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Individuato un nuovo meccanismo molecolare alla base della leucemia linfoblastica acuta, una leucemia infantile ad alta incidenza: l’interazione tra proteine recettoriali mediata da microRNA porta a compromettere funzioni immunitarie del timo

Una ricerca internazionale coordinata dalla Sapienza ha reso possibile importanti avanzamenti nella comprensione dei processi alla base dello sviluppo della leucemia linfoblastica acuta: un’interazione tra proteine recettoriali mediata da microRNA conduce alla compromissione delle funzioni immunitarie della ghiandola del timo. Questa scoperta potrebbe portare in futuro a nuove tecniche di monitoraggio e a nuove terapie.

La leucemia linfoblastica acuta (LLA) è un tumore ematologico aggressivo a rapida evoluzione che colpisce i linfociti T arrestandoli in una fase immatura. Tra le leucemie acute infantili, circa il 60% è rappresentato dalla LLA. Anomalie genetiche bloccano la differenziazione dei precursori delle cellule T nel timo, una ghiandola situata nel mediastino, davanti al cuore, e favoriscono una proliferazione cellulare anomala. Le cellule leucemiche in accumulo infiltrano poi il midollo osseo provocando la malattia.

Nel 60% dei pazienti con LLA-T si riscontrano mutazioni che portano ad un’iperattività del sistema di segnalazione Notch. La chemioterapia intensiva può curare molti dei pazienti, ma un’alta percentuale dei soggetti pediatrici e soprattutto adulti è poi soggetta a ricadute con prognosi sfavorevole. I recettori Notch possono infatti contribuire alla resistenza alla chemioterapia, rendendo necessaria la ricerca di nuovi approcci per contrastare il suo apporto alla progressione della LLA-T.

Un nuovo studio, condotto dal Dipartimento di Medicina Sperimentale della Sapienza in collaborazione con il Dipartimento di Medicina Molecolare, e frutto di una rete di collaborazioni con altri enti di ricerca, offre importanti avanzamenti per la comprensione del meccanismo tumorale. I risultati della ricerca, di recentissima pubblicazione sulla rivista Oncogene, hanno dimostrato come la proteina Notch moduli i meccanismi epigenetici di regolazione del recettore CXCR4 attraverso l’interazione con particolari microRNA. In questo modo contribuisce al blocco dello sviluppo e della differenziazione delle cellule T e sovverte completamente le funzioni del timo inducendone una precoce involuzione.

Il risultato è stato ottenuto attraverso un modello transgenico per il gene Notch3, che ha permesso di verificare molte delle caratteristiche molecolari e cellulari della LLA T, e grazie all’impiego di molteplici tecniche avanzate di citofluorimetria e di analisi molecolare. I dati epigenetici sono stati confermati mediante l’utilizzo di modelli di xenotrapianto ottenuti utilizzando campioni di pazienti affetti da LLA T trapiantati in modelli sperimentali murini.

“Il lavoro conta, non solo fra i primi nomi, nostri giovani ricercatori in Italia ed all’estero, che con professionalità hanno condotto esperimenti complessi e fondamentali per questo studio, dimostrando passione ed entusiasmo per la ricerca scientifica. La specifica competenza fornita da ogni singolo autore e dai vari centri di ricerca coinvolti ha permesso la realizzazione di questo progetto”, precisa Maria Pia Felli, autrice dell’articolo.

In particolare oltre alla Sapienza hanno partecipato la Weill Cornell Medicine di New York, l’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Roma, l’Azienda Ospedaliera dei Colli Monaldi di Napoli, l’Università di Roma Tor Vergata, l’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena di Roma, l’Università di Padova e quella di Perugia.

I risultati ottenuti avanzano la conoscenza scientifica su questo tipo di tumore e suggeriscono questi microRNA come nuovi addizionali biomarker molecolari per il monitoraggio e, nel futuro, per avanzate strategie terapeutiche contro questa patologia.

Riferimenti bibliografici:

Notch3-regulated microRNAs impair CXCR4-dependent maturation of thymocytes allowing maintenance and progression of T-ALL – Ilaria Sergio, Claudia Varricchio, Sandesh Kumar Patel, Martina Del Gaizo, Eleonora Russo, Andrea Orlando, Giovanna Peruzzi, Francesca Ferrandino, Georgia Tsaouli, Sonia Coni, Daniele Peluso, Zein Mersini Besharat, Federica Campolo, Mary Anna Venneri, Donatella Del Bufalo, Silvia Lai, Stefano Indraccolo, Sonia Minuzzo, Roberta La Starza, Giovanni Bernardini, Isabella Screpanti, Antonio Francesco Campese, e Maria Pia Felli

Oncogene – DOI: 10.1038/s41388-024-03079-0

microscopio Progeria trattamento leucemia acuta linfoblastica Philadelphia-positiva
Foto di Konstantin Kolosov

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Misure sperimentali e simulazioni al calcolatore per contrastare la crescita delle cellule tumorali: un nuovo metodo consente di ottenere informazioni sulla stabilità di multimeri di G-quadruplex telomerici

Un nuovo metodo basato sull’applicazione della fisica della materia a sistemi biologici permette di studiare particolari molecole coinvolte nella crescita delle cellule tumorali. Il protocollo messo a punto, frutto della collaborazione fra il Dipartimento di Fisica della Sapienza, il Dipartimento di Fisica e Geologia dell’Università di Perugia e l’Istituto Officina dei Materiali del Cnr, potrà essere applicato tanto per sviluppare farmaci antitumorali di nuova generazione quanto per valutare l’efficacia di quelli esistenti. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Journal of American Chemical Society (JACS), che ha anche selezionato un’immagine creata dagli autori come copertina supplementare.

DNA multimeri di G-quadruplex telomerici
Foto di Gerd Altmann 

I telomeri sono particolari aree del DNA umano legate a più dell’85% dei tumori maligni e il loro studio potrebbe portare allo sviluppo di farmaci antitumorali di nuova generazione con un ampio spettro d’azione.

Questi elementi si trovano all’estremità dei cromosomi e hanno una funzione protettiva poiché preservano l’integrità del DNA durante i processi di replicazione cellulare, svolgendo un ruolo importante nel processo di invecchiamento cellulare. Ogni volta che una cellula si divide, i telomeri a poco a poco si accorciano sempre di più. Quando diventano troppo corti, la cellula perde la sua capacità di replicarsi correttamente e può entrare in uno stato di invecchiamento o morire. Nel caso delle cellule tumorali di più dell’85% dei tumori maligni, si verifica l’attivazione di un enzima chiamato telomerasi, che mantiene i telomeri più lunghi rispetto alle cellule normali. Ciò conferisce alle cellule tumorali immortalità e la capacità di proliferare in modo illimitato. La stabilizzazione dei G-quadruplex, strutture elicoidali a quattro filamenti che si formano nei telomeri, tramite l’uso di molecole chiamate ligandi, rappresenta un efficace approccio per inibire l’attività della telomerasi e limitare la crescita delle cellule tumorali. Questi ligandi potrebbero quindi fungere da nuovi farmaci per il trattamento del cancro.

La maggior parte delle ricerche attuali si concentra sui G-quadruplex in condizioni ideali, cioè come molecole biologiche che non interagiscono reciprocamente. Tuttavia, in condizioni biologicamente rilevanti, come ad esempio alle estremità dei cromosomi, possono formarsi strutture composte da più unità interagenti di G-quadruplex, note come multimeri.

In uno studio coordinato da Cristiano De Michele del Dipartimento di Fisica della Sapienza, Lucia Comez dell’Istituto Officina dei Materiali del Cnr di Perugia e Alessandro Paciaroni del Dipartimento di Fisica e Geologia dell’Università di Perugia è stato sviluppato un nuovo metodo che consente di ottenere informazioni sulla stabilità di multimeri di G-quadruplex telomerici.

I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista Journal of American Chemical Society (JACS), potranno essere applicati tanto per sviluppare farmaci antitumorali di nuova generazione quanto per valutare l’efficacia di quelli esistenti.

In particolare, i ricercatori hanno utilizzato per la prima volta delle simulazioni “extremely coarse-grained” in cui i G-quadruplex vengono rappresentati con semplici forme geometriche, come cilindri o parallelepipedi. Queste simulazioni non sono particolarmente pesanti e consentono lo studio di migliaia di G-quadruplex interagenti tra di loro, riproducendo così condizioni biologicamente rilevanti. Questo ha permesso un confronto diretto tra i risultati numerici al calcolatore e gli esperimenti effettuati sia presso i nostri laboratori che in centri di ricerca internazionali, fornendo una inedita rappresentazione dei multimeri di G-quadruplex.

“In particolare – spiega De Michele – abbiamo studiato come dei ligandi, cioè dei potenziali farmaci antitumorali, agiscano sui G-quadruplex e grazie al nostro innovativo approccio abbiamo potuto capire in che modo risultano efficaci nella loro stabilizzazione”.

“Inoltre – aggiunge Paciaroni – nel nostro lavoro definiamo un protocollo che si potrà applicare per lo studio dei G-quadruplex, ma che in futuro potrà anche essere utilizzato per altri sistemi biofisici”.

“Questo studio – conclude Comez – rappresenta un notevole passo in avanti nel nostro percorso, iniziato diversi anni fa, per comprendere le proprietà elusive di questi sistemi biologici altamente complessi”

Riferimenti:

Stacking Interactions and Flexibility of Human Telomeric Multimers – Benedetta Petra Rosi, Valeria Libera, Luca Bertini, Andrea Orecchini, Silvia Corezzi, Giorgio Schirò, Petra Pernot, Ralf Biehl, Caterina Petrillo, Lucia Comez, Cristiano De Michele, e Alessandro Paciaroni – J. Am. Chem. Soc. 2023 DOI: 10.1021/jacs.3c04810

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Zanzare: le loro storie d’amore per combattere la malaria 

Dall’accoppiamento delle zanzare, nuove strategie per ridurre la diffusione della pericolosa infezione da malaria. Lo evidenzia uno studio di Cnr-Isc e Sapienza in collaborazione con l’Università degli Studi di Perugia, ora pubblicato su Scientific Reports.

Osservare delle zanzare che si accoppiano può sembrare un’attività particolarmente bizzarra, ma che si sta rivelando essenziale nello sviluppo di nuove strategie di lotta contro la malaria. Le femmine di Anopheles gambiae sono vettori di trasmissione del plasmodio della malaria, che ogni anno è responsabile di centinaia di migliaia di decessi. Le tecniche sviluppate negli ultimi anni per contrastare questa malattia si basano su un principio molto semplice: meno zanzare, meno vettori di trasmissione, meno decessi. L’uso di zanzariere impregnate di insetticidi si è rivelato molto efficace negli ultimi 20 anni. Ma questo non basta. Le zanzare hanno sviluppato resistenze agli insetticidi, per cui, dopo una iniziale riduzione, il numero dei contagi annuali è ora in salita.

L’imperativo scientifico è quindi di identificare nuove strategie, da utilizzare in associazione con i metodi di controllo attualmente in uso. Attraverso un approccio “gene drive”, si cerca di sfruttare l’accoppiamento delle zanzare per diffondere modificazioni genetiche che rendano le zanzare sterili o incapaci di trasmettere il parassita della malaria.

“Per valutare l’efficacia di queste tecniche innovative è necessario conoscere approfonditamente il meccanismo dell’accoppiamento”, spiega la Prof.ssa Roberta Spaccapelo, dell’Università degli Studi di Perugia, “sappiamo che questi insetti si accoppiano in volo e che i maschi si associano in gruppi, sciami di centinaia di individui, per essere più visibili e attrattivi alle femmine. Ma non ne sappiamo molto di più. Sono le femmine che entrano nello sciame a scegliere con quale maschio accoppiarsi? Come avviene la scelta? Ci sono delle caratteristiche che rendono alcuni maschi più attrattivi di altri?”

L’articolo “Characterization of lab-based swarms of Anopheles gambiae mosquitoes using 3D-video tracking” appena pubblicato su Scientific Reports, nato da una collaborazione fortemente interdisciplinare tra il Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università degli studi di Perugia, il gruppo CoBBS (Collective Behavior in Biological Systems – www.cobbs.it) del Dipartimento di Fisica della Sapienza Università di Roma e dell’Istituto dei Sistemi Complessi del CNR, muove i primi passi per cercare di rispondere a questi interrogativi.

“Riprodurre sciami di Anopheles nell’ambiente controllato del laboratorio è stato un compito molto complicato. Abbiamo scelto di studiare questi sciami in gabbie molto grandi, per poter analizzare la dinamica di volo delle zanzare evitando potenziali effetti sul comportamento dovuti allo spazio confinato di gabbie piccole”, dice la Prof.ssa Irene Giardina della Sapienza.

“Abbiamo ripreso sciami di centinaia di zanzare con un sistema stereometrico di telecamere, che ci permette di ricostruire nello spazio tridimensionale le traiettorie di ogni singola zanzara nel gruppo. L’analisi di questi dati ci ha permesso di verificare che gli sciami ricreati in laboratorio hanno caratteristiche compatibili con quelle di sciami osservati in ambiente naturale“, spiega Stefania Melillo, ricercatrice dell’Istituto dei Sistemi Complessi del CNR. “La novità più importante presentata nell’articolo è che siamo riusciti a documentare vari eventi di accoppiamento: coppie di zanzare che volano insieme per un periodo di tempo che arriva anche a 15 secondi. Ma la cosa più stupefacente è sicuramente aver osservato e  documentato la competizione nell’accoppiamento. Più maschi che competono per accoppiarsi nello stesso momento con la stessa femmina.”

L’articolo rappresenta, quindi, il primo passo verso la comprensione della dinamica di accoppiamento nelle zanzare e costituisce un importante punto di riferimento per la comunità scientifica internazionale, per valutare l’efficacia delle nuove tecnologie per ridurre la popolazione di insetti così pericolosi per l’uomo.

Dall’accoppiamento delle zanzare, nuove strategie per combattere la malaria. Gallery

 

Ulteriori sviluppi di questo studio, sia dal punto di vista sperimentale che modellistico, sono tema del progetto dal titolo: Demystifying mosquito sex: unraveling MOsquito SWARMs with lab-based 3D video tracking (acronimo: MoSwarm), presentato congiuntamente dall’Università di Perugia e il CNR, appena finanziato dal MUR nell’ambito dei progetti PRIN 2022.

 

Riferimenti:

Characterization of lab‐based swarms of Anopheles gambiae mosquitoes using 3D‐video tracking – Andrea Cavagna, Irene Giardina, Michela Anna Gucciardino, Gloria Iacomelli, Max Lombardi, Stefania Melillo, Giulia Monacchia, Leonardo Parisi, Matthew J. Peirce & Roberta Spaccapelo – Scientific Reports https://doi.org/10.1038/s41598-023-34842-0

Testo, video e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Quando le linci pardine popolavano l’Europa: dal Gargano nuove testimonianze sull’evoluzione di questi felini oggi a rischio di estinzione  

Un nuovo studio coordinato dal Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza e dall’Università di Perugia, con il contributo di altri enti e atenei internazionali, ha dimostrato per la prima volta che durante il Pleistocene la specie più diffusa nel nostro continente era la lince pardina. Questo singolare felino, dalla coda corta ma dalla lunga storia, oggi popola solo la penisola iberica ed è ad alto rischio di scomparsa. I risultati del lavoro sono stati pubblicati su Quaternary Science Reviews

La lince pardina (Lynx pardinus), che per sotto molti aspetti ricorda i suoi simili europei dalla coda corta, si distingue da questi ultimi per i caratteristici pennacchi sulle orecchie, i ciuffi sotto il mento e le macchie ben definite che spiccano sul pelo bruno-giallastro. Questo felino oggi vive soltanto in ristrette aree della penisola iberica ed è oggetto di numerosi progetti di conservazione e salvaguardia.

Un team di studiosi e paleontologi della Sapienza e dell’Università di Perugia, con il contributo di altri enti e università internazionali, ha ricostruito la storia evolutiva di questo predatore in nuovo studio pubblicato sulla rivista Quaternary Science Reviews. I risultati del lavoro hanno dimostrato come le linci pardine abbiano avuto una storia evolutiva distinta rispetto a quelle eurasiatiche, diffuse nella penisola italiana solo in tempi molto più recenti.

L’analisi dei numerosi fossili rinvenuti nel Gargano, in Puglia, ha permesso infatti ai ricercatori di comprendere come migliaia di anni fa, nel corso del Pleistocene, la lince pardina fosse diffusa in gran parte dell’Europa mediterranea, mentre l’attuale lince eurasiatica, Lynx lynx, fosse meno diffusa di quanto comunemente creduto finora.

Cranio della lince da Ingarano

“I fossili studiati, conservati presso il Dipartimento di Scienze della Terra del nostro Ateneo, rappresentano il più ricco campione di resti di crani, mandibole e denti attribuibili a linci pleistoceniche – spiega Raffaele Sardella della Sapienza. “Sebbene precedentemente attribuiti alla lince eurasiatica, rappresentano in realtà esemplari di lince pardina. Le nuove analisi hanno dimostrato infatti che questo felino era molto più diffuso migliaia di anni fa di quanto si sapesse, con una distribuzione geografica che includeva tutta l’Europa mediterranea”.

linci pardine
Cranio ricostruito digitalmente della lince da Ingarano

Un ruolo di primo piano nello studio lo hanno avuto le analisi tomografiche, eseguite da Dawid A. Iurino, dell’Università di Perugia e coordinatore dello studio, che hanno permesso ai ricercatori di restaurare, virtualmente e senza comprometterne lo stato, i crani garganici e di studiarne l’anatomia in dettaglio.

“La ricostruzione della massa corporea – aggiunge Beniamino Mecozzi della Sapienza – rivela come le linci pardine del passato fossero comunque in generale più grandi rispetto a quelle che oggi sopravvivono nella penisola iberica. La forte contrazione dell’areale e la drastica riduzione del numero di individui, oggi solo poche decine di esemplari, è una condizione raggiunta all’inizio del Novecento”.

Le attuali popolazioni iberiche quindi rappresentano gli ultimi eredi di una linea evolutiva di linci molto antiche. Lo studio aggiunge un ulteriore elemento a sostegno della protezione di un felino dalla coda corta, ma dalla lunga storia.

linci pardine
Ricostruzione delle linci pardine da Ingarano

Riferimenti:

The tale of a short-tailed cat: new outstanding Late Pleistocene fossil Lynx pardinus from southern Italy – Mecozzi B., Sardella R., Boscaini A., Cherin M., Costeur L., Madurell-Malapeira J., Pavia M., Profico A., Iurino D.A. (2021). Quaternary Science Reviews. DOI: 10.1016/j.quascirev.2021.106840

Testo, video e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

UN PROTOCOLLO INNOVATIVO PER LA SCOPERTA DI NUOVI POTENZIALI FARMACI 

Istituto Telethon Dulbecco, Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, Università di Trento e Università degli Studi di Perugia insieme per la ricerca mirata di farmaci in grado di contrastare gravi malattie neurodegenerative ad oggi incurabili 

protocollo farmaci Università Trento Perugia
Da sinistra: Lidia Pieri (Sibylla), Graziano Lolli (Dip. CIBIO, UniTrento), Maria Letizia Barreca (Dip. Scienze Farmaceutiche, UniPG), Andrea Astolfi (Dip. Scienze Farmaceutiche, UniPG/Sibylla), Giovanni Spagnolli (Dip. CIBIO, UniTrento/Sibylla), Alberto Boldrini (Sibylla), Luca Teruzzi (Sibylla), Emiliano Biasini (Dip. CIBIO, UniTrento), Pietro Faccioli (Dip. Fisica, UniTrento/INFN-TIFPA), Tania Massignan (Dip. CIBIO, UniTrento, ora a Sibylla)

TrentoPerugia, 12 gennaio 2021 – Un protocollo innovativo per la scoperta di nuovi potenziali farmaci è stato messo a punto da un ampio team internazionale guidato da ricercatori e ricercatrici dell’Università degli Studi di Trento (Dipartimento di Biologia Cellulare, Computazionale e Integrativa e dal Dipartimento di Fisica), dell’Università degli Studi di Perugia (Dipartimento di Scienze Farmaceutiche), dell’Istituto Telethon Dulbecco, Fondazione Telethon e dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN).

“Pharmacological Protein Inactivation by Folding Intermediate Targeting” (PPI-FIT), questo il nome del nuovo metodo, è frutto di un lavoro dal forte carattere multidisciplinare, grazie a contributi che vanno dalla fisica teorica all’informatica, alla chimica farmaceutica, dalla biochimica alla biologia cellulare. Il lavoro di ricerca è stato pubblicato oggi sulla rivista Communications Biology – Nature Publishing Group.

«Il nuovo approccio multidisciplinare consiste nell’identificare piccole molecole in grado di bloccare il processo di ripiegamento (folding) di una proteina coinvolta in un processo patologico, promuovendone quindi la degradazione attraverso i meccanismi di controllo presenti nelle cellule» – spiegano i ricercatori. «PPI-FIT è stato applicato per la prima volta nel campo delle malattie da prioni, patologie neurodegenerative rare che colpiscono l’uomo e altri mammiferi e che sono balzate all’attenzione dell’opinione pubblica negli anni Novanta in occasione dell’emergenza “mucca pazza”. Queste patologie sono causate dalla conversione conformazionale di una normale proteina, chiamata proteina prionica cellulare, in una forma patogena aggregata, in grado di propagarsi come un agente infettivo (prione). Grazie al metodo PPI-FIT, gli autori hanno identificato una classe di molecole in grado di ridurre i livelli cellulari della proteina prionica e bloccare la replicazione della forma infettiva nelle colture cellulari».

Il calcolo impiegato nel PPI-FIT si fonda su alcuni metodi matematici originariamente sviluppati in fisica teorica per studiare fenomeni tipici del mondo subatomico, come l’effetto tunnel quantistico. Questi metodi sono poi stati adattati per la simulazione di processi biomolecolari complessi, come il ripiegamento e l’aggregazione di proteine.

I risultati ottenuti indicano che bersagliare i processi di ripiegamento delle proteine potrebbe rappresentare un nuovo paradigma farmacologico per modulare i livelli di diversi fattori coinvolti in processi patologici. Da una prospettiva ancora più ampia, questo studio suggerisce l’esistenza di un generico meccanismo di regolazione dell’espressione proteica, ad oggi non considerato, che agisce al livello dei percorsi di ripiegamento.

Lo studio si è avvalso anche della collaborazione di gruppi di ricerca dell’Università di Santiago de Compostela, dell’Istituto di Biofisica del Consiglio Nazionale delle Ricerche, dell’Institute of Neuropathology dell’University Medical Center di Hamburg-Eppendorf, del Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Padova e dell’Istituto Veneto di Medicina Molecolare di Padova.

I risultati descritti nello studio hanno inoltre generato anche due richieste di brevetto da parte delle istituzioni coinvolte, una già approvata e la seconda attualmente in attesa di approvazione.

La start-up Sibylla Biotech (https://www.sibyllabiotech.it), nata dalla collaborazione scientifica tra alcuni degli autori dello studio – Maria Letizia Barreca, Giovanni Spagnolli, Graziano Lolli, Pietro Faccioli ed Emiliano Biasini – e spin off dell’Università degli Studi di Perugia, dell’ Università di Trento e dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, sta ora impiegando le potenzialità di PPI-FIT per sviluppare farmaci contro un’ampia varietà di patologie umane, quali ad esempio il cancro e più recentemente COVID-19, come ad oggi documentato dal deposito di tre domande di brevetto.

La tecnologia PPI-FIT 

PPI-FIT (Pharmacological Protein Inactivation by Folding Intermediate Targeting) è un protocollo farmacologico in grado di identificare molecole la cui funzione è quella di ridurre l’espressione di una proteina nella cellula, disattivandone la funzione patologica. Questo è possibile perché le molecole sono scelte per legarsi ad una “tasca” proteica identificata su uno stato intermedio del processo di ripiegamento (folding) della proteina. Bloccato a metà strada, il ripiegamento non avviene e la proteina viene degradata dalla cellula stessa.

La possibilità di identificare stati intermedi di folding si basa su una piattaforma di calcolo rivoluzionaria, che permette di simulare al calcolatore i percorsi di ripiegamento di proteine di rilevanza biologica, con livello di precisione atomico. Il metodo di calcolo che ha portato a questo risultato si fonda su metodi matematici di fisica teorica che sono stati adattati per consentire la simulazione di processi biomolecolari complessi, come il ripiegamento e l’aggregazione di proteine, grazie al lavoro di Pietro Faccioli, professore associato nel Dipartimento di Fisica dell’Università di Trento e affiliato all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, e del suo team.

Una proteina esce dal ribosoma come una catena di amminoacidi, e assume la sua forma biologicamente attiva solo in un secondo momento, dopo aver completato il percorso di ripiegamento (folding). A causa dell’intrinseca complessità, lo studio del ripiegamento di proteine biologicamente interessanti richiede tempi di calcolo inaccessibili con i metodi finora disponibili, anche utilizzando il più grande supercomputer al mondo appositamente disegnato per la dinamica molecolare. L’imponente avanzamento tecnologico che permette le simulazioni alla base di PPI-FIT è il frutto di una visione interdisciplinare nata all’interno del panorama scientifico dell’INFN, che collega la fisica teorica con la chimica e la biologia. Avendo la possibilità di osservare per la prima volta questi percorsi di ripiegamento, la tecnologia PPI-FIT consente di identificare e caratterizzare degli stati intermedi conformazionali che sono visitati dalla proteina durante il percorso verso lo stato biologicamente attivo (o nativo), e la cui emivita ha rilevanza biologica. Tali stati intermedi possono contenere una tasca di legame, diventando quindi nuovi bersagli per lo sviluppo di farmaci in grado di legarli e bloccarli, portando alla loro inattivazione.

La tecnologia è stata inventata dai soci fondatori di Sibylla Biotech nell’ambito di una ricerca accademica sulla replicazione del prione supportata da INFN, Fondazione Telethon, Università degli Studi di Trento e Università degli Studi di Perugia ed è stata utilizzata con successo in studi scientifici e brevettati, per ricostruire il meccanismo di replicazione dei prioni, e per sviluppare una nuova strategia farmacologica contro questi agenti infettivi.

*Giovanni Spagnolli, Tania Massignan, Andrea Astolfi, Silvia Biggi, Marta Rigoli, Paolo Brunelli, Michela Libergoli, Alan Ianeselli, Simone Orioli, Alberto Boldrini, Luca Terruzzi, Valerio Bonaldo, Giulia Maietta, Nuria L. Lorenzo, Leticia C. Fernandez, Yaiza B. Codeseira, Laura Tosatto, Luise Linsenmeier, Beatrice Vignoli, Gianluca Petris, Dino Gasparotto, Maria Pennuto, Graziano Guella, Marco Canossa, Hermann C. Altmeppen, Graziano Lolli, Stefano Biressi, Manuel M. Pastor, Jesús R. Requena, Ines Mancini, Maria L. Barreca, Pietro Faccioli, Emiliano Biasini. “Pharmacological Inactivation of the Prion Protein by Targeting a Folding Intermediate”. Communications Biology, 2012

 

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa Università di Trento e Università degli Studi di Perugia

Ricerca per il contrasto dei tumori solidi presso il Dipartimento di Scienze Farmaceutiche Unipg finanziata dalla Fondazione Veronesi  

ricerca tumori solidi UniPG Andrea Astolfi
il dottor Andrea Astolfi dell’UniPG, tra gli autori della ricerca sulla proteina AKT, una proteina chiave nella proliferazione e nella sopravvivenza di diversi tipi di tumori solidi come il cancro al seno, o di tumori rari come la leucemia mieloide acuta

La Fondazione Umberto Veronesi ha finanziato il progetto “Tuning the Precision Oncology on the PI3K/AKT/mTOR pathway” presentato dal dottore Andrea Astolfi e coordinato dalla Professoressa Maria Letizia Barreca, professore Associato del Dipartimento di Scienze Farmaceutiche dell’Università degli Studi di Perugia.

Lo scopo del progetto – premiato nell’ambito del bando Post-Doctoral Fellowship 2021 – è quello di individuare nuove molecole in grado di colpire selettivamente AKT, una proteina chiave nella proliferazione e nella sopravvivenza di diversi tipi di tumori solidi come il cancro al seno, o di tumori rari come la leucemia mieloide acuta.

Lo studio ha inoltre l’obiettivo di costruire una piattaforma online facilmente consultabile contenente tutte le informazioni note riguardanti l’inibizione di AKT e di altre proteine coinvolte nel suo pathway, come PI3K e mTOR. Questo strumento digitale potrà supportare la comunità scientifica nella ricerca e sviluppo di nuove strategie nell’oncologia di precisione.

Risultato di grande prestigio per i due scienziati per l’Università degli Studi di Perugia: la Fondazione ha ricevuto ben 557 domande, tutte di altissimo profilo. La Fondazione Veronesi nel 2021 erogherà 110 borse di ricerca annuali, raggiungendo ricercatori in 44 Istituti di Ricerca e Università di 27 differenti città.

Testo e foto dall’Università degli Studi di Perugia

Ricerca sull’atrofia muscolare in pazienti tumorali terminali, coordinata dal professor Guglielmo Sorci, è stata finanziata dalla Fondazione AIRC 

atrofia muscolare Guglielmo Sorci cachessia pazienti tumorali terminali RAGE Fondazione AIRC cancro
Il gruppo di ricerca del professor Guglielmo Sorci

La Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro ha finanziato, per un totale di 408.000 euro in 5 anni, il progetto “Preclinical targeting of RAGE (receptor for advanced glycation end-products) to counteract cancer cachexia” coordinato dal professor Guglielmo Sorci, Ordinario di Anatomia Umana del Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Perugia.

“Il progetto ha lo scopo di comprendere l’effettivo ruolo del recettore RAGE nel sostenere la cachessia indotta da cancro, un particolare tipo di atrofia muscolare: un evento che interessa oltre la metà dei pazienti tumorali terminali e che è causa di morte in molti di essi – spiega il professor Sorci -. Si prefigge, inoltre, di valutare l’effetto dell’uso di inibitori di RAGE o inibitori di ligandi di questo recettore in una serie di modelli pre-clinici, nonché di stabilire una correlazione tra modelli pre-clinici e pazienti cachettici riguardo all’espressione di RAGE a livello muscolare e sierico. L’inibizione farmacologica di RAGE potrebbe rappresentare un promettente approccio per contrastare l’atrofia muscolare in condizioni di cachessia e potrebbe essere utilizzata come esercizio-mimetico in pazienti cachettici con elevata debolezza muscolare”.

Il professor Guglielmo Sorci

Inoltre – viene evidenziato -, RAGE e i suoi ligandi potrebbero rappresentare importanti biomarker per monitorare lo stato cachettico e l’efficacia di trattamenti anti-cachettici, il che riveste una rilevante importanza dato che al momento non esistono biomarker specifici per la cachessia.

Il progetto si avvale della collaborazione di una serie di centri universitari (Roma Sapienza, Torino, Padova, Milano) e fa seguito ad una serie di studi sul recettore RAGE condotti nei laboratori dell’Università degli Studi di Perugia (www.myolab-unipg.com).

Testo e foto dall’Università degli Studi di Perugia sulla ricerca sull’atrofia muscolare in pazienti tumorali terminali, coordinata dal professor Guglielmo Sorci.

La passione per la ricerca supera ogni ostacolo, il COVID-19 non ha fermato la Dott.ssa Roberta Ranieri di Unipg impegnata nel progetto Horizon 2020-CORBEL 

Le è stato dedicato un video e un articolo in occasione del World Science Day

 

Un video e un articolo per raccontare la storia di grande determinazione e di coraggio nelle avversità, legate all’emergenza COVID-19, della Dott.ssa Roberta Ranieri, dottoranda all’Università degli Studi di Perugia.

Sono stati pubblicati, nel giorno dedicato alla Scienza (World Science Day), nel sito dell’European Molecular Biology Laboratory (EMBL).

Roberta Ranieri Horizon 2020-CORBEL 

Articolo: https://www.eurobioimaging.eu/news/conducting-interdisciplinary-transnational-research-in-the-covid-19-era/

Roberta Ranieri si è trovata a vivere, infatti, una prima esperienza traumatica non appena arrivata all’European Molecular Biology Laboratory (EMBL) di Heidelberg (in Germania), lo scorso marzo: la sua attività di ricerca e il suo progetto sono stati bruscamente interrotti dal lockdown in Europa per l’emergenza COVID19 e lei costretta a due periodi di quarantena consecutivi,  il primo appunto in Germania e il secondo al suo rientro in Italia.

Nonostante questo, la Dott.sa Ranieri è tornata all’EMBL in settembre per completare il suo lavoro finanziato dal progetto europeo Horizon 2020-CORBEL pur cosciente della possibilità della reintroduzione in qualsiasi momento di nuove restrizioni di spostamento.

Horizon 2020-CORBEL, consentendo l’accesso a e la collaborazione con due infrastrutture di Ricerca Europee in Germania, EU-OPENSCREEN (Berlino) ed Euro-BioImaging (EMBL), ha finanziato un progetto, coordinato dalla Prof.ssa Maria Paola Martelli, finalizzato all’identificazione, tra migliaia di composti, di piccole molecole che mirano a colpire specificamente un particolare tipo di leucemia mieloide acuta con mutazione nel gene NPM1, scoperta nel 2005 dal gruppo del Prof. Brunangelo Falini (Ematologia, Università degli Studi di Perugia).

La pandemia COVID-19 ha reso più difficile per i ricercatori viaggiare da un paese all’altro, rallentando la cooperazione internazionale, ha costretto i laboratori di tutto il mondo ad adottare rigorose misure di sicurezza e igiene e ha persino avuto un impatto sul focus di alcuni progetti di ricerca. Condurre ricerche interdisciplinari in collaborazioni internazionali nell’era COVID-19 ha bisogno di ricercatori appassionati, intraprendenti e inarrestabili, come la Dott.ssa Roberta Ranieri.

 

Testo, foto e video dall’Università degli Studi di Perugia sul lavoro di Roberta Ranieri, finanziato dal progetto europeo Horizon 2020-CORBEL.

Biomarcatori nel sangue e nel liquido cerebrospinale per individuare nuove terapie delle malattie del sistema nervoso centrale

Lo studio, realizzato dal gruppo coordinato dalla Professoressa Lucilla Parnetti e pubblicato su Trends in Pharmacological Sciencesriguarda la possibilità di utilizzare biomarcatori misurabili nel liquido cerebrospinale e nel sangue per la ricerca su nuove terapie delle principali malattie del sistema nervoso centrale, quali sclerosi multipla, malattia di Alzheimer e malattia di Parkinson.

biomarcatori malattie sistema nervoso centrale
Il Team della professoressa Parnetti

Il gruppo di ricerca diretto dalla Professoressa Lucilla Parnetti, responsabile della Sezione di Neurologia, Laboratorio di Neurochimica Clinica dell’Università degli Studi di Perugia, ha realizzato un innovativo studio sull’utilizzo di biomarcatori misurabili nel liquido cerebrospinale e nel sangue per ottimizzare l’individuazione di nuove terapie per le principali malattie del sistema nervoso centrale. Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista internazionale Trends in Pharmacological Sciences (Impact Factor: 12).

“Malattie neurologiche croniche e altamente disabilitanti, come la sclerosi multipla, la malattia di Alzheimer e la malattia di Parkinson, sono sostenute dall’interazione di complessi meccanismi biologici che possono essere misurati in maniera affidabile nel liquido cerebrospinale e nel sangue – spiega la Professoressa Parnetti, docente del Dipartimento di Medicina e Chirurgia -. Nell’ultimo decennio la ricerca sui biomarcatori nelle malattie neurologiche, ambito nel quale il Laboratorio di Neurochimica Clinica dell’Università degli Studi di Perugia è particolarmente attivo e parte di una rete di collaborazione a livello europeo, ha portato a rivoluzionare il modo di porre la diagnosi di queste malattie, rendendola più precoce e accurata”.

“La ricerca pubblicata da Trends in Pharmacological Sciences analizza in dettaglio il ruolo che diversi biomarcatori misurabili su liquido cerebrospinale e su sangue possono avere nella ricerca sulle terapie per le malattie neurologiche – continua la Professoressa Parnetti -. Questi test permettono di identificare i pazienti con le caratteristiche ideali per poter avere beneficio dal trattamento con i nuovi farmaci che bloccano i meccanismi delle diverse patologie neurologiche. Ad esempio, se si vuole testare l’efficacia di un nuovo trattamento rivolto a bloccare uno specifico meccanismo alla base di una malattia neurologica, si possono utilizzare questi marcatori per identificare i soggetti in cui quel dato meccanismo è particolarmente alterato. Inoltre, la misurazione delle variazioni di questi marcatori nel tempo può aiutare a capire se quel trattamento ha raggiunto l’effetto atteso. Questa visione innovativa avrà, sperabilmente, delle ripercussioni in futuro anche nella pratica clinica, migliorando sia la nostra possibilità di porre una diagnosi precoce, che di verificare con maggiore precisione ed oggettività la risposta alle terapie”, conclude la Professoressa Parnetti.

La pubblicazione di tali concetti innovativi su Trends in Pharmacological Sciences testimonia la rilevanza degli studi condotti presso l’Università degli Studi di Perugia e sottolinea la necessità di attenzione alla ricerca su biomarcatori liquorali ed ematici nelle malattie neurologiche.

 

Gaetani L, Paolini Paoletti F, Bellomo G, Mancini A, Simoni S, Di Filippo M, Parnetti L. “CSF and Blood Biomarkers in Neuroinflammatory and Neurodegenerative Diseases: Implications for Treatment.” Trends Pharmacol Sci. 2020 Oct 27:S0165-6147(20)30218-2. doi: 10.1016/j.tips.2020.09.011. Online ahead of print. PMID: 33127098. Link: https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0165614720302182?via%3Dihub

 

Testo e foto dall’Università degli Studi di Perugia

Olio: la tecnologia in alto vuoto aumenta il contenuto fenolico nell’extravergine d’oliva   

Su “Food Chemistry” i risultati di una ricerca congiunta Università degli Studi di Perugia – Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa 

 

PERUGIA/PISA. Le proprietà salutistiche e le caratteristiche sensoriali degli olii sono elementi determinanti per la produzione di olii extravergini di oliva di alta qualità, sempre più graditi dai consumatori. 

olive (credits: Alessandra Francini, Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa)

 Una ricerca coordinata da Maurizio Servili, docente al Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali dell’Università degli Studi di Perugia e da Luca Sebastiani, direttore dell’Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, pubblicata sulla rivista internazionale Food Chemistry, ha dimostrato come l’impiego della tecnologia in alto vuoto nel processo di estrazione meccanica dell’olio di oliva abbia un impatto positivo sulla concentrazione dei composti fenolici – ai quali sono legate alcune proprietà salutistiche e sensoriali degli olii extravergini – con incrementi compresi tra il 25 per cento e il 49 per cento, valutati su olii ottenuti da tre tra le principali cultivar nazionali. 

tecnologia alto vuoto olio
diagramma di flusso del processo di estrazione meccanica dell’olio di oliva tradizionale (freccia rossa) e in alto vuoto (freccia blu)

 L’applicazione dell’alto vuoto in fase di gramolatura (ovvero la fase di rimescolamento della pasta di olive che favorisce l’aggregazione delle micro-gocce di olio in aggregati più grandi, migliorando le rese) determina invece una riduzione della componente volatile che risulta però essere limitata, grazie all’impiego delle basse temperature in fase di estrazione. 

tecnologia alto vuoto olio
immagine al crio-microscopio elettronico a scansione (Cryo-SEM) di pasta di olive al momento della gramolatura in condizioni di alto vuoto. Sono ben visibili le gocce di olio che sono fuoriuscite dalle cellule e si sono riunite in gocce di olio di diametro superiore (Antonio Minnocci, Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa)

 Un’ulteriore nota positiva e degna di ulteriori approfondimenti per la ricerca è rappresentata dalla forte riduzione di alcuni composti volatili ad impatto negativo sulla qualità degli olii extravergini di oliva quali etanolo, acido acetico ed etil-acetato. 

  “Grazie alla collaborazione già in corso con Alfa Laval, azienda leader di macchinari per la produzione di olio d’oliva, i risultati di questa ricerca non saranno utili soltanto per il mondo accademico, ma potranno facilitare lo sviluppo di applicazioni dell’alto vuoto su scala industriale con ricadute positive per la qualità dell’olio extravergine di oliva”, spiegano Maurizio Servili e Luca Sebastiani. 

i coordinatori della ricerca, da sinistra Maurizio Servili e Luca Sebastiani

 Alla ricerca hanno contribuito Gianluca Veneziani, Agnese Taticchi, Sonia Esposto, Stefania Urbani, Roberto Selvaggini, Beatrice Sordini e Luigi Daidone, per il gruppo coordinato da Maurizio Servili del Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari ed Ambientali dell’Università di Perugia; Luca Sebastiani e Antonio Minnocci dell’Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. 

albero di olivo (credits: Alessandra Francini, Istituto di Scienze della Vita della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa)

 L’articolo “High vacuum-assisted extraction affects virgin olive oil quality: Impact on phenolic and volatile compounds”, pubblicato su “Food Chemistry” (Agnese Taticchi, Sonia Esposto, Gianluca Veneziani, Antonio Minnocci, Stefania Urbani, Roberto Selvaggini, Beatrice Sordini, Luigi Daidone, Luca Sebastiani, Maurizio Servili) è disponibile al link: https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0308814620322317

 

 

 

Testo e immagini dall’Università degli Studi di Perugia e Scuola Superiore Sant’Anna