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INTEGRAL E IL MISTERO DELL’ORIGINE DEL LITIO: SCOPERTA LA TRACCIA DEL BERILLIO NELL’ESPLOSIONE DI UNA NOVA, QUELLA RELATIVA A V1369 CENTAURI

Per la prima volta, un team internazionale guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha rilevato direttamente, nei raggi gamma, la firma del Berillio-7 prodotta durante un’esplosione di nova. Poiché questo isotopo decade in Litio, la scoperta conferma il ruolo delle Novae come principale sorgente di Litio nella Via Lattea. Il risultato, ottenuto grazie ai dati del satellite INTEGRAL e pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics, contribuisce a risolvere un mistero astrofisico decennale.

Un team internazionale di astronomi a guida dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha osservato direttamente per la prima volta la produzione di berillio-7 durante l’esplosione di una nova (dal latino stella nova, a indicare un nuovo astro apparso all’improvviso nel cielo). Il berillio-7 è un isotopo instabile che decade nel corso di circa 53 giorni, trasformandosi in un altro elemento, il litio: la sua identificazione rappresenta un passo decisivo verso la comprensione della genesi del litio nell’universo. La scoperta, basata su osservazioni del satellite INTEGRAL dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e pubblicata sulla rivista Astronomy & Astrophysics, fornisce una prova diretta e indipendente del ruolo cruciale delle nove come “fabbriche di litio”, il terzo elemento più leggero della tavola periodica.

Il segnale osservato nei raggi gamma è associato all’esplosione della stella V1369 Centauri, registrata nel dicembre 2013. Grazie all’analisi dettagliata dei dati raccolti dallo spettrometro SPI, a bordo del satellite europeo, il gruppo di ricerca ha identificato una debole ma significativa emissione gamma con energia di 478 KeV, emessa dal berillio-7 prima del suo decadimento, e considerata la firma inequivocabile della presenza di questo elemento tra i prodotti dell’esplosione. Una volta terminato il processo di decadimento, tutto il berillio prodotto si trasformerà in litio, con un’abbondanza calcolata perfettamente compatibile con quella stimata dalle osservazioni ottiche della stessa nova effettuate nel 2015.

Una nova è un sistema binario in cui una nana bianca – il prodotto finale della vita di una stella come il Sole – sottrae idrogeno alla propria compagna, un’altra stella di piccola massa. Quando l’idrogeno si accumula sulla superficie della nana bianca, innesca una serie di  reazioni termonucleari, provocando un’esplosione in grado di aumentare la luminosità del sistema fino a 100mila volte. Nonostante tempi evolutivi brevi, dell’ordine di giorni o settimane, questi eventi, che si verificano circa 30 volte l’anno nella Via Lattea, espellono quantità significative di gas, contribuendo all’evoluzione chimica della nostra galassia. L’origine del litio rappresenta da decenni un problema aperto dell’astrofisica. Sebbene sia noto che una piccola parte del litio presente nell’universo odierno si sia formata nei primi minuti dopo il Big Bang, l’abbondanza osservata nelle stelle più antiche della Via Lattea è molto più bassa di quanto previsto dai modelli cosmologici (enigma noto come il “problema del litio primordiale”), mentre quella nelle stelle giovani è sorprendentemente più alta (“problema del litio galattico”).

“Osservazioni ottiche precedenti avevano stimato la quantità tipica di berillio-7 prodotta dalle esplosioni di novae”, commenta Luca Izzo, primo autore dell’articolo e ricercatore INAF. “Inizialmente, la distanza stimata di V1369 Centauri rendeva improbabile la rilevazione della riga a 478 keV. Ma grazie al satellite Gaia, abbiamo scoperto che la nova era molto più vicina (circa 3200 anni luce) di quanto stimato in precedenza, rendendo possibile la rilevazione da parte di INTEGRAL. Analizzando i dati di INTEGRAL, raccolti circa 25 giorni dopo l’esplosione, abbiamo trovato un eccesso alla frequenza di 478 keV. Misure accurate dell’intensità di questa riga indicano una quantità di berillio-7 che, una volta decaduto in litio, risulta perfettamente coerente con l’abbondanza di litio misurata tramite osservazioni spettroscopiche nell’ottico e nel vicino ultravioletto, sia in questa nova che, più in generale, in altre novae in cui è stato rilevato litio”.

“Il problema dell’origine del litio ha sfidato gli astrofisici per decenni. Già cinquant’anni fa, teorici come Arnould, Norgaard e Starrfield ipotizzarono che le novae potessero essere la sua sorgente principale”, afferma Massimo della Valle, tra gli autori del lavoro e associato INAF. “Francesca D’Antona e Francesca Matteucci recepirono per prime questa intuizione nei loro modelli di evoluzione chimica della Via Lattea, mostrando che il contributo delle novae era essenziale. L’osservazione della riga a 478 keV è la prova dell’esistenza del berillio-7 negli inviluppi delle novae. Sebbene il rapporto segnale/rumore sia modesto, il fatto che l’emissione sia stata osservata in coincidenza temporale con l’esplosione della nova, esattamente all’energia prevista e con l’intensità attesa, rende altamente improbabile una coincidenza casuale, portando la significatività statistica ben oltre i 3 sigma”.

Rappresentazione artistica di un sistema binario, progenitore di una nova classica, dove la componente primaria, una nana bianca, accresce materia da una compagna evoluta. Crediti: Nasa / ESA L. Hustak (STScI)
Grazie al satellite Integral, novità circa l’origine del litio: scoperta firma del berillio-7 nell’esplosione della nova di V1369 Centauri. Rappresentazione artistica di un sistema binario, progenitore di una nova classica, dove la componente primaria, una nana bianca, accresce materia da una compagna evoluta. Crediti: Nasa / ESA L. Hustak (STScI)

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “Possible evidence for the 478 keV emission line from 7Be decay during the outburst phases of V1369 Cen”, di Izzo L., Siegert T., Jean P., Molaro P., Bonifacio P., Della Valle M. e Parsotan T., è stato pubblicato online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testo, video e immagine dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

ERUZIONI? NO, ESPLOSIONI DI STELLE – SVELATA LA NATURA DI TRANSIENTI ROSSI A LUMINOSITÀ INTERMEDIA

Un team internazionale coordinato da ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha osservato quattro transienti rossi a luminosità intermedia (in inglese intermediate-luminosityred transients o ILRT), ovvero enigmatiche sorgenti variabili nel tempo di cui finora era incerta l’origine. Le accurate indagini svolte, pubblicate in due articoli sulla rivista Astronomy & Astrophysics, indicano che questi transienti sono con ogni probabilità delle vere esplosioni di stelle, e non delle semplici eruzioni.

ell’immagine la galassia NGC 300 (nota anche come C 70) in direzione della costellazione dello Scultore e nel riquadro rosso al centro l’evento transiente NGC300OT. Nell'inserto in alto a destra viene mostrata - con dati del telescopio Spitzer della NASA - l'evoluzione negli anni di questo transiente, dal progenitore (nel 2003) fino alla completa sparizione sotto la soglia di rilevamento del telescopio" (nel 2019). Le immagini di Spitzer sono nell'infrarosso, mentre l'immagine della galassia è nella luce visibile. Crediti: INAF/G. Valerin
nell’immagine la galassia NGC 300 (nota anche come C 70) in direzione della costellazione dello Scultore e nel riquadro rosso al centro l’evento transiente NGC300OT. Nell’inserto in alto a destra viene mostrata – con dati del telescopio Spitzer della NASA – l’evoluzione negli anni di questo transiente, dal progenitore (nel 2003) fino alla completa sparizione sotto la soglia di rilevamento del telescopio” (nel 2019). Le immagini di Spitzer sono nell’infrarosso, mentre l’immagine della galassia è nella luce visibile. Crediti: INAF/G. Valerin

Il cielo si accende e si spegne continuamente, in ogni direzione, con segnali che possono durare da pochi millesimi di secondo fino a settimane, mesi o anni prima di non essere più rilevabili dai nostri strumenti. Analisi e studi negli ultimi anni hanno permesso di comprendere la natura di molti di essi, mentre altri sono ancora di origine ignota.

Il team di ricerca ha monitorato l’evoluzione dei quattro transienti ILRT, con l’obiettivo di determinare il meccanismo che genera questi fenomeni: sono forse delle violente eruzioni, a cui però la stella sopravvive, oppure sono vere e proprie esplosioni terminali, significativamente più deboli rispetto alle “classiche” esplosioni che già conosciamo? La luminosità di queste particolari sorgenti transienti si trova a metà strada tra due fenomeni ben noti: le nove, violente eruzioni stellari a cui la stella sopravvive, e le supernove, brillanti esplosioni dove la stella viene definitivamente distrutta, lasciando dietro di sé una stella di neutroni o un buco nero.

“In seguito alla scoperta di tre nuovi ILRT nel 2019, abbiamo colto la possibilità di studiare e capire meglio questi fenomeni”, commenta Giorgio Valerin, ricercatore postdoc INAF e primo autore dei due articoli su queste sorgenti appena pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics. “Abbiamo quindi raccolto dati per anni attraverso telescopi sparsi in tutto il mondo (la Palma, la Silla, las Campanas, Asiago, solo per citare l’ubicazione dei telescopi più usati) e perfino diversi telescopi in orbita (SWIFT, Spitzer, WISE, JWST). Abbiamo anche ripreso la campagna osservativa di NGC 300 OT, l’ILRT più vicino mai osservato, ad ‘appena’ sei milioni e mezzo di anni luce da noi”.

E aggiunge: “Le prime immagini di NGC 300 OT risalgono al 2008, e in questo lavoro l’abbiamo osservato nuovamente per studiarne l’evoluzione dopo più di dieci anni. L’analisi delle immagini e degli spettri raccolti durante queste campagne osservative ci ha consentito di monitorare l’evoluzione nel tempo dei nostri target, ottenendo informazioni come la luminosità, la temperatura, la composizione chimica e le velocità del gas associate a ogni ILRT che abbiamo studiato”.

 Immagine della Galassia Vortice (M51) ottenuta con il James Webb Space Telescope. In basso, nello zoom, viene evidenziata la posizione di AT 2019abn, uno dei transienti analizzati. Crediti: INAF/G. Valerin, A. Rigutti
transienti rossi a luminosità intermedia sono con ogni probabilità delle vere esplosioni di stelle, e non delle semplici eruzioni. Immagine della Galassia Vortice (M51) ottenuta con il James Webb Space Telescope. In basso, nello zoom, viene evidenziata la posizione di AT 2019abn, uno dei transienti analizzati. Crediti: INAF/G. Valerin, A. Rigutti

L’osservazione di oggetti come NGC 300 OT sul lungo periodo ha permesso di ottenere un indizio fondamentale per rispondere alla domanda su cosa siano esattamente questi transienti. In particolare, le immagini dell’oggetto ottenute con il telescopio spaziale Spitzer mostrano come questo sia diventato fino a dieci volte più debole della stella progenitrice nel corso di sette anni, per poi sparire sotto alla soglia di rilevamento del telescopio. E non sarebbe l’unico caso fra quelli analizzati dagli autori. Un simile destino sembra attendere anche la sorgente denominata AT 2019abn: grazie a osservazioni effettuate con il James Webb Space Telescope, a cinque anni dalla sua scoperta si è visto che anche questo transiente è diventato più debole della sua stella progenitrice, e il suo costante declino in luminosità non sembra volersi arrestare.

Ai ricercatori la conclusione sembra dunque chiara: vere e proprie esplosioni di stelle, e non delle semplici eruzioni. Le stelle che danno loro origine, in gergo le progenitrici, sono circondate da uno spesso strato di gas e polvere, che vengono improvvisamente scaldati a temperature intorno ai 6000 kelvin nel corso dei pochi giorni che vanno dalla scoperta dell’evento al momento di massima luminosità osservato. Contemporaneamente, il gas viene accelerato a velocità che possono raggiungere i 700 chilometri al secondo.

“Questa velocità è decisamente inferiore a quella di una supernova in esplosione, che raggiunge spesso anche i 10 mila chilometri al secondo”, commenta Leonardo Tartaglia, ricercatore INAF e coautore degli articoli. “Eppure, riteniamo che la stella possa essere davvero esplosa, lanciando materiale a migliaia di chilometri al secondo in ogni direzione, ma che questa esplosione sia stata parzialmente soffocata dalla densa coltre di gas e polvere circumstellare, che si scalda come conseguenza del violento urto”.

Un’ipotesi, questa, che troverebbe conferma proprio nella diminuzione di luminosità degli ILRT sul lungo periodo. Non solo. Date queste premesse gli autori sono riusciti a dare un nome e un cognome a questo fenomeno osservativo: supernova a cattura elettronica (in inglese electron capture supernovae), un tipo di supernova previsto dalla teoria ma di cui c’è carenza di controparti osservative. Si tratta di particolari esplosioni stellari che hanno origine da stelle con massa tra 8 e 10 masse solari.

Nonostante le teorie di evoluzione stellare ne prevedano l’esistenza, l’osservazione delle supernovae a cattura elettronica è stata difficile. Alcuni oggetti sono stati interpretati come tali, ma studi recenti suggeriscono l’esistenza di un’intera classe associata a queste sorgenti. Secondo l’evoluzione stellare, le stelle con massa superiore a 10 masse solari esploderanno come supernove “classiche”, mentre quelle con meno di 8 masse solari finiranno come nane bianche.

Le supernovae a cattura elettronica sono quindi particolarmente interessanti, poiché segnano il confine tra queste due categorie.

“Stiamo finalmente osservando quegli eventi che separano le stelle destinate a esplodere come classiche supernove dalle stelle che si spegneranno lentamente come nane bianche”, conclude Valerin.


 

Per ulteriori informazioni:

Gli articoli sono stati pubblicati su Astronomy & Astrophysics:
“A study in scarlet I. Photometric properties of a sample of intermediate-luminosity red transients”, di G. Valerin et al.

“A study in scarlet II. Spectroscopic properties of a sample of intermediate-luminosity red transients”, di G. Valerin et al.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

“ESSERE (POLARIZZATI) O NON ESSERE (POLARIZZATI)?”

La missione NASA-ASI IXPE svela i misteri di una storica supernova, Tycho

supernova Tycho
Immagine composita del resto di supernova Tycho con riprese dei raggi X delle missioni IXPE e Chandra e nel visibile del progetto NASA Digital Sky Survey. Crediti: X-ray: Chandra: Nasa/Cxc/Sao, Ixpe: Nasa/Msfc/Ferrazzoli et al.; Optical: Nasa/DSS

È una missione da record quella dell’osservatorio spaziale IXPE, nata dalla collaborazione tra la NASA e l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI). La sonda sta sfornando nuove immagini che sono una fonte inesauribile di preziosi dati per i ricercatori di tutto il mondo. Infatti è stato proprio un team internazionale di scienziati che ha scoperto nuove informazioni sui resti di una stella esplosa nel 1572. I risultati hanno fornito nuovi indizi sulle condizioni fisiche presenti nelle onde d’urto create in queste titaniche esplosioni stellari chiamate supernove.

Il resto della supernova si chiama Tycho, in onore dell’astronomo danese Tycho Brahe che notò il bagliore luminoso di questa nuova “stella” situata in direzione della costellazione di Cassiopea più di 450 anni fa. Nel nuovo studio, gli astronomi hanno utilizzato l’Imaging X-Ray Polarimetry Explorer (IXPE) per studiare i raggi X polarizzati emessi dal resto della supernova Tycho, scoprendo nuove informazioni sulla geometria dei suoi campi magnetici che sono una componente essenziale per l’accelerazione di particelle ad alta energia.

Lanciata nello spazio il 9 dicembre 2021, IXPE è una missione interamente dedicata allo studio dell’Universo attraverso la misura della polarizzazione dei raggi X. Utilizza tre telescopi installati a bordo con rivelatori finanziati dall’ASI e sviluppati da un team di scienziati dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), con il supporto industriale di OHB-Italia.

“L’importanza del resto di supernova di Tycho va al di là del suo interesse scientifico”, dice Riccardo Ferrazzoli, ricercatore presso l’INAF di Roma. “Essendo una delle cosiddette supernove storiche, Tycho è stata osservata dall’umanità in passato e ha avuto un duraturo impatto sociale e persino artistico. È emozionante essere qui, 450 anni dopo la sua prima apparizione nel cielo, rivedere questo oggetto con occhi nuovi e imparare da esso”. Ferrazzoli è il primo autore del lavoro che appare nell’ultimo numero della rivista The Astrophysical Journal.

La polarizzazione in banda X indica agli scienziati la direzione e l’ordine del campo magnetico della radiazione proveniente da una sorgente altamente energetica come Tycho. I raggi X polarizzati sono prodotti dagli elettroni che si muovono nel campo magnetico in un processo chiamato “emissione di sincrotrone”. La direzione di polarizzazione X può essere ricondotta alla direzione dei campi magnetici nel punto in cui sono stati generati i raggi X. Queste informazioni aiutano gli scienziati ad affrontare alcune delle più grandi domande in astrofisica, come il modo in cui Tycho e altri oggetti accelerano le particelle fino a velocità prossime a quelle della luce.

IXPE ha aiutato a mappare la forma del campo magnetico di Tycho con una chiarezza e un livello di dettaglio senza precedenti. L’osservatorio ha misurato la forma del campo magnetico a scale più piccole di un parsec ossia circa 3 anni luce – una dimensione enorme in termini umani, ma tra le più piccole mai raggiunte nelle osservazioni di queste sorgenti. Queste informazioni sono preziose per comprendere come le particelle vengano accelerate sulla scia dell’onda d’urto dell’esplosione iniziale.

I ricercatori hanno anche documentato somiglianze e differenze sorprendenti tra le scoperte di IXPE fra Tycho e il resto di supernova Cassiopea A, osservato in precedenza dall’osservatorio spaziale e studiato dal suo team scientifico. La forma complessiva del campo magnetico di entrambi i resti di supernova sembra essere radiale, estendendosi verso l’esterno. Ma Tycho ha prodotto un grado di polarizzazione dei raggi X molto più elevato rispetto a Cassiopea A, suggerendo che potrebbe possedere un campo magnetico più ordinato e meno turbolento.

“Dopo un anno di osservazioni, IXPE non smette di stupirci. Abbiamo osservato solo due resti di supernova, e già con così poco è emersa una diversità. La polarimetria X sta davvero aggiungendo tasselli mancanti alla nostra comprensione degli oggetti cosmici. Questo ci ripaga dell’investimento fatto sul lavoro di ricercatori e ricercatrici, che ha reso IXPE la magnifica realtà che è oggi” commenta Laura Di Gesu, ricercatrice ASI e co-autrice dell’articolo.

La supernova Tycho è classificata come tipo I-a, evento che si verifica quando una stella nana bianca in un sistema binario fa a pezzi la sua stella compagna, catturandone parte della massa ed innescando una violenta esplosione. L’annientamento della nana bianca scaglia i detriti nello spazio ad altissime velocità. Si ritiene comunemente che tali eventi siano la fonte della maggior parte dei raggi cosmici galattici trovati nello spazio, compresi quelli che bombardano continuamente l’atmosfera terrestre.

“Il processo mediante il quale un resto di supernova diventa un gigantesco acceleratore di particelle richiede una delicata danza tra ordine e caos”,

afferma l’astrofisico Patrick Slane dell’Harvard & Smithsonian Center for Astrophysics a Cambridge nel Massachusetts, Stati Uniti.

“Sono necessari campi magnetici forti e turbolenti, ma IXPE ci sta mostrando che è coinvolta anche un’uniformità o coerenza su larga scala, che si estende fino ai siti in cui si verifica l’accelerazione”.

L’esplosione della supernova stessa rilasciò un’energia pari a quella prodotta dal Sole nel corso di 10 miliardi di anni. Quella brillantezza rese la supernova di Tycho visibile ad occhio nudo qui sulla Terra nel 1572, quando fu avvistata da Brahe e da molti altri personaggi dell’epoca, incluso potenzialmente il giovanissimo William Shakespeare, che l’avrebbe poi descritta in un passaggio “dell’Amleto” all’inizio del XVII secolo.

“La Supernova Tycho è stata la sfida perfetta per gli strumenti di IXPE” conclude Enrico Costa dell’INAF, coautore dell’articolo: “I luoghi del fronte d’urto dove i Raggi Cosmici vengono accelerati vanno individuati con un’attenta analisi dell’immagine, dominata dall’emissione non polarizzata dei filamenti termalizzati. Ciò è possibile grazie alle buone proprietà di imaging dei rivelatori e all’eccellente qualità del telescopio, entrambi eccezionali per una piccola missione di massa così ridotta. Alla fine abbiamo trovato qualcosa di molto diverso dalle previsioni e questa è la migliore ricompensa per un astronomo”.

 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “X-ray polarimetry reveals the magnetic field topology on sub-parsec scales in Tycho’s supernova remnant“, di Riccardo Ferrazzoli, Patrick Slane, Dmitry Prokhorov, Ping Zhou, Jacco Vink, Niccolò Bucciantini, Enrico Costa, Niccolò Di Lalla, Alessandro Di Marco, Paolo Soffitta, Martin C. Weisskopf, Kazunori Asakura, Luca Baldini, Jeremy Heyl, Philip E. Kaaret, Frédéric Marin, Tsunefumi Mizuno, C.-Y. Ng, Melissa Pesce-Rollins, Stefano Silvestri, Carmelo Sgrò, Douglas A. Swartz, Toru Tamagawa, Yi-Jung Yang, Iván Agudo, Lucio A. Antonelli, Matteo Bachetti, Wayne H. Baumgartner, Ronaldo Bellazzini, Stefano Bianchi, Stephen D. Bongiorno, Raffaella Bonino, Alessandro Brez, Fiamma Capitanio, Simone Castellano, Elisabetta Cavazzuti, Chien-Ting Chen, Stefano Ciprini, Alessandra De Rosa, Ettore Del Monte, Laura Di Gesu, Immacolata Donnarumma, Victor Doroshenko, Michal Dovčiak, Steven R. Ehlert, Teruaki Enoto, Yuri Evangelista, Sergio Fabiani, Javier A. Garcia, Shuichi Gunji, Kiyoshi Hayashida, Wataru Iwakiri, Svetlana G. Jorstad, Fabian Kislat, Vladimir Karas, Takao Kitaguchi, Jeffery J. Kolodziejczak, Henric Krawczynski, Fabio La Monaca, Luca Latronico, Ioannis Liodakis, Simone Maldera, Alberto Manfreda, Andrea Marinucci, Alan P. Marscher, Herman L. Marshall, Giorgio Matt, Ikuyuki Mitsuishi, Fabio Muleri, Michela Negro, Stephen L. O’Dell, Nicola Omodei, Chiara Oppedisano, Alessandro Papitto, George G. Pavlov, Abel L. Peirson, Matteo Perri, Pierre-Olivier Petrucci, Maura Pilia, Andrea Possenti, Juri Poutanen, Simonetta Puccetti, Brian D. Ramsey, John Rankin, Ajay Ratheesh, Oliver Roberts, Roger W. Romani, Gloria Spandre, Fabrizio Tavecchio, Roberto Taverna, Yuzuru Tawara, Allyn F. Tennant, Nicholas E. Thomas, Francesco Tombesi, Alessio Trois, Sergey S. Tsygankov, Roberto Turolla, Kinwah Wu, Fei Xie, Silvia Zane è stato pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal.

 

Testo e immagine dagli Uffici Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e Agenzia Spaziale Italiana (ASI).

WFIRST (Wide Field InfraRed Survey Telescope) – da poco ribattezzato Roman Telescope in onore dell’astronoma statunitense Nancy Grace Roman, affettuosamente chiamata “la mamma di Hubble” – è un progetto NASA designato ad indagare su alcuni grandi misteri dell’Universo come la materia e l’energia oscura e per cercare nuovi mondi in orbita attorno ad altre stelle della nostra galassia.

ScientifiCult ha l’onore di poter intervistare il dott. Valerio Bozza, ricercatore presso l’Università degli Studi di Salerno e attualmente impegnato a collaborare con la NASA per la realizzazione del Telescopio Roman.

Valerio Bozza
Il dott. Valerio Bozza

Può raccontarci i momenti della Sua carriera professionale che ricorda con più piacere?

In vent’anni di ricerca ho avuto la fortuna di vivere tante soddisfazioni e di lavorare con le persone che hanno scritto i libri su cui ho studiato. Certamente, partecipare alle discussioni nello studio di Gabriele Veneziano al CERN con i cosmologi più importanti del mondo e poter assistere alla nascita di idee geniali su quella lavagna è stata un’esperienza formativa fondamentale. Quando ho avuto il mio primo invito a relazionare ad un workshop all’American Institute of Mathematics sul gravitational lensing di buchi neri e ho ricevuto i complimenti di Ezra T. Newman, ho capito che potevo davvero dire la mia anche io.

Ricordo ancora le notti di osservazioni allo European Southern Observatory a La Silla in Cile, sotto il cielo più bello del pianeta. Ricordo l’invito al Collège de France a Parigi da parte di Antoine Layberie per un seminario, che poi ho scoperto di dover tenere in francese! Poi non ci dimentichiamo la notizia della vittoria al concorso da ricercatore, che mi ha raggiunto mentre ero in Brasile per un altro workshop sulle perturbazioni cosmologiche. Infine, ricordo con una certa malinconia le notti e i giorni di lavoro all’Osservatorio Astronomico UNISA per mettere su un programma di ricerca competitivo. Tutto è finito con la copertina di Nature sulla scoperta del pianeta KELT-9b, il più caldo mai visto, e la distruzione dell’Osservatorio nel febbraio 2019, una ferita ancora aperta.

Adesso, però, è ora di concentrarsi sullo sviluppo del nuovo telescopio spaziale WFIRST della NASA, che il 20 maggio scorso è stato rinominato Nancy Grace Roman Space Telescope (o semplicemente “Roman”, in breve), in onore della astronoma che ha contribuito alla nascita dei primi telescopi spaziali della NASA.

Infine, ricordo con una certa malinconia le notti e i giorni di lavoro all’Osservatorio Astronomico UNISA con il Prof. Gaetano Scarpetta, per mettere su un programma di ricerca competitivo.

Ci sono degli aggiornamenti sulla data del lancio di Roman?

Il lancio del telescopio Roman era programmato per il 2025, ma diverse vicende hanno giocato contro in questi ultimi anni: il ritardo nel lancio del JWST, lo shutdown del governo americano ad inizio 2019 e soprattutto l’epidemia di COVID-19, che sta provocando ritardi su tutte le scadenze nella tabella di marcia. A questo punto, direi che uno slittamento all’anno successivo possa essere plausibile. Tuttavia, l’interesse verso questa missione sta continuando a crescere sia dentro che fuori l’ambito accademico, mettendola al riparo da eventuali tagli di budget.


Roman viene spesso paragonato al telescopio spaziale Hubble. Quali sono le differenze e le somiglianze? E con il JWST?

Si tratta di tre telescopi spaziali che spesso vengono citati insieme, ma sono tutti e tre profondamente diversi: Hubble opera nella banda del visibile e nell’ultravioletto, mentre non è molto sensibile all’infrarosso. Al contrario, sia JWST che Roman opereranno nel vicino infrarosso. JWST avrà un campo di vista molto più piccolo anche di Hubble, perché il suo scopo è fornirci immagini con dettagli mai visti prima di sistemi stellari e planetari in formazione. Roman, invece, avrà un campo di vista cento volte più grande di Hubble, perché il suo scopo è quello di scandagliare aree di cielo molto grandi alla ricerca di galassie o fenomeni transienti. La grande novità è che Roman condurrà queste survey a grande campo con una risoluzione di 0.1 secondi d’arco, simile a quella di Hubble! Quindi, avremo la possibilità di condurre la scienza di Hubble su enormi aree di cielo contemporaneamente. JWST, invece, condurrà osservazioni con un dettaglio molto migliore di Hubble e di Roman, ma su un singolo oggetto in un’area molto limitata.

Roman telescope Valerio Bozza
Immagine 3D del veicolo spaziale Roman (luglio 2018). Immagine NASA (WFIRST Project and Dominic Benford), adattata, in pubblico dominio


Quali sono i target scientifici della missione e come vengono raggiunti?

A differenza di Hubble e JWST, Roman avrà poco spazio per richieste estemporanee di osservazioni. Sarà un telescopio essenzialmente dedicato a due programmi principali: una survey delle galassie lontane e una survey del centro della nostra Galassia. La prima survey effettuerà delle immagini di tutto il cielo alla ricerca di galassie deboli e lontane. Queste immagini consentiranno di capire meglio la distribuzione della materia nel nostro Universo, fissare le tappe dell’espansione cosmologica e chiarire i meccanismi alla base dell’espansione accelerata, scoperta venti anni fa attraverso lo studio delle supernovae Ia. I cosmologi si aspettano che Roman possa fornirci risposte fondamentali sulla natura della cosiddetta Dark Energy, che è stata ipotizzata per spiegare l’accelerazione del nostro Universo, ma la cui natura è del tutto sconosciuta.

Il secondo programma osservativo è una survey delle affollatissime regioni centrali della nostra galassia. Monitorando miliardi di stelle, ci aspettiamo che, almeno per una frazione di queste, la loro luce verrà amplificata da effetti temporanei di microlensing dovuti a stelle che attraversano la linea di vista. Il microlensing è un’amplificazione dovuta al ben noto effetto “lente gravitazionale” previsto dalla relatività generale di Einstein. Se la stella che fa da lente è anche accompagnata da un pianeta, l’amplificazione riporterà delle “anomalie” che potranno essere utilizzate per studiare e censire i sistemi planetari nella nostra galassia. Roman sarà così sensibile da rivelare anche pianeti piccoli come Marte o Mercurio!

microlensing
Il fenomeno del microlensing: la sorgente (in alto) appare più brillante quando una stella lente passa lungo la linea di vista. Se la lente è accompagnata da un pianeta, la luminosità mostra anche una breve anomalia. Credits: © ESA


Quali differenze tra le caratteristiche dei pianeti extrasolari che andrà a scoprire
Roman e quelle dei pianeti che ha osservato Kepler e che osserva TESS?

Il metodo del microlensing, utilizzato da Roman, è in grado di scoprire pianeti in orbite medio-larghe intorno alle rispettive stelle. Al contrario, sia Kepler che TESS, utilizzano il metodo dei transiti, in cui si misura l’eclisse parziale prodotta dal pianeta che oscura parte della sua stella. Questi due satelliti, quindi, hanno scoperto tipicamente pianeti molto vicini alle rispettive stelle.

Ipotizzando di osservare una copia del Sistema Solare, Kepler e TESS potrebbero vedere Mercurio o Venere, nel caso di un buon allineamento. Roman, invece, avrebbe ottime probabilità di rivelare tutti i pianeti da Marte a Nettuno.

Un’altra differenza è che Roman scoprirà pianeti distribuiti lungo tutta la linea di vista fino al centro della Galassia, consentendo un’indagine molto più ampia della distribuzione dei pianeti di quanto si possa fare con altri metodi, tipicamente limitati al vicinato del Sole. Purtroppo, però, i pianeti scoperti col microlensing non si prestano ad indagini approfondite, poiché, una volta terminato l’effetto di amplificazione, i pianeti tornano ad essere inosservabili e sono perduti per sempre.

In definitiva, la conoscenza dei pianeti nella nostra Galassia passa per il confronto tra diversi metodi di indagine complementari. Ognuno ci aiuta a comprendere una parte di un puzzle che si rivela sempre più complesso, mano mano che scopriamo mondi sempre più sorprendenti.

 

Nancy Grace Roman, in una foto NASA del 2015, in pubblico dominio