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KEPLER-10c: UN PIANETA DI ACQUA SVELATO DAI CIELI DELLE CANARIE

Un team guidato dall’INAF ha misurato con grande precisione la massa del pianeta Kepler-10c, definendolo come un possibile mondo in gran parte composto da ghiaccio di acqua. Lo studio, pubblicato oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics e realizzato grazie ai dati raccolti dallo spettrografo HARPS-N installato al Telescopio Nazionale Galileo, ha permesso anche di confermare la presenza di un altro pianeta nel sistema di Kepler-10, fornendo nuove informazioni per comprendere la formazione dei pianeti e le origini del nostro Sistema solare.

Un team internazionale guidato da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha determinato la massa e la densità del pianeta Kepler-10c con precisione e accuratezza senza precedenti. Grazie a circa 300 misure di velocità radiale raccolte con lo spettrografo High Accuracy Radial velocity Planet Searcher for the Northern hemisphere (HARPS-N) installato al Telescopio Nazionale Galileo (TNG) che scruta il cielo dalle Isole Canarie, è stato possibile stimarne la sua composizione – in gran parte di acqua allo stato solido ma forse anche liquido – e capire come si possa essere formato. Lo studio è stato pubblicato oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Kepler-10 è un sistema esoplanetario storico: ospita Kepler-10b, la prima super-Terra rocciosa scoperta dalla missione spaziale Kepler della NASA con un periodo orbitale inferiore al giorno terrestre, e Kepler-10c, un pianeta con un periodo orbitale di 45 giorni, classificato come sub-Nettuno, ovvero un pianeta con raggio e massa inferiori a quelli di Nettuno. Per anni, la massa di Kepler-10c è stata oggetto di grande incertezza: stime discordanti avevano reso difficile capire di cosa fosse fatto.

I dati acquisiti con HARPS-N sono stati elaborati con un nuovo metodo che corregge per effetti strumentali e variazioni dell’attività magnetica della stella madre, anche se di bassa intensità, e sono stati analizzati indipendentemente da tre gruppi dentro il team, raggiungendo gli stessi risultati. Questo lavoro ha permesso di capire che probabilmente Kepler-10c è un water world, ovvero un pianeta con gran parte della sua massa in acqua allo stato solido (ghiaccio) e forse, in piccola percentuale, anche liquido. I ricercatori ritengono che il pianeta si sia formato oltre la cosiddetta linea di condensazione dell’acqua a circa due o tre unità astronomiche dalla sua stella, e che poi si sia progressivamente avvicinato fino alla sua attuale orbita.

Ma non è tutto: il team ha anche confermato l’esistenza di un terzo pianeta, non visibile nei transiti ma rivelato per una piccola anomalia che esso induce sull’orbita di Kepler-10c, riscontrabile nelle  variazioni dei tempi di transito proprio del pianeta Kepler-10c, in modo analogo alla scoperta di Nettuno grazie alle anomalie osservate nell’orbita di Urano. Questo pianeta “fantasma” era stato ipotizzato in precedenza, ma solo ora è stato possibile determinarne in modo accurato il periodo orbitale di 151 giorni e la massa minima, grazie all’eccezionale qualità delle misure di velocità radiale HARPS-N.

“L’analisi delle velocità radiali e delle variazioni dei tempi di transito, dapprima singolarmente e poi in combinazione tra loro, ha dato dei risultati in ottimo accordo sui parametri del terzo pianeta; abbiamo così corretto precedenti stime inaccurate delle sue proprietà”, commenta Luca Borsato dell’INAF di Padova, secondo autore dell’articolo.

Aldo Bonomo dell’INAF di Torino, primo autore dell’articolo, aggiunge: “L’esistenza dei water world è stata prevista teoricamente dai modelli di formazione e migrazione planetarie, ma non ne abbiamo ancora una conferma certa. Tuttavia, una quindicina di pianeti attorno a stelle di tipo solare come Kepler-10c sembrano avere proprio la composizione prevista da questi modelli. La prova del nove dell’esistenza dei water world dovrebbe venire dallo studio delle loro atmosfere con il telescopio spaziale James Webb, perché ci aspettiamo che essi abbiano delle atmosfere particolarmente ricche di vapore acqueo”.

Lo studio del sistema Kepler-10 ci aiuta a capire come si formano i pianeti attorno alle loro stelle. Super-terre come Kepler-10b e sub-Nettuni come Kepler-10c, così comuni nella Galassia ma assenti nel nostro Sistema solare, rappresentano un tassello cruciale per comprendere la varietà dei mondi che orbitano attorno ad altre stelle. In particolare, studiare la composizione dei pianeti cosiddetti sub-nettuniani e capire se sono ricchi o poveri di ghiaccio, può fornire indicazioni non solo sulla loro origine, ma anche sulle prime fasi di formazione dei sistemi planetari e quindi del nostro stesso Sistema solare. Conoscere come e dove si formano questi pianeti e i loro moti di migrazione verso la loro stella, significa guardare indietro nel tempo per scoprire qualcosa in più sulle origini della Terra e forse anche  della vita.


 

Riferimenti Bibliografici:

L’articolo In-depth characterization of the Kepler-10 three-planet system with HARPS-N radial velocities and Kepler transit timing variations, di A. S. Bonomo, L. Borsato, V.M. Rajpaul, L. Zeng, M. Damasso, N.C. Hara, M. Cretignier, A. Leleu, N. Unger, X. Dumusque, F. Lienhard, A. Mortier, L. Naponiello, L. Malavolta, A. Sozzetti, D.W. Latham, K. Rice, R. Bongiolatti, L. Buchhave, A.C. Cameron, A.F. Fiorenzano, A. Ghedina, R.D. Haywood, G. Lacedelli, A. Massa, F. Pepe, E. Poretti e S. Udry è stato pubblicato online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

TOI-5398, IL PIÙ GIOVANE SISTEMA MULTI-PLANETARIO COMPATTO

Il pianeta gigante al suo interno risulta essere il miglior candidato per studi di caratterizzazione atmosferica con il telescopio spaziale James Webb tra tutti i giganti caldi conosciuti.

TOI-5398 b dal sito della NASA: https://exoplanets.nasa.gov/exoplanet-catalog/8661/toi-5398-b/

TOI-5398, una sigla che potrebbe non dirci molto eppure nasconde un record: si tratta del più giovane sistema multi-planetario “compatto”, in cui vi è la compresenza di un piccolo pianeta vicino alla stella assieme a un compagno planetario gigante con periodo orbitale di circa 10 giorni. Questo sistema è solamente il sesto con tale caratteristica compresenza tra i più di 500 sistemi che ospitano pianeti giganti a corto periodo. I dati relativi a questa conferma sono stati pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics da un gruppo guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica e dall’Università di Padova. Secondo gli autori dell’articolo, questo sistema è praticamente unico nel suo genere, potenzialmente una “pietra miliare” per lo studio e la comprensione dei pianeti giganti a corto periodo.

 Il Telescopio Nazionale Galileo (TNG) di INAF, un telescopio di 3,58 metri di diametro situato sulla sommità dell'isola di San Miguel de La Palma. Il TNG è il più importante strumento ottico della comunità astronomica italiana. Crediti: G. Mantovan/Università di Padova - INAF
Il Telescopio Nazionale Galileo (TNG) di INAF, un telescopio di 3,58 metri di diametro situato sulla sommità dell’isola di San Miguel de La Palma. Il TNG è il più importante strumento ottico della comunità astronomica italiana. Crediti: G. Mantovan/Università di Padova – INAF

Le misurazioni sono state ottenute con lo spettrografo HARPS-N al Telescopio Nazionale Galileo (TNG) di INAF alle Canarie (INAF) nell’ambito della collaborazione nazionale GAPS (Global Architecture of Planetary Systems). In questo studio, è stato inoltre fondamentale l’utilizzo di dati spaziali del Transiting Exoplanet Survey Satellite (TESS) della NASA, e del coordinamento di numerosi ricercatori ed osservatori astronomici sparsi in tutto il mondo.

TOI-5398 è di gran lunga il più giovane tra i cosiddetti sistemi “compatti”: 650 milioni di anni contro i 3-10 miliardi di anni degli altri sistemi. Un infante, si potrebbe dire. Inoltre, il pianeta maggiore nel sistema risulta il miglior candidato per studi di caratterizzazione atmosferica tramite il telescopio spaziale James Webb della NASA tra tutti i giganti caldi conosciuti. Per “giganti caldi” si intende pianeti giganti tra 10 e 100 giorni di periodo orbitale (inglese “warm giants”), da non confondere con gli “hot giants”, che possiedono periodi orbitali sotto i 10 giorni”.

TOI-5398 è costituito da un “sub-Nettuno” caldo (TOI-5398 c) orbitante internamente rispetto al suo compagno di massa simile a Saturno a corto periodo orbitale (TOI-5398 b).

“Tale studio – afferma Valerio Nascimbeni, ricercatore presso l’INAF di Padova – supporta una delle teorie di formazione dei pianeti giganti a corto periodo, la quale vede questi ultimi formarsi nelle regioni esterne del sistema e farsi spazio (in un sistema multi-planetario) tramite migrazioni ‘tranquille’, che prevengono il sovrapponimento delle orbite planetarie e della conseguente distruzione del sistema. Tale teoria risale al 1996, frutto di uno studio teorico guidato dal Prof. Lin dell’University of California, Santa Cruz, ma è da pochissimi anni che abbiamo un riscontro osservativo di simili sistemi (solo 5 su più di 500 sistemi con pianeti giganti a corto periodo mostra tale configurazione/architettura orbitale)”.

Gli altri cinque sistemi planetari con queste caratteristiche, ossia un’origine non violenta e la compresenza di piccoli pianeti assieme al pianeta gigante a corto periodo sono WASP-47, Kepler-730, WASP-132, TOI-1130, e TOI-2000. ovvero pianeti giganti tra 10 e 100 giorni di periodo orbitale (inglese “warm Jupiter”), da non confondere con gli “hot jupiter”, i quali possiedono periodi orbitali < 10 giorni.

TOI-5398, come detto, è solo il sesto sistema in questa ristrettissima cerchia e mostra una caratteristica molto particolare, perchè rispetto agli altri è giovanissimo. Giacomo Mantovan, primo autore dell’articolo e ricercatore del dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Padova nonché associato INAF, aggiunge:

“La sua formazione, infatti, anziché datare, come gli altri, fra i 3 e 10 miliardi di anni, viene misurata in circa 650 milioni di anni. Questo è l’aspetto eccezionale, perché tale sistema non si trova in una situazione congelata e definitiva come gli altri, ma è appunto giovane e quindi in evoluzione. Può offrire quindi nuove risposte rispetto all’evoluzione dei pianeti e della loro atmosfera”.

“Comprendere il processo di formazione e sviluppo dei pianeti giganti a corto periodo è di estrema importanza anche per la comprensione del Sistema solare, in quanto non esiste un corrispettivo planetario del nostro vicinato planetario. Per comprendere questa mancanza nel nostro sistema e le sue possibili implicazioni – ad esempio sulla presenza della vita – è fondamentale esaminare la storia di formazione di tali pianeti nei sistemi planetari in cui essi sono presenti”, prosegue il ricercatore.

Mantovan analizza gli sviluppi futuri di questa ricerca. “TOI-5398 è un interessante sistema in ottica futura, in quanto entrambi i pianeti del sistema sono candidati ideali per svolgere caratterizzazioni atmosferiche precise, ed anche grazie alla loro giovane età. L’unione di queste due proprietà ed alla presenza di due pianeti con differenti caratteristiche (raggio, massa, ecc), offre la rara opportunità di poter studiare i segni distintivi di differenti storie di formazione planetaria sotto l’influenza della stessa stella, solitamente inaccessibili in sistemi planetari più evoluti e vecchi”.

E conclude: “TOI-5398 potrebbe quindi potenzialmente diventare una pietra miliare per comprendere la formazione di sistemi planetari dove sono presenti giganti a breve periodo orbitale, e potrebbe diventare un punto di riferimento anche all’interno del limitatissimo sottocampione di sistemi ove sono presenti anche piccoli compagni planetari tra il gigante a corto periodo e la stella”.

 Il ricercatore Giacomo Mantovan, primo autore dell’articolo su TOI-5398 e ricercatore del dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Padova nonché associato INAF. Crediti: G. Mantovan/Università di Padova - INAF
Il ricercatore Giacomo Mantovan, primo autore dell’articolo su TOI-5398 e ricercatore del dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Padova nonché associato INAF. Crediti: G. Mantovan/Università di Padova – INAF


 

Per altre informazioni:

L’articolo “The GAPS programme at TNG XLIX. TOI-5398, the youngest compact multi-planet system composed of an inner sub-Neptune and an outer warm Saturn”, di G. Mantovan et al., è stato pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testo e immagini dagli Uffici Stampa  Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF e Università di Padova

L’ESOPIANETA TOI-1853b, IL NETTUNIANO SUPER-MASSICIO, UNA SCOPERTA CHE PORTA PIÙ DOMANDE CHE RISPOSTE

Scoperto da un team di scienziati internazionale guidato dall’Università di Roma Tor Vergata e da INAF un esopianeta dalle caratteristiche straordinarie – individuato grazie al satellite TESS della NASA e caratterizzato con il Telescopio Nazionale Galileo – le cui proprietà fisiche mettono in crisi le teorie convenzionali di formazione ed evoluzione planetarie. La ricerca pubblicata oggi su Nature.

Roma, 30 agosto 2023 – Si chiama TOI-1853b ed è estremamente peculiare: ogni 30 ore compie un giro completo intorno alla sua stella (la Terra impiega un anno per compiere un giro completo intorno al Sole), ha un raggio comparabile con quello di Nettuno (3,5 raggi terrestri, da cui il nome) ma una massa di circa quattro volte più grande (73 masse terrestri). Ciò gli conferisce il primato della densità più elevata fra gli esopianeti nettuniani noti ad oggi (circa 10 g/cm3, il doppio della densità della Terra). Distante 545 anni luce da noi, TOI-1853b si trova nella costellazione di Boote e la sua scoperta, pubblicata oggi su Nature, è stata realizzata da un team internazionale di ricercatori, guidato da Luca Naponiello, 31 anni, dottorando in Astrofisica all’università di Roma Tor Vergata e primo autore del lavoro. Diversi ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) hanno dato un contributo di fondamentale importanza allo studio.

Illustrazione artistica dell'esopianeta TOI-1853b. Crediti: L. Naponiello
Illustrazione artistica dell’esopianeta TOI-1853b. Crediti: Luca Naponiello

TOI-1853b si trova nel cosiddetto ‘deserto dei Nettuniani’, una regione vicina alle stelle in cui non si trovano pianeti delle dimensioni di Nettuno: ricevendo una forte irradiazione dalla stella, questi  pianeti non possono trattenere le loro atmosfere gassose che evaporano, lasciando così esposto un nucleo solido di dimensioni molto inferiori a quelle di Nettuno.

“In base alle teorie di formazione ed evoluzione planetaria, non ci si aspettava che potesse esistere un pianeta simile e così vicino alla sua stella”, commenta Naponiello. “È un pianeta con densità troppo elevata per essere un classico pianeta di tipo nettuniano e, di conseguenza, deve essere estremamente ricco di elementi pesanti”. La sua presenza nel ‘deserto dei Nettuniani’ è, dunque, un ulteriore mistero da chiarire.

Non si conosce esattamente la sua composizione. Naponiello aggiunge:

“Ci aspettiamo che TOI-1853b sia prevalentemente roccioso e circondato da un piccolo inviluppo gassoso di idrogeno ed elio che costituisce al più l’1% della massa del pianeta. Oppure, un’altra ipotesi molto affascinante è che possa essere composto per metà da rocce e per metà da ghiaccio di acqua. Data l’elevata temperatura del pianeta (circa 1500 gradi Kelvin), in questo secondo caso TOI-1853b potrebbe avere un’atmosfera ricca di vapore acqueo”.

“Anche la sua origine è un mistero dal momento che nessuno dei modelli teorici di formazione planetaria prevede che possa esistere un pianeta con tali caratteristiche”, dice Luigi Mancini, professore presso il dipartimento di Fisica dell’università di Roma Tor Vergata e secondo autore del lavoro. “Tuttavia, simulazioni numeriche che abbiamo condotto in scenari estremi ci suggeriscono che la sua origine possa essere dovuta a scontri fra protopianeti massicci nel disco proto-stellare originario”. “Tali scontri”, continua Naponiello, “potrebbero aver rimosso quasi tutta l’atmosfera del pianeta, il che ne spiegherebbe le dimensioni ridotte e la grande densità, come se fosse rimasto solo il nucleo nudo del pianeta”.

In alternativa allo scenario delle collisioni planetarie, secondo i ricercatori il pianeta potrebbe essere stato inizialmente un gigante gassoso come Giove o più massiccio, e avrebbe assunto un’orbita molto ellittica in seguito a instabilità dinamiche dovute ad interazioni gravitazionali con altri pianeti. Questo lo avrebbe portato a compiere dei passaggi molto ravvicinati alla sua stella, che gli avrebbero fatto perdere i suoi strati atmosferici esterni e avrebbero, allo stesso tempo, circolarizzato e stabilizzato la sua orbita alla distanza attuale dalla sua stella.

“Al momento, non riusciamo a distinguere quale dei due scenari di formazione sia quello più plausibile, ma continueremo ad osservare questo pianeta per capirlo. Non possiamo neanche escludere che studi teorici successivi, a partire da questa eccezionale scoperta, possano portare a nuovi modelli di formazione per i pianeti nettuniani molto massicci”, commenta Aldo Bonomo, ricercatore presso l’INAF Torino e co-autore dell’articolo.

TOI-1853b è stato inizialmente identificato nel 2020 come candidato planetario dal satellite della NASA TESS (Transiting Exoplanet Survey Satellite) con il metodo dei transiti, ovvero osservando le diminuzioni di luce periodiche della sua stella prodotte dal passaggio del pianeta davanti ad essa. La conferma della natura planetaria di TOI-1853b e la misura della sua massa e densità sono state possibili grazie ad osservazioni spettroscopiche di velocità radiale ottenute dal team con lo spettrografo HARPS-N (High Accuracy Radial Velocity Planet Searcher for the Northern hemisphere) al Telescopio Nazionale Galileo (TNG), che si trova sull’isola di La Palma nelle Canarie. Tali osservazioni hanno permesso di rivelare e caratterizzare con elevata precisione il segnale gravitazionale del pianeta sul moto della sua stella.

“HARPS-N è ormai operativo al TNG da più di 10 anni (ha ottenuto la prima luce a marzo del 2012). È uno dei pochi strumenti di punta a disposizione della comunità astronomica per misurare con alta precisione le masse e le densità dei pianeti extrasolari, in certi casi anche con dimensioni della Terra”, conclude Alessandro Sozzetti, primo ricercatore presso l’INAF Torino e co-autore dell’articolo. “Come in questo caso, nuove scoperte e misure portano spesso più domande che risposte”.

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “A super-massive Neptune-sized planet”, di Luca Naponiello, Luigi Mancini, Alessandro Sozzetti, Aldo S. Bonomo, Alessandro Morbidelli, Jingyao Dou, Li Zeng, Zoe M. Leinhardt, Katia Biazzo, Patricio E. Cubillos, Matteo Pinamonti, Daniele Locci, Antonio Maggio, Mario Damasso, Antonino F. Lanza, Jack J. Lissauer, Karen A. Collins, Philip J. Carter, Eric L. N. Jensen, Andrea Bignamini, Walter Boschin, Luke G. Bouma, David R. Ciardi, Rosario Cosentino, Silvano Desidera, Xavier Dumusque, Aldo F. M. Fiorenzano, Akihiko Fukui, Paolo Giacobbe, Crystal L. Gnilka, Adriano Ghedina, Gloria Guilluy, Avet Harutyunyan, Steve B. Howell, Jon M. Jenkins, Michael B. Lund, John F. Kielkopf, Katie V. Lester, Luca Malavolta, Andrew W. Mann, Rachel A. Matson, Elisabeth C. Matthews, Domenico Nardiello, Norio Narita, Emanuele Pace, Isabella Pagano, Enric Palle, Marco Pedani, Sara Seager, Joshua E. Schlieder, Richard P. Schwarz, Avi Shporer, Joseph D. Twicken, Joshua N. Winn, Carl Ziegler e Tiziano Zingales, è stato pubblicato sulla rivista Nature.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa di Ateneo Università di Roma Tor Vergata e dall’Ufficio Stampa – Struttura per la Comunicazione Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

GRB 221009A, IL LAMPO GAMMA PIÙ LUMINOSO DI TUTTI I TEMPI

Il potente lampo di raggi gamma scoperto il 9 ottobre 2022 è un evento estremamente raro, che si verifica una volta ogni 10mila anni. Le osservazioni, realizzate da telescopi nello spazio e a terra con forte coinvolgimento italiano, saranno determinanti per comprendere le colossali esplosioni da cui hanno origine i lampi gamma. L’annuncio oggi durante una conferenza stampa presso il meeting della High Energy Astrophysics Division della American Astronomical Society, alle Hawaii, in occasione della pubblicazione dei primi risultati, che vedono la partecipazione di numerosi team di ricerca dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e Agenzia Spaziale Italiana.

I raggi X del lampo gamma GRB 221009A sono stati rilevati per settimane come luce diffusa dalla polvere nella nostra galassia, portando alla comparsa di una serie di anelli in espansione. Questa animazione mostra le immagini catturate nel corso di 12 giorni dal telescopio a raggi X a bordo del Neil Gehrels Swift Observatory della NASA.
Crediti: NASA/Swift/A. Beardmore (University of Leicester)

Il 9 ottobre 2022, numerosi telescopi spaziali in orbita attorno alla Terra e sonde operanti in diverse aree del Sistema solare hanno rivelato un forte impulso di radiazione ad altissima energia, seguita da un’emissione prolungata su tutto lo spettro elettromagnetico. La sorgente era un lampo di raggi gamma (gamma ray burst, GRB), una delle esplosioni più potenti dell’universo, così eccezionale da guadagnarsi subito il soprannome di “BOAT” dall’inglese “Brightest Of All Time”, ovvero “il più luminoso di tutti i tempi”.

GRB 221009A, il lampo gamma più luminoso di tutti i tempi
GRB 221009A, il lampo gamma più luminoso di tutti i tempi. Il telescopio spaziale XMM-Newton dell’ESA ha registrato 20 anelli di polvere, 19 dei quali sono mostrati in questa immagine, che combina le osservazioni effettuate due e cinque giorni dopo la scoperta del GRB 221009A. Le strisce scure indicano gli spazi tra i rilevatori del telescopio. L’anello più grande visibile in questa immagine è paragonabile alle dimensioni apparenti della luna piena in cielo.
Crediti: ESA/XMM-Newton/M. Rigoselli (INAF)

Chiamato correntemente GRB 221009A, il lampo è stato rivelato per la prima volta dal Fermi Gamma-Ray Space Telescope della NASA, che vede un fondamentale contributo dell’Italia attraverso l’Agenzia spaziale italiana (ASI), l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN), mentre il primo a dare l’annuncio è stato il satellite Neil Gehrels Swift Observatory, sempre della NASA, anch’esso con una forte partecipazione italiana attraverso ASI e INAF. Inizialmente si riteneva che la sua sorgente potesse trovarsi nella nostra galassia, la Via Lattea, ma ulteriori dati raccolti da Swift e Fermi e dal satellite INTEGRAL dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) hanno indicato un’origine molto più lontana. Grazie alle osservazioni realizzate poche ore dopo con lo strumento X-Shooter sul Very Large Telescope dell’ESO, in Cile, si è potuta finalmente identificare la sorgente del GRB: una galassia a circa 2 miliardi di anni-luce da noi. Si tratta di una distanza ragguardevole dalla Via Lattea ma relativamente vicina se si considerano le immense scale cosmiche. È il GRB più intenso di cui sia mai stata misurata la luminosità, e il più luminoso mai visto dalla Terra nei 55 anni da quando i primi satelliti per lo studio dei raggi gamma sono stati messi in orbita. È inoltre uno dei più vicini mai osservati tra i GRB lunghi, quelli la cui emissione iniziale dura più di 2 secondi.

Marco Tavani, presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, dichiara: “Il lampo gamma cosmico GRB 221009A è un evento a dir poco eccezionale per vari motivi. Prima di tutto, per la sua intrinseca potenza, durata e straordinaria intensità; ma anche per il fatto che si sia verificato, in termini cosmici, relativamente vicino alla Terra. Una combinazione rara, che non ha eguali tra i lampi gamma cosmici osservati negli ultimi decenni. La radiazione X e gamma delle prime fasi di GRB 221009A, e di seguito quella radio, ottica e X nella fase di emissione ritardata, è stata rivelata da diversi telescopi da terra e dallo spazio in cui l’Istituto Nazionale di Astrofisica è fortemente coinvolto se non primo attore. I telescopi utilizzati nello studio di questo GRB sono equipaggiati con strumenti all’avanguardia per poter catturare la radiazione dalla sorgente associata a GRB 221009A, analizzarla e comprendere i dettagli della poderosa esplosione da cui ha avuto origine. Il lavoro delle nostre ricercatrici e dei nostri ricercatori, che hanno guidato diversi studi sin dalle prime fasi di GRB 221009A, è stato fondamentale per caratterizzare questo peculiare lampo gamma cosmico e coglierne a pieno le sue potenzialità per la comprensione dei fenomeni più energetici dell’Universo che portano alla formazione delle stelle di neutroni e dei buchi neri”.

L’analisi dei dati, confrontati con quelli di circa 7mila GRB osservati nei decenni passati con il telescopio spaziale Fermi e lo strumento russo Konus a bordo del satellite NASA Wind, ha permesso di stimare la frequenza con cui si verifica un evento così luminoso e relativamente vicino: una volta ogni 10mila anni. Il lampo era così luminoso che ha letteralmente accecato la maggior parte degli osservatori spaziali a raggi gamma, che non hanno potuto misurare la reale intensità dell’emissione. Dopo aver ricostruito i dati mancanti di Fermi e grazie al confronto con i risultati del team russo che lavora sui dati Konus e con i team cinesi che analizzano le osservazioni del rivelatore GECAM-C a bordo del satellite SATech-01 e degli strumenti a bordo dell’osservatorio Insight-HXMT, si è dimostrato che l’esplosione è stata 70 volte più luminosa di qualsiasi altra mai vista.

L’evento è stato così brillante che la sua radiazione residua, il cosiddetto afterglow, è ancora visibile e rimarrà tale per molto tempo. I risultati sono stati presentati oggi durante il meeting della High Energy Astrophysics Division della American Astronomical Society a Waikoloa, Hawaii. Gli articoli che presentano i risultati sono stati pubblicati in un numero speciale della rivista The Astrophysical Journal Letters e su Astronomy & Astrophysics.

Hanno osservato il GRB anche lo strumento NICER a bordo della Stazione spaziale internazionale, il telescopio spaziale NuSTAR della NASA, la sonda Voyager 1 che esplora lo spazio interstellare, il satellite italiano AGILE, realizzato dall’ASI con il contributo di INAF e INFN, e diversi satelliti dell’ESA, tutti con importanti contributi italiani: dai telescopi spaziali XMM-Newton e INTEGRAL alle sonde Solar Orbiter e BepiColombo fino al satellite Gaia. INTEGRAL, trovandosi in posizione ottimale, ne ha registrato sia l’emissione immediata sia l’afterglow con un’accuratezza senza precedenti. Gli scienziati ritengono che i GRB lunghi, come questo, derivino dal collasso del nucleo di una stella massiccia e la conseguente nascita di un buco nero, che emette getti di particelle ad altissima energia in direzioni opposte mentre ingurgita la materia circostante. Osservare l’afterglow del GRB, causato proprio da questi getti bipolari, ha permesso di testare i diversi modelli teorici che descrivono i processi fisici in atto nelle fasi iniziali dell’esplosione.

“Si tratta di una scoperta importante – commenta il presidente dell’ASI Giorgio Saccoccia – resa possibile anche grazie al contribuito di tutte le sonde come Fermi, Swift, INTEGRAL, AGILE, NuSTAR, IXPE, XMM, Solar Orbiter, Bepi Colombo, Gaia e CSES. Satelliti in orbita a cui ASI ha dato il suo contributo. Il merito va anche al nostro Space Science Data Center (SSDC) che mette da diverso tempo a fattor comune i dati scientifici provenienti da tutte queste missioni che hanno a bordo strumentazioni fornite da ASI. Questa visione multidisciplinare della scienza spaziale rappresenta il percorso vincente per aumentare le competenze italiane nello studio dell’Universo. Si tratta di una forte capacità dell’ASI che, da sempre, lavora insieme all’intera comunità scientifica, per lo sviluppo di tecnologie all’avanguardia, che consentono di avere una visione dell’Universo più completa”.

Dopo aver viaggiato attraverso lo spazio intergalattico, la radiazione proveniente dal GRB 221009A si è imbattuta nelle nubi di polvere presenti nel mezzo interstellare che permea la nostra galassia, la Via Lattea. Quando i raggi X incontrano la polvere, una parte di essi viene dispersa, creando anelli concentrici che sembrano espandersi verso l’esterno: una sorta di eco luminosa del lampo mentre attraversa la galassia. Il telescopio spaziale XMM-Newton ha fornito un’immagine profonda e dettagliata di 20 anelli, osservando in diversi giorni dopo la scoperta del GRB, mentre il satellite Swift ne ha monitorato l’evoluzione nel tempo. L’anello più distante è sorto dall’impatto con una nube di polvere situata a 61mila anni luce di distanza, dall’altro lato della Via Lattea, mentre il più vicino, visto solo da Swift, si è formato a circa 700 anni luce da noi. Il modo in cui una nube di polvere diffonde i raggi X dipende dalla sua distanza, dalle dimensioni dei granelli di polvere e dall’energia dei raggi X: l’analisi degli anelli creati dal GRB ha permesso di ricostruire parte della sua emissione iniziale a raggi X ma anche la distribuzione e composizione delle nubi di polvere nella nostra galassia. I dati indicano che i granelli di polvere sono composti principalmente da grafite, una forma cristallina del carbonio.

Gli anelli di polvere sono stati rivelati anche dall’osservatorio spaziale IXPE, una collaborazione tra NASA e ASI con un importante contributo di INAF e INFN, che osserva la polarizzazione dei raggi X. Il piccolo grado di polarizzazione misurato da IXPE nella fase di afterglow conferma che uno dei due getti è stato osservato in direzione quasi frontale. Da questo tipo di GRB, gli scienziati si aspettano di osservare anche una supernova poche settimane dopo, che però non è stata rivelata. Uno dei possibili motivi della mancata osservazione potrebbe essere l’attenuazione da parte di spesse nubi di polvere nel piano della Via Lattea. Tuttavia, non ha sortito successo nemmeno la ricerca nell’infrarosso effettuata con il telescopio spaziale James Webb, che ha osservato l’afterglow in contemporanea con il Telescopio Nazionale Galileo (TNG) dell’INAF. Può darsi che la stella fosse così massiccia che, dopo l’esplosione iniziale, abbia immediatamente formato un buco nero che ha inghiottito tutto il materiale circostante, impedendo la formazione di una nube di gas, il cosiddetto resto di supernova.

“Un evento davvero unico per la sua intensità e vicinanza cosmica – spiega Marco Pallavicini, vicepresidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare – che conferma il potere diagnostico delle misure di polarizzazione offerte da IXPE e dallo strumento innovativo che INFN ha sviluppato e messo a disposizione della missione, il quale si innesta in una ormai consolidata tradizione di successi ottenuti nell’ambito della realizzazione di rivelatori spaziali di sempre maggiore efficacia e capacità risolutive. Risultati certificati anche dai contributi forniti a molti degli osservatori spaziali, tra cui Fermi e AGILE, protagonisti della caratterizzazione di questo GRB senza precedenti.”

Anche sulla Terra il GRB 221009A ha fatto sentire i suoi effetti, rilasciando nei pochi minuti della sua durata circa un gigawatt di potenza nella porzione superiore della nostra atmosfera, ionizzando fortemente la parte alta della ionosfera su una larga regione geografica centrata sull’India e che ha interessato anche Europa e Asia. L’aumento del flusso di elettroni correlato con il GRB è stato misurato dal rivelatore di particelle cariche HEPP-L a bordo del China Seismo-Electromagnetic Satellite (CSES-01), che vede la partecipazione di ASI e INFN, il quale stava orbitando sopra l’Europa al momento dell’arrivo del GRB.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

TOI-1807B, IL PIÙ GIOVANE ESOPIANETA CON ORBITA ULTRA-BREVE

La sua orbita attorno alla stella madre dura solo 13 ore ed è il più giovane pianeta ultra-short period (USP – periodo orbitale ultra-breve) scoperto finora. Parliamo dell’esopianeta TOI-1807b, scoperto nel 2020 con il telescopio NASA TESS (Transiting Exoplanet Survey Satellite) e conosciuto come uno dei pochi pianeti ad avere un periodo di rivoluzione attorno alla propria stella inferiore a un giorno. Questo e molti altri dettagli sono stati descritti in un articolo in via di pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics firmato da un gruppo internazionale guidato da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell’Università degli studi di Padova. I nuovi dati sono stati ottenuti con lo spettrografo HARPS-N installato sul Telescopio Nazionale Galileo (TNG) dell’INAF alle Canarie. Per fare un confronto nel Sistema solare, l’orbita di Mercurio – cioè il pianeta più vicino al Sole – dura 88 giorni, mentre un anno sulla Terra dura 365 giorni.

Confronto di TOI-1807B con la terra
Confronto di TOI-1807B con la terra
TOI-1807B orbita
Orbita di TOI-1807B
Confronto di TOI-1807B con Mercurio
Confronto di TOI-1807B con Mercurio

“Nel caso del target oggetto del nostro studio – spiega il primo autore del paper, Domenico Nardiello, assegnista di ricerca presso l’INAF di Padova – un anno su questo pianeta dura appena 13 ore terrestri. Il pianeta è interessante per una serie di aspetti: è il più giovane USP mai osservato finora, con un’età di appena 300 milioni di anni, e ha una densità simil terrestre. Inoltre grazie ai dati TESS e soprattutto grazie ai dati HARPS-N abbiamo calcolato con estrema precisione sia il raggio del pianeta che la massa”.

BD+39 2643 è la stella (di tipo spettrale K più fredda del Sole) al centro di questo sistema planetario ed è essa stessa molto giovane: circa 300 milioni di anni. Probabilmente, in questo “breve” lasso di tempo un’eventuale atmosfera costituita da idrogeno e elio, tipica di pianeti molto giovani, potrebbe già essere stata spazzata via tramite fotoevaporazione a causa dell’estrema vicinanza stella-pianeta, lasciando scoperto il nucleo roccioso del pianeta stesso. La distanza tra i due oggetti è circa un centesimo della distanza Terra-Sole e circa 1/30 della distanza che separa Mercurio dal Sole. Nel paper, i ricercatori affermano che è molto verosimile che l’atmosfera dei pianeti USP evapori in circa 100 milioni di anni.

I pianeti USP conosciuti finora hanno tutti età superiori al miliardo di anni. Pianeti simili, sebbene siano facilmente identificabili grazie al periodo orbitale molto corto, sono al contempo molto rari. Il co-autore Luca Malavolta, del Dipartimento di Fisica e Astronomia “Galileo Galilei” – Università di Padova, sottolinea:

“Il gran quantitativo di dati (di altissima qualità) raccolti da HARPS-N ha permesso che questo lavoro riuscisse. Abbiamo usato quasi 170 spettri della stella ottenuti nell’arco di due anni con una strategia osservativa ad-hoc per questo tipo di pianeti. La stella, essendo giovane, è molto attiva, e questo risulta essere un problema quando si tenta di identificare un pianeta nelle serie di velocità radiali. Abbiamo quindi utilizzato tecniche all’avanguardia sviluppate negli ultimi anni per separare il segnale relativo all’attività stellare dal segnale del pianeta. Senza l’utilizzo di queste tecniche, è praticamente impossibile identificare il pianeta, poiché il suo segnale è estremamente debole”.

I dati descritti nell’articolo non solo forniscono una misura di massa estremamente accurata del pianeta, ma anche la più precisa nell’ambito dei pianeti con periodo orbitale ultra-breve, con un errore sulla massa di appena il 15%, grazie ai dati HARPS-N presi al TNG sotto la collaborazione italiana GAPS.

“Siccome il pianeta transita (anche molte volte visto il periodo orbitale corto), abbiamo calcolato anche il raggio del pianeta, che unito alla massa, ci ha dato una misura estremamente precisa della densità del pianeta, e ci ha permesso di affermare che la densità del pianeta è rocciosa e quindi di tipo terrestre (un raggio pari a 1.5 volte il raggio terrestre e una massa pari a 2.5 volte quella terrestre)”, continua Malavolta.

L’obiettivo del team era quello di studiare TOI-1807b per derivare la sua massa e capire se avesse o meno un’atmosfera estesa, simile a quella osservata in alcuni pianeti più giovani ma più lontani dalla stella ospite. Analizzando i dati TESS per studiare i transiti del pianeta e ricavare il raggio del pianeta, i ricercatori hanno scoperto che l’oggetto ha un nucleo composto dal 25% di ferro e nessuna atmosfera estesa.

Nardiello conclude: “Fino a qualche anno fa non potevamo minimamente immaginare che potessero esistere pianeti così vicini alla propria stella ospite. Oggi, grazie al progredire della tecnologia, non solo siamo in grado di identificarli, bensì anche di conoscere con estrema precisione la loro età, tutte le caratteristiche fisiche, se hanno o meno un’atmosfera e come questa si sia evoluta nel tempo. Ciò favorirà molto la comprensione di come i pianeti (inclusa la Terra) si siano formati e quali condizioni permettano la nascita della vita”.

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “The GAPS Programme at TNG. XXXVII. A precise density measurement of the young ultra-short period planet TOI-1807 b”, di D. Nardiello, L. Malavolta, S. Desidera, M. Baratella, V. D’Orazi, S. Messina, K. Biazzo, S. Benatti, R. Capuzzo Dolcetta, M. Mallonn, A. Bignamini, A. S. Bonomo, F. Borsa, I. Carleo, R. Claudi, E. Covino, M. Damasso, et al. è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

 

Testo e foto dall’Università degli Studi di Padova

Il segnale UV e ottico che sfida i modelli delle pulsar

Osservati, per la prima volta da una pulsar al millisecondo in fase “esplosiva”, lampi in banda ottica e ultravioletta oltre alle pulsazioni nei raggi X tipiche di questi corpi celesti. La scoperta, guidata da ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica e basata anche su osservazioni effettuate con il Telescopio Nazionale Galileo, mette alla prova i modelli teorici che descrivono il comportamento delle pulsar in sistemi binari

Illustrazione di una pulsar in un sistema binario. Crediti: ESA

Si chiama SAX J1808.4-3658 ed è una pulsar, ovvero una stella di neutroni – quel che resta di stelle più massicce del Sole – che emette radiazione attraverso due coni di luce e ruota molto rapidamente, facendo sì che l’emissione appaia pulsante, come quella un faro. Ma non finisce qui. È una pulsar “al millisecondo”, cioè ruota ancora più veloce della maggior parte delle pulsar, completando ben 401 giri su sé stessa in un solo secondo, e per di più si trova in un sistema binario, orbitando insieme a un’altra stella alla quale sottrae regolarmente materia. Ma è anche un oggetto celeste decisamente incostante. Alterna infatti fasi di “quiescenza” a periodi più attivi o “esplosivi” ogni 3–4 anni: l’esplosione più recente, la nona dalla sua scoperta nel 1996, è stata registrata tra agosto e settembre 2019.

Durante la fase esplosiva, la luminosità di SAX J1808.4-3658 – ad oggi si conoscono una ventina di sistemi simili ad essa – aumenta significativamente sia in banda ottica e ultravioletta (UV) che nei raggi X, e inizia l’accrescimento: l’altra stella trasferisce materia e momento angolare alla pulsar attraverso un disco che si estende fino a pochi chilometri dalla sua superficie. Questo processo accelera la rotazione della pulsar e convoglia la materia in accrescimento sui suoi poli, dando origine a un segnale pulsato nei raggi X.

“Quando è stato annunciato l’inizio della nuova esplosione di SAX J1808.4-3658, ad agosto 2019, ci siamo chiesti se, oltre alle pulsazioni in banda X, il sistema potesse mostrare anche pulsazioni in banda ottica e ultravioletta”, spiega Arianna Miraval Zanon, dottoranda presso l’Università dell’Insubria e associata all’INAF di Milano, co-prima autrice insieme a Filippo Ambrosino, ricercatore all’INAF di Roma, dell’articolo pubblicato oggi sulla rivista Nature Astronomy. E la curiosità è stata premiata. “Per la prima volta abbiamo osservato nello stesso sistema, durante la fase esplosiva, pulsazioni con lo stesso periodo di rotazione della pulsar in tre bande diverse: X, UV e ottica”, aggiunge Ambrosino.

Fino ad allora, non erano mai state osservate pulsazioni in banda UV da pulsar in sistemi binari. In banda ottica, invece, le pulsazioni erano state viste soltanto in 5 pulsar isolate e in un solo sistema binario, PSR J1023+0038, quest’ultimo in un lavoro firmato dallo stesso Ambrosino e diversi co-autori del nuovo studio; si tratta però di un sistema diverso, che si trova in una fase intermedia, e che quindi somiglia a SAX J1808.4-3658 solo in parte.

UV ottico pulsar SAX J1808.4-3658
Lo strumento SiFAP2 installato al Telescopio Nazionale Galileo. Crediti: A. Ghedina

Lo studio si basa su osservazioni in banda UV effettuate con il telescopio spaziale Hubble e in banda ottica con il Telescopio Nazionale Galileo (TNG) dell’INAF a La Palma (Isole Canarie), equipaggiato con il fotometro ottico ad altissima risoluzione temporale e accuratezza assoluta SiFAP2, cruciale per la scoperta delle pulsazioni ottiche da questo sistema. Il primo prototipo dello strumento, SiFAP, era stato ideato e sviluppato da Franco Meddi insieme a Filippo Ambrosino, con l’ausilio di Paolo Cretaro al Dipartimento di Fisica della Sapienza Università di Roma, e già nel 2017 aveva permesso di rivelare le pulsazioni ottiche dall’altra pulsar menzionata, PSR J1023+0038. Grazie a successive collaborazioni con INAF, con lo stesso TNG e con l’Università di Catania (in particolare con Francesco Leone), lo strumento è stato migliorato prendendo il nome di SiFAP2, una nuova versione che consentirà di effettuare anche studi polarimetrici grazie ad un nuovo sistema di cubi polarizzatori.

Ma le nuove osservazioni pongono un dilemma: la luminosità delle pulsazioni misurate in banda ottica e UV è troppo elevata per essere spiegata, usando i modelli teorici esistenti, dall’accrescimento di materia sulla pulsar. “Il segnale ottico e UV pulsato potrebbe quindi essere prodotto nella magnetosfera della pulsar, o poco lontano da essa, ed essere alimentato dalla rotazione del dipolo magnetico della pulsar”, dice Miraval Zanon. “Se così fosse, potrebbero convivere o alternarsi molto rapidamente due meccanismi fisici diversi: da una parte l’accrescimento produrrebbe gli impulsi in banda X; dall’altra la pulsar, alimentata dalla sua stessa rotazione, riuscirebbe a generare impulsi in banda ottica e UV. Questo scenario sfida gli attuali modelli teorici secondo cui un meccanismo esclude l’altro”.

Un altro aspetto interessante sollevato dal nuovo studio è uno sfasamento significativo – pari a poco più di mezzo periodo di rotazione – osservato tra la pulsazione X e quella ottica. “Questo ha dato adito a diverse interpretazioni”, sottolinea Ambrosino, “la più suggestiva delle quali è senza dubbio la possibilità che l’emissione X pulsata provenga da uno dei due poli magnetici della pulsar, mentre la pulsazione ottica sia generata nel polo opposto. Questa è solo un’ipotesi, non possiamo dire nulla di veramente definitivo prima di avere una statistica più ampia sull’emissione ottica di queste sorgenti”.

In futuro, il gruppo ha in programma nuove osservazioni di questo sistema durante la fase quiescente con lo strumento SiFAP2, per indagare l’eventuale presenza di pulsazioni ottiche una volta diminuita la luminosità: questo aiuterà a comprendere meglio il meccanismo che le genera durante la fase esplosiva. Un piano sul più lungo termine, già approvato, prevede lo studio della prossima sorgente, tra le venti simili a questa, che entrerà in fase esplosiva, effettuando osservazioni simultanee nei raggi X con l’osservatorio dell’ESA XMM-Newton, in UV con Hubble e in ottico con il TNG.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Nature Astronomy nell’articolo Optical and ultraviolet pulsed emission from an accreting millisecond pulsar di F. Ambrosino, A. Miraval Zanon, A. Papitto, F. Coti Zelati, S. Campana, P. D’Avanzo, L. Stella, T. Di Salvo, L. Burderi, P. Casella, A. Sanna, D. de Martino, M. Cadelano, A. Ghedina, F. Leone, F. Meddi, P. Cretaro, M. C. Baglio, E. Poretti, R. P. Mignani, D. F. Torres, G. L. Israel, M. Cecconi, D. M. Russell, M. D. Gonzalez Gomez, A. L. Riverol Rodriguez, H. Perez Ventura, M. Hernandez Diaz, J. J. San Juan, D. M. Bramich, F. Lewis

https://doi.org/10.1038/s41550-021-01308-0

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma