Melatonina e bambini: pubblicato su Sleep Medicine Reviews, lo studio di Università di Pisa e IRCCS Fondazione Stella Maris fornisce le prime raccomandazione per un uso efficace a medici e famiglie, indicazioni fondamentali dato che le terapie a disposizione dei bambini sono inferiori rispetto agli adulti. La finestra di somministrazione ideale è circa 3 ore prima di dormire, in anticipo rispetto a quanto scritto nei foglietti illustrativi.
Attenzione! Il presente articolo ha carattere scientifico, illustrativo e divulgativo: le nostre conoscenze scientifiche possono modificarsi nel corso del tempo.
In generale, i risultati di un qualsiasi studio scientifico possono essere confutati, ribaltati, adeguati, completati, aggiornati da ulteriori studi in futuro.
In caso di disturbi del sonno è altamente consigliabile innanzitutto un consulto medico. La somministrazione di melatonina, nei bambini come negli adulti, dovrebbe essere supervisionata da un medico (a partire dal dosaggio).
Nel caso in cui ci si rispecchi nei contenuti di questo articolo, invitiamo quindi a riferirsi innanzitutto al proprio medico di fiducia e a non agire di impulso. ScientifiCult non si assume alcuna responsabilità in relazione ai risultati o conseguenze di un qualsiasi utilizzo delle informazioni pubblicate.
Non esistono ad oggi linee guida condivise e realmente efficaci su come usare la melatonina nei bambini con disturbi del sonno e le indicazioni disponibili sono spesso incomplete o discordanti. Da qui la novità dello studio congiunto dell’Università di Pisa e dell’IRCCS Fondazione Stella Maris, appena pubblicato sulla rivista internazionale Sleep Medicine Reviews, che offre per la prima volta raccomandazioni operative su dose, orario di somministrazione e durata del trattamento per una massima efficacia. Secondo le indicazioni emerse riguardano l’orario di somministrazione della melatonina rispetto all’orario di addormentamento desiderato, e la dose più indicata, oltre alla durata ideale del trattamento.
“La melatonina è una sostanza naturale che il nostro corpo produce in condizioni normali e che tra le tanti funzioni serve a regolare il ciclo sonno-veglia – spiega il professore Ugo Faraguna dell’Università di Pisa e dell’IRCCS Fondazione Stella Maris, co-autore dello studio – in questo lavoro abbiamo dimostrato che l’orario di somministrazione è fondamentale e andrebbe personalizzato, ma in generale, andrebbe anticipato di qualche ora rispetto a quanto spesso indicato dal foglietto illustrativo“.
A livello metodologico, lo studio ha raccolto e analizzato in modo sistematico la letteratura fino al 30 aprile 2024, includendo 21 studi clinici su bambini e bambine in età prepuberale con gruppi ai quali è stata somministrata la melatonina e gruppi di controllo ai quali è stato dato un placebo. Il trattamento somministrato secondo le nuove raccomandazioni ha facilitato il sonno in tutti i pazienti e l’effetto è stato più evidente nei bambini con disturbi del neurosviluppo.
“Quando si assume la melatonina come farmaco o integratore è importante fare particolare attenzione specialmente nei bambini, dove le terapie a disposizione sono inferiori rispetto agli adulti – conclude Faraguna – tuttavia a fronte di un uso sempre più diffuso della melatonina in pediatria, mancavano sinora indicazioni condivise su quanto darne, quando somministrarla rispetto all’ora di sonno e per quanto tempo proseguire la terapia. Le raccomandazioni che proponiamo colmano questo vuoto, offrendo una cornice pratica e verificabile che può orientare medici e famiglie “.
Ugo Faraguna, Professore Associato di Fisiologia presso il Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia della Scuola di Medicina dell’Università di Pisa, si dedica da anni allo studio della fisiologia del sonno e dei suoi disturbi. Il suo lavoro di ricerca si concentra in particolare sulla relazione tra sonno e plasticità cerebrale, indagando l’influenza del sonno sui processi di apprendimento e memoria e il ruolo della sua alterazione in diverse patologie. Faraguna collabora strettamente con l’IRCCS Fondazione Stella Maris, un’affiliazione che gli permette di focalizzare la sua ricerca anche sui disturbi del sonno in età evolutiva. Oltre all’attività clinica e di ricerca, ha contribuito allo sviluppo di soluzioni tecnologiche innovative, come l’impiego di algoritmi di intelligenza artificiale per l’analisi e il monitoraggio dei dati relativi al sonno.
Il lavoro è frutto della collaborazione tra il gruppo di ricerca dell’Università di Pisa e del’IRCCS Fondazione Stella Maris, rappresentato da Simone Bruno, Giovanni Cenerini, Letizia Lo Giudice, Francy Cruz-Sanabria, Davide Benedetti, Gabriele Masi e Alessio Crippa del Karolinska Institutet di Stoccolma, Simona Fiori dell’Università di Firenze e Raffaele Ferri dell’IRCCS Associazione Oasi Maria SS. ONLUS e attuale Presidente della World Sleep Society il cui congresso annuale si è appena concluso a Singapore (5-10 settembre 2025).
Riferimenti bibliografici:
Simone Bruno, Giovanni Cenerini, Letizia Lo Giudice, Francy Cruz-Sanabria, Davide Benedetti, Alessio Crippa, Simona Fiori, Raffaele Ferri, Gabriele Masi, Ugo Faraguna, Optimizing timing and dose of exogenous melatonin administration in neuropsychiatric pediatric populations: a meta-analysis on sleep outcomes, Sleep Medicine Reviews, Volume 84, 2025, 102158, ISSN 1087-0792, DOI: https://doi.org/10.1016/j.smrv.2025.102158
Proteine da un fossile di rinoceronte risalente a 21-24 milioni di anni fa rivoluzionano gli studi evoluzionistici
Una ricerca internazionale pubblicata su Nature ha recuperato sequenze proteiche da un fossile di rinoceronte segnando una svolta nella ricostruzione dell’evoluzione delle specie estinte
Uno studio innovativo che sarà pubblicato in “Nature” annuncia il recupero di sequenze proteiche da un fossile di rinoceronte risalente a 21-24 milioni di anni fa, spingendo indietro di milioni di anni i confini della ricerca sulle proteine antiche. Questo risultato senza precedenti apre una nuova frontiera per la paleoproteomica, promettendo di svelare segreti dell’evoluzione risalenti a tempi remoti, ben oltre la portata del DNA antico.
Un nuovo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista “Nature” il 9 luglio 2025, descrive l’estrazione e il sequenziamento di antiche proteine dello smalto da un dente di rinoceronte fossilizzato risalente a 21-24 milioni di anni fa, risalente al Miocene inferiore.
Questa straordinaria impresa, ottenuta a partire da un fossile rinvenuto nell’Alto Artico canadese, estende di ben dieci volte la scala temporale delle sequenze proteiche recuperabili e informative sull’evoluzione rispetto al più antico DNA conosciuto.
Questa ricerca segna un momento cruciale per la paleoproteomica, lo studio delle proteine antiche. Sebbene proteine antiche siano state trovate in fossili del Miocene medio-superiore (circa gli ultimi 10 milioni di anni), l’ottenimento di sequenze sufficientemente dettagliate per ricostruzioni robuste delle relazioni evolutive era precedentemente limitato a campioni non più vecchi di 4 milioni di anni. Questo nuovo studio amplia significativamente tale finestra temporale, dimostrando lo straordinario potenziale delle proteine di persistere su vaste scale temporali geologiche nelle giuste condizioni.
Lo studio, coordinato dal Globe Institutedell’Università di Copenaghen, ha ricostruito sequenze proteiche dallo smalto dentale di un rinoceronte vissuto nell’attuale Artico canadese durante il Miocene inferiore. Grazie alla stabilità dello smalto e alle condizioni ambientali estreme del cratere di Haughton — freddo costante e permafrost — le proteine sono risultate sorprendentemente ben conservate. Queste sequenze proteiche antiche hanno permesso di collocare con precisione evolutiva il rinoceronte all’interno del suo albero genealogico, e suggeriscono che la divergenza tra le sottofamiglie Elasmotheriinae e Rhinocerotinae sia avvenuta durante l’Oligocene (34–22 milioni di anni fa), più recentemente di quanto ipotizzato in precedenza.
Il progetto è stato guidato dal Dott. Ryan Sinclair Paterson e diretto dal Prof. Enrico Cappellini dell’Università di Copenaghen. All’interno di questo progetto, l’apporto del Dott. Gabriele Scorrano (Università di Tor Vergata), del Prof. Raffaele Sardella (Dipartimento di Scienze della Terra, Sapienza Università di Roma) e del Dott. Luca Bellucci (Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Firenze) è stato fondamentale: hanno fornito e analizzato un esemplare di dente di rinoceronte di circa 400.000 anni fa, proveniente dal sito archeo-paleontologico di Fontana Ranuccio (Lazio, provincia di Frosinone).
La ricerca vede coinvolte anche due ricercatrici dell’Università di Torino: Meaghan Mackie, dottoranda del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi di UniTo e dell’University College Dublin, e la sua supervisor, la Prof.ssa Beatrice Demarchi, docente ordinaria presso l’Ateneo torinese ed esperta di biomolecole antiche.
In questo sito, insieme a una ricca fauna, sono stati rinvenuti alcuni tra i più antichi reperti del genere Homo in Italia. Il reperto ha funzionato da riferimento intermedio tra i campioni più recenti (esemplari medievali) e quello molto più antico analizzato in questo studio, offrendo un confronto diretto sulla conservazione proteica nel tempo.
Il contributo del team dell’Università di Torino è stato cruciale per la validazione dei dati e l’interpretazione dei processi di diagenesi proteica. “Abbiamo calcolato – spiega la Prof.ssa Beatrice Demarchi – che la bassa temperatura ha reso l’età termica del campione equivalente a quella di un reperto dieci volte più giovane in un luogo con temperatura media di 10°C, il che significa che le proteine erano significativamente meno danneggiate rispetto a quelle che si trovano in luoghi della stessa età geologica ma con clima più caldo”.
“È stato sorprendente”, commenta Meaghan Mackie. “Il primo campione che ho analizzato pensavo non contenesse nulla, perché troppo antico! Sono rimasta a fissare lo schermo del computer per un minuto”. Questo risultato apre nuove prospettive per la ricerca evolutiva e la paleoproteomica perché permette di ricostruire la storia evolutiva di specie estinte da milioni di anni, ben oltre i limiti del DNA e, in prospettiva, potrebbe riaccendere le speranze per lo studio della biologia di specie dell’era Mesozoica. Indagini future su fossili della Formazione di Haughton e di altri contesti simili potrebbero far emergere ulteriori tracce di questa straordinaria conservazione biomolecolare.
“Si profila una nuova fase per la biologia evolutiva – aggiunge la Prof.ssa Demarchi – in cui le proteine antiche diventano preziosi testimoni della storia più remota della vita sulla Terra. Per l’Università di Torino, questo risultato conferma il ruolo di primo piano nell’ambito della paleobiologia molecolare internazionale”.
Vista del Cratere di Haughton sull’isola di Devon, Nunavut (Canada). Le condizioni aride e fredde del “deserto polare” hanno contribuito a preservare l’antico fossile di rinoceronte qui rinvenuto, comprese tracce di proteine originali risalenti a oltre 20 milioni di anni fa. Il terreno modellato in primo piano indica la presenza di permafrost. Crediti per la foto: Martin Lipman
Riferimenti bibliografici:
Paterson, R. S., Mackie, M., Capobianco, A., Heckeberg, N. S., Fraser, D., Demarchi, B., Munir, F., Patramanis, I., Ramos-Madrigal, J., Liu, S., Ramsøe, A. D., Dickinson, M. R., Baldreki, C., Gilbert, M., Sardella, R., Bellucci, L., Scorrano, G., Leonardi, M., Manica, A., Racimo, F., Willerslev, E., Penkman, K. E. H., Olsen, J. V., MacPhee, R. D. E., Rybczynski, N., Höhna, S., Cappellini, E., Phylogenetically informative proteins from an Early Miocene rhinocerotid. Nature (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41586-025-09231-4
Testi dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma e dalla Sezione Comunicazione Digitale e Media Relations, Area Comunicazione dell’Università di Torino
Un nuovo oceano nascerà: due studi internazionali riscrivono l’evoluzione geologica dell’Africa orientale
L’Università di Pisa protagonista di una doppia scoperta: nel triangolo dell’Afar (Etiopia), la rottura del continente e la risalita del mantello mostrano come il magma risalga ad impulsi ritmici cadenzati dalla separazione delle placche terrestri
Nella regione dell’Afar, in Africa orientale, tre grandi placche tettoniche si stanno separando e, in prospettiva geologica, nascerà un nuovo oceano. Due ricerche appena pubblicate su riviste del gruppo Nature riscrivono sotto una nuova luce questo fenomeno. In entrambe le ricerche l’Università di Pisa ha svolto un ruolo chiave, con i ricercatori del Dipartimento di Scienze della Terra coinvolti nell’analisi dei dati, nella campagna di campionamento e nella conservazione del materiale geologico di riferimento.
“Questi due studi ci permettono di osservare con chiarezza un processo geologico di portata enorme: la formazione di un nuovo oceano, anche se naturalmente si parla di tempi geologici molto lunghi, dell’ordine di decine di milioni di anni – spiega la professoressa Carolina Pagli del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa – I nostri dati mostrano che la risalita di materiale caldo dal mantello è profondamente connessa ai movimenti delle placche che causano l’apertura della crosta terrestre. Questo movimento non solo fa ‘strappare’ la crosta, ma condiziona anche la risalita dei magmi. È un cambio di prospettiva importante, che migliora la nostra comprensione dei grandi processi geologici e dei processi sismici e vulcanici nelle aree soggette al fenomeno.”
Il primo studio, coordinato da un team dell’Università di Pisa e pubblicato su Communications Earth & Environment, ha ricostruito l’evoluzione del rift— ovvero la frattura nella crosta terrestre — dell’Afar negli ultimi 2–2,5 milioni di anni. Attraverso la datazione di sedici colate laviche, i ricercatori hanno dimostrato che la zona attiva del rift si è andata restringendo e spostando in modo asimmetrico, avvicinandosi sempre più a una configurazione simile a quella dei fondali oceanici.
Il secondo studio, guidato dall’Università di Southampton con la partecipazione dell’Università di Pisa, e pubblicato su Nature Geoscience, fa un’analisi di oltre 130 campioni lavici. Attraverso sofisticati modelli statistici, è emerso che il mantello sotto l’Afar si muove e si distribuisce in modo diverso nei tre rami del rift (Mar Rosso, Golfo di Aden, Rift Etiopico) in funzione della velocità di estensione e dello spessore della crosta sovrastante. In altre parole, è la tettonica a plasmare il comportamento del mantello, e non il contrario.
Il primo studio, pubblicato su Communications Earth & Environment, è stato condotto da un team italo-britannico con la partecipazione di Anna Gioncada e Carolina Pagli del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa e di Gianmaria Tortelli dell’Università di Pisa e di Firenze. Carolina Pagli ha inoltre partecipato alla ricerca pubblicata su Nature Geoscience e guidata da Emma J. Watts dell’Università di Southampton.
il gruppo di ricerca UniPi che ha partecipato ai due studi internazionali
Testo e foto dall’Ufficio comunicazione di Ateneo dell’Università di Pisa
Grazie ai venti da loro generati, che accelerano improvvisamente a grandi distanze, i buchi neri non sono solo divoratori di materia ma veri propri architetti cosmici, giocando un ruolo chiave nell’evoluzione delle galassie
Ricerca internazionale su Nature Astronomy guidata dall’Università di Firenze e da INAF – Osservatorio Astrofisico di Arcetri
Mosaico di immagini RGB delle galassie analizzate
I buchi neri che si trovano al centro delle galassie non sono solo divoratori di materia ma veri propri architetti cosmici.
È la conclusione a cui è giunto un gruppo di ricercatori internazionali guidati dall’Università di Firenze e da INAF – Osservatorio Astrofisico di Arcetri, protagonisti di un lavoro pubblicato su Nature Astronomy (“Evidence of the Fast Acceleration of AGN-Driven Winds at Kiloparsec Scales” https://www.nature.com/articles/s41550-025-02518-6). Lo studio ha dimostrato per la prima volta che i venti generati dai buchi neri subiscono un’improvvisa accelerazione quando si allontanano dal centro galattico, giocando un ruolo chiave nell’evoluzione delle galassie.
“Ogni galassia ospita al centro un buco nero supermassiccio”, spiegano i primi firmatari dell’articolo Cosimo Marconcini e Alessandro Marconi, rispettivamente dottorando e docente di Astrofisica del Dipartimento di Fisica e Astronomiadell’Università di Firenze. “Questi nuclei galattici attivi (AGN) mentre «mangiano» materia, generano forti venti di gas che si diffondono nello spazio circostante”.
Gli scienziati hanno scoperto un comportamento sorprendente: nei primi 3.000 anni luce (1 kiloparsec) dalla sorgente, i venti si muovono a velocità costante o addirittura rallentano un po’; in seguito, subiscono una drastica espansione, si riscaldano e accelerano, raggiungendo velocità tali da espellere dalla galassia tutto il gas che incontrano lungo la strada. A questo risultato i ricercatori sono arrivati analizzando i venti di 10 galassie osservate con il Very Large Telescope (VLT – European Southern Observatory) in Cile – la più importante struttura al mondo per l’astronomia – e con un nuovo strumento per la modellizzazione 3D dei dati, chiamato MOKA3D e da loro sviluppato.
Perché questa acquisizione è così importante? Perché i buchi neri supermassivi possono spingere il gas fuori dalle galassie, fermando la formazione stellare e influenzando la loro evoluzione.
“Infatti – spiegano i due ricercatori – i venti generati dagli AGN regolano la nascita delle stelle, perché se il vento spazza via troppo gas, la galassia avrà meno «carburante» per formarne di nuove. Possono, quindi, influenzare la distribuzione del gas e degli elementi chimici e addirittura fermare la crescita della galassia: se il vento è abbastanza forte da espellere il gas nello spazio intergalattico, la galassia stessa potrebbe smettere di crescere”.
La prossima frontiera consisterà nello studiare altre galassie, anche molto lontane, per capire se nell’universo è comune questo fenomeno, che fa dei buchi neri i modellatori delle galassie in cui vivono.
Immagine RGB della galassia Circinus (un’immagine RGB è anche detta immagine a falsi colori, in cui si evidenzia l’emissione di componenti diversi della galassia con colori diversi: blu=gas ionizzato che traccia i venti emessi dai buchi neri; rosso=emissione da parte di stelle giovani e parzialmente anche i venti provenienti dai buchi neri; verde=emissione diffusa delle stelle nella galassia)
Riferimenti bibliografici:
Marconcini, C., Marconi, A., Cresci, G. et al., Evidence of the fast acceleration of AGN-driven winds at kiloparsec scales, Nat Astron (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41550-025-02518-6
Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Unità funzionale comunicazione esterna dell’Università degli studi di Firenze
L’apprendimento si legge nelle pupille dei nostri occhi
Pubblicato su Current Biology uno studio condotto da ricercatori delle Università di Pisa, di Sydney, di Firenze e del Salento.
In uno studio appena pubblicato sulla rivista Current Biology, i ricercatori delle Università di Pisa, di Sydney, di Firenze e del Salento hanno dimostrato che l’apprendimento statistico – cioè quello in cui acquisiamo informazioni in modo del tutto automatico e inconsapevole – si può rintracciare persino in una delle nostre reazioni più semplici e inconsapevoli: la costrizione o dilatazione della pupilla dei nostri occhi, evocata dalla vista di un’immagine.
“Questo studio dimostra che il nostro sistema visivo è sensibile alle regolarità statistiche del nostro ambiente anche quando non siamo in grado di percepirle in modo consapevole – commenta Paola Binda, professoressa dell’Università di Pisa e prima autrice del lavoro – Il diametro pupillare si conferma una ricca fonte di informazioni sul funzionamento dei nostri sistemi sensoriali e cognitivi: una vera e propria finestra sulla mente e sulle sue capacità di apprendimento”.
Lo studio parte dalla considerazione che tantissime delle informazioni su cui si basa il nostro comportamento sono apprese in modo spontaneo e inconsapevole, basti pensare all’acquisizione del linguaggio: siamo in grado di distinguere le parole nel suono prodotto da chi ci parla, nonostante questo sia continuo e non abbia evidenti pause che demarcano la fine di una parola e l’inizio della successiva:
“Per imparare non ci servono istruzioni o indicazioni – continua Paola Binda – siamo capaci di farlo sin dalle prime settimane di vita, semplicemente ascoltando i suoni della nostra lingua. Probabilmente, questa forma di “apprendimento statistico” è importante per estrarre un senso da tutti i segnali sensoriali, non solo uditivi ma anche visivi, tattili etc.”.
Per il loro studio, i ricercatori hanno mostrato ai pazienti immagini che riportavano insiemi di barrette apparentemente casuali (un esempio è visibile aquesto link). La loro successione temporale era molto rapida e regolata da una semplice struttura statistica: ogni immagine contenente 24 barrette era seguita da una con 6 barrette, 2 barrette erano seguite da 12 barrette e così via a creare delle coppie fisse di numerosità. Data la velocità con cui le immagini si susseguivano e la disposizione variabile degli elementi, questa struttura temporale non era percepibile. Cionondimeno, il diametro pupillare oscillava sistematicamente, rispondendo alla ripetizione delle coppie (mentre nessuna oscillazione si osservava in un esperimento di controllo in cui le medesime immagini erano presentate in ordine casuale).
“Grazie a questa metodologia innovativa è possibile seguire in modo indiretto e non invasivo l’evolversi di processi cerebrali complessi – conclude Binda – Nel lungo termine, questo tipo di ricerca potrebbe consegnarci nuovi strumenti per caratterizzare le differenze interindividuali dell’apprendimento e le sue disfunzioni”.
L’apprendimento statistico si può rintracciare nella costrizione o dilatazione delle pupille dei nostri occhi, evocata da un’immagine, secondo il nuovo studio pubblicato su Current Biology. In foto, la professoressa Paola Binda. Crediti per la foto: Guido Marco Cicchini
Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.
Biodiversità, ai vertebrati l’83% dei fondi globali destinati alla conservazione; discriminati gli animali “brutti” o pericolosi. Poche risorse anche per le piante
Lo rivela per la prima volta uno studio su PNAS delle Università di Firenze e Hong Kong
I finanziamenti mondiali per la conservazione della biodiversità animale e vegetale sono indirizzati solo ad un piccolo numero di grandi specie, mentre quasi il 94% delle specie a diretto rischio di estinzione non ha ricevuto alcun sostegno.
Ad attirare più attenzione sono gli animali più iconici: gli elefanti o le tartarughe marine. A spese, però, di specie fondamentali per il funzionamento degli ecosistemi, tra cui anfibi, invertebrati, piante e funghi.
È quanto rivela uno studio internazionale, il primo di questo genere, pubblicato su PNAS a cura delle Università di Hong Kong e Firenze che denuncia una distribuzione squilibrata dei fondi globali, sia pubblici che privati, destinati a salvaguardare l’esistenza delle varie specie (“Limited and biased global conservation funding means most threatened species remain unsupported”, DOI: https://doi.org/10.1073/pnas.2412479122).
I finanziamenti mondiali per la conservazione della biodiversità animale e vegetale sono indirizzati solo ad un piccolo numero di grandi specie. Gallery
Boophis blommersae, a Betampona
Boophis bottae, a Betampona
Paroedura gracilis, a Betampona
Paroedura gracilis Betampona
Furcifer campani, ad Ankaratra
La ricerca è stata in parte sostenuta dal centro nazionale National Biodiversity Future Center (NBFC), finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca con fondi dell’Unione Europea nell’ambito del programma #NextGenerationEU (PNRR – Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza).
“Abbiamo analizzato – spiega Stefano Cannicci, docente di Zoologia dell’Università di Firenze – 14.566 progetti di conservazione che abbracciano un periodo di 25 anni, dal 1992 al 2016, confrontando l’importo dei finanziamenti per specie con il loro status nella «lista rossa» delle specie minacciate stilata dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), istituzione che valuta i livelli di rischio di estinzione e di cui faccio parte”.
“Per la prima volta – prosegue lo zoologo dell’Ateneo fiorentino – si è analizzato lo sforzo mondiale di conservazione delle specie e degli ambienti andando a studiare la distribuzione dei fondi dedicati alla conservazione, e non contando il numero di articoli pubblicati: dei 1.963 miliardi di dollari assegnati complessivamente dai progetti, l’82,9% è stato destinato a vertebrati. Piante e invertebrati hanno rappresentato ciascuno il 6,6% dei finanziamenti, mentre funghi e alghe sono appena rappresentati, con meno dello 0,2% per ciascuna delle specie”.
Anche all’interno di molti dei gruppi maggiormente finanziati esistono grosse disparità: i mammiferi di grossa taglia, che rappresentano solo un terzo dei mammiferi minacciati, secondo l’IUCN, hanno ricevuto l’86% dei finanziamenti.
Una grossa percentuale dei fondi analizzati riguarda il più ricco e importante programma di fondi per la conservazione europeo, quello dei progetti LIFE, che in realtà sono la spina dorsale dei fondi per la conservazione delle specie italiane, e che quindi ci riguarda direttamente.
“I dati dicono, per esempio – prosegue Cannicci – che tra i vertebrati più a rischio di estinzione ci sono gli anfibi (salamandre e rane), ma i fondi a loro dedicati sono meno del 2% del totale. In generale, gli animali che noi consideriamo ‘brutti’ o pericolosi (pipistrelli, serpenti, lucertole, e moltissimi insetti escluse le farfalle) sono scarsissimamente finanziati in termine di conservazione”.
“Investire i fondi sulla conservazione di poche specie non preserva gli ecosistemi che li supportano: che senso ha conservare un animale ma non gli animali o le piante che mangiano?” si domanda il ricercatore, che conclude: “Per affrontare in modo efficace la sfida della tutela della biodiversità gli autori dello studio propongono che siano destinate complessivamente più risorse alla conservazione, ma anche che le organizzazioni governative e non governative lavorino per riallineare, sulla base delle conoscenze scientifiche, le priorità di finanziamento verso le specie a reale rischio di estinzione e attualmente trascurate”.
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Unità funzionale comunicazione esterna dell’Università degli Studi di Firenze
METIS OSSERVA COME SI PROPAGA LA TURBOLENZA NEL VENTO SOLARE
Grazie alle riprese del coronografo Metis a bordo della missione europea Solar Orbiter, un gruppo internazionale coordinato da ricercatori INAF è riuscito ad osservare la propagazione dei moti turbolenti del vento solare dalle zone più interne della corona del Sole fino allo spazio. La conoscenza dei meccanismi che guidano l’evoluzione e la propagazione di questi fenomeni nel vento solare aiuterà a migliorare le previsioni sul potenziale impatto che esso può avere nel nostro Sistema planetario e soprattutto sulla Terra. Lo studio a cui hanno collaborato anche ricercatori e ricercatrici di ASI, CNR e delle Università di Firenze, Padova, Urbino, Genova, Catania, Palermo e della Calabria, è stato pubblicato oggi sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.
Il vento solare è un flusso incessante di particelle cariche provenienti dal Sole, il cui andamento è tutt’altro che costante. Nel loro moto nello spazio, le particelle del vento solare interagiscono con il campo magnetico variabile del Sole, seguendo traiettorie caotiche e fluttuanti, un fenomeno che prende il nome di turbolenza.
Le riprese ottenute dalla missione Solar Orbiter dell’Agenzia Spaziale Europea grazie al coronografo Metis progettato da Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), Università di Firenze, Università di Padova, CNR-Ifn, e realizzato dall’Agenzia Spaziale Italiana con la collaborazione dell’industria italiana, confermano qualcosa che si sospettava da tempo: il moto turbolento del vento solare inizia molto vicino al Sole, all’interno della porzione di atmosfera solare nota come corona. Piccoli disturbi che influenzano il vento solare nella corona vengono trasportati verso l’esterno e si espandono, generando un flusso turbolento più lontano nello spazio.
“Questo risultato ha aperto una nuova finestra sulla fisica del vento solare grazie a Metis, il coronografo di nuova concezione – tutta italiana – a bordo del Solar Orbiter, che ha permesso acquisizioni ad alta cadenza di immagini coronali con un contrasto senza precedenti tra segnale coronale e background”
commenta Silvano Fineschi dell’INAF e Responsabile Scientifico del contributo italiano alla missione. Bloccando la luce diretta proveniente dal Sole, il coronografo Metis è in grado di catturare la luce visibile e ultravioletta più debole proveniente dalla corona solare. Le sue immagini ad alta risoluzione e ad alta cadenza mostrano la struttura dettagliata e il movimento all’interno della corona, rivelando come il movimento del vento solare diventi già turbolento alle sue radici. Le riprese utilizzate dal team di ricerca per osservare in dettaglio la propagazione della turbolenza sono state ottenute il 12 ottobre 2022 e messe in sequenza per realizzare una animazione video. In particolare, l’anello color rosso nel video mostra le osservazioni di Metis. A quella data, la sonda si trovava a soli 43,4 milioni di km dal Sole, meno di un terzo della distanza Sole-Terra. L’immagine del Sole al centro del video è stata scattata dall’Extreme Ultraviolet Imager (EUI) di Solar Orbiter, lo stesso giorno delle osservazioni di Metis.
“L’elevata risoluzione spaziale e temporale di Metis sta gettando nuova luce sui meccanismi fisici che regolano il vento solare e la sua propagazione, consentendo una migliore comprensione dei processi attraverso i quali il Sole determina le condizioni fisiche dello spazio interplanetario con effetti anche a Terra” dice Marco Stangalini, ricercatore e Responsabile di Programma ASI della missione Solar Orbiter. “Questo significativo risultato è solo l’ultimo di una lunga serie di successi e offre grandi speranze per il futuro. Nei prossimi anni, infatti, Solar Orbiter inclinerà la sua orbita, permettendoci di osservare il Sole da una prospettiva completamente nuova per la prima volta”.
La turbolenza influenza il modo in cui il vento solare viene riscaldato, il modo in cui si muove attraverso il Sistema solare e il modo in cui interagisce con i campi magnetici dei pianeti e delle lune che attraversa. Comprendere la turbolenza del vento solare è fondamentale per prevedere la meteorologia spaziale e i suoi effetti sulla Terra.
L’articolo “Metis observation of the onset of fully developed turbulence in the solar corona” di Daniele Telloni,Luca Sorriso-Valvo, Gary P. Zank, Marco Velli ,Vincenzo Andretta,Denise Perrone,Raffaele Marino,Francesco Carbone,Antonio Vecchio,Laxman Adhikari, Lingling Zhao,Sabrina Guastavino,Fabiana Camattari,Chen Shi,Nikos Sioulas,Zesen Huang,Marco Romoli,Ester Antonucci,Vania Da Deppo,Silvano Fineschi,Catia Grimani,Petr Heinzel,John D. Moses,Giampiero Naletto,Gianalfredo Nicolini,Daniele Spadaro,Marco Stangalini, Luca Teriaca,Michela Uslenghi,Lucia Abbo,Frederic Auchere,Regina Aznar Cuadrado,Arkadiusz Berlicki,Roberto Bruno,Aleksandr Burtovoi,Gerardo Capobianco,Chiara Casini,Marta Casti, Paolo Chioetto,Alain J. Corso,Raffaella D’Amicis,Yara De Leo,Michele Fabi,Federica Frassati,Fabio Frassetto,Silvio Giordano,Salvo L. Guglielmino,Giovanna Jerse,Federico Landini,Alessandro Liberatore, Enrico Magli,Giuseppe Massone,Giuseppe Nisticò,Maurizio Pancrazzi,Maria G. Pelizzo, Hardi Peter,Christina Plainaki, Luca Poletto,Fabio Reale,Paolo Romano,Giuliana Russano, Clementina Sasso, Udo Schuhle,Sami K. Solanki,Leonard Strachan,Thomas Straus, Roberto Susino,Rita Ventura,Cosimo A. Volpicelli, Joachim Woch, Luca Zangrilli, Gaetano Zimbardo ePaola Zuppellaè stato pubblicato oggi sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.
questa immagine satellitare dal Solar Dynamics Observatory – SDO della NASA mostra la luce ultravioletta in marrone chiaro. FotoNASA di Amy Moran, in pubblico dominio
Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).
Analizzato per la prima volta il DNA delle iene fossili della Sicilia
Le iene siciliane, che abitavano l’isola prima dell’arrivo di Homo sapiens, appartengono a un gruppo diverso da quelle africane: si tratta di una popolazione “relitta” di iene insulari, caratteristica che le rende uniche al mondo, il cui DNA fossile nei resti biologici è sopravvissuto al clima caldo del Mediterraneo. La pubblicazione su Quaternary Science Reviews.
Palermo, Milano, Roma, Firenze, 28 agosto 2024. Prima ancora che Homo sapiens arrivasse in Sicilia, circa 16 mila anni fa, sull’isola erano molto diffuse le iene del genere Crocuta.
Tra i più iconici carnivori delle savane, la iena macchiata è oggi presente in buona parte dell’Africa sub-sahariana, ma durante il Pleistocene, tra 800 e 16 mila anni fa, era diffusa in territori molto più ampi che includevano l’Europa e l’Asia, mentre l’unica isola dove la presenza di questa specie è stata documentata dai fossili, è la Sicilia. Questa caratteristica rende le iene siciliane uniche da un punto di vista paleobiologico e offre agli studiosi una rara opportunità per comprendere meglio sia gli adattamenti che i processi evolutivi legati all’isolamento geografico di un grande carnivoro, estremamente raro in contesti insulari.
Grazie ai recenti avanzamenti nello studio del DNA antico, negli ultimi anni i paleogenetisti sono stati in grado di analizzare porzioni di DNA di alcune iene fossili, ad oggi tutte provenienti da siti nord europei o dal nord della Russia e della Cina, dove le temperature basse favoriscono la conservazione del materiale genetico. In ambienti a clima caldo, come quello mediterraneo, nei resti antichi il DNA si conserva con maggiori difficoltà.
In un recente studio condotto dai ricercatori delle Università di Palermo, Statale di Milano, Firenze, Roma Sapienza, di Bangor e Cambridge, pubblicato sulla rivista internazionale Quaternary Science Reviews, è stato analizzato per la prima volta il DNA di una iena fossile della Sicilia.
Il DNA nucleare è stato estratto con successo da un frammento di coprolite, un escremento fossilizzato di iena di oltre 20 mila anni, proveniente dal sito della Grotta San Teodoro (Messina). I risultati delle analisi hanno svelato che le iene siciliane possedevano caratteristiche genetiche molto particolari, uniche tra tutte le iene fossili di cui si conosce il DNA.
Giulio Catalano, paleogenetista dell’Università di Palermo e primo autore dello studio, commenta: “Le analisi ci suggeriscono che le iene siciliane siano appartenute a un gruppo genetico molto antico, distinto dalle attuali iene africane e peculiare rispetto alle altre iene fossili”. Prosegue il ricercatore: “Questo insieme di caratteristiche ci fa ipotizzare che un tempo la popolazione di queste iene fosse ampiamente distribuita sul continente, circa 500mila anni fa. Ma arrivate in Sicilia, grazie all’isolamento geografico, questa popolazione ha conservato le proprie caratteristiche genetiche mentre nel resto d’Europa si è invece persa nel corso del tempo. Questo grazie anche al contributo dei diversi scambi genetici avvenuti con le iene africane”.
“Questo tipo di analisi permette di ipotizzare che le iene pleistoceniche siciliane possano far parte di una popolazione genetica “relitta”, sopravvissuta sull’isola fino a circa 20 mila anni fa”, sottolinea Raffaele Sardella, paleontologo dell’Università Sapienza di Roma che ha partecipato alla ricerca.
Dawid A. Iurino, paleontologo dell’Università Statale di Milano e coautore dello studio, aggiunge: “Oltre al DNA di iena, nel coprolite abbiamo individuato tracce di DNA equino che ci ha permesso di rivelare il contenuto del pasto di una iena di 20 mila anni fa, costituito da Equus hydruntinus, l’unico equide vissuto in passato sull’isola. La scoperta e l’analisi di questo DNA fossile rappresentano una fonte inesauribile di ispirazione per nuove ricerche che rende il patrimonio geo-paleontologico della Sicilia una risorsa da preservare e valorizzare, in quanto unico nel suo genere”.
Luca Sineo, docente dell’Università di Palermo e responsabile del progetto, commenta: “Grotta San Teodoro, con il suo enorme patrimonio, si conferma tra i più importanti siti europei per lo studio del Pleistocene, ovvero gli ultimi 2.5 milioni di anni. Questa ricerca ha coinvolto studiosi internazionali ed è stata possibili grazie alla collaborazione con il Parco Archeologico di Tindari, la Proloco di Acquedolci e la Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Messina”.
“Questo studio dimostra come, ad oggi, lo sviluppo tecnologico consenta di ottenere informazioni genetiche anche da substrati biologici complessi, come i coproliti”, spiega la Dott.ssa Alessandra Modi dell’Università di Firenze che ha partecipato alla ricerca. “Grazie alla grande mole di dati che si possono ottenere da un numero sempre maggiore di resti appartenenti a specie diverse, siamo in grado di delineare con elevata precisione la storia evolutiva non solo dell’uomo, ma di molteplici forme viventi”, conclude David Caramelli, Professore Ordinario di Antropologia dell’Università di Firenze.
Testo e immagini dalla Direzione Comunicazione ed Eventi Istituzionali dell’Ufficio Stampa Università degli Studi di Milano
CONSORZIO ANDES, VIA LIBERA ALLO SPETTROGRAFO CHE CI INFORMERÀ SULLE PROPRIETÀ DEGLI OGGETTI ASTRONOMICI E CI DIRÀ DOVE C’È VITA SU ALTRI MONDI
Oggi l’ESO ha firmato l’accordo con un consorzio internazionale guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) per la progettazione e la costruzione diANDES, uno strumento di altissima tecnologia che sarà installato sull’Extremely Large Telescope (ELT) dell’ESO, in costruzione sulle Ande cilene. ANDES verrà utilizzato per cercare segni di vita negli esopianeti e studiare le prime stelle che si sono accese nell’Universo, ma anche per testare le variazioni delle costanti fondamentali della fisica e misurare l’accelerazione dell’espansione dell’Universo.
rendering dell’Extremely Large Telescope, in costruzione sulla cima del Cerro Armazones in Cile, ad oltre 3000 metri di quota. Crediti: ESO
L’accordo è stato firmato dal Direttore Generale dell’European Southern Observatory (ESO) Xavier Barcons e da Roberto Ragazzoni, Presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), l’Ente che guida il consorzio ANDES. Alla cerimonia della firma erano presenti anche Sergio Maffettone, Console Generale d’Italia a Monaco di Baviera, e Alessandro Marconi dell’Università di Firenze e associato INAF, Principal Investigator di ANDES, oltre ad altri rappresentanti dell’ESO, dell’INAF e del consorzio ANDES, che vede la partecipazione di Istituti, Università ed Enti di Ricerca di 13 Paesi. La firma ha avuto luogo presso il quartier generale dell’ESO a Garching, in Germania.
foto della firma dell’accordo. Crediti: ESO
“ANDES è una macchina che sfrutta molte delle tecnologie sviluppate in Italia e che complementa gli sforzi che come INAF stiamo facendo per individuare mondi alieni” commenta Roberto Ragazzoni, presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica. “Poterne analizzare chimicamente la composizione delle atmosfere è uno di quei problemi formidabili che mettono a dura prova la filiera tecnologica sia della ricerca che industriale. Anche se al limite delle sue capacità, potrebbe riuscire a fornire misure dirette della espansione dell’universo, ma certamente aprire nuovi quesiti che solleciteranno ulteriori sviluppi tecnologici, in un circolo virtuoso che l’INAF porta avanti da tempo”.
Consorzio ANDES, via libera allo spettrografo che ci informerà sulle proprietà degli oggetti astronomici e ci dirà dove c’è vita su altri mondi. L’immagine è una rappresentazione artistica dello strumento ANDES. Crediti: ESO
Precedentemente denominato HIRES, ANDES (ArmazoNes high Dispersion Echelle Spectrograph) è un sofisticato spettrografo, uno strumento che divide la luce nelle lunghezze d’onda che la compongono in modo che gli astronomi possano determinare importanti proprietà degli oggetti astronomici, come la loro composizione chimica. Lo strumento avrà prestazioni senza precedenti nelle osservazioni in luce visibile e nel vicino infrarosso e, in combinazione con il potente sistema di specchi ed ottica adattiva che costituiscono ELT, consentirà enormi passi in avanti nello studio dell’Universo.
“ANDES è uno strumento con un enorme potenziale per scoperte scientifiche rivoluzionarie, che possono influenzare profondamente la nostra percezione dell’Universo ben oltre la comunità di scienziati”, afferma Alessandro Marconi.
ANDES permetterà di realizzare indagini dettagliate delle atmosfere di esopianeti simili alla Terra, consentendo agli astronomi di analizzare la loro composizione, alla ricerca di tracce legate alla presenza di vita. Sarà anche in grado di analizzare elementi chimici in oggetti lontani nell’Universo primordiale, rendendolo probabilmente il primo strumento in grado di rilevare le firme delle stelle di Popolazione III, le prime stelle in assoluto che si sono formate nell’Universo. Inoltre, gli astronomi saranno in grado di utilizzare i dati ANDES per verificare se le costanti fondamentali della fisica variano nel tempo e nello spazio. I suoi dati saranno utilizzati anche per misurare direttamente l’accelerazione dell’espansione dell’Universo, uno degli enigmi ancora insoluti dell’astrofisica.
Il contributo di INAF ad ANDES, oltre alla responsabilità di gestione manageriale e ingegneristica del progetto a livello di sistema e di sviluppo software (con le sedi coinvolte di Trieste per il management, Milano per l’ingegneria del sistema e Bologna per la parte di collegamento scientifico), copre anche la progettazione e la successiva realizzazione opto-meccanica e software, di alcuni moduli che compongono ANDES. In particolare, la sede INAF di Firenze con i contributi di quelle di Trieste e Brera è responsabile sia del collegamento in fibra ottica che consentirà il passaggio della luce tra i vari moduli di ANDES che del modulo di ottica adattiva. Oltre all’aspetto tecnologico, quello scientifico vede la partecipazione di ricercatrici e ricercatori di quasi tutte le sedi INAF, con quella di Trieste responsabile anche del coordinamento del pacchetto scientifico che studierà le galassie ed il mezzo intergalattico.
Il telescopio ELT dell’ESO è attualmente in costruzione nel deserto di Atacama, nel nord del Cile. Quando entrerà in funzione alla fine di questo decennio, l’ELT sarà il più grande telescopio mai costruito al mondo, che aprirà letteralmente una nuova era nell’astronomia da Terra.
Robot subacquei a fianco degli operatori umani per la difesa del mare: al via il progetto PANACEA
Gestito dalle Università di Pisa e Firenze, studia la messa a punto di un sistema di robot sottomarini e di superficie per il monitoraggio delle acque ad uso di Agenzie per l’Ambiente e studiosi di ecologia
Monitorare lo stato delle acque, dolci e salate, non è un’attività semplice. Eppure, le ineludibili esigenze di sostenibilità ambientale e le grandi risorse che il mondo sommerso conserva rendono essenziale arrivare a una conoscenza scientifica profonda del “Pianeta Blu”. Per questo scopo, l’uso di robot autonomi sottomarini assume una crescente rilevanza, soprattutto per il monitoraggio di fenomeni legati alla salute delle acque e dei fondali. Di questo si occupa il progetto PANACEA, gestito dalle Università di Pisa e Firenze e orientato a sostituire sempre di più le esplorazioni umane in ambienti sottomarini pericolosi e ostili con quelle condotte da robot. Il progetto ha ricevuto finanziamenti dal Ministero dell’Università e della Ricerca nell’ambito del bando PRIN 2022 (Progetti di Rilevante Interesse Nazionale).
“Nonostante in questi anni i robot sottomarini si siano dimostrati molto efficaci – spiega Riccardo Costanzi, docente di robotica all’Università di Pisa e coordinatore del progetto – siamo ancora lontani da farne uno standard per le attività di monitoraggio, affidate ancora a operatori umani, con tutti i rischi del caso. Nel progetto PANACEA proponiamo un caso emblematico, quello della Posidonia oceanica, considerata un habitat naturale chiave dall’Unione Europea e il cui monitoraggio è essenziale per conoscere lo stato di salute dei nostri mari e per preservarlo”.
Riccardo Costanzi
Scopo di PANACEA è mettere a punto un sistema multi-robot, composto da un robot subacqueo e uno di superficie, in grado di interfacciarsi con gli operatori al sicuro a terra, che ricevono dati in tempo reale.
“Il monitoraggio dei fondali è eseguito con tecniche sia visive che acustiche – aggiunge Alessandro Ridolfi, docente di robotica all’Università di Firenze – e usiamo tecniche di Intelligenza Artificiale per estrarre dati sintetici da tutti quelli acquisiti. La capacità del robot di estrarre e trasmettere solo dati sintetici è fondamentale, visto che in acqua le possibilità di comunicazione sono ridotte”.
Il progetto è stato presentato lo scorso 3 maggio a una platea di studiosi di ecologia e rappresentanti di Agenzie per l’Ambiente, che gli scienziati di Pisa e Firenze considerano gli utilizzatori finali del sistema che stanno mettendo a punto.
“In un’epoca in cui il monitoraggio ambientale è più cruciale che mai, il sistema proposto da PANACEA rappresenta un ulteriore passo avanti significativo nella conservazione della biodiversità marina – afferma Elena Maggi, docente di ecologia all’Università di Pisa – Il monitoraggio delle praterie di Posidonia oceanica, fondamentali per la salute e protezione dei sistemi costieri mediterranei e al contempo estremamente delicate, rappresenta una sfida notevole. PANACEA mira a minimizzare i rischi e le limitazioni dei monitoraggi umani, incrementando la sicurezza e riducendo i tempi per la raccolta di dati su ampie scale spaziali, che possano essere integrati con quelli raccolti dagli operatori subacquei. Di fronte all’accelerazione degli effetti del cambiamento climatico e alla molteplicità dei disturbi causati dalle attività umane, è imperativo che le nostre azioni conservative siano altrettanto rapide ed efficaci per mitigare e contenere gli impatti”.
foto di gruppo del Progetto PANACEA
Testo e foto dall’Unità Comunicazione Istituzionale dell’Università di Pisa.