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Conchiglie fossili: testimoni che raccontano i cambiamenti climatici del tempo profondo; conchiglie fossili di brachiopodi dall’Iran permettono di studiare i cambiamenti climatici dopo l’estinzione di fine Permiano Medio

Un team di ricercatori dell’Università Statale di Milano ha analizzato dal punto di vista geochimico conchiglie fossili di brachiopodi provenienti dall’Iran, che si sono dimostrate preziosi archivi di dati per aiutare a ricostruire le temperature delle acque marine nel Paleozoico. Questo studio, pubblicato su Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology, ci può fornire importanti strumenti per comprendere gli attuali cambiamenti climatici e le loro conseguenze.

Milano, 6 febbraio 2025 – Com’era il clima nel passato remoto? Quali cambiamenti si sono verificati e con quali conseguenze ambientali?

Le risposte a queste domande sono state trovate in quelli che si possono definire veri e propri bioarchivi fossili: le conchiglie dei brachiopodi. A dimostrarne l’efficacia come strumento per comprendere le variazioni climatiche del passato è uno studio multidisciplinare condotto da un team di ricercatori dell’Università Statale di Milanodell’Università degli Studi di Ferrara, dell’Università di St. Andrews in Scozia e dell’Università Ludwig Maximilian di Monaco pubblicato su “Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology”.

Gli scienziati hanno analizzato alcune conchiglie fossili di brachiopodi provenienti dall’Iran, e in questo modo sono riusciti a ricostruire le variazioni stagionali di temperatura delle acque marine avvenute 260 milioni di anni fa, durante il Paleozoico. Un’era geologica (570-245 milioni di anni fa) che ha registrato drammatici cambiamenti ambientali e climatici e alcune delle più letali estinzioni di massa e per questo motivo di fondamentale importanza per gli studi paleoclimatici.

Conchiglie fossili di brachiopodi dall’Iran permettono di studiare i cambiamenti climatici dopo l’estinzione di fine Permiano Medio. Gallery

In particolare lo scopo della ricerca è stato quello di studiare la durata della fase fredda avvenuta dopo l’estinzione di fine Permiano Medio (circa 260 milioni di anni fa), causata da intensa attività vulcanica nell’attuale Cina meridionale, e di analizzare la risposta dei brachiopodi al raffreddamento climatico.

I brachiopodi, oggi rappresentati da qualche centinaio di specie, ma particolarmente diffusi e abbondanti nel Paleozoico, producono una conchiglia incorporando gli elementi chimici presenti nell’acqua del mare. Questi elementi possono quindi essere analizzati per ricostruire le condizioni ambientali e climatiche in cui questi animali hanno vissuto” spiega Marco Viaretti ricercatore presso il Dipartimento di Scienze della Terra Ardito Desio dell’Università Statale di Milano e primo autore dello studio.

Attraverso un approccio multidisciplinare volto a verificare lo stato di conservazione delle conchiglie e mediante la raccolta di polveri attraverso un campionamento ad alta risoluzione lungo le linee di accrescimento delle conchiglie, il team ha misurato i rapporti isotopici dell’ossigeno e del carbonio registrato dalle conchiglie. Gli isotopi dell’ossigeno, infatti, forniscono importanti informazioni per ricostruire le temperature dei mari del passato. Grazie all’approccio utilizzato in questo studio, è stato possibile ricostruire i cambiamenti stagionali di temperatura dell’acqua marina registrati dalle conchiglie su scala annuale.

Le analisi isotopiche hanno permesso di definire la durata della fase fredda post-estinzione, pari a circa 2 milioni di anni e di indentificare un’alta variazione stagionale. Successivamente alla fase fredda, le conchiglie hanno registrato la presenza di condizioni climatiche più calde caratterizzate da una bassa variazione stagionale. Le associazioni di brachiopodi si sono dimostrate particolarmente resilienti al raffreddamento climatico e non hanno registrato significativi cambiamenti di biodiversità.

Si tratta di uno studio straordinario poiché non solo ha permesso di ricostruire le variazioni stagionali di temperatura delle acque marine avvenute 260 milioni di anni fa, ma anche dimostra le potenzialità dei brachiopodi come archivi di cambiamenti climatici del passato” aggiunge Viaretti.

Le metodologie impiegate in questo studio potranno costituire un punto di partenza per l’analisi di altri intervalli del tempo geologico caratterizzati da variazioni del clima e offrire strumenti preziosi per comprendere meglio i cambiamenti climatici attuali e il loro impatto sugli ecosistemi e sulla biodiversità” conclude Lucia Angiolini, docente del Dipartimento di Scienze della Terra Ardito Desio dell’Università degli Studi di Milano.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano.

Repistat: individuata una nuova molecola capace di rallentare la progressione della retinite pigmentosa

L’Università di Pisa partner dello studio che ha guadagnato la copertina del Journal of Medicinal Chemistry.

Si chiama REPISTAT, è una nuova molecola capace di rallentare la progressione della retinite pigmentosa, una rara patologia genetica che può portare negli anni alla totale cecità. La scoperta arriva da uno studio, che si è guadagnato la copertina del Journal of Medicinal Chemistry. A progettare e sintetizzare la molecola è stato un gruppo di ricerca di chimica farmaceutica dell’Ateneo di Siena in collaborazione, per le prove biologiche, con il Dipartimento di Farmacia dell’Ateneo pisano, e con l’Istituto di Neuroscienze del CNR – Pisa, la University College London e l’Università di Ferrara.

La sperimentazione è stata condotta in vitro e su modelli animali e la speranza è che in futuro REPISTAT possa essere alla base della formulazione di un nuovo farmaco, magari un collirio, capace di ritardare l’evoluzione della malattia.

“La retinite pigmentosa è una rara malattia genetica tuttora priva di una cura risolutiva, a causarla sono circa 200 mutazioni su una sessantina di geni, la cura più efficace è la terapia genica, con costi altissimi però, tanto che sono state attualmente sviluppate delle terapie solo per due mutazioni – spiega la professoressa Ilaria Piano del Dipartimento di Farmacia dell’Università di Pisa – ci sono tuttavia degli elementi che accomunano tutte le forme di retinite pigmentosa, come ad esempio i processi infiammatori, ossidativi o l’apoptosi, cioè il meccanismo che regola la morte programmata delle cellule. La molecola che abbiamo sviluppato è in grado di agire come modulatore epigenetico e attraverso questo meccanismo interviene proprio su questi processi aprendo un’opportunità per trattare su larga scala i pazienti, indipendentemente dalla mutazione genica”.

La ricerca è frutto di RePiSTOP, un progetto di ricerca di interesse nazionale del 2022 finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca.

Link articolo scientifico “Targeting Relevant HDACs to Support the Survival of Cone Photoreceptors in Inherited Retinal Diseases: Identification of a Potent Pharmacological Tool with In Vitro and In Vivo Efficacy”, Journal of Medicinal Chemistry, DOI10.1021/acs.jmedchem.4c00477

J. Med. Chem. 2024, 67, 17, 14946–14973, Link:https://doi.org/10.1021/acs.jmedchem.4c00477
Pubblicato il 4 Luglio 2024
Copyright © 2024 American Chemical Society
J. Med. Chem. 2024, 67, 17, 14946–14973, Link:
https://doi.org/10.1021/acs.jmedchem.4c00477
Pubblicato il 4 Luglio 2024
Copyright © 2024 American Chemical Society

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa

JWST CATTURA LE GALASSIE CHE HANNO REIONIZZATO L’UNIVERSO

Un team internazionale di ricercatrici e ricercatori guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha studiato 29 galassie ai primordi dell’universo, stimando per la prima volta la frazione di luce da esse rilasciata in grado di ionizzare il gas circostante. Questo lavoro è stato reso possibile grazie al telescopio spaziale JWST e l’aiuto di un massiccio ammasso di galassie che, come una lente, ha amplificato la luce proveniente dalle galassie ancora più distanti.

Le prime stelle e galassie nella storia dell’universo, nate oltre tredici miliardi di anni fa, quando il cosmo aveva solo poche centinaia di milioni di anni d’età, si sono formate a partire da una miscela di gas neutro, costituito principalmente da atomi di idrogeno. La radiazione energetica proveniente da queste prime stelle e galassie ha poi contribuito, nelle centinaia di milioni di anni seguenti, a trasformare questo gas e ionizzarlo, cioè scinderlo in elettroni e protoni. Gli astronomi la chiamano “reionizzazione” poiché durante questa fase il mezzo intergalattico che pervade l’universo, da neutro, torna a essere ionizzato come lo era nel cosmo primordiale. Non è però ancora chiaro quali galassie abbiano contribuito maggiormente a reionizzare il mezzo intergalattico nei primi stadi di questo processo, né quale percentuale di fotoni – le particelle di luce – con energie sufficienti a ionizzare il gas circostante sia fuoriuscita dai diversi tipi di galassie presenti all’epoca.

JWST CATTURA LE GALASSIE CHE HANNO REIONIZZATO L’UNIVERSO
JWST cattura le galassie che hanno reionizzato l’universo. JWST-Abell-2744: L’ammasso di galassie Abell 2744, chiamato anche Ammasso di Pandora, osservato con il telescopio spaziale Webb. L’ammasso agisce da lente gravitazionale, amplificando la luce proveniente da sorgenti più distanti e permettendo di rilevare galassie tra le prime a formarsi nella storia dell’universo. Crediti: NASA, ESA, CSA, I. Labbe (Swinburne University of Technology), R. Bezanson (University of Pittsburgh), A. Pagan (STScI)

Con il suo specchio dal diametro di 6,5 metri e la sensibilità osservativa nella banda infrarossa, il James Webb Space Telescope (JWST), osservatorio spaziale della NASA in collaborazione con ESA e CSA, può spingersi indietro nel tempo fino alle galassie più distanti, tra le prime a formarsi nella storia dell’universo. Il progetto GLASS, una collaborazione internazionale di ricercatrici e ricercatori in 24 istituti di ricerca e università tra Italia, Stati Uniti, Giappone, Danimarca, Australia, Cina e Slovenia, che utilizza JWST per cercare risposta ai quesiti ancora aperti sulla reionizzazione cosmica, ha recentemente pubblicato un nuovo articolo a guida italiana sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

“Abbiamo studiato, tramite osservazioni spettroscopiche e fotometriche ottenute con JWST, 29 galassie lontane e siamo riuscite a misurare in maniera indiretta le loro capacità ionizzanti, dato che a distanze così elevate non è possibile osservare direttamente i fotoni di così alta energia che sono quelli che hanno portato alla reionizzazione del mezzo intergalattico”, spiega la prima autrice del nuovo articolo Sara Mascia, dottoranda in Astronomy, Astrophysics and Space Science all’Università di Roma Tor Vergata, che porta avanti la sua ricerca presso l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF). “Questo studio dimostra la capacità di JWST non solo di trovare le galassie più distanti ma anche di svelarne le proprietà fisiche.”

La luce proveniente da queste galassie, catturata con gli strumenti NIRCam e NIRSPec a bordo di JWST, è stata emessa quando l’universo aveva un’età compresa tra circa 650 milioni e 1,3 miliardi di anni. Prima di queste osservazioni, le proprietà ionizzanti di queste lontanissime galassie erano ignote, soprattutto per quanto riguarda le galassie di piccola massa, molto difficili da studiare.

“Abbiamo stimato per la prima volta la capacità ionizzante delle galassie nell’epoca della reionizzazione: in particolare, siamo riusciti a stimare quanti fotoni ionizzanti fuoriescono dalle galassie di piccola massa grazie all’effetto di lente gravitazionale da parte di Abell 2744, un ammasso di galassie che si trova tra noi e le galassie distanti e amplifica il loro segnale”,

aggiunge Laura Pentericci, ricercatrice INAF a Roma e co-autrice del nuovo lavoro.

“I nostri risultati indicano che oltre l’80 percento delle galassie osservate contribuisce in maniera significativa alla reionizzazione.”

Nuove osservazioni che saranno realizzate prossimamente con JWST estenderanno questa analisi a campioni più grandi di galassie, includendo quelle con masse più elevate o più distanti. Lo scopo è di determinare se la maggior parte dei fotoni che hanno contribuito a reionizzare l’universo sia stata fornita da galassie più massicce e luminose di quelle osservate oppure se, come ritenuto dai principali modelli attuali, il contributo maggiore sia dovuto alle galassie più deboli, molto più numerose.


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Closing in on the sources of cosmic reionization: first results from the GLASS-JWST program”, di S. Mascia, L. Pentericci, A. Calabrò, T. Treu, P. Santini, L. Yang, L. Napolitano, G. Roberts-Borsani, P. Bergamini, C. Grillo, P. Rosati, B. Vulcani, M. Castellano, K. Boyett, A. Fontana, K. Glazebrook, A. Henry, C. Mason, E. Merlin, T. Morishita, T. Nanayakkara, D. Paris, N. Roy, H. Williams, X. Wang, G. Brammer, M. Bradac, W. Chen, P. L. Kelly, A. M. Koekemoer, M. Trenti, R. A. Windhorst, è stato pubblicato online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

 

Allo studio hanno partecipato anche ricercatori delle università di Ferrara e Statale di Milano.

Testo e immagine dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

AMMASSI STELLARI: UN MILIARDO D’ANNI DI STORIA COSMICA RICOSTRUITO AL COMPUTER

Un team guidato da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica ha realizzato una simulazione dell’evoluzione di una remota regione di formazione stellare che riesce a descrivere con un livello di dettaglio mai raggiunto prima la sua storia, per un intervallo di tempo di quasi un miliardo di anni.

Ammassi stellari: un miliardo d’anni di storia cosmica ricostruito al computer. Pannello (a): mappa di densità della materia oscura centrata nel punto della simulazione in cui si formano le prime stelle (a redshift 15.95, corr. a 250 Myr di età dell’Universo). Il primo aggregato stellare è indicato dal quadrato blu. Pannello (b): mappa di densità del gas centrata nel punto In cui si formano le prime stelle. Le prime stelle sono indicate dal quadrato bianco, mentre le frecce rappresentano il campo di velocità del gas. Pannello (c): ingrandimento della regione corrispondente al quadrato bianco nel pannello (b), in cui le prime stelle sono indicate dai simboli neri. È visibile la ‘bubble’, ovvero la cavita’ generata dall’energia rilasciata dalle prime stelle massicce, circondata da un ‘guscio’ denso di gas. Pannello (d): mappa di temperatura della stessa regione riportata nel pannello (c),
in cui si nota la alta temperatura interna della ’bubble’ generata dalle prime stelle massicce. Crediti: F. Calura / MNRAS 2022

Studiare una lontanissima porzione di universo, simulandone l’evoluzione per i primi 900 milioni di anni dal Big Bang segnata dal ciclo completo di stelle di grande massa e ricavando le sue proprietà fisiche con un livello di dettaglio dell’ordine di un anno luce, un’accuratezza mai raggiunta prima per questo tipo di studi. A riuscire in questo compito è stato un gruppo internazionale di ricercatori guidato da Francesco Calura, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) a Bologna e a cui hanno partecipato anche colleghi delle Università degli Studi di Milano Bicocca e Ferrara.

“Le nostre simulazioni sono le prime ad includere un modello dell’emissione di energia e massa nel mezzo interstellare di stelle singole in contesto cosmologico e con codice a griglia” dice Calura. “Questo significa che il nostro codice è stato in grado di modellare l’esplosione di ogni singola supernova mai nata, mentre in simulazioni più tradizionali il feedback stellare, ovvero l’immissione di energia e materia nel mezzo circostante, veniva modellato considerando le stelle come particelle macroscopiche, che rappresentano intere popolazioni stellari e quindi insiemi molto più grandi di stelle e di supernovae, perdendo così informazioni preziose su processi e interazioni che avvengono su scale dell’ordine di qualche anno luce”.

Le simulazioni permettono di studiare i processi di formazione stellare di una determinata porzione di universo per una lunga frazione della storia cosmica e con una risoluzione mai così alta in contesto cosmologico. I ricercatori sono stati in grado di ricostruire in modo molto accurato la distribuzione della materia in condizioni di alta densità e pressione, proprietà tipiche del mezzo turbolento presente nelle nubi molecolari da cui si formano le stelle. Ma c’è di più. Le simulazioni sono in grado di riuscire a riprodurre i dettagli fisici delle ‘bolle’ (bubbles, in inglese) generate anche da poche singole stelle massicce, le maggiori responsabili del ‘feedback’ stellare.

La realizzazione di queste nuove e dettagliate simulazioni, i cui risultati sono stati appena pubblicati in un articolo della rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, è stata possibile combinando un nuovo metodo per l’implementazione del feedback stellare, molto sofisticato, con l’utilizzo di un Supercomputer di ultimissima generazione, il BigRed200 dell’Università dell’Indiana (USA).

 “Il nostro lavoro rappresenta una diramazione teorica di un progetto ad elevata leadership INAF che coinvolge esperti di ammassi globulari, galassie ad alto redshift e lensing gravitazionale, che ha permesso la scoperta di sistemi ultra-densi nell’Universo remoto, evento che ha dato il via al programma” ricorda Calura.

“Le nostre simulazioni hanno una valenza importante perché ci forniscono informazioni per rispondere ad uno dei più’ grandi e datati quesiti dell’Astrofisica, ovvero la comprensione teorica della formazione degli ammassi globulari in contesto cosmologico – prosegue Calura. La nostra ignoranza riguardo ai processi fisici che avvengono in questi sistemi è molto grande, ed il nostro limite è rappresentato dalla scala più piccola che siamo in grado di sondare. Grazie alle nostre simulazioni siamo in grado di fornire una descrizione fisica di tutto ciò che accade su scale dell’ordine di un anno luce o addirittura meno. La ricaduta di questi risultati è notevole, poiché il telescopio spaziale James Webb sta aumentando in modo impressionante la statistica dei sistemi compatti come quelli che abbiamo studiato nelle nostre simulazioni”.

“Le simulazioni da noi sviluppate rappresentano un punto di partenza su cui costruire modelli ancora più dettagliati e sofisticati, impensabili fino a qualche anno fa e destinati a sostituire gli attuali “zoom” focalizzati su galassie singole, che hanno tipicamente risoluzione di qualche decina di anni luce e, quindi, inadatte a modellare strutture di dimensione di qualche centinaio di anni luce, in realtà già osservabili con il James Webb anche senza l’aiuto del fenomeno delle lenti gravitazionali” conclude Alessandro Lupi, ricercatore presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca e associato INAF.

Per maggiori informazioni:

I risultati della simulazione sono stati pubblicati nell’articolo “Sub-parsec resolution cosmological simulations of star-forming clumps at high redshift with feedback of individual stars” di F. Calura, A. Lupi, J. Rosdahl, E. Vanzella, M. Meneghetti, P. Rosati, E. Vesperini, E. Lacchin, R. Pascale e R. Gilli sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

Testo e foto dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

Cardiopatia ischemica: il ruolo degli ormoni sessuali
Uno studio italiano, a cui partecipano i ricercatori della Sapienza, ha valutato l’impatto dei livelli di testosterone e di estradiolo sull’attivazione delle piastrine del sangue, processo direttamente collegato al rischio di eventi coronarici acuti. I risultati del lavoro, condotto su un campione di oltre 400 pazienti di entrambi i sessi, sono stati pubblicati sulla rivista Journal of Endocrinological Investigation.

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Arterie coronariche. Immagine di BruceBlaus, CC BY 3.0

La prevenzione della cardiopatia ischemica, patologia a carico delle arterie coronariche che portano sangue al cuore, ha fatto passi da gigante negli ultimi decenni, permettendo una notevole riduzione dei tassi di eventi acuti, che vanno dall’infarto alla morte. Tuttavia, l’incidenza mondiale di cardiopatia ischemica è ancora molto elevata.

La malattia colpisce entrambi i sessi, ma spesso con una fisiopatologia, sintomatologia e risposta alle terapie molto diversa: per tale ragione gli attributi biologici sono stati rivendicati come i principali fattori di queste differenze, canalizzando l’attenzione sul possibile ruolo degli ormoni sessuali.

Lo studio italiano EVA (Endocrine Vascular Disease Approach) coordinato da un team di ricercatori della Sapienza e condotto su 434 soggetti con cardiopatia ischemica, ospedalizzati e sottoposti a coronarografia e/o a intervento di angioplastica, ha valutato l’impatto degli ormoni sessuali maschili (testosterone) e femminili (estradiolo) sulla fisiopatologia e sulla gravità della patologia coronarica e in particolare sull’attivazione delle piastrine del sangue, direttamente associate al rischio di eventi coronarici acuti.

Lo studio, iniziato nel 2015 con un finanziamento del Ministero dell’Università e ricerca – MUR nell’ambito dei progetti per i giovani ricercatori (SIR), vinto da Valeria Raparelli del Dipartimento di Medicina sperimentale della Sapienza e ora afferente all’Università di Ferrara, ha coinvolto oltre all’Ateneo romano altre università italiane (Ferrara e Milano), inglesi (Liverpool) e canadesi (Alberta e McGill).

I risultati dello studio EVA, pubblicati sulla rivista Journal of Endocrinological Investigation, hanno messo in evidenza come un basso rapporto tra testosterone ed estradiolo si associ in entrambi i sessi a un aumentato rischio di mortalità nei due anni successivi la valutazione. Inoltre è stato visto come da tale relazione dipenda una maggiore attività delle piastrine.

Alla luce del ruolo chiave dell’attivazione piastrinica sul rischio di eventi acuti coronarici, la correlazione con il rapporto tra testosterone ed estradiolo apre nuovi orizzonti di ricerca: questi risultati suggeriscono l’utilità di valutare gli ormoni sessuali in entrambi i sessi per la pianificazione di nuove strategie terapeutiche che tengano anche conto dell’equilibrio ormonale di ciascun individuo affetto da cardiopatia ischemica.

 

Riferimenti:

Testosterone-to-estradiol ratio and platelet thromboxane release in ischemic heart disease: the EVA project – V. Raparelli, C. Nocella, M. Proietti, G. F. Romiti, B. Corica, S. Bartimoccia, L. Stefanini, A. Lenzi, N. Viceconte, G. Tanzilli, V. Cammisotto, L. Pilote, R. Cangemi, S. Basili, R. Carnevale, EVA Collaborators.

J Endocrinol Invest. 2022  doi: 10.1007/s40618-022-01771-0

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

CHI VACILLA NELLA DECISIONE DI VACCINARSI CONTRO IL COVID-19? COMPORTAMENTO OPPORTUNISTICO E RILUTTANZA A VACCINARSI

In uscita nel prossimo volume di «Preventive Medicine» uno studio del gruppo COMIT (COvid Monitoring in Italy) sull’incertezza di fronte alla vaccinazione contro il COVID-19 in un campione rappresentativo della popolazione italiana. Identificare chi è più incerto nelle proprie intenzioni consente di pianificare strategie specifiche per migliorare l’adesione vaccinale.

vacilla decisione vaccinazione vaccinarsi COVID-19
Chi vacilla nella decisione di vaccinarsi contro il COVID-19? Immagine di Gerd Altmann

L’indagine è parte di uno studio multinazionale in corso in 30 paesi europei promosso e coordinato dall’Ufficio Regionale per l’Europa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per monitorare la conoscenza, la percezione del rischio, la fiducia e i comportamenti preventivi durante la pandemia di COVID-19. In Italia il progetto è stato denominato COMIT (COvid Monitoring in Italy) ed è coordinato da Giovanni de Girolamo dell’IRCSS Fatebenefratelli di Brescia, da Gemma Calamandrei dell’Istituto Superiore di Sanità e da Fabrizio Starace dell’AUSL di Modena, che si sono avvalsi della collaborazione di Lorella Lotto del Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione dell’Università di Padova. La recente pubblicazione riguarda i dati raccolti in un campione di 5.006 partecipanti arruolati tra gennaio e febbraio 2021 e si è concentrata sui fattori in grado di predire l’indecisione nei confronti della vaccinazione contro il COVID-19.

Come racconta Giovanni de Girolamo – psichiatra responsabile dell’Unità Operativa di Psichiatria Epidemiologica e Valutativa dell’IRCCS Fatebenefratelli “Quando l’ufficio regionale Europeo dell’OMS ha promosso questo studio mi sono subito impegnato per promuoverlo anche in Italia perché era essenziale valutare le problematiche psicosociali innescate dalla pandemia da COVID-19. La parte italiana dello studio, che abbiamo chiamato COMIT (COvid Monitoring in Italy), è stata possibile grazie ad un finanziamento della Fondazione CARIPLO e dell’IRCCS Fatebenefratelli di Brescia, che hanno consentito di reclutare un campione rappresentativo della popolazione italiana; il campionamento e la rilevazione sono stati effettuati dalla Doxa, azienda leader nel campo delle indagini sociali. Si tratta di un progetto ampio e questo è il primo di una serie di risultati interessanti al quale ha portato, grazie anche alla collaborazione con esperti multidisciplinari.”

Lorella Lotto

“Fin dalle prime fasi della campagna vaccinale ci siamo chiesti quanto fosse solida l’intenzione di vaccinarsi nella popolazione e chi sarebbe stato più a rischio di ripensamenti o di ritardare la vaccinazione” – spiega Lorella Lotto, professoressa ordinaria del Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione dell’Università di Padova,  che con il gruppo di ricerca del JDM Lab (Judgement and Decision Making Laboratory) si occupa da tempo di studiare i processi di decisione in molteplici ambiti, incluso l’ambito vaccinale.

Marta Caserotti

Del gruppo di ricerca fanno parte anche le prime autrici del lavoro Marta Caserotti (assegnista di ricerca) e Teresa Gavaruzzi (ricercatrice) dell’Università di Padova che spiegano:

“Pensando all’evoluzione dei contagi e della campagna vaccinale, due aspetti potevano contribuire a fare “vacillare” le persone relativamente all’intenzione di vaccinarsi: da una parte avevamo ipotizzato che coloro che si contagiano sviluppando sintomi lievi potessero sottovalutare la potenziale gravità della malattia. Dall’altra, prosegue Caserotti, abbiamo ipotizzato che l’aumento della copertura vaccinale nella popolazione, comportando una riduzione nella circolazione del virus, potesse ridurre la percezione del rischio in coloro che nutrivano dubbi riguardo alla vaccinazione e che, in modo più o meno intenzionale, ciò potesse portare ad ‘approfittare’ opportunisticamente del comportamento altrui, sfruttando la cosiddetta ‘immunità di gregge’”.

Teresa Garavuzzi

“I risultati principali dello studio, che ha coinvolto oltre 5.000 Italiani, hanno messo in luce i fattori che predicono l’incertezza nei riguardi della vaccinazione.” Come illustra Gavaruzzi – “I risultati di una serie di modelli statistici (di cui si è occupato Paolo Girardi, ricercatore dell’Università di Padova) dimostrano che sia coloro che propendono per un atteggiamento opportunistico sia coloro che si dicono riluttanti a vaccinarsi nel caso dovessero risultare positivi al COVID-19 sono maggiormente propensi nei confronti della vaccinazione quando sono: più favorevoli in generale alle vaccinazioni, adottano le misure di salute pubblica raccomandate, hanno fiducia nelle fonti istituzionali che si occupano di problemi sanitari (Ministero della Salute, ISS, OMS), e hanno maggiori  capacità  di resilienza (hanno cioè maggiori capacità di fronteggiare eventi stressanti).  Invece ‘vacillano’ maggiormente coloro che si avvalgono spesso o molto spesso di informazioni provenienti dai media e tendono a spiegare gli eventi attraverso teorie di tipo cospirazionista. Inoltre, le donne e le persone più giovani sono più riluttanti a vaccinarsi nel caso in cui dovessero risultare positivi al COVID-19, mentre chi ha un’elevata scolarizzazione tende ad essere meno propenso ad approfittare della vaccinazione altrui.”

Gli autori concludono che “questi risultati possono essere visti come pezzi di un puzzle complesso nel quale non si possono ignorare gli aspetti psicologici” e si augurano che “il monitoraggio dell’esitazione vaccinale e dei suoi determinanti psicologici possano entrare a fare parte della normale pianificazione sanitaria, al di là della pandemia, in modo da consentire interventi mirati e tempestivi nel caso di nuovi eventi epidemici.”

Link alla ricerca: https://doi.org/10.1016/j.ypmed.2021.106885

Titolo: “Who is likely to vacillate in their COVID-19 vaccination decision? Free-riding intention and post-positive reluctance” «Preventive Medicine» – 2022.

Autori: Marta Caserotti*a, Teresa Gavaruzzi*a, Paolo Girardia, Alessandra Tassob, Chiara Buizzac, Valentina Candinic, Cristina Zarboc, Flavia Chiarottid, Sonia Brescianinid, Gemma Calamandreid, Fabrizio Staracee, Giovanni de Girolamo*c, Lorella Lotto*a (*stesso contributo)

Affiliazioni: aUniversità di Padova; bUniversità di Ferrara; cIRCSS Fatebenefratelli; dIstituto Superiore di Sanità; eAUSL Modena.

Sito del progetto: https://studiocovidoms.it/

Sito del JDM Lab: https://jdmlab.dpss.psy.unipd.it

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università di Padova.

Il Carbonio controlla la profondità di genesi dei magmi nel mantello superiore della Terra

In un nuovo studio (https://www.nature.com/articles/s41561-021-00797-y), pubblicato sulla rivista Nature Geoscience (https://www.nature.com/ngeo/), un team di ricercatori italiani guidato da Alessandro Aiuppa (Università di Palermo) e che vede fra i co-autori Federico Casetta (Università di Ferrara), Massimo Coltorti (Università di Ferrara), Vincenzo Stagno (Sapienza Università di Roma) e Giancarlo Tamburello (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Sezione di Bologna), ha sviluppato un nuovo approccio per ricostruire la quantità di Carbonio immagazzinato nel mantello superiore della terra, dalla cui fusione sono segregati i magmi.

Il Carbonio, il quarto elemento più abbondante in termini di massa nell’universo, è un elemento chiave per la vita. Il suo ricircolo, da e verso l’interno della Terra, regola i livelli di CO2 nell’atmosfera, giocando quindi un ruolo fondamentale nel rendere il nostro pianeta abitabile. Il Carbonio è un elemento unico, perché può essere immagazzinato nelle profondità della Terra in varie forme: all’interno di fluidi, come componente di fasi minerali, oppure disciolto nei magmi. Si ritiene, inoltre, che il Carbonio giochi un ruolo chiave nella geodinamica terrestre, in quanto questo elemento è in grado di controllare i processi di fusione che avvengono mantello superiore. Vista la sua tendenza ad essere incorporato nei magmi prodotti per fusione delle rocce peridotitiche nel mantello superiore, il Carbonio è facilmente trasportato verso la superficie terrestre, ove viene poi rilasciato come CO2 nelle emissioni gassose di vulcani attivi o quiescenti. I magmi ed i gas derivati dal mantello sono, pertanto, i mezzi di trasporto più efficaci per portare il Carbonio verso l’idrosfera e l’atmosfera, dove gioca un ruolo primario nel controllo dei cambiamenti climatici su scala geologica.

Ma quanto Carbonio è immagazzinato all’interno della Terra?

Questa domanda ha ispirato ricerche in diversi ambiti delle geoscienze, che si sono avvalse di molteplici approcci empirici, quali lo studio dei gas emessi in aree vulcaniche, del contenuto in CO2 nelle lave eruttate lungo le dorsali medio-oceaniche e/o nelle inclusioni di magma all’interno dei cristalli, delle inclusioni fluide in xenoliti di mantello portati in superficie dai magmi, e le misure sperimentali sviluppate con lo scopo di comprendere la massima quantità di CO2 che può essere disciolta nei magmi a pressioni e temperature tipiche dell’interno della Terra. Sfortunatamente, questi approcci hanno portato spesso a conclusioni contrastanti, al punto che le stime sul contenuto di Carbonio del mantello (così come dell’intera Terra) divergono di più di un ordine di grandezza. Le “melt inclusions”, o inclusioni di magma, cioè piccole goccioline di fuso silicatico intrappolate nei cristalli al momento della loro formazione nei magmi, possono essere sorgenti di informazione uniche per quantificare il contenuto di Carbonio del mantello da cui i magmi stessi sono segregati. Tuttavia, il massivo rilascio di gas (degassamento), tra cui CO2, a cui i magmi sono soggetti durante la loro risalita verso la superficie (prima della loro messa in posto ed eruzione) ha rappresentato un fattore limitante nella comprensione delle variazioni di concentrazione di Carbonio nel mantello.

Nel loro studio, Aiuppa e co-autori hanno revisionato e catalogato i dati relativi al contenuto in CO2 (e zolfo) nei gas vulcanici emessi da 12 vulcani di hot-spot e di rifting continentale, i cui magmi sono generati da sorgenti mantelliche più profonde rispetto a quelle del mantello impoverito da cui derivano i magmi delle dorsali medio-oceaniche.

Gas magmatici ricchi in CO2 rilasciati dal degassamento del lago di lava a condotto aperto presso il vulcano Nyiragongo, Repubblica Democratica del Congo (foto di Sergio Calabrese, Università di Palermo)

I risultati ottenuti hanno permesso di comprendere che il mantello superiore (50-250 km di profondità) che alimenta il vulcanismo in aree di rifting continentale e di hot-spot contiene in media 350 parti per milione (ppm) di Carbonio (intervallo compreso tra 100 e 700 ppm di C). Questo ampio range conferma la visione di un mantello superiore fortemente eterogeneo, la cui composizione è stata variabilmente modificata, in tempi geologici, dall’infiltrazione di fusi carbonatici-silicatici generati in profondità. Le nuove stime ottenute da Aiuppa e co-autori indicano che il mantello superiore ha una capacità totale di Carbonio di circa ~1.2·1023 g. È possibile che la Terra, nelle sue porzioni interne, sia in grado di contenere ancora più Carbonio, come suggerito dai diamanti provenienti da profondità sub-litosferiche (fino a 700 km), i quali mostrano evidenze dell’esistenza di minerali e fusi che contengono significative quantità di C.

In aggiunta, il team di ricercatori ha stimato che il contenuto di Carbonio aumenta con la profondità di fusione parziale nel mantello. Questa scoperta permette di validare i dati sperimentali, che suggeriscono come il Carbonio giochi un ruolo nel determinare percentuale e profondità di fusione parziale nelle sorgenti di mantello che alimentano i vulcani in aree di rift continentali e di hot-spot. I risultati ottenuti, indicando che le porzioni di mantello ricche in Carbonio fondono più in profondità rispetto a porzioni povere in Carbonio, confermano il ruolo di primaria importanza giocato da questo elemento nel guidare i cicli geodinamici.

Aumento della concentrazione di Carbonio con la profondità di fusione nel mantello superiore terrestre. I magmi prodotti in contesti di Isole Oceaniche e di Rift Continentale sono alimentati da sorgenti di mantello più ricche in Carbonio rispetto alle porzioni di “Depleted MORB Mantle (DMM)”, cioè di mantello impoverito da cui sono prodotti i “Mid-Ocean Ridge Basalts (MORB)”, ovvero basalti di dorsale medio-oceanica

L’esistenza di un mantello ricco in Carbonio, evidenziata da Aiuppa e co-autori, ha profonde implicazioni rispetto alle modalità di immagazzinamento del Carbonio primordiale nel mantello, e per il suo riciclo nel tempo e nello spazio. I risultati ottenuti con questo studio sono anche importanti per comprendere le possibili variazioni nel ciclo geologico del Carbonio causate da eventi vulcanici di grande magnitudo, quali la messa in posto delle “Large Igneous Provinces (LIP)”, o grandi province ignee. Se i magmi prodotti dai “plume”, o pennacchi, di mantello sono ricchi in Carbonio, come suggerito da questo studio, allora il rilascio di Carbonio dalle grandi province ignee nel Fanerozoico può aver contribuito a causare le estinzioni di massa, le cui tracce sono preservate nei record sedimentari in tutto il mondo.

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Sezione schematica dall’Oceano Atlantico all’Oceano Indiano (passando attraverso il cratone Africano), che mostra le variazioni nelle concentrazioni di Carbonio ricostruite nelle sorgenti di mantello da cui sono prodotti i magmi delle Isole Oceaniche e dei Rift Continentali

Il Carbonio controlla la profondità di genesi dei magmi nel mantello superiore della Terra

CITAZIONE

Alessandro Aiuppa, Federico Casetta, Massimo Coltorti, Vincenzo Stagno and Giancarlo Tamburello (2021), Carbon concentration increases with depth of melting in Earth’s upper mantle, Nature Geoscience, https://doi.org/10.1038/s41561-021-00797-y

La ricerca è stata finanziata dal Deep Carbon Observatory (https://deepcarbon.net/) e dal Miur, Progetto PRIN2017 Connect4Carbon (https://prin2017.wixsite.com/connectforcarbon)

Il Carbonio controlla la profondità di genesi dei magmi nel mantello superiore della Terra. Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma, Università di Palermo, Università di Ferrara, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia.