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The Lancet

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Un recente studio pubblicato su The Lancet analizza gli effetti del binge drinking (dall’inglese, “abbuffata di alcolici”) sul microbioma intestinale durante l’adolescenza. Infatti, emerge una stretta relazione tra la composizione del microbiota e la sfera socio-emozionale in diversi disturbi alcol-correlati.

La ricerca dimostra alterazioni del microbioma intestinale in adolescenti dediti al binge drinking e va ad aggiungersi alla crescente letteratura scientifica che riconosce nel microbiota intestinale un importante regolatore dello sviluppo socio-cognitivo. Ma facciamo un passo indietro: cos’è il microbiota?

 

Microbioma o microbiota?

Fino a non molto tempo fa si parlava impropriamente di “flora intestinale” per indicare l’insieme dei batteri presenti nell’intestino umano. Non si trattava di un vero e proprio errore perché la precedente classificazione degli esseri viventi faceva rientrare i batteri tra i vegetali. Oggi, il termine scientifico corretto per descrivere l’insieme di batteri, virus, funghi e protozoi, che popola alcune parti del canale alimentare, la pelle e il tratto uro-genitale, è microbiota. La confusione non finisce qui: microbiota o microbioma?

Il microbioma indica il patrimonio genetico, ossia l’insieme dei geni, del microbiota. Sebbene il microbiota comprenda batteri, virus, funghi e protozoi, generalmente ci si sofferma sulla parte batterica per la capacità di questi ultimi di elaborare i prodotti della digestione.

Microbioma è un termine relativamente nuovo nel vocabolario scientifico, ma i concetti fondamentali e l’importanza del ruolo svolto da quest’ultimo si devono ricercare già nei pionieristici studi dell’800 sull’ecologia microbica di Sergei Winogradsky.

Le funzioni del microbiota non si limitano al metabolismo, ma ricoprono un ruolo importante anche nello sviluppo dei villi intestinali e nella costituzione della barriera che impedisce a microbi e agenti patogeni di infettare l’organismo. Inoltre, favorisce la maturazione  e lo sviluppo del sistema immunitario a livello della mucosa intestinale.

Immagine di Elias

Eubiosi e disbiosi

Il microbiota può essere sano e in equilibrio (e si parla di eubiosi), mentre con  il termine disbiosi si fa riferimento a una situazione generica di alterazione della ‘flora batterica’ fisiologica umana. Ma cosa significa davvero microbiota sano? Ci si riferisce alla variabilità batterica che si possiede o alla capacità di fermentare le fibre?

Un sano stile di vita (seguire una dieta varia ed equilibrata, svolgere attività fisica, evitare il fumo e l’alcol) influisce positivamente sullo stato di salute del microbiota. Una disbiosi può verificarsi in distretti corporei diversi, per cui è necessario far seguire il termine da un aggettivo che specifichi la regione interessata dall’alterazione (disbiosi cutanea, disbiosi orale, disbiosi vaginale, disbiosi intestinale).

Le disbiosi si verificano a causa della perdita di microrganismi benefici, della riduzione della diversità delle specie batteriche, e dell’aumento di patogeni opportunisti e/o nell’alterazione dell’ecosistema microbico. In più, l’uso improprio di antibiotici favorisce sia l’instaurarsi di disbiosi sia lo sviluppo di antibiotico-resistenza.

Le infezioni gastrointestinali alterano solo momentaneamente lo stato di eubiosi che, generalmente, si risolve spontaneamente con la guarigione dall’infezione. Tuttavia, spesso non è chiaro se sia la malattia a causare disbiosi o viceversa, o se gli effetti del microbiota e la patologia siano determinati da un ulteriore fattore ignoto.

Immagine di Arek Socha

Assi microbiota-organi

Per comprendere meglio la complessità del microbiota intestinale, si tenga presente che questo e l’essere umano sono co-evoluti insieme per milioni di anni, sviluppando un intricato sistema di relazioni. Crescenti evidenze scientifiche mostrano come la composizione del microbiota abbia effetti su altri organi.

Infatti, oltre all’intestino, altri organi al di fuori del tratto gastrointestinale sono influenzati dalle sostanze da esso prodotte (metaboliti), assorbite e distribuite attraverso il sangue. I ricercatori hanno coniato il termine “asse” per descrivere vie di segnalazione multidirezionali che, partendo da un organo, comunicano mediante segnali biochimici con altre regioni del corpo [1].

Immagine di Gerd Altmann

Asse microbiota-cervello

In particolare, la comunicazione tra il cervello e l’intestino ha luogo mediante il sistema nervoso periferico e il nervo vago, attraverso il sistema immunitario ed endocrino. Il microbiota agisce sull’attività cerebrale regolando la produzione, il metabolismo e la trasmissione dei neurotrasmettitori, ossia le molecole di segnalazione nervosa. Tutto ciò potrebbe andare a modulare la comunicazione tra le cellule del cervello (trasmissione sinaptica) e influenzare il comportamento.

In altre parole, l’asse microbiota-cervello collega le funzioni cognitive e i centri deputati alle emozioni alla regione periferica intestinale. Infine, potrebbe contribuire alla patogenesi e alla progressione di condizioni patologiche di natura psichiatrica, neurologica o del neurosviluppo.

Le disfunzioni dell’asse intestino-cervello alterano le funzioni enteriche, come, per esempio, la secrezione (di acidi, bicarbonati e muco), la motilità e la sensibilità viscerale. Di conseguenza, si verificano cambiamenti cellulari a carico dei sistemi immunitario ed entero-endocrino. La presenza di un asse intestino-cervello è reso evidente anche dal fatto che alcune specie batteriche intestinali presentino proteine di superficie capaci di legare i neurotrasmettitori. Nella pratica clinica, l’interazione tra il microbiota intestinale e l’asse intestino-cervello trova conferma nell’associazione tra disbiosi e, per esempio, disturbi di ansia o depressione con patologie gastrointestinali.

Immagine di Colleen

Asse microbiota-cervello e binge drinking 

La comprensione dell’asse intestino-cervello costituisce premessa importante prima di affrontare il tema principale di questo articolo. Il binge drinking è il fenomeno mediante il quale una persona assume numerose unità alcoliche al di fuori dei pasti e in un breve arco di tempo. In Italia si intende il consumo, in un’unica occasione, di oltre 6 bicchieri di bevande alcoliche (un bicchiere, una Unità Alcolica di 12 grammi di alcol puro).

Il binge drinking può danneggiare seriamente il cervello e incrementare il rischio di sviluppare dipendenze patologiche e disturbi psichici in età adulta. Il rischio è maggiore se il binge drinking è anticipato da una restrizione alimentare, che mira a ridurre l’apporto calorico e a potenziare gli effetti euforizzanti e disinibenti dell’alcol. Il divieto fino ai 18 anni è raccomandato perché solo a partire da questa età l’organismo è in grado di metabolizzare correttamente l’alcol.

Nel 2021 i binge drinker, in Italia, sono stati circa 3 milioni e mezzo di età compresa tra gli 11 e i 25 anni. La frequenza cambia a seconda del genere e della classe di età, ma prevalgono i binge drinker di genere maschile in quasi tutte le fasce d’età (11-85+). L’eccezione riguarda i minorenni (fascia di popolazione per la quale la percentuale dovrebbe essere zero a causa del divieto di vendita e somministrazione di bevande alcoliche): la prevalenza di ragazze che consumano con modalità binge drinking è soltanto lievemente inferiore a quella dei coetanei maschi.

Immagine di Gerd Altmann

Binge drinking, adolescenza e cognizione socio-emozionale

Evidenze scientifiche precedenti al lavoro pubblicato su The Lancet e citato in apertura mostrarono che le modificazioni del microbioma intestinale associati all’alcol inducono disturbi cerebrali e comportamentali nei topi.

Focalizzando l’attenzione sull’adolescenza, un periodo cruciale per la crescita cerebrale e del sistema entero-immunitario, i ricercatori hanno identificato alterazioni del miocrobioma associate al fenomeno del binge drinking in adolescenti. Tali alterazioni persisterebbero anche in età adulta.

Lo studio dimostra che l’abuso di alcol durante l’adolescenza è legato ad alterazioni del microbioma, prima ancora che si sviluppi una dipendenza: ci sarebbe, infatti, una ‘firma’ all’interno del microbioma dei giovani binge drinker.

Inoltre, la ricerca evidenzia il ruolo fondamentale del microbioma intestinale nella regolazione delle pulsioni e della cognizione sociale. I ricercatori concludono il lavoro sottolineando come le alterazioni dell’asse microbiota-cervello possano alimentare ulteriori disregolazioni e aumentare il rischio di sviluppare psicopatologie, soprattutto nella fase adolescenziale.

Immagine di Mohamed Hassan

Conclusioni e spunti di riflessione

Il tema dell’abuso di alcol, in tutte le fasce d’età, è urgente e l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il 20 gennaio 2023 ha concluso la consultazione con le associazioni professionali e il mondo accademico per implementare il piano d’azione globale sull’alcol 2022-2030.

Il Piano rientra nella più ampia strategia mondiale di contrasto alle malattie cronico-degenerative, azione centrale dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile che mirano a ridurre del 10% il consumo rischioso e dannoso di alcol entro il 2025. La comunità scientifica e accademica globale, e i professionisti della salute puntano su una prevenzione basata sulle evidenze scientifiche.

Note:

[1] Gli assi tra intestino e organi possono verificarsi attraverso la via di segnalazione nervosa, mediante il sistema della vena porta epatica o direttamente attraverso il passaggio di segnali biochimici tra la barriera epiteliale intestinale e la circolazione sanguigna.

Fonti:

Microbiota intestinale, facoltà socio-cognitive e binge drinking in adolescenza. Foto di Elevate

PRIMI AL MONDO, A TORINO I CARDIOLOGI SFRUTTANO L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE PER DEFINIRE LA STRATEGIA DOPO L’INFARTO

 

Pubblicato sulla rivista The Lancet uno studio della Cardiologia universitaria della Città della Salute, svolto con i ricercatori di UniTo e PoliTo, per la creazione di un nuovo sistema di classificazione del rischio di eventi futuri nei pazienti dopo un infarto. Una tecnica che determinerà una vera rivoluzione e ridurrà statisticamente la possibilità di una non corretta diagnosi. Questo risultato rafforza la scelta di Torino come sede dell’Istituto Italiano di Intelligenza Artificiale

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Immagine di Jan Alexander

Straordinario risultato di una ricerca coordinata dalla Cardiologia universitaria dell’ospedale Molinette della Città della Salute di Torino (diretta dal professor Gaetano Maria De Ferrari), assieme al Dipartimento di Informatica dell’Università di Torino ed a quello di Meccanica e Aerospaziale del Politecnico di Torino. Gli autori hanno utilizzato quell’approccio dell’Intelligenza Artificiale chiamato Machine Learning o di apprendimento automatico, secondo il quale i computer imparano progressivamente dai dati che vengono loro forniti migliorando sempre più le loro capacità predittive ed individuando correlazioni. In questo caso, il risultato è stato la creazione di un nuovo sistema di classificazione del rischio di eventi futuri nei pazienti dopo un infarto. La assoluta novità e la grande efficacia di questo nuovo approccio sono valse alla ricerca la pubblicazione, oggi 15 gennaio, sulla rivista di medicina più blasonata al mondo, The Lancet.

I pazienti con infarto miocardico acuto – spiega il dottor Fabrizio D’Ascenzo, coordinatore dello studio – sono ad altissimo rischio nei primi due anni sia di una recidiva di infarto sia di sanguinamenti maggiori legati ai farmaci che mantengono il sangue ‘più fluido’, come la cardioaspirina. La decisione sulla terapia migliore deve bilanciare questi due rischi, cosa che il cardiologo fa basandosi sulla propria esperienza e sul suo intuito clinico, aiutato da dei punteggi di rischioTuttavia questi punteggi sono poco precisi e pertanto di modesto aiuto anche per un cardiologo esperto. Abbiamo perciò cercato di migliorare la situazione utilizzando dati clinici riguardanti 23.000 pazienti, molti dei quali raccolti in Piemonte, che hanno fornito la massa critica di informazioni per la nostra ricerca”.

Collaboriamo da anni con la Cardiologia universitaria delle Molinette, studiando le relazioni esistenti tra i flussi sanguigni e le patologie che interessano le arterie – dicono i professori Umberto Morbiducci e Marco Deriu del Gruppo di Biomeccanica Computazionale del Politecnico – e come Bioingegneri siamo entusiasti di avere esteso la collaborazione a questo nuovo settore, estremamente promettente”.

L’analisi dei dati con questa tecnica basata sull’Intelligenza Artificiale si differenzia nettamente dall’approccio usato finora, basato sull’analisi statistica tradizionale. In alcuni settori questa nuova tecnica determinerà una vera rivoluzione.

I dati – spiega Marco Aldinucci, docente di Informatica di UniTo – sono stati analizzati con algoritmi di Machine Learning che usano pertanto metodi matematico-computazionali per apprendere informazioni direttamente dai dati, senza il bisogno di conoscere nulla a priori sulle possibili relazioni tra i dati stessi”.

La differenza trovata tra l’approccio precedente basato sull’analisi statistica tradizionale e questo, basato sull’Intelligenza Artificiale, è stata davvero importante. Mentre la precisione dei migliori punteggi disponibili per identificare la possibilità di un evento come un nuovo infarto o un sanguinamento si aggira intorno al 70%, la precisione di questo nuovo punteggio di rischio si avvicina al 90%, riducendo statisticamente la possibilità di una non corretta diagnosi da tre a un solo paziente su dieci analizzati.

 

Siamo entusiasti di questi risultati – afferma il professor Gaetano Maria De Ferrari – per tre motiviPrimo, possiamo ora curare meglio i nostri pazienti, aggiungendo alla nostra esperienza clinica delle stime davvero precise del rischio cui vanno incontro, confermando il ruolo centrale della Cardiologia universitaria di Torino nella ricerca volta a creare benefici per i pazienti. Secondo, lo studio è una dimostrazione fortissima delle possibilità dell’Intelligenza Artificiale in medicina e in cardiologia in particolare. Terzoquesto risultato ottenuto in collaborazione tra Università e Politecnico rafforza la scelta di Torino come sede dell’Istituto Italiano di Intelligenza Artificiale. In particolare, noi vorremmo candidarci ad un ruolo di riferimento italiano per l’intelligenza artificiale in medicina e questa pubblicazione può contribuire a legittimare questa aspirazione”.

Torino è stata scelta come sede principale dell’Istituto Italiano per l’Intelligenza Artificiale (3I4AI), che si occuperà dell’applicazione dell’intelligenza artificiale in vari settori, con attività di ricerca prevista anche in diverse sedi aggiuntive sul territorio nazionale.

Sia l’Università che il Politecnico di Torino avranno un ruolo importante nell’Istituto. “Con soddisfazione e con orgoglio accogliamo la notizia di questo successo straordinario che testimonia, ancora una volta, il valore della nostra ricerca – dichiara il Rettore dell’Università di Torino Stefano Geuna – L’attenzione della comunità scientifica mondiale a questo studio conferma l’Università di Torino come un’eccellenza della ricerca nazionale a livello internazionale. I gruppi di ricerca coinvolti, ai quali va il nostro più sentito ringraziamento, hanno dato prova di come si possano ottenere risultati straordinari condividendo obiettivi ambiziosi ed integrando saperi e competenze. La nuova frontiera scientifica che coniuga l’applicazione dell’intelligenza artificiale alla diagnostica in medicina è in grado di migliorare come mai prima d’ora la cura di patologie importanti e, più in generale, la qualità di vita di tante persone colpite da patologie gravemente invalidanti. Per arrivare a questi risultati possiamo contare su una ricerca capace di integrare innovazione tecnologica e conoscenze altamente specialistiche. Gli Atenei torinesi ed il nostro sistema sanitario condividono ormai una provata esperienza in questa direzione. Questo fa di Torino la sede ideale per ospitare l’Istituto Italiano di Intelligenza Artificiale”.

Questo progetto oggettiva ulteriormente la forte partnership tra Università ed Azienda ospedaliera, dove la ricerca e l’assistenza si integrano per assicurare percorsi innovativi sempre più tecnologici, con il fine comune di garantire ai pazienti la migliore cura”, sottolinea il Direttore generale della Città della Salute di Torino Giovanni La Valle.

L’Intelligenza Artificiale rappresenta un tema chiave per la ricerca dei prossimi anni, sul quale il nostro Ateneo può vantare competenze riconosciute dalla comunità scientifica internazionale e ha ottenuto risultati di estrema rilevanza, quali ad esempio il coordinamento del Dottorato nazionale sull’Intelligenza Artificiale su IA e Industria 4.0 e la partecipazione del Politecnico al prestigioso Laboratorio Europeo sull’Intelligenza Artificiale dei dati ELLIS – commenta il Rettore del Politecnico di Torino Guido Saracco – L’eccellente risultato prodotto da questa ricerca condotta insieme a Università di Torino e Città della Salute dimostra ancora una volta la molteplicità e la trasversalità delle applicazioni dell’Intelligenza Artificiale, che ormai spazia in tutti i settori di punta della nostra economia, dall’automotive alla manifattura, all’industria del lusso e molti altri ambiti, come appunto quello della salute, dove sta diventando sempre più essenziale. Questa ricerca è poi un esempio di collaborazione multidisciplinare tra enti, che dimostra ancora una volta che tutti i soggetti del territorio sono già pronti a lavorare insieme per fare dell’Istituto un grande polo di ricerca”.

 

Testo dall’Università degli Studi di Torino

Tumore del polmone: verso una medicina personalizzata

Un lavoro coordinato dalla Sapienza e pubblicato sulla rivista EBioMedicine del gruppo The Lancet, identifica in un autoanticorpo un possibile indicatore di resistenza ai trattamenti immunoterapici nei pazienti con carcinoma polmonare

tumore del polmone
Foto candidate EBIOM-D-20-02015R1 dalla Sapienza Università di Roma

L’ultima frontiera della lotta al cancro è rappresentata da terapie che armano il sistema immunitario del paziente in modo che sia in grado di riconoscere e annientare le cellule tumorali. Cosa accade se il sistema immunitario ha un difetto? In questo caso è molto probabile che si inneschi un meccanismo di resistenza all’immunoterapia usata contro il tumore compromettendo gravemente l’efficacia della cura.

La presenza di autoanticorpi può essere una spia di allarme di un sistema immunitario disfunzionale e l’identificazione di biomarcatori di questo sistema può essere una guida per la scelta della corretta terapia per il paziente.

Marianna Nuti del Dipartimento di Medicina sperimentale della Sapienza, insieme con Paolo Marchetti e Guido Valesini, rispettivamente dell’Unità di Oncologia B e del Centro di Reumatologia del Policlinico Umberto I, hanno recentemente pubblicato un lavoro sulla rivista EBioMedicine, del gruppo The Lancet, in cui indagano, in pazienti con tumore polmonare in trattamento con immunoterapici, il ruolo di un autoanticorpo nel predire la progressione precoce di malattia. I ricercatori hanno visto che la presenza dell’autoanticorpo, chiamato IgM-FR (fattore reumatoide di classe IgM), è associata, nei pazienti con carcinoma polmonare, alla riduzione di una popolazione specifica di cellule immunitarie, i linfociti T antitumorali CD137 +. Questa popolazione linfocitaria è peraltro uno dei bersagli terapeutici della terapia con immunoterapici, per cui la sua riduzione potrebbe tradursi in una perdita di efficacia del trattamento e in una tendenza a sviluppare progressioni precoci di malattia entro 3 mesi dall’inizio dello stesso.

“I trattamenti con gli Immune Checkpoint Inhibitors, come l’immunoterapico anti-PD-1 hanno fortemente migliorato le opzioni terapeutiche e l’outcome per i pazienti oncologici affetti da Non-

Small Cells Lung Cancer (NSCLC) – spiega Marianna Nuti, coordinatrice dello studio. “Tuttavia, molti di questi mostrano resistenza alla terapia, la quale risulta meno efficace: il nostro lavoro ci permette di correlare una parte della resistenza con la presenza dell’autoanticorpo IgM-FR che sembrerebbe legarsi a due classi di linfociti T, naïve e central memory, riducendone la capacità di dirigersi verso i linfonodi deputati a drenare il tumore e di attivarsi contro le cellule cancerose”.

I risultati ottenuti con questo studio permettono quindi di compiere un altro passo nella direzione della medicina personalizzata in cui è il paziente con il suo sistema immunitario a guidare la scelta del miglior approccio terapeutico, più che il tumore e lo stadio di malattia.

Riferimenti:

IgM-Rheumatoid factor confers primary resistance to anti-PD-1 Immunotherapies in NSCLC patients by reducing CD137+ T-cells – Alessio Ugolini, Ilaria Grazia Zizzari, Fulvia Ceccarelli, Andrea Botticelli, Tania Colasanti, Lidia Strigari, Aurelia Rughetti, Hassan Rahimi, Fabrizio Conti, Guido Valesini, Paolo Marchetti, Marianna Nuti. – EBioMedicine – The Lancet, 2020. DOI https://doi.org/10.1016/j.ebiom.2020.103098

Testo e foto dalla Sapienza Università di Roma sui nuovi passi per una medicina personalizzata contro il tumore del polmone.