NANE BIANCHE E PIANETI DISTRUTTI: GLI INDIZI TROVATI DAL JAMES WEBB SPACE TELESCOPE
Il telescopio spaziale James Webb (JWST) delle agenzie spaziali NASA, ESA e CSA ci regala nuove immagini mozzafiato del nostro vicinato galattico. Un gruppo di ricerca guidato dall’Istituto nazionale di astrofisica (INAF) ha sfruttato le enormi potenzialità di JWST per osservare, per la prima volta all’infrarosso, l’intera sequenza di raffreddamento delle nane bianche in un vicino ammasso globulare, rivelando un eccesso di emissione infrarossa, potenziale indizio di antichi sistemi planetari distrutti. L’articolo è stato pubblicato di recente nella rivista Astronomische Nachrichten (Astronomical Notes).
La maggior parte delle stelle, soprattutto quelle di massa simile al Sole (da 8 fino a 0.07-0.08 masse solari), terminano la loro evoluzione come nane bianche, cosa che alla nostra stella madre accadrà fra circa 5 miliardi di anni. Dopo aver esaurito il “combustibile” stellare (idrogeno ed elio), questi oggetti non sono in grado di innescare reazioni termonucleari e collassano sotto il proprio peso raffreddandosi fino al loro definitivo spegnimento, perdendo lo strato più esterno della loro atmosfera.
I dati utilizzati nella survey, estrapolati dall’archivio ventennale di Hubble e da recenti osservazioni con il telescopio spaziale Webb, hanno permesso al gruppo di ricerca di sondare le proprietà fondamentali delle nane bianche e di cercare indizi della possibile esistenza di antichi sistemi planetari attorno a esse. Luigi Bedin, ricercatore presso l’INAF di Padova e primo autore dello studio, spiega:
«Abbiamo scoperto che le osservazioni in infrarosso delle nane bianche ci hanno permesso di ricavare informazioni preziose sulle proprietà delle loro dense atmosfere di idrogeno. Dai dati si evince, inaspettatamente, un numero sorprendente di nane bianche con un relativo eccesso di emissione infrarossa. I risultati andranno confermati, ma lasciano intendere che queste nane bianche presentano le tracce di antichi sistemi planetari ormai estinti».
Il team di ricerca ha osservato, in diverse nane bianche, anomalie nella distribuzione spettrale dell’energia. Bedin si riferisce agli eccessi di emissioni nella banda di radiazione infrarossa:
«Questi possono essere dovuti a compagni di taglia sub-stellare o a residui di sistemi planetari distrutti durante l’evoluzione della stella da nane a gigante. Cosa accade? Durante la combustione dell’idrogeno dal nucleo, il guscio della stella si gonfia fino a inglobare i pianeti più interni del suo sistema».
Le osservazioni si riferiscono al vicino ammasso globulare Ngc 6397 (noto anche come C 86), un oggetto abbastanza luminoso e visibile anche a occhio nudo in direzione della costellazione dell’Altare, a 7200 anni luce dal Sole. La survey guidata da Bedin e colleghi con il JWST prevede l’osservazione di stelle intrinsecamente deboli e poco luminose, quindi la vicinanza alla sorgente è fondamentale anche se si utilizza lo strumento operativo nell’infrarosso attualmente più potente in orbita. «In questo ammasso abbiamo osservato circa il 20% di nane bianche con questo eccesso infrarosso, mentre nel campo galattico solo poche sorgenti mostrano un tal anomalo alto flusso nell’infrarosso», aggiunge Bedin.
Il gruppo di ricerca ha in programma una seconda campagna osservativa con la camera/spettrografo Miri del James Webb, uno strumento che – osservando nel medio infrarosso – riesce a caratterizzare l’energia emessa dalle nane bianche con eccesso di infrarosso, discriminando fra la presenza di compagni sub-stellari, dischi di sistemi planetari estinti, residui della fase di gigante rossa. «Queste nuove osservazioni che mapperanno lo spettro fra 2 e 20 micron ci permetteranno di risolvere il mistero», conclude il ricercatore.
Nane bianche e pianeti distrutti: gli indizi trovati da Webb. Immagine somma in tre colori del campo studiato con la camera NIRCam al fuoco del JWST. Crediti per l’immagine: NASA/ESA/CSA/JWST/INAF – L. R. Bedin et al. 2024
NGC 1851E, NELLA COSTELLAZIONE DELLA COLOMBA, È IL BUCO NERO PIÙ LEGGERO O LA STELLA DI NEUTRONI PIÙ PESANTE?
Un articolo pubblicato oggi su Science ci svela la presenza di un oggetto dalla natura misteriosa all’interno dell’ammasso globulare NGC 1851, visibile nella costellazione della Colomba a oltre 39 mila anni luce dalla Terra. Di cosa si tratta? Un team internazionale di astronomi, guidato da ricercatori dell’Istituto Max Planck per la Radioastronomia di Bonn e a cui partecipano anche ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell’Università di Bologna, ha sfruttato la sensibilità delle antenne del radiotelescopio sudafricano MeerKAT per scoprire un oggetto massiccio dalle caratteristiche uniche: è più pesante delle stelle di neutroni più pesanti conosciute e allo stesso tempo è più leggero dei buchi neri più leggeri trovati finora. Altro particolare non di poca rilevanza: l’indagato speciale è in orbita attorno a una pulsar al millisecondo in rapida rotazione. Questa potrebbe essere la prima scoperta del tanto ambito sistema binario radio pulsar – buco nero: una coppia stellare che consentirebbe nuovi test della teoria della relatività generale di Einstein.
Rappresentazione artistica del sistema NGC 1851 partendo dal presupposto che la stella compagna massiccia sia un buco nero. La stella sullo sfondo, la più luminosa, è la sua compagna orbitale, la radio pulsar NGC 1851E. Le due stelle sono separate da 8 milioni di km e ruotano l’una attorno all’altra ogni 7 giorni. Credit: Daniëlle Futselaar (artsource.nl)
Luminose e intermittenti come dei potenti fari cosmici puntati verso la Terra, le pulsar sono stelle di neutroni, ossia i resti compatti (una ventina di chilometri di diametro) ed estremamente densi, derivati da potenti esplosioni di supernova. La teoria mostra che deve esistere una massa massima per una stella di neutroni. Il valore di tale massa massima non è noto con precisione, ma esistono indicazioni sperimentali che almeno fino ad una massa totale pari a circa 2,2 volte la massa del Sole, la stella continua comunque ad essere una stella di neutroni. D’altro canto, molteplici evidenze osservative indicano che i buchi neri (oggetti così densi e compatti per cui nemmeno la luce può allontanarsi da essi) si formano dal collasso che ha luogo alla fine della evoluzione di stelle molto più massicce di quelle che producono le stelle di neutroni. In questo caso la massa minima osservata finora per il nascente buco nero è circa 5 volte la massa del Sole. Bisogna allora domandarsi quale tipo di oggetto compatto si formi nell’intervallo di masse fra 2,2 e 5 volte la massa del Sole, in quello che i ricercatori chiamano “gap di massa per i buchi neri”: una stella di neutroni estremamente massiccia, un buco nero estremamente leggero o altro? Ad oggi non esiste una risposta chiara.
Nell’ambito delle due collaborazioni internazionali “Transients and Pulsars with MeerKAT” (TRAPUM) e “MeerTime”, gli esperti sono stati in grado prima di rilevare e poi di studiare ripetutamente i deboli impulsi provenienti da una delle stelle dell’ammasso, identificandola come una pulsar radio, un tipo di stella di neutroni che gira molto rapidamente ed emette onde radio nell’Universo come un faro cosmico. Questa pulsar, denominata NGC 1851E (ossia la quinta pulsar nell’ammasso globulare NGC 1851), ruota su se stessa più di 170 volte al secondo, e ogni rotazione produce un impulso ritmico, come il ticchettio di un orologio.
Spiega Ewan Barr, dell’Istituto Max Planck per la Radioastronomia di Bonn e primo autore (assieme alla dottoranda dello stesso istituto Arunima Dutta) dello studio:
“Il ticchettio di questi impulsi è incredibilmente regolare. Osservando come cambiano i tempi dei ticchettii, tramite una tecnica chiamata pulsar timing, siamo stati in grado di effettuare misurazioni estremamente precise del moto orbitale di questo oggetto”.
L’estrema regolarità degli impulsi osservati ha permesso anche una misurazione molto precisa della posizione del sistema, dimostrando – tramite osservazioni col telescopio spaziale Hubble – che l’oggetto in orbita attorno alla pulsar non era una normale stella, bensì un residuo estremamente denso di una stella collassata. Inoltre, il fatto che l’orbita stia progressivamente cambiando l’orientamento rispetto a noi (un effetto chiamato tecnicamente “precessione del periastro” e previsto dalla relatività generale) ha mostrato che la compagna ha una massa che era contemporaneamente più grande di quella di qualsiasi stella di neutroni conosciuta e tuttavia più piccola di quella di qualsiasi buco nero conosciuto, posizionandola esattamente nel gap di massa dei buchi neri.
Le antenne del radiotelescopio MeerKAT, in Sudafrica. Crediti: SARAO
Alessandro Ridolfi, primo autore della scoperta di NGC 1851E (conosciuta anche col nome alternativo PSR J0514-4002E), nel 2022, co-autore della pubblicazione su Science, nonché postdoc presso l’INAF di Cagliari, sottolinea:
“Sin dalle prime osservazioni successive alla scoperta, questo sistema binario mostrava caratteristiche peculiari, in particolare per quanto riguarda l’elevata massa della stella compagna. Ulteriori osservazioni hanno evidenziato che si trattava addirittura di un sistema unico, con una stella compagna avente una massa in quella che per ora è la “terra di nessuno” per gli oggetti compatti, ovverosia quell’intervallo di masse per le quali la teoria non è oggi in grado di stabilire se si abbia a che fare con un buco nero leggero o una stella di neutroni pesante”.
Ridolfi è uno dei vincitori del bando “Astrofit-INAF” e lavora alla ricerca di nuove pulsar esotiche ospitate in ammassi globulari.
Potenziale storia della formazione della radiopulsar NGC 1851E e della sua stella compagna. Crediti: Thomas Tauris (Aalborg University / MPIfR)
Cristina Pallanca, ricercatrice al Dipartimento di Fisica e Astronomia “Augusto Righi” dell’Università di Bologna, prosegue:
“Se si rivelerà essere un buco nero, avremo individuato il primo sistema binario composto da una pulsar e un buco nero, una sorta di Santo Graal dell’astronomia. Grazie ad esso avremo un’opportunità senza precedenti per testare con altissima precisione la teoria della relatività generale di Albert Einstein e, di conseguenza, per comprendere meglio le proprietà fisiche dei buchi neri”.
E aggiunge Marta Burgay, un’altra ricercatrice di INAF-Cagliari coinvolta nel progetto:
“Se invece si trattasse di una stella di neutroni, la sua massa elevata imporrà nuovi vincoli alla natura delle forze nucleari, vincoli che non si possono ottenere con nessun esperimento di laboratorio”.
Il sistema si trova nell’ammasso globulare NGC 1851, un denso insieme di vecchie stelle molto più fitte rispetto alle stelle del resto della Galassia. Mario Cadelano, ricercatore al Dipartimento di Fisica e Astronomia “Augusto Righi” dell’Università di Bologna, lo descrive:
“Un sistema binario così non poteva che crearsi in un ambiente altrettanto straordinario: l’ammasso globulare NGC 1851 è un insieme di centinaia di migliaia di stelle mantenute unite dalla loro stessa forza di gravità, formatosi circa 13 miliardi di anni fa, quando l’universo aveva appena 800 mila anni e la nostra Galassia stava attraversando le prime fasi di formazione. All’interno degli ammassi globulari, le stelle interagiscono continuamente durante il corso della loro vita: si scambiano energia, collidono, si uniscono in nuovi sistemi binari e così via. Il nucleo di NGC 1851 è dinamicamente molto attivo, anche più rispetto a quello di altri ammassi globulari, e questo ha favorito la formazione del sistema binario unico nel suo genere che abbiamo scoperto”.
Le regioni centrali di NGC 1851 sono così affollate che le stelle possono interagire tra loro, sconvolgendo le loro orbite e nei casi più estremi scontrandosi. Si ritiene che sia stata una di queste collisioni tra due stelle di neutroni a creare l’oggetto massiccio che ora orbita attorno alla radio pulsar. Tuttavia, prima che venisse creata l’attuale binaria, la radio pulsar deve aver acquisito materiale da un’altra stella in una cosiddetta binaria a raggi X di piccola massa. Un tale processo di “riciclaggio” è necessario per riportare la pulsar alla velocità di rotazione attuale.
La scoperta di questo oggetto misterioso mette in luce le potenzialità degli strumenti utilizzati in questa survey e delle antenne che arriveranno nel futuro. Andrea Possenti, ricercatore anch’egli presso la sede sarda dell’INAF, commenta:
“Questa scoperta è l’apice degli studi finora condotti, grazie al sensibilissimo telescopio MeerKAT, sulle pulsar negli ammassi globulari, un campo di ricerca dove INAF, tramite il gruppo di Cagliari, ricopre dall’inizio un ruolo primario. Ruolo importante sia sul fronte della ricerca di nuove pulsar, 87 quelle scoperte fino ad oggi con il solo radiotelescopio sudafricano, sia ai fini dello studio di quelle note. Il bello è che c’è ancora tanto da scoprire in questi densi sistemi stellari, sia con le osservazioni a MeerKAT, sia, ancor più, con l’avvento del rivoluzionario radiotelescopio SKA. Senza contare – conclude Possenti – che collisioni fra stelle di neutroni come quella ipotizzata per spiegare l’origine di questo sistema potrebbero costituire ulteriori eventi, rari ma di grande interesse, per telescopi per onde gravitazionali, come Virgo, Ligo e il futuro Einstein Telescope”.
Per ulteriori informazioni:
L’articolo “A pulsar in a binary with a compact object in the mass gap between neutron stars and black holes”, di E. Barr, Arunima Dutta, Paulo C. C. Freire, Mario Cadelano, Tasha Gautam, Michael Kramer, Cristina Pallanca, Scott M. Ransom, Alessandro Ridolfi, Benjamin W. Stappers, Thomas M. Tauris, Vivek Venkatraman Krishnan, Norbert Wex, Matthew Bailes, Jan Behrend, Sarah Buchner, Marta Burgay, Weiwei Chen, David J. Champion, C.-H. Rosie Chen, Alessandro Corongiu, Marisa Geyer, Y. P. Men, Prajwal V. Padmanabh, Andrea Possenti, è stato pubblicato sulla rivista Science.
Testo e immagini dagli Uffici Stampa INAF e Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
GAIA E HST: INDIVIDUATO FORSE UN BUCO NERO INTERMEDIO AL CENTRO DELL’AMMASSO STELLARE MESSIER 4 (M4)?
In uno studio pubblicato oggi sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, un gruppo di ricercatori guidati dallo Space Telescope Science Institute (STScI) ha sfruttato i dati raccolti dal satellite dell’ESA Gaia, nello specifico quelli della Data Release 3, e altri ottenuti dal telescopio spaziale Hubble (NASA ed ESA) per studiare qualcosa di insolito all’interno dell’antichissimo ammasso stellare Messier 4 (M4), il più vicino alla Terra. Cosa hanno notato? Un’enorme massa oscura al centro dell’ammasso, 800 volte più massiccio del nostro Sole, che potrebbe essere un buco nero di massa intermedia.
Eduardo Vitral, primo autore dell’articolo e ricercatore presso lo Space Telescope Science Institute, spiega:
“Utilizzando gli ultimi dati di Gaia e Hubble, era impossibile distinguere tra una popolazione di resti stellari e una singola sorgente puntiforme più grande. Quindi una delle possibili teorie è che invece di essere tanti piccoli oggetti separati, questa massa scura potrebbe essere un buco nero di medie dimensioni”.
Gli astronomi stanno cercando di risolvere il mistero dei buchi neri di massa intermedia da oltre due decenni. La maggior parte dei buchi neri che conosciamo sono i resti più piccoli di stelle giganti (fino a 100 volte la massa del Sole) o i “nuclei” supermassicci di grandi galassie, con masse che possono arrivare a miliardi di volte quella del Sole. Con un “peso” compreso tra 100 e 1 milione di soli, i buchi neri di massa intermedia sarebbero l’anello di congiunzione tra le due tipologie.
Timo Prusti, project scientist della missione Gaia, sottolinea:
“I dati Gaia della Data Release 3 sul moto proprio delle stelle nella Via Lattea sono stati essenziali in questo studio. I dati che verranno pubblicati in futuro e gli studi di follow-up dei telescopi spaziali Hubble e James Webb potrebbero fare ulteriore luce su questo mistero”.
Luigi Bedin, ricercatore presso l’INAF di Padova e co-autore dell’articolo, aggiunge che
“nel prossimo futuro, avremo modo di caratterizzare meglio questo eccesso di massa grazie a una analisi di 120 orbite di dati Hubble (GO-12911, PI: Bedin) e soprattutto grazie a nuove osservazioni del James Webb di M4 appena raccolte (lo scorso 9 aprile 2023, sotto il programma GO-1979, con PI: Bedin), dati specificamente disegnati per questo tipo di survey, ma non utilizzati in questo lavoro”.
Alla ricerca hanno partecipato anche Mattia Libralato e Andrea Bellini, due astronomi italiani ricercatori allo STScI.
Individuato un buco nero intermedio nell’ammasso Messier 4? Credits: ESA/Hubble & NASA
Per ulteriori informazioni:
L’articolo “An elusive dark central mass in the globular cluster M4”, di Eduardo Vitral, Mattia Libralato, Kyle Kremer, Gary A. Mamon, Andrea Bellini, Luigi R. Bedin e Jay Anderson, pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.
Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)
DA RIVEDERE L’EQUAZIONE DELLA “LEGGE DI REDDENING” SULLA MATERIA INTERSTELLARE
Pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society lo studio di un team di ricercatori dell’Università di Padova in cui è emerso che “legge di reddening”, l’equazione matematica in grado di predire come la materia interstellare modifichi la luminosità e il colore dei corpi celesti, sia molto diversa da quella che fino ad oggi era ritenuta valida.
Sulla base della nuova ricerca, un gran numero di studi basati sull’equazione tradizionale dovrebbe essere rivisto.
Forma della materia interstellare
Prima del XX secolo l’umanità riteneva che lo spazio che separa gli astri celesti fosse vuoto. Il famoso astronomo americano Edward Emerson Barnard (1857-1923) fu il primo a comprendere che le regioni di cielo apparentemente vuote di materia non lo erano affatto. Lo spazio tra le stelle, detto interstellare, è permeato da una miriade di particelle che interagiscono con la luce delle stelle situate al di là di esse.
La materia interstellare si trova ovunque nella Via Lattea, persino in quei remoti pezzetti di cielo che, pur osservati con i più grandi telescopi, ci appaiono completamente oscuri. Queste microscopiche particelle di polveri e gas rarefatti che permeano le galassie danno origine a nubi oscure e informi. Sebbene intangibile, la materia interstellare interagisce con la luce emessa dai corpi celesti e ne cambia drammaticamente le proprietà: li rende meno luminosi e ne altera i colori. Di conseguenza queste nubi interstellari influenzano la nostra comprensione di una vasta gamma di fenomeni astrofisici che va dallo studio dei pianeti extrasolari, alle reazioni termonucleari che avvengono nelle stelle, fino alle proprietà dell’Universo su larga scala e al suo destino finale.
È essenziale, infatti, capire quanta luce sia stata assorbita dalle nubi interstellari per poter studiare qualsiasi corpo celeste. Tracciare con precisione la distribuzione della materia interstellare nella via Lattea e comprenderne le proprietà rappresenta, quindi, una delle sfide più avvincenti dell’astrofisica. Ma anche tra le più impegnative, proprio per il fatto che le nubi sono invisibili all’occhio dell’uomo e ai suoi telescopi.
Recentemente, una ricerca pubblicata sulla rivista «Monthly Notices of the Royal Astronomical Society» dal titolo “Differential reddening in the direction of 56 Galactic globular clusters” ha permesso di compiere un grosso balzo in avanti in questo settore. Si tratta del lavoro condotto da oltre due anni da un gruppo di ricerca guidato da Maria Vittoria Legnardi, una giovane dottoranda al dipartimento di Fisica e Astronomia dell’Università di Padova. Il team di Legnardi ha messo a punto una tecnica innovativa che sfrutta le straordinarie capacità del telescopio spaziale Hubble per ricavare delle mappe ad altissima risoluzione delle nubi interstellari.
Maria Vittoria Legnardi e Sohee Jang
«Le immagini di Hubble che usiamo – dice Maria Vittoria Legnardi – riprendono un gran numero di ammassi stellari, ovvero agglomerati di decine di migliaia di stelle gemelle, che si trovano oltre le nubi. Le nubi interstellari non sono affatto visibili nelle immagini, ma siamo riusciti a ricostruirle grazie a una lunga e laboriosa analisi della luce proveniente dalle stelle che le attraversa».
«La materia interstellare può assumere delle forme molto bizzarre – continua Sohee Jang, astronoma dell’Università di Seoul che ha trascorso gli ultimi due anni a Padova per studiare gli ammassi stellari e la materia interstellare –. È un po’ come sdraiarsi su un prato a sognare e guardare le nuvole: animali, volti di persone, o persino un grande cuore che batte possono apparire ai nostri occhi».
«Il risultato più sorprendente – commenta Emanuele Dondoglio, coautore dell’articolo e anche lui dottorando a Padova – riguarda però la cosiddetta “legge di reddening”, ovvero l’equazione matematica in grado di predire come la materia interstellare modifichi la luminosità e il colore dei corpi celesti».
Un risultato emozionante riguarda questa legge matematica. Infatti dallo studio del gruppo di Legnardi è emerso che tale legge, ricavata dalle loro mappe ad alta risoluzione, sia molto diversa dall’equazione che fino ad oggi era ritenuta valida.
«Alla luce di questa nuova scoperta – conclude Maria VittoriaLegnardi – un gran numero di studi basati sull’equazione tradizionale dovrà essere rivisto. È possibile dunque che alcune nozioni sull’Universo locale e a larga scala potrebbero subire importanti cambiamenti nei prossimi mesi o anni».
IL PROTOAMMASSO PIÙ ANTICO E LONTANO DELL’UNIVERSO, A2744-z7p9OD, L’HA TROVATO WEBB. LO STUDIO PUBBLICATO SU THE ASTROPHYSICAL JOURNAL LETTERS
Avvistato da Hubble e confermato da Webb, con la preziosa collaborazione dell’ammasso Pandora che ha agito come lente gravitazionale, il protoammasso di galassie più antico e più lontano conta, ad oggi, sette galassie. Si stava assemblando già circa 650 milioni di anni dopo il Big Bang, un periodo in cui stavano cominciando a formarsi le prime strutture cosmiche. Nel team che ha realizzato lo studio partecipano anche ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica.
Le sette galassie evidenziate in questa immagine del James Webb Space telescope sono state confermate avere un redshift di 7,9 che le colloca a un’epoca di 650 milioni di anni dopo il Big Bang. Queste sono le più antiche galassie ad essere confermate spettroscopicamente come costituenti di un ammasso in formazione. Crediti: NASA, ESA, CSA, Takahiro Morishita (IPAC), image processing: Alyssa Pagan (STScI)
Ogni gigante è stato un tempo un bambino, ma riuscire a immaginarlo senza averlo mai visto può essere difficile. Un esercizio che hanno dovuto fare per anni, gli astronomi, dovendo ricostruire come si sono formate le strutture cosmiche più grandi, come gli ammassi di galassie, senza poterne vedere direttamente i progenitori. Fino ad oggi. Grazie al telescopio spaziale James Webb di NASA ed ESA, e grazie all’aiuto della lente gravitazionale di un ammasso di galassie vicino, l’inaccessibile è diventato accessibile. In un articolo pubblicato su The Astrophysical Journal Letters arriva la conferma dell’osservazione del protoammasso più antico e più lontano di sempre, in un’epoca in cui la formazione e l’assemblaggio delle galassie era cominciato da poco. Redshift 7,9, o 650 milioni di anni dopo il Big bang, a tanto si è spinto lo specchio dorato di Webb. In quel momento cominciava a formarsi questa struttura destinata – secondo i calcoli – a diventare un enorme ammasso di galassie. Grazie alle osservazioni di spettroscopia infrarossa di Webb, un gruppo di astronomi, fra cui alcuni dell’istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha confermato che si possono contare almeno sette galassie legate gravitazionalmente all’interno del protoammasso, e molte altre sono destinate a finirci dentro.
«Questo è un sito molto speciale e unico in cui le galassie evolvono in maniera accelerata, e Webb ci ha dato la possibilità senza precedenti di misurare le velocità di queste sette galassie e di confermare con sicurezza che sono legate insieme in un protoammasso», dice Takahiro Morishita, ricercatore all’IPAC-California Institute of Technology e primo autore dello studio.
Gli ammassi di galassie sono le più grandi concentrazioni di massa dell’universo conosciuto e possono ospitare migliaia di galassie legate gravitazionalmente all’interno di un’unica culla (o alone) di materia oscura. Sono talmente massicci da deformare visibilmente il tessuto dello spaziotempo, in un effetto di relatività generale noto come lensing gravitazionale. Proprio come una classica lente ottica, un ammasso di galassie produce un ingrandimento degli oggetti che si trovano, in proiezione, dietro di esso, rendendoli così visibili nonostante la distanza. L’ammasso che è stato utilizzato come lente in questo studio è l’ammasso di Pandora, o Abell 2744, che si trova a poco più di 3,5 miliardi di anni luce da noi.
“È sorprendente che solo 650 milioni di anni dopo il Big Bang ci fosse già una sovradensità di questo tipo formata, nell’universo”, commenta Benedetta Vulcani, ricercatrice dell’INAF di Padova e coautrice dell’articolo. “Il protoammasso ha un raggio di 195.000 anni luce, che è circa la distanza tra noi e la Grande nube di Magellano. È quindi abbastanza compatto, visto che il raggio di un ammasso nell’universo locale può essere 20 volte tanto. Stimare la massa è molto difficile, abbiamo seguito diversi approcci e abbiamo trovato un valore – che riteniamo conservativo – di circa 400 miliardi di masse solari. È un valore che può sembrare molto piccolo a noi addetti ai lavori che siamo abituati a pensare ai grandi ammassi moderni, ma con l’aiuto delle simulazioni abbiamo potuto vedere che questa struttura, evolvendo nel tempo, potrebbe raggiungere una massa simile all’ammasso di Coma, il più grande ammasso noto”.
La pulce nell’orecchio a Morishita e collaboratori, nel caso di A2744-z7p9OD – questo il nome del protoammasso – l’ha messa Hubble. Le sette galassie erano infatti già state individuate nel programma Frontier Fields del telescopio spaziale ottico e ultravioletto, attraverso osservazioni che sfruttavano proprio l’effetto di lente gravitazionale di alcuni ammassi di galassie vicini per vedere oggetti lontani. Per vedere i dettagli di queste strutture, però, non basta ingrandirle: occorre disporre di strumenti in grado di lavorare a lunghezze d’onda infrarosse, alle quali la luce ottica emessa da questi oggetti è stata portata a causa dell’espansione dell’Universo. Ma non potendo osservare a queste lunghezze d’onda, il telescopio Hubble non era stato in grado di dire molto sulla struttura e aveva lasciato aperta la porta della curiosità.
Curiosità che il telescopio spaziale Webb, grazie al suo spettrografo nel vicino infrarosso NIRSpec, è riuscito a soddisfare. Per prima cosa, infatti, è riuscito a confermare la distanza delle sette galassie finora confermate come parte della struttura, a misurare la velocità con la quale si muovono all’interno dell’alone di materia oscura dell’ammasso, e le principali proprietà fisiche. E in secondo luogo, ha consentito di modellare e costruire la storia futura del protoammasso, scoprendo che somiglierà molto all’ammasso di Coma – uno degli ammassi più densi e popolosi dell’universo moderno.
Per crescere, una struttura come questa finirà per acquisire diverse centinaia e migliaia di altre galassie, delle quali gli astronomi hanno già trovato alcune tracce. Nella stessa regione di cielo ci sono infatti altre galassie che hanno un redshift fotometrico – stimato cioè con un metodo meno sicuro di quello utilizzato da Webb – simile a quello del protoammasso. Si trovano però ancora abbastanza lontane da questo, fino a un milione di anni luce di distanza dal centro della struttura, cinque volte più in là del suo raggio.
“Tutte le sette candidate che abbiamo osservato si sono rivelate parte della struttura, con un successo del 100%”, continua Vulcani. “In futuro di certo cercheremo di confermare anche gli altri candidati, per riuscire ad avere una stima più accurata delle dimensioni del protoammasso. Molto probabilmente finora ne abbiamo osservato solo il cuore, o una zona densa, ma pensiamo che ci siano altre galassie che non abbiamo individuato e che appartengono alla stessa struttura”.
Secondo la teoria della formazione e accrescimento delle strutture comiche, nel corso di miliardi di anni nuove galassie “cadranno” in questo protoammasso e contribuiranno alla sua crescita.
“La crescita delle strutture è simile a quella dei corsi d’acqua: torrenti che nascono da montagne diverse possono poi confluire in fiumi più grandi fino a formare i grandi fiumi. Così galassie inizialmente lontane con il passare del tempo si agglomerano in uno stesso spazio” commenta Vulcani, e conclude: “Quello che è sorprendente è che il nostro risultato supporta l’idea secondo cui galassie ad alto redshift che sono fisicamente lontane e magari non ancora parte di una struttura formata, in qualche modo sono già consapevoli del loro destino che le porterà a confluire in un ammasso. Queste galassie, infatti, formano stelle in maniera e quantità molto simili nel corso degli anni e hanno tutte un’evoluzione accelerata rispetto alle altre galassie che vivono la stessa epoca cosmica ma sono isolate. Come se, tornando all’immagine del fiume, le gocce d’acqua che nascono da sorgenti diverse in qualche modo sapessero che prima o poi si incontreranno”.
L’articolo Early results from GLASS-JWST. XVIII:A spectroscopically confirmed protocluster 650 million years after the Big Bang di Takahiro Morishita, Guido Roberts-Borsani, Tommaso Treu, Gabriel Brammer, Charlotte A. Mason, Michele Trenti, Benedetta Vulcani, Xin Wang, Ana Acebron, Yannick Bah´e, Pietro Bergamini, Kristan Boyett, Marusa Bradac, Antonello Calabrò, Marco Castellano, Wenlei Chen, Gabriella De Lucia, Alexei V.Filippenko, Adriano Fontana, Karl Glazebrook, Claudio Grillo, Alaina Henry, Tucker Jones, Patrick L. Kelly, Anton M. Koekemoer, Nicha Leethochawalit, Ting-Yi Lu, Danilo Marchesini, Sara Mascia, Amata Mercurio, Emiliano Merlin, Benjamin Metha, Themiya Nanayakkara, Mario Nonino, Diego Paris, Laura Pentericci, Piero Rosati, Paola Santini, Victoria Strait, Eros Vanzella, Rogier A.Windhorst e Lizhi Xie è stato pubblicato sul sito web della rivista The Astrophysical Journal Letters. DOI: 10.3847/2041-8213/acb99e
Testo e immagine dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)
Un gruppo di ricerca internazionale rileva il precursore di un buco nero supermassiccio nei dati di archivio del telescopio Hubble
Una collaborazione internazionale, che ha visto la partecipazione di astrofisici della Sapienza e dell’Istituto nazionale di astrofisica – Inaf, ha scoperto un oggetto distante circa 13 miliardi di anni luce dalla Terra, estremamente compatto e arrossato dalla polvere stellare. La rilevazione, effettuata grazie all’utilizzo del telescopio spaziale Hubble, farà luce sul mistero della crescita dei buchi neri supermassicci nell’universo primordiale. I risultati del lavoro sono stati pubblicati su Nature.
Il precursore di un buco nero supermassiccio nei dati di archivio di Hubble. Figura 1: GNz7q, un oggetto scoperto a circa 13,1 miliardi di anni luce dalla Terra che mostra segni di un buco nero in rapida crescita all’interno di una galassia in forte formazione stellare e ricca di polvere interstellare (starburst polverosa), colorato nell’immagine combinando i dati di tre osservazioni a colori del telescopio spaziale Hubble. Trovato nella regione GOODS-North[1], una delle regioni del cielo più studiate fino ad oggi, GNz7q è l’oggetto rosso al centro dell’immagine ingrandita (Credito: ESA/Hubble/Fujimoto et al.)
La scoperta di buchi neri supermassicci nell’universo primordiale, con masse fino a diverse centinaia di milioni di volte quella del sole, ha sollevato il problema di capire come oggetti di questa taglia siano stati in grado di formarsi e crescere nel breve periodo di tempo successivo alla nascita dell’Universo (meno di un miliardo di anni). Teoricamente, un buco nero inizia dapprima ad aumentare la sua massa accrescendo gas e polvere nel nucleo di una galassia ricca di polvere e caratterizzata da elevati tassi di formazione stellare (una cosiddetta galassia starburst polverosa). L’energia generata nel processo spazza via i materiali circostanti, trasformando il sistema in un quasar, una sorgente astrofisica molto luminosa e compatta.
Fino a oggi sono state scoperte galassie starburst polverose e quasar luminosi post-transizione ad appena 700-800 milioni di anni dopo il Big Bang, ma non è mai stato trovato un “giovane” quasar nella fase di transizione, la cui scoperta deterrebbe la chiave per la comprensione dei meccanismi di formazione dei buchi neri supermassicci nell’Universo primordiale.
Un gruppo di ricerca internazionale, coordinato dall’astronomo Seiji Fujimoto dell’Università di Copenaghen, con la partecipazione, fra gli altri, di ricercatori del Dipartimento di Fisica della Sapienza e dell’Istituto nazionale di astrofisica – Inaf, ha rianalizzato una grande quantità di dati d’archivio estratti dal telescopio spaziale Hubble e ha scoperto un oggetto, denominato poi GNz7q, che è proprio l’anello mancante tra le galassie starburst e i quasar luminosi nell’universo primordiale. I risultati del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista Nature.
Le osservazioni spettroscopiche con i radiotelescopi hanno mostrato che il giovane quasar è nato solo 750 milioni di anni dopo il Big Bang. Tali osservazioni, sono state poi confrontate con i modelli teorici. Questa importante fase del lavoro è stata svolta da Rosa Valiante dell’Inaf e Raffaella Schneider della Sapienza e ha mostrato come le caratteristiche dello spettro elettromagnetico di questo oggetto, dai raggi X alle onde radio, non si discostano dalle previsioni delle simulazioni teoriche.
“Questo suggerisce che GNz7q sia il primo esempio di buco nero in rapida crescita nel centro di una galassia starburst polverosa – commentano Schneider e Valiante. “Pensiamo che GNz7q sia un precursore dei buchi neri supermassicci trovati nell’universo primordiale”.
La scoperta di GNz7q non solo rappresenta un elemento importante per comprendere l’origine dei buchi neri supermassicci, ma anche un motivo di sorpresa per i ricercatori: la rilevazione infatti è stata fatta in una delle regioni più osservate nel cielo notturno – denominata GOODS, Great Observatories Origins Deep Survey, oggetto d’indagine astronomica dei telescopi più potenti mai costruiti (ovvero quelli operativi nello spazio come Hubble, Herschel e XMM-Newton dell’ESA, il telescopio Spitzer della NASA e l’Osservatorio a raggi X Chandra, oltre a potenti telescopi terrestri, compreso il telescopio Subaru) – suggerendo quindi che sorgenti di questo tipo possano essere più frequenti di quanto si pensasse in precedenza.
Il gruppo di ricerca si propone di condurre una ricerca sistematica di sorgenti simili utilizzando campagne osservative ad alta risoluzione e di sfruttare gli strumenti spettroscopici del telescopio spaziale James Webb della NASA/ESA/CSA, una volta che sarà in regolare funzionamento, per studiare oggetti come GNz7q con una ricchezza di dettagli senza precedenti.
Il precursore di un buco nero supermassiccio nei dati di archivio di Hubble. Figura 2: un’impressione artistica di un giovane buco nero in crescita che emerge dal centro di una galassia starburst polverosa, mentre i materiali densi circostanti di gas e polvere vengono spazzati via dalla potente energia generata quando il buco nero evolve rapidamente accrescendo la materia circostante. (Credito: ESA/Hubble)
Riferimenti:
A dusty compact object bridging galaxies and quasars at cosmic dawn – S. Fujimoto, G. B. Brammer, D. Watson, G. E. Magdis, V. Kokorev, T. R. Greve, S. Toft, F. Walter, R. Valiante, M. Ginolfi, R. Schneider, F. Valentino, L. Colina, M. Vestergaard, R. Marques-Chaves, J. P. U. Fynbo, M. Krips, C. L. Steinhardt, I. Cortzen, F. Rizzo & P. A. Oesch – Naturehttps://doi.org/10.1038/s41586-022-04454-1
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