tor Vergata”

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Proteine da un fossile di rinoceronte risalente a 21-24 milioni di anni fa rivoluzionano gli studi evoluzionistici

Una ricerca internazionale pubblicata su Nature ha recuperato sequenze proteiche da un fossile di rinoceronte segnando una svolta nella ricostruzione dell’evoluzione delle specie estinte

Uno studio innovativo che sarà pubblicato in “Nature” annuncia il recupero di sequenze proteiche da un fossile di rinoceronte risalente a 21-24 milioni di anni fa, spingendo indietro di milioni di anni i confini della ricerca sulle proteine antiche. Questo risultato senza precedenti apre una nuova frontiera per la paleoproteomica, promettendo di svelare segreti dell’evoluzione risalenti a tempi remoti, ben oltre la portata del DNA antico.

Un nuovo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista “Nature” il 9 luglio 2025, descrive l’estrazione e il sequenziamento di antiche proteine dello smalto da un dente di rinoceronte fossilizzato risalente a 21-24 milioni di anni fa, risalente al Miocene inferiore.

Questa straordinaria impresa, ottenuta a partire da un fossile rinvenuto nell’Alto Artico canadese, estende di ben dieci volte la scala temporale delle sequenze proteiche recuperabili e informative sull’evoluzione rispetto al più antico DNA conosciuto.

Questa ricerca segna un momento cruciale per la paleoproteomica, lo studio delle proteine antiche. Sebbene proteine antiche siano state trovate in fossili del Miocene medio-superiore (circa gli ultimi 10 milioni di anni), l’ottenimento di sequenze sufficientemente dettagliate per ricostruzioni robuste delle relazioni evolutive era precedentemente limitato a campioni non più vecchi di 4 milioni di anni. Questo nuovo studio amplia significativamente tale finestra temporale, dimostrando lo straordinario potenziale delle proteine di persistere su vaste scale temporali geologiche nelle giuste condizioni.

Lo studio, coordinato dal Globe Institute dell’Università di Copenaghen, ha ricostruito sequenze proteiche dallo smalto dentale di un rinoceronte vissuto nell’attuale Artico canadese durante il Miocene inferiore. Grazie alla stabilità dello smalto e alle condizioni ambientali estreme del cratere di Haughton — freddo costante e permafrost — le proteine sono risultate sorprendentemente ben conservate. Queste sequenze proteiche antiche hanno permesso di collocare con precisione evolutiva il rinoceronte all’interno del suo albero genealogico, e suggeriscono che la divergenza tra le sottofamiglie Elasmotheriinae e Rhinocerotinae sia avvenuta durante l’Oligocene (34–22 milioni di anni fa), più recentemente di quanto ipotizzato in precedenza.

Il progetto è stato guidato dal Dott. Ryan Sinclair Paterson e diretto dal Prof. Enrico Cappellini dell’Università di Copenaghen. All’interno di questo progetto, l’apporto del Dott. Gabriele Scorrano (Università di Tor Vergata), del Prof. Raffaele Sardella (Dipartimento di Scienze della Terra, Sapienza Università di Roma) e del Dott. Luca Bellucci (Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Firenze) è stato fondamentale: hanno fornito e analizzato un esemplare di dente di rinoceronte di circa 400.000 anni fa, proveniente dal sito archeo-paleontologico di Fontana Ranuccio (Lazio, provincia di Frosinone).

La ricerca vede coinvolte anche due ricercatrici dell’Università di Torino: Meaghan Mackie, dottoranda del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi di UniTo e dell’University College Dublin, e la sua supervisor, la Prof.ssa Beatrice Demarchi, docente ordinaria presso l’Ateneo torinese ed esperta di biomolecole antiche.

 

In questo sito, insieme a una ricca fauna, sono stati rinvenuti alcuni tra i più antichi reperti del genere Homo in Italia. Il reperto ha funzionato da riferimento intermedio tra i campioni più recenti (esemplari medievali) e quello molto più antico analizzato in questo studio, offrendo un confronto diretto sulla conservazione proteica nel tempo.

Il contributo del team dell’Università di Torino è stato cruciale per la validazione dei dati e l’interpretazione dei processi di diagenesi proteica. “Abbiamo calcolato – spiega la Prof.ssa Beatrice Demarchi – che la bassa temperatura ha reso l’età termica del campione equivalente a quella di un reperto dieci volte più giovane in un luogo con temperatura media di 10°C, il che significa che le proteine erano significativamente meno danneggiate rispetto a quelle che si trovano in luoghi della stessa età geologica ma con clima più caldo”.

“È stato sorprendente”, commenta Meaghan Mackie. Il primo campione che ho analizzato pensavo non contenesse nulla, perché troppo antico! Sono rimasta a fissare lo schermo del computer per un minuto”. Questo risultato apre nuove prospettive per la ricerca evolutiva e la paleoproteomica perché permette di ricostruire la storia evolutiva di specie estinte da milioni di anni, ben oltre i limiti del DNA e, in prospettiva, potrebbe riaccendere le speranze per lo studio della biologia di specie dell’era Mesozoica. Indagini future su fossili della Formazione di Haughton e di altri contesti simili potrebbero far emergere ulteriori tracce di questa straordinaria conservazione biomolecolare.

“Si profila una nuova fase per la biologia evolutiva – aggiunge la Prof.ssa Demarchi – in cui le proteine antiche diventano preziosi testimoni della storia più remota della vita sulla Terra. Per l’Università di Torino, questo risultato conferma il ruolo di primo piano nell’ambito della paleobiologia molecolare internazionale”.

Vista del Cratere di Haughton sull'isola di Devon, Nunavut (Canada). Le condizioni aride e fredde del "deserto polare" hanno contribuito a preservare l'antico fossile di rinoceronte qui rinvenuto, comprese tracce di proteine originali risalenti a oltre 20 milioni di anni fa. Il terreno modellato in primo piano indica la presenza di permafrost. Crediti per la foto: Martin Lipman
Vista del Cratere di Haughton sull’isola di Devon, Nunavut (Canada). Le condizioni aride e fredde del “deserto polare” hanno contribuito a preservare l’antico fossile di rinoceronte qui rinvenuto, comprese tracce di proteine originali risalenti a oltre 20 milioni di anni fa. Il terreno modellato in primo piano indica la presenza di permafrost. Crediti per la foto: Martin Lipman

Riferimenti bibliografici:

Paterson, R. S., Mackie, M., Capobianco, A., Heckeberg, N. S., Fraser, D., Demarchi, B., Munir, F., Patramanis, I., Ramos-Madrigal, J., Liu, S., Ramsøe, A. D., Dickinson, M. R., Baldreki, C., Gilbert, M., Sardella, R., Bellucci, L., Scorrano, G., Leonardi, M., Manica, A., Racimo, F., Willerslev, E., Penkman, K. E. H., Olsen, J. V., MacPhee, R. D. E., Rybczynski, N., Höhna, S., Cappellini, E., Phylogenetically informative proteins from an Early Miocene rhinocerotid. Nature (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41586-025-09231-4

 

Testi dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma e dalla Sezione Comunicazione Digitale e Media Relations, Area Comunicazione dell’Università di Torino

YSES-1 B E YSES-1 C: PIOVE SABBIA SUGLI ESOPIANETI

Osservate per la prima volta nubi di silicati nell’atmosfera di un esopianeta, il gigante gassoso YSES-1 c, a 300 anni luce da noi. Lo studio, reso possibile dal telescopio spaziale James Webb (JWST), ha osservato anche il suo pianeta gemello, svelando intorno a esso un disco di polveri da cui potrebbero formarsi delle lune. Alla scoperta, pubblicata su Nature, ha partecipato Valentina D’Orazi, ricercatrice presso l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e l’Università di Roma Tor Vergata.

Spesso si invoca l’enorme numero di granelli di sabbia che coprono le spiagge del nostro pianeta per provare a immaginare l’altrettanto vasta moltitudine di stelle che popolano l’universo. E se qualcuno dei pianeti intorno a queste stelle fosse coperto – o circondato – di sabbia? È l’interessante scenario che emerge da un nuovo studio basato sulle osservazioni di due pianeti extrasolari realizzate con il telescopio spaziale James Webb (JWST), i cui risultati sono stati pubblicati oggi sulla rivista Nature.

Illustrazione artistica del sistema planetario YSES-1. La stella è visibile al centro, il pianeta YSES-1 b con il disco di polvere circumplanetario si trova a destra mentre a sinistra si vede l’altro pianeta, YSES-1 c, con l’atmosfera contenente nubi di silicati. Crediti: Ellis Bogat
Illustrazione artistica del sistema planetario YSES-1. La stella è visibile al centro, il pianeta YSES-1 b con il disco di polvere circumplanetario si trova a destra mentre a sinistra si vede l’altro pianeta, YSES-1 c, con l’atmosfera contenente nubi di silicati. Crediti: Ellis Bogat

I pianeti in questione orbitano attorno alla stella YSES-1, un giovane sole con un’età di appena 16,7 milioni di anni, che si trova a circa 300 anni luce dal nostro Sistema solare. Osservando direttamente la luce di questi esopianeti, un gruppo di ricerca internazionale guidato dall’astrofisica Kielan Hoch dello Space Telescope Science Institute di Baltimora, negli Stati Uniti, ha scoperto che l’atmosfera di uno dei due pianeti contiene nubi di silicati, composte da minerali che le conferiscono un colore rossiccio. L’altro pianeta del sistema, invece, appare circondato da un disco circumplanetario, anch’esso formato da silicati, dal quale potrebbero in futuro prendere forma corpi più piccoli, come ad esempio delle lune.

La scoperta, che sarà presentata oggi durante il 246° meeting dell’American Astronomical Society in corso ad Anchorage, in Alaska, offre nuove prospettive sulle fasi iniziali della formazione dei sistemi planetari come il nostro, fornendo a ricercatrici e ricercatori l’opportunità di studiare in tempo quasi reale come nasce e si evolve un pianeta simile a Giove.

“Osservare le nubi di silicati, che sono praticamente delle nuvole di sabbia, nelle atmosfere dei pianeti extrasolari è importante perché ci aiuta a capire meglio come funzionano i processi atmosferici e come si formano  i pianeti, un tema ancora in discussione poiché non c’è accordo sui diversi modelli”, spiega la coautrice Valentina D’Orazi, ricercatrice presso l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e l’Università di Roma Tor Vergata, attualmente visiting research scholar all’Università del Texas a Austin nell’ambito del programma Fulbright. “La scoperta di queste nuvole di sabbia, che restano in alto grazie a un ciclo di sublimazione e condensazione simile a quello dell’acqua sulla Terra, ci svela meccanismi complessi di trasporto e formazione nell’atmosfera. Questo ci permette di migliorare i nostri modelli sui processi climatici e chimici in ambienti molto diversi da quelli del Sistema solare, ampliando così la nostra conoscenza di questi sistemi”.

Si tratta di due pianeti giganti gassosi, con masse pari a 14 volte quella di Giove per YSES-1 c e a 6 volte quella di Giove per YSES-1 b. Entrambi i pianeti si trovano molto lontano dalla loro stella, a distanze circa 5 e 10 volte superiori rispetto alla distanza tra il Sole e Nettuno, il pianeta più esterno del Sistema solare. È proprio la loro orbita molto estesa che ha permesso al team di osservare i due pianeti con JWST attraverso la tecnica dell’imaging diretto, la cui applicazione è ancora oggi limitata a un piccolo numero di pianeti con caratteristiche molto particolari. Lo studio dimostra la capacità del potente telescopio spaziale di fornire dati spettrali di alta qualità per esopianeti osservati attraverso questa tecnica, aprendo nuove strade per lo studio delle atmosfere e degli ambienti circumstellari.

La presenza di nubi di silicati nelle atmosfere degli esopianeti era già stata prevista teoricamente e dedotta indirettamente da osservazioni precedenti, ma questa ricerca fornisce la prima osservazione diretta e spettroscopica di nubi di silicati in un esopianeta specifico, YSES-1 c. Questo permette di comprendere meglio la composizione atmosferica di un giovane gigante gassoso, confermando la presenza di nuvole di silicati ad alta quota, contenenti pirosseno ricco di ferro oppure una combinazione di bridgmanite (MgSiO3) e forsterite (Mg2SiO4).

Per quanto riguarda il pianeta gemello YSES-1 b, questo lavoro presenta la prima rilevazione di emissione di silicati da un disco circumplanetario, una specie di “mini-Sistema solare” in formazione. Solo due simili dischi circumplanetari sono stati osservati in precedenza, e la nuova ricerca fornisce informazioni dirette sulla composizione e sui processi fisici in questi ambienti: la presenza di granelli di olivina con dimensioni inferiori al micron, infatti, suggerisce un meccanismo di formazione attraverso collisioni di piccoli corpi, detti planetesimi, all’interno del disco.

“Studiando questi pianeti riusciamo a capire meglio come si formano i pianeti in generale, un po’ come sbirciare nel passato del nostro Sistema solare”, conclude D’Orazi. “I risultati supportano l’idea che la composizione delle nubi negli esopianeti giovani e i dischi circumplanetari svolgano un ruolo cruciale nel determinare la composizione chimica atmosferica. Inoltre, questo studio sottolinea la necessità di modelli atmosferici dettagliati per interpretare i dati osservativi di alta qualità ottenuti con telescopi come JWST”.

 

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “Silicate clouds and a circumplanetary disk in the YSES-1 exoplanet system”, di K. Hoch, M. Rowland, S. Petrus, E. Nasedkin, C. Ingebretsen, J. Kammerer, M. Perrin, V. D’Orazi, W. O. Balmer, T. Barman, M. Bonnefoy, G. Chauvin, C. Chen, R. J. De Rosa, J. Girard, E. Gonzales, M. Kenworthy, Q. M. Konopacky, B. Macintosh, S. E. Moran, C. V. Morley, P. Palma-Bifani, L. Pueyo, B. Ren, E. Rickman, J.-B. Ruffio, C. A. Theissen, K. Ward-Duong, Y. Zhang, è stato pubblicato sulla rivista Nature.

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

LA VIOLENTISSIMA TEMPESTA COSMICA NEL CUORE DEL QUASAR PDS 456, PRODOTTA DA UN BUCO NERO SUPERMASSICCIO

Roma, 14 maggio 2025 – Immaginate una tempesta colossale che si scatena appena al di fuori di un buco nero supermassiccio: è proprio ciò che ha rivelato Resolve, il nuovo spettrometro ad altissima risoluzione nei raggi X a bordo del satellite XRISM, nel contesto di una missione spaziale guidata dall’agenzia spaziale JAXA (Giappone), con la partecipazione di NASA (Stati Uniti) ed ESA (Europa).

Grazie ai dati ad altissima precisione di XRISM, è stato possibile – per la prima volta – identificare cinque componenti distinte di questo vento nel cuore del quasar PDS 456, ognuna espulsa dal buco nero centrale a velocità relativistiche, comprese tra il 20% e il 30% della velocità della luce.  Per fare un confronto, basti pensare che le tempeste più violente sulla Terra – come un uragano di categoria 5 – raggiungono al massimo 300 km/h. Questa “tempesta cosmica” è milioni di volte più veloce.

Lo studio nato da questa collaborazione internazionale (JAXA, NASA, ESA) nell’ambito della missione XRISM, a cui partecipano anche ricercatrici e ricercatori dell’Università di Roma Tor Vergata e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), è pubblicato oggi sulla rivista internazionale Nature, con un articolo dal titolo “Structured ionized winds shooting out from a quasar at relativistic speeds”, che evidenzia la scoperta di cinque distinti flussi di plasma che fuoriescono dal disco di accrescimento del buco nero centrale a velocità estreme, pari al 20–30% di quella della luce.

“Il nostro gruppo ha giocato un ruolo chiave nell’interpretazione di questi dati, grazie a tecniche spettroscopiche avanzate nei raggi X e a modelli teorici innovativi per la fisica dei venti prodotti dai buchi neri.  Questi risultati aprono una nuova finestra sullo studio dell’universo estremo, e gettano le basi per comprendere meglio come i buchi neri influenzano l’evoluzione delle galassie”.  Commenta così Francesco Tombesi, professore associato di Astrofisica presso il dipartimento di Fisica dell’università di Roma Tor Vergata e associato INAF. In qualità di XRISM Guest Scientist selezionato dall’ESA (uno dei soli due in Italia insieme a James Reeves, associato INAF), Tombesi ha partecipato alla pianificazione e all’analisi dell’osservazione del quasar PDS 456, il più luminoso dell’universo locale, utilizzando il nuovo spettrometro ad alta risoluzione Resolve.

“Roma Tor Vergata ha avuto un ruolo di primo piano – prosegue Tombesi – anche grazie al contributo di due giovani ricercatori cresciuti all’interno del nostro Ateneo: Pierpaolo Condò, dottorando al secondo anno del PhD in Astronomy, Astrophysics and Space Science (AASS), e Alfredo Luminari, ricercatore post-doc presso INAF ed ex dottorando AASS”.

Un’energia così enorme e una struttura così complessa rivoluzionano la nostra comprensione dell’ambiente estremo intorno ai buchi neri supermassicci e mettono in seria discussione i modelli attuali di feedback tra buco nero e galassia. “Le teorie finora accettate – conclude Tombesi – non riescono a spiegare una simile combinazione di forza e frammentazione: è chiaro che serviranno nuovi modelli per descrivere questi mostri cosmici”.

“PDS456 è un laboratorio prezioso per studiare nell’universo locale i potentissimi venti prodotti dai buchi neri supermassivi. Questa  nuova osservazione ci ha permesso di misurare la geometria e distribuzione in velocità del vento con un livello di dettagli impensabile prima dell’avvento di XRISM”, aggiunge Valentina Braito, ricercatrice INAF a Milano.

Un ruolo vincente all’interno della campagna osservativa di PDS456 lo ha avuto ancora una volta l’osservatorio spaziale Neil Gehrels Swift, satellite NASA con una importante partecipazione dell’INAF con l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI). È stato infatti grazie a un programma osservativo Swift – ottenuto da Valentina Braito – che il team è riuscito a costruire i modelli specifici per PDS456 utilizzati nell’analisi dei dati XRISM.

 

Riferimenti bibliografici:

XRISM collaboration, Structured ionized winds shooting out from a quasar at relativistic speeds, Nature (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41586-025-08968-2

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

Un collettivo di ricerca italiano per una riflessione costruttiva sul tema della carne coltivata a supporto di un processo decisionale ragionato

Una discussione interdisciplinare sul tema dell’agricoltura cellulare diventa una nota critica revisionata tra pari: pubblicati sulla rivista One Earth 10 spunti che, a partire dal caso specifico italiano, vengono proposti ai decisori politici e agli esperti del settore.

Quello della carne coltivata è oggi un argomento polarizzante nel discorso politico mondiale. L’Italia è stato il primo Paese ad approvare una legge che vieta produzione e vendita di prodotti ottenuti tramite agricoltura cellulare: da qui l’urgenza, percepita dalle ricercatrici e dai ricercatori che studiano il tema, di impostare una riflessione che possa contribuire a guidare i decisori politici, e tutte le parti interessate, a intraprendere percorsi di valutazione ragionati, fondati su evidenza scientifica e caratterizzati da un approccio interdisciplinare.

Politecnico di TorinoUniversità di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e Università di Torino, insieme all’Università di Roma Tor Vergata, all’Università di Trento, a The Good Food Institute Europe e all’Istituto di scienze delle produzioni alimentari, si pongono in prima fila nell’affrontare una sfida ben precisa: promuovere un sostegno bipartisan alla ricerca scientifica, che permetta a questa di verificare se siano plausibili la sostenibilità e la praticabilità dell’agricoltura cellulare, per poi lasciare alle parti politiche le decisioni in materia di policy. È fondamentale sensibilizzare la coscienza collettiva sull’importanza di garantire ricerca libera e rispettata a priori, tenuta ben distinta dalle scelte regolamentari, necessarie ma attinenti a un dominio diverso in una democrazia che ha tra i propri valori il progresso della conoscenza.

Le ricercatrici e i ricercatori coinvolti nel progetto – 19 in tutto – hanno quindi elaborato dieci spunti confluiti in una nota critica revisionata tra pari pubblicata oggi su One Earth, la rivista dell’editore scientifico Cell Press che si occupa specificatamente di sostenibilità. Dal titolo “Cultivated meat beyond bans: Ten remarks from the Italian case toward a reasoned decision-making process” l’articolo – ad accesso libero e gratuito – vede nel ruolo di autori corrispondenti Michele Antonio Fino, professore di diritto all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, Alessandro Bertero, professore di biotecnologie all’Università di Torino, e Diana Massai, professoressa di bioingegneria al Politecnico di Torino. Hanno con loro partecipato alla stesura del testo esperti in biologia delle cellule staminali e dei muscoli, medicina rigenerativa e ingegneria dei tessuti, bioingegneria, ingegneria industriale, tecnologie e sicurezza alimentare, diritto comparato, filosofia etica, semiotica, psicologia e percezione del consumatore, nonché comunicazione scientifica.

L’attenzione delle ricercatrici e dei ricercatori si è concentrata in primo luogo sulla libertà della ricerca, necessaria all’innovazione. Come garanzia della libertà serve un uso corretto del linguaggio per riferirsi al tema: termini quali “coltivato” o “carne coltivata” – che riportano all’origine biologica delle cellule e al metodo di produzione – non sono equivalenti a “artificiale” o “carne sintetica”. Altrettanto fondamentale è la salvaguardia dell’integrità delle informazioni trasmesse, il discorso pubblico deve infatti diffidare di tutte quelle scorciatoie linguistico-concettuali usate per descrivere i prodotti dell’agricoltura cellulare e che rischiano di compromettere la capacità degli individui di formarsi una propria opinione sulla base dei dati.

L’agricoltura cellulare ha un potenziale importante, in un mondo che si trova oggi ad affrontare sfide alimentari e ambientali non più rimandabili, con la previsione di una crescita della popolazione che raggiungerà tra i 9 e gli 11 miliardi entro il 2050. Ed è pertanto irresponsabile minare la fiducia dei consumatori nella valutazione dei nuovi alimenti, mettendo in discussione le autorità competenti in materia, qual è l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA).

Nel testo si evidenzia quindi l’importanza di fornire consistente sostegno alla ricerca pubblica allo scopo di mitigare i rischi di iniquità associati ai brevetti privati e ai potenziali monopoli. Gli autori e le autrici si rivolgono ai decisori politici per richiedere una stabilità normativa che possa sostenere gli sforzi della ricerca e il potenziale trasferimento tecnologico in tema di nuovi alimenti. Non manca, infine, un riferimento alla libertà individuale nelle scelte alimentari: una volta appurata la sicurezza e approvata la produzione, la libertà di compiere scelte alimentari non deve essere infatti limitata da alcuna maggioranza ma lasciata al singolo.

“Negli ultimi anni, in diversi paesi è emersa una linea politica contraria alla carne coltivata non fondata sui risultati di una ricerca scientifica compiuta – commentano Alessandro BerteroMichele Antonio Fino e Diana Massai – La situazione creatasi in Italia, con la conseguente crisi di conoscenza acuita da decisioni politiche basate su informazioni come minimo incomplete, ha ispirato la nascita di un collettivo di ricerca fortemente interdisciplinare. La posizione che ne è scaturita è un appello argomentato a riportare il sapere scientifico e la ricerca al centro del dibattito su un tema cruciale com’è quello della agricoltura cellulare. In quanto settima economia mondiale, l’Italia ha la responsabilità di contribuire in modo attivo e consapevole al progresso della conoscenza, prima che venga svolta qualsiasi valutazione su tecnologie capaci di influire sul futuro alimentare globale”.

Torino, 20 dicembre 2024

il primo hamburger di carne coltivata (2013) a Londra, prodotto dall'Università di Maastricht. Fotogramma World Economic Forum estratto da video YouTube (7:53), CC BY 3.0
il primo hamburger di carne coltivata (2013) a Londra, prodotto dall’Università di Maastricht. Fotogramma World Economic Forum estratto da video YouTube (7:53), CC BY 3.0

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Progetto CO-TRANS-NET: farmaci sintetici personalizzati a base di RNA, giovane ricercatrice vince l’ERC Starting Grant

Sempre più vicina la possibilità di creare farmaci su misura del paziente oncologico e della sua malattia e garantire diagnosi ad personam, anche via smartphone

Progetto CO-TRANS-NET farmaci molecola RNA funzionale - crediti per l'immagine: Marco Tripodi, Università Roma Tor Vergata
molecola RNA funzionale – crediti per l’immagine: Marco Tripodi, Università Roma Tor Vergata

Roma, 5 settembre 2024 – Simona Ranallo, 37 anni, romana, attualmente ricercatrice presso il dipartimento di Scienze e tecnologie chimiche dell’Università di Roma Tor Vergata, si aggiudica – unica vincitrice Starting Grant nell’Ateneo – l’ERC Starting Grant 2024, il finanziamento di 1.5 milioni di euro che l’Europa elargisce alle migliori linee di ricerca ogni anno, per il progetto CO-TRANS-NET “Synthetic nucleic acid co-transcriptional networks as diagnostic and therapeutic tools”.

I suoi studi per la ricerca sul cancro l’hanno portata a interessarsi delle interazioni molecolari che avvengono all’interno della cellula e nel corpo umano.

“Ciò che maggiormente ha stimolato la mia curiosità – spiega Simona Ranallo – è sempre stato cercare di migliorare la diagnosi e il trattamento di diverse malattie, incluso il cancro, partendo dallo studio di come funziona la vita. Attraverso processi altamente controllati la cellula è in grado di leggere l’informazione contenuta nel nostro DNA e tradurla in molecole funzionali, quali RNA e proteine, che giocano ruoli chiave nella regolazione delle funzioni vitali e della salute”.

“Ed è proprio da questo concetto – sottolinea la ricercatrice – che nasce l’idea di CO-TRANS-NET (acronimo di Cotranscriptional networks): sviluppare sistemi basati su geni sintetici che, in risposta a specifici biomarcatori tumorali, sono in grado di produrre molecole di RNA funzionali che possono generare un segnale diagnostico o avere funzioni terapeutiche. In questo modo CO-TRANS-NET si pone l’obiettivo di generare una nuova classe di strumenti teranostici, che attraverso l’utilizzo delle nanotecnologie, integrano la diagnosi e la terapia in modo tale che possano essere ottenute simultaneamente”.

L’innovazione del progetto CO-TRANS-NET risiede quindi in una importante scoperta.

“La possibilità di produrre un farmaco a base di RNA in risposta alla presenza di specifici biomarcatori tumorali rappresenta la vera innovazione di CO-TRANS-NET. In questo modo si potrebbe pensare di produrre un farmaco “on demand” quando il livello di un biomarcatore supera il suo specifico range fisiologico, diventando quindi una sorta di allarme e rappresentando una possibilità di trattamento precoce. Si riuscirebbe così ad amministrare la dose di farmaco da somministrare in base alla necessità specifica di ogni singolo paziente, correlata allo stadio della sua malattia”.

La dottoressa Ranallo sottolinea anche le caratteristiche peculiari e la versatilità del progetto:

“CO-TRANS-NET oltre a garantire un monitoraggio costante e un trattamento terapeutico personalizzato rappresenta un innovativo strumento diagnostico in cui in tempi rapidi e senza necessità di apparecchiature di laboratorio ma utilizzando solamente uno smartphone si potrà misurare il livello di biomarcatori tumorali nel sangue dei pazienti con elevata precisione, proprio come il glucometro utilizzato dai pazienti diabetici. Le innovazioni proposte da CO-TRANS-NET in campo diagnostico e terapeutico rappresentano importanti progressi verso la medicina personalizzata e di precisione”.

Il progetto CO-TRANS-NET ha una durata di cinque anni e rientra nel 44% di Starting Grant 2024 vinti da ricercatrici, percentuale in costante aumento negli ultimi anni secondo quanto rivela lo European Research Council. Lo ERC Starting Grant, che per l’anno in corso ha potuto contare su un finanziamento di circa 780 milioni di euro complessivi, supporta giovani ricercatori e ricercatrici all’inizio della loro carriera nelle loro ricerche all’avanguardia.

Simona Ranallo
Simona Ranallo

Biografia

Simona Ranallo si laurea in chimica all’università di Roma Tor Vergata e qui ottiene il dottorato in Scienze chimiche portando avanti la sua ricerca nel Laboratorio di Chimica analitica del dipartimento di Scienze e tecnologie chimiche. Durante il PhD è stata Visiting Researcher presso la University of California Santa Barbara e l’Université de Montréal.

Ha ottenuto finanziamenti post doc dalla Fondazione Umberto Veronesi per continuare la sua ricerca sul cancro e nel 2018 è risultata vincitrice di una Marie Skłodowska-Curie Post Doctoral Global Fellowship, finanziata dalla Comunità Europea. Grazie a questo finanziamento ha svolto due anni di ricerca presso la University of California Santa Barbara per poi tornare nell’ultimo anno di ricerca del finanziamento presso il dipartimento di Scienze e tecnologie chimiche di Roma Tor Vergata, dove attualmente lavora come ricercatrice nel gruppo di ricerca coordinato dal professor Francesco Ricci.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa Università di Roma Tor Vergata

Individuato un nuovo meccanismo molecolare alla base della leucemia linfoblastica acuta, una leucemia infantile ad alta incidenza: l’interazione tra proteine recettoriali mediata da microRNA porta a compromettere funzioni immunitarie del timo

Una ricerca internazionale coordinata dalla Sapienza ha reso possibile importanti avanzamenti nella comprensione dei processi alla base dello sviluppo della leucemia linfoblastica acuta: un’interazione tra proteine recettoriali mediata da microRNA conduce alla compromissione delle funzioni immunitarie della ghiandola del timo. Questa scoperta potrebbe portare in futuro a nuove tecniche di monitoraggio e a nuove terapie.

La leucemia linfoblastica acuta (LLA) è un tumore ematologico aggressivo a rapida evoluzione che colpisce i linfociti T arrestandoli in una fase immatura. Tra le leucemie acute infantili, circa il 60% è rappresentato dalla LLA. Anomalie genetiche bloccano la differenziazione dei precursori delle cellule T nel timo, una ghiandola situata nel mediastino, davanti al cuore, e favoriscono una proliferazione cellulare anomala. Le cellule leucemiche in accumulo infiltrano poi il midollo osseo provocando la malattia.

Nel 60% dei pazienti con LLA-T si riscontrano mutazioni che portano ad un’iperattività del sistema di segnalazione Notch. La chemioterapia intensiva può curare molti dei pazienti, ma un’alta percentuale dei soggetti pediatrici e soprattutto adulti è poi soggetta a ricadute con prognosi sfavorevole. I recettori Notch possono infatti contribuire alla resistenza alla chemioterapia, rendendo necessaria la ricerca di nuovi approcci per contrastare il suo apporto alla progressione della LLA-T.

Un nuovo studio, condotto dal Dipartimento di Medicina Sperimentale della Sapienza in collaborazione con il Dipartimento di Medicina Molecolare, e frutto di una rete di collaborazioni con altri enti di ricerca, offre importanti avanzamenti per la comprensione del meccanismo tumorale. I risultati della ricerca, di recentissima pubblicazione sulla rivista Oncogene, hanno dimostrato come la proteina Notch moduli i meccanismi epigenetici di regolazione del recettore CXCR4 attraverso l’interazione con particolari microRNA. In questo modo contribuisce al blocco dello sviluppo e della differenziazione delle cellule T e sovverte completamente le funzioni del timo inducendone una precoce involuzione.

Il risultato è stato ottenuto attraverso un modello transgenico per il gene Notch3, che ha permesso di verificare molte delle caratteristiche molecolari e cellulari della LLA T, e grazie all’impiego di molteplici tecniche avanzate di citofluorimetria e di analisi molecolare. I dati epigenetici sono stati confermati mediante l’utilizzo di modelli di xenotrapianto ottenuti utilizzando campioni di pazienti affetti da LLA T trapiantati in modelli sperimentali murini.

“Il lavoro conta, non solo fra i primi nomi, nostri giovani ricercatori in Italia ed all’estero, che con professionalità hanno condotto esperimenti complessi e fondamentali per questo studio, dimostrando passione ed entusiasmo per la ricerca scientifica. La specifica competenza fornita da ogni singolo autore e dai vari centri di ricerca coinvolti ha permesso la realizzazione di questo progetto”, precisa Maria Pia Felli, autrice dell’articolo.

In particolare oltre alla Sapienza hanno partecipato la Weill Cornell Medicine di New York, l’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Roma, l’Azienda Ospedaliera dei Colli Monaldi di Napoli, l’Università di Roma Tor Vergata, l’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena di Roma, l’Università di Padova e quella di Perugia.

I risultati ottenuti avanzano la conoscenza scientifica su questo tipo di tumore e suggeriscono questi microRNA come nuovi addizionali biomarker molecolari per il monitoraggio e, nel futuro, per avanzate strategie terapeutiche contro questa patologia.

Riferimenti bibliografici:

Notch3-regulated microRNAs impair CXCR4-dependent maturation of thymocytes allowing maintenance and progression of T-ALL – Ilaria Sergio, Claudia Varricchio, Sandesh Kumar Patel, Martina Del Gaizo, Eleonora Russo, Andrea Orlando, Giovanna Peruzzi, Francesca Ferrandino, Georgia Tsaouli, Sonia Coni, Daniele Peluso, Zein Mersini Besharat, Federica Campolo, Mary Anna Venneri, Donatella Del Bufalo, Silvia Lai, Stefano Indraccolo, Sonia Minuzzo, Roberta La Starza, Giovanni Bernardini, Isabella Screpanti, Antonio Francesco Campese, e Maria Pia Felli

Oncogene – DOI: 10.1038/s41388-024-03079-0

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Foto di Konstantin Kolosov

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Protesi e mani bioniche: se non assomigliano a mani umane funzionano meglio

Un nuovo studio pubblicato su iScience e condotto dal laboratorio di Neuroscienze Applicate e Tecnologie della Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma, in collaborazione con Sapienza Università di Roma e l’Università di Roma Tor Vergata, ha dimostrato che una protesi non antropomorfa è più funzionale e più facilmente accolta rispetto ad una protesi che mima l’estetica umana.

Se una mano bionica non sembra umana, l’utente la riesce ad usare meglio, migliorando anche la sua capacità di identificarla come propria (processo noto come incorporazione o embodiment). Questo è il risultato dello studio, pubblicato sulla rivista scientifica iScience e condotto dal laboratorio di Neuroscienze Applicate e Tecnologie della Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma, in collaborazione con Sapienza Università di Roma e Università di Roma Tor Vergata.

I ricercatori hanno utilizzato la realtà virtuale per valutare la destrezza nell’esecuzione di un compito motorio svolto usando due diversi effettori: una mano virtuale che riproduce le sembianze reali di un arto e una protesi bionica simile ad un paio di pinzette. Lo studio, condotto su individui sani, ha dimostrato come i partecipanti siano più precisi e più bravi a svolgere il compito richiesto, che consisteva nello scoppiare pizzicandole delle bolle virtuali di un colore specifico.

L’équipe di ricerca, ha anche proseguito l’esperimento misurando il livello di incorporazione: la persona riceveva una stimolazione tattile su un dito della mano reale e, contemporaneamente, osservava uno stimolo visivo che compariva su un dito virtuale che poteva essere o meno corrispondente al dito reale.

Quando la posizione dello stimolo tattile e di quello visivo coincideva, i partecipanti erano più veloci nell’identificare il dito sul quale avevano sentito la vibrazione. In caso contrario c’era un aumento dei tempi di risposta dovuto alla discrepanza di localizzazione tra i due stimoli.

“Questo avviene quando il cervello elabora come proprio l’effttore che vede nella realtà virtuale. Se l’embodiment è avvenuto il soggetto impiega più tempo per rispondere perché più esposto agli effetti dell’incongruenza tra stimolo tattile e visivo” afferma Ottavia Maddaluno, una delle ricercatrici.

I risultati dell’esperimento hanno mostrato che i partecipanti incorporano meglio (o allo stesso livello) la mano bionica rispetto a quella antropomorfa. Per spiegare la maggiore incorporazione dell’arto bionico potremmo ricorrere alla teoria dell’“uncanny valley” o “valle perturbante”.

“Secondo questa teoria – prosegue Maddaluno – quando i robot umanoidi raggiungono un grado di somiglianza troppo alto con un vero essere umano, il cervello riconosce l’umanoide come strano ed estraneo, complicando il processo di riconoscimento”.

Lo stimolo tattile dell’esperimento, progettato per permettere una esperienza vivida e chiaramente identificabile, è stato messo a punto presso il gruppo di Fisiologia del Dipartimento di Medicina dei sistemi dell’Università di Roma Tor Vergata.

“Per somministrare uno stimolo tattile che sia preciso e sincrono con gli stimoli visivi – spiega Alessandro Moscatelli dell’Università di Roma Tor Vergata – sono stati appositamente realizzati dispositivi indossabili (wearable haptics): all’interno del dispositivo sono stati posizionati degli attuatori di tipo “voice coil” che hanno consentito di modulare l’ampiezza e la frequenza dello stimolo vibrotattile”.

Secondo le conclusioni dell’equipe di ricerca, il cervello trova più semplice utilizzare la pinza bionica rispetto alla mano virtuale. Nel caso della mano, infatti, il cervello si trova a confrontarsi con un oggetto che produce una stimolazione molto complessa, mentre la pinza bionica è funzionalmente simile ad una mano e può riprodurne i movimenti (ad esempio la chiusura e apertura di indice e pollice) in modo più semplice. La maggiore semplicità si traduce in una minore necessità di elaborazione da parte del cervello e, quindi, in maggiore destrezza e facilità d’uso. Questa evidenza potrà aprire la strada a nuove concezioni nello sviluppo di protesi robotiche.

“Nell’ambito della neuroriabilitazione stiamo già applicando le conoscenze di questo studio per migliorare le protesi oggi disponibili per persone che, a causa di un’amputazione non hanno un arto”,

spiega Viviana Betti del Dipartimento di Psicologia di Sapienza Università di Roma e direttrice del laboratorio di ricerca presso IRCCS Fondazione Santa Lucia.

“Le evidenze con i pazienti che stiamo conducendo confermano quanto emerso su persone sane con la realtà virtuale e saranno oggetto di future pubblicazioni.”

 

Lo studio è stato finanziato dallo European Research Council progetto HANDmade (G.A. n. 759651) attribuito a Viviana Betti.

 

 

Riferimenti bibliografici:

Rewiring the evolution of the human hand: How the embodiment of a virtual bionic tool improves behavior

M. Marucci, O. Maddaluno, C. P. Ryan, C. Perciballi, S. Vasta, S. Ciotti, A. Moscatelli, V. Betti

iScience – doi.org/10.1016/j.isci.2024.109937

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Migliorare l’architettura dei computer con la biomimetica

Una ricerca, coordinata dal Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza, ha sviluppato un nuovo dispositivo nanofluidico sul modello del funzionamento dei canali ionici cerebrali, essenziali per la propagazione ed elaborazione dei segnali elettrici, a basso consumo energetico. Il progetto, che ha ottenuto un finanziamento dal Consiglio europeo della ricerca (ERC), è stato pubblicato sulla rivista Nature Communications.

Rappresentazione schematica di un canale ionico: 1 - subunità proteiche (tipicamente 4 o 5 per canale), 2 - vestibolo esterno, 3 - filtro selettivo, 4 - diametro del filtro selettivo, 5 - sito di fosforilazione, 6 - membrana cellulare.
Rappresentazione schematica di un canale ionico: 1 – subunità proteiche (tipicamente 4 o 5 per canale), 2 – vestibolo esterno, 3 – filtro selettivo, 4 – diametro del filtro selettivo, 5 – sito di fosforilazione, 6 – membrana cellulare.
Immagine di Paweł Tokarz, in pubblico dominio

Il cervello è particolarmente efficiente dal punto di vista energetico, in quanto elabora le informazioni memorizzandole negli stessi elementi che le processano. Invece per i computer il modo in cui vengono eseguiti i calcoli richiede attualmente la memorizzazione e l’elaborazione delle informazioni in parti diverse del calcolatore, rendendo il processo poco efficiente energeticamente. La costruzione di dispositivi neuromorfici, ovvero ispirati alle componenti del cervello umano, può rappresentare un importante passo avanti nelle applicazioni di intelligenza artificiale.

Uno studio coordinato da Alberto Giacomello del Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza, in collaborazione con il Istituto di Scienze Biomolecolari e Biotecnologia di Groningen (Paesi Bassi), l’Università del Sichuan e Centro di Innovazione Collaborativa (Cina) e l’Università di Roma Tor Vergata, prende ispirazione dai canali ionici che controllano il passaggio degli ioni nel cervello e sono essenziali per la propagazione ed elaborazione dei segnali elettrici nel sistema nervoso. Questo lavoro fa parte del progetto HyGate sul gating idrofobo finanziato dal Consiglio europeo della ricerca (ERC).

Il lavoro, pubblicato sulla rivista Nature Communications, si è basato sull’ingegnerizzazione di un particolare canale transmembrana – un nanoporo – che, sfruttando l’idrofobicità e la formazione di nanobolle, riesce a riprodurre il comportamento elettrico dei canali ionici naturali, pur funzionando mediante processi più semplici.

Era già noto che i nanopori idrofobi, tipicamente non conduttivi, possono diventare conduttivi quando viene applicato un voltaggio (electrowetting). Questo nuovo studio sviluppa una teoria quantitativa per questo fenomeno, dimostrando, per la prima volta, che in particolari condizioni, può essere usato per memorizzare informazioni. La teoria è stata testata realizzando sperimentalmente il singolo dispositivo “memristivo” ed implementando questo elemento in applicazioni neuromorfiche dimostrative.

“Eravamo interessati – afferma Alberto Giacomello – a progettare un nano-interruttore controllato dal voltaggio, ovvero in cui il cambiamento delle proprietà di conduzione è dovuto al gating idrofobo, meccanismo mediante cui bolle di dimensioni nanometriche, dette nanobolle, bloccano il passaggio degli ioni attraverso i canali. Abbiamo poi sfruttato il fenomeno dell’elettrowetting per causare il riempimento del nanoporo idrofobo e renderlo quindi conduttivo in maniera controllata”.

Il singolo dispositivo è stato progettato a partire da un particolare nanoporo biologico che poteva essere modificato e bioingegnerizzato seguendo i criteri suggeriti dalla teoria e dalle simulazioni, portate avanti dallo studio in questione. Tale dispositivo è stato realizzato grazie alla collaborazione con i partner sperimentali che lavorano con questi canali e hanno potuto studiarne la risposta al voltaggio.

La ricerca ha così dimostrato un nuovo modo di costruire dispositivi memristivi iontronici, basato sul gating idrofobo, contribuendo a costruire basi più concrete per studiare l’effetto della tensione sulla conduzione in nanopori idrofobi.

Inoltre, nuove architetture neuromorfiche potrebbero potenziare gli attuali algoritmi e i sistemi di intelligenza artificiale, rendendoli energeticamente più efficienti e sostenibili. Fra queste la iontronica che utilizzando gli ioni al posto degli elettroni come elementi conduttori apre a nuove prospettive anche in campo medico.

Riferimenti bibliografici:

Hydrophobically gated memristive nanopores for neuromorphic applications – Gonçalo Paulo, Ke Sun, Giovanni di Muccio, Alberto Gubbiotti, Blasco Morozzo della Rocca, Jia Geng, Giovanni Maglia, Mauro Chinappi, Alberto Giacomello – Nature Communications (2023). DOI: 10.1038/s41467-023-44019-y

 

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Scoperto un nuovo tipo di astrociti, definiti astrociti glutammatergici: si tratta di cellule cerebrali essenziali per la memoria, l’apprendimento e il controllo del movimento

Uno studio pubblicato da Nature che ha tra i suoi protagonisti l’Università di Roma Tor Vergata e la Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma evidenzia l’esistenza di un terzo tipo di cellule cerebrali essenziali, finora sconosciute, che si pongono a metà tra i neuroni e la glia.

Ada Ledonne
Ada Ledonne. Crediti Foto: Fondazione Santa Lucia IRCCS

Roma, 12 settembre 2023 – Uno studio, svolto presso l’Università di Losanna (UNIL) in Svizzera e presso la Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma con il contributo in tutte le sue fasi della ricercatrice Ada Ledonne – seconda autrice del lavoro – ha scoperto una terza tipologia di cellule cerebrali essenziali che agiscono sui circuiti cerebrali legati alla memoria, all’attenzione e al controllo del movimento.

Lo studio, pubblicato da Nature, ha individuato una particolare tipologia di astrociti, cellule tra i componenti della “glia” ossia la parte non-neuronale del cervello che fornisce struttura, nutrimento e regola l’ambiente all’interno dell’encefalo. Gli astrociti scoperti dal gruppo di ricerca sono però differenti perché presentano caratteristiche neuronali e sono in grado di mettere in circolo il glutammato, un neurotrasmettitore. Questa caratteristica, mai osservata prima di questo studio, pone questi astrociti a metà tra le cellule gliali e le cellule neuronali ed evidenzia l’esistenza di una terza categoria di cellule, finora sconosciuta, necessaria al buon funzionamento del cervello.

Ada Ledonne e Nicola Biagio Mercuri
Ada Ledonne e Nicola Biagio Mercuri. Crediti Foto: Fondazione Santa Lucia IRCCS

Lo studio è stato diretto dal prof. Andrea Volterra, professore emerito presso l’Università di Losanna e visiting faculty presso il Wyss Center for Bio and Neuroengineering di Ginevra, in passato anche visiting scientist presso la Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma. Lo studio è stato condotto da un team internazionale di ricercatori che ha avuto tra i suoi protagonisti, sia in Italia sia in Svizzera, la farmacologa e neuroscienziata Ada Ledonne, attualmente ricercatrice presso l’Università di Roma Tor Vergata e anche presso la Fondazione Santa Lucia IRCCS, nel laboratorio di Neurologia Sperimentale diretto dal neurologo prof. Nicola Biagio Mercuri, professore di Neurologia presso l’Università di Roma Tor Vergata, il quale ha contribuito a questo studio.

“I risultati ottenuti” spiega la dott.ssa Ledonne “dimostrano che gli astrociti glutammatergici influenzano l’attività neuronale, la neurotrasmissione e la plasticità sinaptica in importanti circuiti cerebrali, quali il circuito cortico-ippocampale e il sistema dopaminergico nigrostriatale, con implicazioni nella regolazione di processi di apprendimento e memoria, controllo del movimento, e insorgenza di crisi epilettiche”.

Le cellule scoperte sono coinvolte anche nei meccanismi di plasticità sinaptica neuronale, ossia nei meccanismi che regolano la forza della comunicazione tra i neuroni. In particolare lo studio pubblicato su Nature dimostra che gli astrociti glutammatergici sono essenziali per una forma di plasticità (chiamata potenziamento a lungo termine) che è alla base dei processi di apprendimento. Infatti, interferendo con la funzione di questo nuovo tipo di astrociti nei modelli sperimentali si ha un danneggiamento della memoria.

L’identificazione di questa nuova tipologia di cellule cerebrali con caratteristiche intermedie tra astrociti e neuroni risolve le precedenti controversie sulla capacità degli astrociti di effettuare rilascio vescicolare di trasmettitori. In questo modo costituisce un notevole avanzamento della conoscenza dei meccanismi di funzionamento del cervello.

“Nello studio pubblicato su Nature è stato anche evidenziato un ruolo importante degli astrociti glutammatergici nel controllo del circuito cerebrale che regola il movimento – il sistema dopaminergico nigrostriatale – la cui alterazione funzionale è alla base della malattia di Parkinson” commenta la dott.ssa Ada Ledonne.

I risultati ottenuti sono pertanto estremamente utili alla comprensione dei meccanismi che portano allo sviluppo di diverse patologie neurologiche e la creazione di nuove terapie che, agendo su questo meccanismo appena scoperto, possano influenzare il decorso di varie malattie cerebrali.

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Una nuova cellula “ibrida” per consolidare la memoria e regolare i circuiti cerebrali

Un nuovo studio internazionale, realizzato in collaborazione con la Sapienza Università di Roma, ha scoperto una sottopopolazione di cellule neuronali, fondamentali nel controllo delle attività cerebrali. I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista Nature, aprono nuove strade per il trattamento di malattie neurologiche come l’epilessia o il Parkinson.

Il cervello funziona grazie ai neuroni e alla loro capacità di elaborare e trasmettere informazioni. Per supportarli in questo compito le cellule gliali svolgono una serie di funzioni strutturali, energetiche e immunitarie. Alcune di queste, conosciute come astrociti, circondano le sinapsi, ovvero i punti di contatto in cui i neurotrasmettitori vengono rilasciati per diffondere le informazioni tra i neuroni.

Per questo motivo, i neuroscienziati suggeriscono da tempo che gli astrociti potrebbero avere un ruolo attivo nella trasmissione sinaptica e partecipare alla elaborazione delle informazioni.

Una ricerca internazionale, coordinata da Andrea Volterra dell’Università di Losanna  in collaborazione con un gruppo di neuroscienziati della Sapienza e del Wyss Center di Ginevra, ha portato alla scoperta di una nuova sottopopolazione di astrociti, un ibrido per composizione e funzione tra i due tipi di cellule cerebrali finora conosciute, i neuroni e le cellule gliali, che sono in grado di controllare il livello di comunicazione e di eccitazione dei neuroni.

“Lo studio – afferma Maria Amalia Di Castro del Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia della Sapienza – dimostra che il sottogruppo risponde a stimolazioni selettive con rapido rilascio di glutammato in aree spazialmente delimitate che ricordano le sinapsi. Il rilascio di glutammato da parte di queste cellule specializzate esercita un’influenza sulla trasmissione sinaptica e regola i circuiti neuronali”.

I ricercatori hanno osservato a livello sperimentale che, senza questo meccanismo funzionale, il  processo neurale coinvolto nella memorizzazione a lungo termine, risulta compromesso.

Le implicazioni di questa scoperta si estendono anche ai disturbi cerebrali come l’epilessia o il Parkinson. Interrompendo specificamente gli astrociti glutammatergici, il gruppo di ricerca ha dimostrato che risulta compromesso sia il consolidamento della memoria, che gli effetti negativi di alcune patologie come l’epilessia, con un aumento delle crisi da parte dei pazienti.

Infine, lo studio dimostra che gli astrociti glutamatergici hanno anche un ruolo nella regolazione dei circuiti cerebrali coinvolti nel controllo del movimento e potrebbero offrire bersagli terapeutici per la malattia di Parkinson.

 

 

Riferimenti bibliografici:

Specialized astrocytes mediate glutamatergic gliotransmission in the CNS – Roberta de Ceglia, Ada Ledonne, David Gregory Litvin, Barbara Lykke Lind, Giovanni Carriero, Emanuele Claudio Latagliata, Erika Bindocci, Maria Amalia Di Castro, Iaroslav Savtchouk, Ilaria Vitali, Anurag Ranjak, Mauro Congiu, Tara Canonica, William Wisden, Kenneth Harris, Manuel Mameli, Nicola Mercuri, Ludovic Telley & Andrea Volterra – Nature 2023. https://www.nature.com/articles/s41586-023-06502-w

 

Crediti Foto: Fondazione Santa Lucia IRCCS. Testi e immagini dall’Ufficio Stampa di Ateneo Università di Roma Tor Vergata e dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma. Aggiornato il 28 Settembre 2023.

L’ESOPIANETA TOI-1853b, IL NETTUNIANO SUPER-MASSICIO, UNA SCOPERTA CHE PORTA PIÙ DOMANDE CHE RISPOSTE

Scoperto da un team di scienziati internazionale guidato dall’Università di Roma Tor Vergata e da INAF un esopianeta dalle caratteristiche straordinarie – individuato grazie al satellite TESS della NASA e caratterizzato con il Telescopio Nazionale Galileo – le cui proprietà fisiche mettono in crisi le teorie convenzionali di formazione ed evoluzione planetarie. La ricerca pubblicata oggi su Nature.

Roma, 30 agosto 2023 – Si chiama TOI-1853b ed è estremamente peculiare: ogni 30 ore compie un giro completo intorno alla sua stella (la Terra impiega un anno per compiere un giro completo intorno al Sole), ha un raggio comparabile con quello di Nettuno (3,5 raggi terrestri, da cui il nome) ma una massa di circa quattro volte più grande (73 masse terrestri). Ciò gli conferisce il primato della densità più elevata fra gli esopianeti nettuniani noti ad oggi (circa 10 g/cm3, il doppio della densità della Terra). Distante 545 anni luce da noi, TOI-1853b si trova nella costellazione di Boote e la sua scoperta, pubblicata oggi su Nature, è stata realizzata da un team internazionale di ricercatori, guidato da Luca Naponiello, 31 anni, dottorando in Astrofisica all’università di Roma Tor Vergata e primo autore del lavoro. Diversi ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) hanno dato un contributo di fondamentale importanza allo studio.

Illustrazione artistica dell'esopianeta TOI-1853b. Crediti: L. Naponiello
Illustrazione artistica dell’esopianeta TOI-1853b. Crediti: Luca Naponiello

TOI-1853b si trova nel cosiddetto ‘deserto dei Nettuniani’, una regione vicina alle stelle in cui non si trovano pianeti delle dimensioni di Nettuno: ricevendo una forte irradiazione dalla stella, questi  pianeti non possono trattenere le loro atmosfere gassose che evaporano, lasciando così esposto un nucleo solido di dimensioni molto inferiori a quelle di Nettuno.

“In base alle teorie di formazione ed evoluzione planetaria, non ci si aspettava che potesse esistere un pianeta simile e così vicino alla sua stella”, commenta Naponiello. “È un pianeta con densità troppo elevata per essere un classico pianeta di tipo nettuniano e, di conseguenza, deve essere estremamente ricco di elementi pesanti”. La sua presenza nel ‘deserto dei Nettuniani’ è, dunque, un ulteriore mistero da chiarire.

Non si conosce esattamente la sua composizione. Naponiello aggiunge:

“Ci aspettiamo che TOI-1853b sia prevalentemente roccioso e circondato da un piccolo inviluppo gassoso di idrogeno ed elio che costituisce al più l’1% della massa del pianeta. Oppure, un’altra ipotesi molto affascinante è che possa essere composto per metà da rocce e per metà da ghiaccio di acqua. Data l’elevata temperatura del pianeta (circa 1500 gradi Kelvin), in questo secondo caso TOI-1853b potrebbe avere un’atmosfera ricca di vapore acqueo”.

“Anche la sua origine è un mistero dal momento che nessuno dei modelli teorici di formazione planetaria prevede che possa esistere un pianeta con tali caratteristiche”, dice Luigi Mancini, professore presso il dipartimento di Fisica dell’università di Roma Tor Vergata e secondo autore del lavoro. “Tuttavia, simulazioni numeriche che abbiamo condotto in scenari estremi ci suggeriscono che la sua origine possa essere dovuta a scontri fra protopianeti massicci nel disco proto-stellare originario”. “Tali scontri”, continua Naponiello, “potrebbero aver rimosso quasi tutta l’atmosfera del pianeta, il che ne spiegherebbe le dimensioni ridotte e la grande densità, come se fosse rimasto solo il nucleo nudo del pianeta”.

In alternativa allo scenario delle collisioni planetarie, secondo i ricercatori il pianeta potrebbe essere stato inizialmente un gigante gassoso come Giove o più massiccio, e avrebbe assunto un’orbita molto ellittica in seguito a instabilità dinamiche dovute ad interazioni gravitazionali con altri pianeti. Questo lo avrebbe portato a compiere dei passaggi molto ravvicinati alla sua stella, che gli avrebbero fatto perdere i suoi strati atmosferici esterni e avrebbero, allo stesso tempo, circolarizzato e stabilizzato la sua orbita alla distanza attuale dalla sua stella.

“Al momento, non riusciamo a distinguere quale dei due scenari di formazione sia quello più plausibile, ma continueremo ad osservare questo pianeta per capirlo. Non possiamo neanche escludere che studi teorici successivi, a partire da questa eccezionale scoperta, possano portare a nuovi modelli di formazione per i pianeti nettuniani molto massicci”, commenta Aldo Bonomo, ricercatore presso l’INAF Torino e co-autore dell’articolo.

TOI-1853b è stato inizialmente identificato nel 2020 come candidato planetario dal satellite della NASA TESS (Transiting Exoplanet Survey Satellite) con il metodo dei transiti, ovvero osservando le diminuzioni di luce periodiche della sua stella prodotte dal passaggio del pianeta davanti ad essa. La conferma della natura planetaria di TOI-1853b e la misura della sua massa e densità sono state possibili grazie ad osservazioni spettroscopiche di velocità radiale ottenute dal team con lo spettrografo HARPS-N (High Accuracy Radial Velocity Planet Searcher for the Northern hemisphere) al Telescopio Nazionale Galileo (TNG), che si trova sull’isola di La Palma nelle Canarie. Tali osservazioni hanno permesso di rivelare e caratterizzare con elevata precisione il segnale gravitazionale del pianeta sul moto della sua stella.

“HARPS-N è ormai operativo al TNG da più di 10 anni (ha ottenuto la prima luce a marzo del 2012). È uno dei pochi strumenti di punta a disposizione della comunità astronomica per misurare con alta precisione le masse e le densità dei pianeti extrasolari, in certi casi anche con dimensioni della Terra”, conclude Alessandro Sozzetti, primo ricercatore presso l’INAF Torino e co-autore dell’articolo. “Come in questo caso, nuove scoperte e misure portano spesso più domande che risposte”.

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “A super-massive Neptune-sized planet”, di Luca Naponiello, Luigi Mancini, Alessandro Sozzetti, Aldo S. Bonomo, Alessandro Morbidelli, Jingyao Dou, Li Zeng, Zoe M. Leinhardt, Katia Biazzo, Patricio E. Cubillos, Matteo Pinamonti, Daniele Locci, Antonio Maggio, Mario Damasso, Antonino F. Lanza, Jack J. Lissauer, Karen A. Collins, Philip J. Carter, Eric L. N. Jensen, Andrea Bignamini, Walter Boschin, Luke G. Bouma, David R. Ciardi, Rosario Cosentino, Silvano Desidera, Xavier Dumusque, Aldo F. M. Fiorenzano, Akihiko Fukui, Paolo Giacobbe, Crystal L. Gnilka, Adriano Ghedina, Gloria Guilluy, Avet Harutyunyan, Steve B. Howell, Jon M. Jenkins, Michael B. Lund, John F. Kielkopf, Katie V. Lester, Luca Malavolta, Andrew W. Mann, Rachel A. Matson, Elisabeth C. Matthews, Domenico Nardiello, Norio Narita, Emanuele Pace, Isabella Pagano, Enric Palle, Marco Pedani, Sara Seager, Joshua E. Schlieder, Richard P. Schwarz, Avi Shporer, Joseph D. Twicken, Joshua N. Winn, Carl Ziegler e Tiziano Zingales, è stato pubblicato sulla rivista Nature.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa di Ateneo Università di Roma Tor Vergata e dall’Ufficio Stampa – Struttura per la Comunicazione Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)