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LVK: a dieci anni dalla scoperta, le onde gravitazionali verificano il teorema dell’area dei buchi neri di Stephen Hawking

LIGO, Virgo e KAGRA celebrano questa settimana l’anniversario della prima rilevazione delle onde gravitazionali e annunciano la verifica del teorema dell’area dei buchi neri di Stephen Hawking

Il 14 settembre 2015 è arrivato sulla Terra un segnale generato da una coppia di buchi neri che, dopo aver spiraleggiato uno attorno all’altro a velocità impressionanti, si erano fusi, liberando una enorme quantità di energia. Per raggiungerci il segnale aveva viaggiato per circa 1,3 miliardi di anni alla velocità della luce, ma non si trattava di un segnale luminoso, era un fremito dello spazio-tempo chiamato onda gravitazionale, teorizzato per la prima volta da Albert Einstein 100 anni prima. Quella prima rivelazione diretta delle onde gravitazionali effettuata dai due rilevatori gemelli LIGO negli Stati Uniti, sarà annunciata al mondo dalle collaborazioni LIGO e Virgo,  dopo molti mesi di analisi e verifiche, solo nel febbraio 2016. E porterà l’anno successivo alla assegnazione del premio Nobel per la Fisica, a tre dei fondatori di LIGO: Rainer Weiss, professore emerito di fisica dell’MIT (recentemente scomparso all’età di 92 anni), Barry Barish e Kip Thorne di Caltech.

Oggi i rivelatori gravitazionali statunitensi LIGO negli stati di Washington e Louisiana, Virgo, progetto fondato dall’Istituto Nazionale  di Fisica Nucleare e dal francese CNRS in Italia e KAGRA in Giappone opera in modo coordinato e osserva circa una fusione di buchi neri ogni tre giorni. Il network LVK (LIGO, Virgo e KAGRA) ha osservato un totale di circa 300 fusioni di buchi neri, alcune delle quali sono state confermate mentre altre sono in attesa di ulteriori analisi. Nel corso dell’attuale periodo di osservazione scientifico, cominciato a giugno 2023, LVK ha rivelato circa 230 segnali candidati a essere fusioni di buchi neri, più del doppio di quelli rilevati nei primi tre periodi.

Dieci anni di scoperte di LVKQuesto grafico illustra le scoperte effettuate dalla rete LIGO-Virgo-KAGRA (LVK) dalla prima rilevazione di LIGO, nel 2015, di onde gravitazionali provenienti da una coppia di buchi neri in collisione. Le rivelazioni consistono principalmente in fusioni di buchi neri, ma una manciata coinvolge stelle di neutroni (collisioni buco nero-stella di neutroni o stella di neutroni-stella di neutroni). Finora, durante l'attuale quarto ciclo scientifico, i rivelatori LVK hanno individuato circa 220 fusioni, più del doppio del numero (90) trovato nei primi tre cicli combinati. L'evento più vicino osservato finora, mostrato nel Run 2 e indicato dalla freccia in basso, è una fusione binaria di stelle di neutroni nota come GW170817, situata a soli 130 milioni di anni luce di distanza. In questo grafico, le masse totali degli oggetti iniziali sono rappresentate dalle dimensioni, mentre l'intensità del segnale è indicata dal colore. Il grafico dimostra che nel corso del tempo gli osservatori di onde gravitazionali stanno trovando un maggior numero di buchi neri e li rivelano con un rapporto segnale/rumore più elevato, grazie ai progressi compiuti dai rivelatori. Si noti che le rivelazioni di buchi neri nell'ultima metà del quarto run sono grigie e appaiono della stessa dimensione, perché questi dati non sono stati rilasciati per intero, a eccezione dell'evento denominato GW250114. Questo evento, il segnale più chiaro mai rilevato da LIGO, appare come un punto luminoso arancione sul grafico del quarto run. Crediti immagine: LIGO/Caltech/MIT/R. Hurt (IPAC)
Dieci anni di scoperte di LVK
Questo grafico illustra le scoperte effettuate dalla rete LIGO-Virgo-KAGRA (LVK) dalla prima rilevazione di LIGO, nel 2015, di onde gravitazionali provenienti da una coppia di buchi neri in collisione. Le rivelazioni consistono principalmente in fusioni di buchi neri, ma una manciata coinvolge stelle di neutroni (collisioni buco nero-stella di neutroni o stella di neutroni-stella di neutroni).
Finora, durante l’attuale quarto ciclo scientifico, i rivelatori LVK hanno individuato circa 220 fusioni, più del doppio del numero (90) trovato nei primi tre cicli combinati. L’evento più vicino osservato finora, mostrato nel Run 2 e indicato dalla freccia in basso, è una fusione binaria di stelle di neutroni nota come GW170817, situata a soli 130 milioni di anni luce di distanza.
In questo grafico, le masse totali degli oggetti iniziali sono rappresentate dalle dimensioni, mentre l’intensità del segnale è indicata dal colore. Il grafico dimostra che nel corso del tempo gli osservatori di onde gravitazionali stanno trovando un maggior numero di buchi neri e li rivelano con un rapporto segnale/rumore più elevato, grazie ai progressi compiuti dai rivelatori.
Si noti che le rivelazioni di buchi neri nell’ultima metà del quarto run sono grigie e appaiono della stessa dimensione, perché questi dati non sono stati rilasciati per intero, a eccezione dell’evento denominato GW250114. Questo evento, il segnale più chiaro mai rilevato da LIGO, appare come un punto luminoso arancione sul grafico del quarto run.
Crediti immagine: LIGO/Caltech/MIT/R. Hurt (IPAC)

Il notevole aumento del numero di osservazioni di LVK nell’ultimo decennio è dovuto a diversi miglioramenti apportati ai rivelatori, alcuni dei quali sfruttano l’ingegneria di precisione quantistica di ultima generazione. Questi interferometri per onde gravitazionali sono di gran lunga il più preciso strumento di misurazione mai creato dall’umanità. Le distorsioni spazio-temporali indotte dalle onde gravitazionali sono incredibilmente minuscole. Per osservarle, LIGO,Virgo e KAGRA devono rivelare cambiamenti nello spazio-tempo più piccoli di un decimillesimo della dimensione di un protone. Vale a dire 700.000 miliardi di volte più piccole dello spessore di un capello umano.

Il segnale più chiaro finora

La maggiore sensibilità degli strumenti è esemplificata dalla recente scoperta di una fusione di buchi neri denominata GW250114 (i numeri indicano la data in cui il segnale delle onde gravitazionali è arrivato sulla Terra: 14 gennaio 2025). L’evento non è molto diverso dalla prima rivelazione in assoluto (denominata GW150914): entrambi coinvolgono buchi neri in collisione a circa 1,3 miliardi di anni luce di distanza, con masse da 30 a 40 volte quelle del nostro Sole. Ma grazie a 10 anni di progressi tecnologici che hanno ridotto il rumore strumentale, il segnale di GW250114 è molto più nitido.

“Possiamo sentirlo forte e chiaro, e questo ci permette di testare le leggi fondamentali della fisica”,

dice Katerina Chatziioannou, membro di LIGO e Assistant Professor di fisica a Caltech, tra i principali autori di un nuovo studio su GW250114 pubblicato su Physical Review Letters.

Analizzando le frequenze delle onde gravitazionali emesse dalla fusione, il team di LVK è stato in grado di fornire la migliore prova osservativa finora acquisita di quello che è noto come il teorema dell’area dei buchi neri, un’idea avanzata da Stephen Hawking nel 1971 secondo cui le superfici totali dei buchi neri non possono diminuire. Quando i buchi neri si fondono, le loro masse si uniscono, aumentando la superficie. Ma perdono anche energia sotto forma di onde gravitazionali. Inoltre, la fusione può far sì che il buco nero combinato aumenti il suo spin, il che porterebbe a ridurre la sua area. In realtà Il teorema dell’area del buco nero afferma che, nonostante questi fattori in competizione, la superficie totale del buco nero finale deve comunque crescere In seguito, Hawking e il fisico Jacob Bekenstein conclusero che l’area di un buco nero è proporzionale alla sua entropia, o grado di disordine. Queste scoperte hanno aperto la strada a successivi lavori rivoluzionari nel campo della gravità quantistica, che cerca di unire due pilastri della fisica moderna: la relatività generale e la fisica quantistica.

Credito immagine: Lucy Reading-Ikkanda/Simons Foundation
Credito immagine: Lucy Reading-Ikkanda/Simons Foundation

In sostanza, la rivelazione ha permesso al team di “ascoltare” i due buchi neri che crescevano mentre si fondevano in uno solo, verificando il teorema di Hawking. I buchi neri iniziali avevano una superficie totale di 240.000 chilometri quadrati (circa la dimensione del Regno Unito), mentre l’area finale era di circa 400.000 chilometri quadrati (quasi la dimensione della Svezia). Questo è il secondo test del teorema dell’area del buco nero; un primo test è stato eseguito nel 2021 utilizzando i dati del primo segnale GW150914, ma poiché quei dati non erano così chiari, i risultati avevano un livello di confidenza del 95% rispetto al 99,999% dei nuovi dati. Kip Thorne ricorda che Hawking gli telefonò per chiedergli se LIGO potesse essere in grado di testare il suo teorema subito dopo aver appreso della rivelazione delle onde gravitazionali nel 2015. “Se Hawking fosse ancora vivo, si avrebbe certamente gioito  nel vedere che l’analisi dei dati di GW250114 mostri che  l’area dei buchi neri uniti effettivamente aumenta”, dice Thorne.  (Hawking è scomparso nel 2018)

Credito immagine: Lucy Reading-Ikkanda/Simons Foundation
Credito immagine: Lucy Reading-Ikkanda/Simons Foundation

Nello studio pubblicato oggi, infatti, i ricercatori sono riusciti a misurare con precisione i dettagli della cosiddetta fase di ringdown, in cui, dopo la fusione, il buco nero finale vibra come una campana colpita. Ciò ha permesso loro di calcolare la massa e lo spin del buco nero e di determinarne quindi la superficie. In questo studio,in effetti, sono stati individuati per la prima volta, con sicurezza, due distinti “modi” di onde gravitazionali nella fase di ringdown. I modi sono come i suoni caratteristici di una campana, quando viene colpita: hanno frequenze simili ma si estinguono a velocità diverse, il che li rende difficili da identificare. Grazie al miglioramento dei dati relativi a GW250114, il team ha potuto estrarre per la prima volta i modi, dimostrando che il ringdown del buco nero si è verificato esattamente come previsto dai modelli matematici. Infine un altro studio di LIGO – Virgo – KAGRA, presentato oggi a Physical Review Letters, pone dei limiti alla previsione di un terzo tono più acuto nel segnale di GW250114 ed esegue alcuni dei test più rigorosi finora condotti sull’accuratezza della relatività generale nel descrivere la fusione dei buchi neri.

“Analizzare i dati dei rivelatori per individuare segnali astrofisici transitori, inviare alerts per attivare osservazioni di follow-up da parte dei telescopi e pubblicare i risultati raccogliendo informazioni da centinaia di eventi è un processo piuttosto lungo e complesso”, aggiunge Nicolas Arnaud, ricercatore del CNRS in Francia e coordinatore del quarto ciclo di osservazioni di Virgo. “Dietro a tutti questi passaggi ci sono. però, esseri umani, in particolare quelli che sono in turno costantemente a sorvegliare i nostri strumenti, in tutte le regioni del pianeta: letteralmente, il Sole non tramonta mai sulle nostre collaborazioni!”.

Spingersi oltre i limiti

LIGO e Virgo hanno anche osservato stelle di neutroni nell’ultimo decennio. Come i buchi neri, le stelle di neutroni si formano dopo la morte esplosiva delle stelle massicce, ma sono meno pesanti e emettono luce. Nell’agosto 2017, LIGO e Virgo hanno assistito all’epica collisione tra una coppia di stelle di neutroni – una kilonova – che ha disperso nello spazio oro e altri elementi pesanti. Lo stesso fenomeno è stato immediatamente segnalato a  decine di telescopi suulla Terra e nello Spazio, che hanno potuto catturare altri segnali generati dallo stesso evento: dai raggi gamma ad alta energia alle onde radio a bassa energia. Questo evento astronomico “multi-messaggero” ha segnato una tappa epocale. La ricerca di altre collisioni di stelle di neutroni resta oggi una delle frontiere più promettenti per la comunità astronomica e il network LVK è al centro di un sistema di alerts, che consente ai telescopi di cercare nei cieli i segni di una nuova potenziale kilonova.

“La rete globale fdi rivelatori gravitazionali  è essenziale per l’astronomia delle onde gravitazionali”, afferma Gianluca Gemme, portavoce di Virgo e dirigente di ricerca dell’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare). “Con tre o più rivelatori che operano all’unisono, possiamo individuare gli eventi cosmici con maggiore precisione, estrarre informazioni astrofisiche più ricche e consentire segnalazioni rapide per il follow-up di più messaggeri. La Collaborazione Virgo è orgogliosa di contribuire a questa impresa scientifica mondiale”.

Guardando al futuro, gli scienziati stanno lavorando a rivelatori ancora più grandi. Il progetto europeo, chiamato Einstein Telescope, prevede di costruire uno o due enormi interferometri sotterranei con bracci di oltre 10 chilometri, mentre quello statunitense, chiamato Cosmic Explorer, sarebbe simile all’attuale LIGO ma con bracci lunghi 40 chilometri. Osservatori di questa portata consentirebbero di ascoltare le prime fusioni di buchi neri nell’universo e, forse, l’eco delle scosse gravitazionali dei primissimi istanti dopo il Big Bang.

“Questo è un momento straordinario per la ricerca sulle onde gravitazionali: grazie a strumenti come Virgo, LIGO e KAGRA, possiamo esplorare un universo oscuro che prima era completamente inaccessibile”, ha dichiarato Massimo Carpinelli, professore all’Università di Milano Bicocca e direttore dell’Osservatorio Gravitazionale Europeo di Cascina. “Le conquiste scientifiche di questi 10 anni stanno innescando una vera e propria rivoluzione nella nostra visione dell’Universo. Stiamo già preparando una nuova generazione di rivelatori come Einstein Telescope in Europa e Cosmic Explorer negli Stati Uniti, oltre all’ interferometro spaziale LISA, che ci porteranno ancora più lontano nello spazio e nel tempo. Nei prossimi anni, saremo in grado di affrontare queste straordinarie sfide solo grazie a una sempre più ampia e solida collaborazione tra scienziati, Paesi e istituzioni diverse, sia a livello europeo che globale.”

Una sinfonia cosmica rivelataQuest'opera d'arte ci immerge in GW250114, una potente collisione tra due buchi neri osservata con le onde gravitazionali dal progetto LIGO della National Science Foundation statunitense. Raffigura la vista da uno dei buchi neri mentre si dirige a spirale verso il suo partner cosmico. Dieci anni dopo la storica rilevazione delle onde gravitazionali da parte di LIGO, i rivelatori migliorati hanno permesso di "sentire" questa collisione celeste con una chiarezza senza precedenti. I dati sulle onde gravitazionali hanno permesso agli scienziati di distinguere molteplici toni che risuonano come una campana cosmica attraverso l'universo (immaginato qui come un intreccio di fili musicali che si dirigono a spirale verso il centro). Sebbene solo LIGO fosse online durante l’osservazione di GW250114, ora opera abitualmente come parte di una rete con altri rivelatori di onde gravitazionali, tra cui Virgo in Europa e KAGRA in Giappone. Credit immagine: Aurore Simonnet (SSU/EdEon)/LVK/URI
A dieci anni dalla scoperta, le onde gravitazionali verificano il teorema dell’area dei buchi neri di Stephen Hawking. Una sinfonia cosmica rivelata.
Quest’opera d’arte ci immerge in GW250114, una potente collisione tra due buchi neri osservata con le onde gravitazionali dal progetto LIGO della National Science Foundation statunitense. Raffigura la vista da uno dei buchi neri mentre si dirige a spirale verso il suo partner cosmico. Dieci anni dopo la storica rilevazione delle onde gravitazionali da parte di LIGO, i rivelatori migliorati hanno permesso di “sentire” questa collisione celeste con una chiarezza senza precedenti. I dati sulle onde gravitazionali hanno permesso agli scienziati di distinguere molteplici toni che risuonano come una campana cosmica attraverso l’universo (immaginato qui come un intreccio di fili musicali che si dirigono a spirale verso il centro).
Sebbene solo LIGO fosse online durante l’osservazione di GW250114, ora opera abitualmente come parte di una rete con altri rivelatori di onde gravitazionali, tra cui Virgo in Europa e KAGRA in Giappone.
Credit immagine: Aurore Simonnet (SSU/EdEon)/LVK/URI

Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa EGO e Virgo

L’interazione tra buchi neri e onde gravitazionali si studia con un esperimento da tavolo

Lo studio, basato sulla tesi di Chiara Coviello, laureata in Fisica all’Unipi, è stato pubblicato sulla rivista AVS Quantum.

Uno studio basato sulla tesi di Chiara Coviello, laureata in Fisica all’Università di Pisa nel 2023 e adesso al King’s College di Londra per un dottorato di ricerca, è stato recentemente pubblicato dalla rivista AVS Quantum Science. Al centro dello studio – intitolato “Gravitational waves and Black Hole perturbations in acoustic analogues” – ci sono i buchi neri che, con il loro fascino oscuro, sono tra gli oggetti più affascinanti del cosmo e sono incredibilmente difficili da analizzare. Per comprenderli meglio, il gruppo di ricerca interdisciplinare di cui fa parte Coviello ha esaminato i buchi neri acustici, un equivalente analogico che intrappola le onde sonore e può essere creato in un esperimento da tavolo. Tra gli autori e le autrici dello studio ci sono anche la professoressa Marilù Chiofalo dell’Università di Pisa, i professori Dario Grasso dell’INFN di Pisa, Stefano Liberati della SISSA di Trieste e Massimo Mannarelli dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso, con la dottoressa Silvia Trabucco, dottoranda di ricerca al Gran Sasso Institute Science dopo essersi laureata in Fisica a Pisa.

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L’interazione tra buchi neri e onde gravitazionali si studia con un esperimento da tavolo; lo studio pubblicato su AVS Quantum Science

Coviello e gli altri autori e autrici hanno indagato se i buchi neri acustici possano essere utilizzati per comprendere le interazioni tra le onde gravitazionali e i buchi neri astrofisici. In un’analisi teorica, hanno esplorato come generare perturbazioni simili a onde gravitazionali in un condensato di Bose-Einstein di atomi ultrafreddi, uno stato della materia in cui qualche centinaia di migliaia di atomi si comportano collettivamente come se fossero un unica grande molecola. Nei condensati di Bose-Einstein, le eccitazioni di più bassa energia sono perturbazioni della densità, descritte da particella quantistiche chiamate fononi. Nello studio, i fononi si muovono come particelle senza massa in una geometria che può essere ingegnerizzata in modo da riprodurre caratteristiche di un buco nero per quanti di luce, o fotoni, cioè un buco nero astrofisico. Negli analoghi buchi neri acustici, infatti, sono i fononi a rimanere intrappolati e al tempo stesso costituire la cosiddetta radiazione di Hawking, predetta dal celebre astrofisico Stephen Hawking per i buchi neri astrofisici. Utilizzando quanto noto sulle onde gravitazionali, le autrici e gli autori hanno sviluppato un dizionario tra buchi neri astrofisici e buchi neri acustici, per comprendere meglio gli effetti di perturbazioni simili alle onde gravitazionali sull’orizzonte acustico di un buco nero da laboratorio. L’idea è usare esperimenti di fisica della materia in tavoli ottici di qualche metro quadro come simulatori quantistici altamente accurati e controllabili per studiare proprietà di oggetti di interesse astrofisico e cosmologico.

“Siamo entusiasti che questa fisica possa essere studiata in esperimenti attualmente realizzabili, ad esempio con atomi ultra-freddi, offrendo un nuovo modo per analizzare questi sistemi in un ambiente controllato”, ha dichiarato l’autrice Chiara Coviello.

Chiara Coviello
Chiara Coviello

I risultati potrebbero essere utilizzati per studiare gli effetti di dissipazione e riflessione delle perturbazioni simili alle onde gravitazionali nei buchi neri acustici. Gli autori e le autrici ritengono che ciò contribuirà a far luce sui comportamenti universali e sul ruolo delle fluttuazioni quantistiche nei buchi neri astrofisici.

Il team di ricerca, composto da una collaborazione tra diverse università e centri di ricerca, intende proseguire lo studio analizzando le proprietà di viscosità dell’orizzonte acustico in relazione alla sua entropia, note per avere comportamenti universali, cioè non dipendenti dallo specifico sistema fisico. I risultati potrebbero fornire nuove intuizioni sulla teoria fisica di base e sulle simmetrie dei buchi neri astrofisici.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Pisa.

Buchi neri: quale destino dopo la loro evaporazione?

Uno studio congiunto Sapienza-INFN ipotizza, attraverso complesse simulazioni numeriche, i possibili effetti del fenomeno di evaporazione dei buchi neri, la cui esistenza è stata prevista da Stephen Hawking. La ricerca è pubblicata sulla rivista Physical Review Letter.

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Il buco nero supermassiccio nel nucleo della galassia ellittica Messier 87 nella costellazione della Vergine. Si tratta della prima foto diretta di un buco nero, realizzata dal progetto internazionale Event Horizon Telescope. Foto modificata Event Horizon TelescopeCC BY 4.0

Il destino dei buchi neri potrebbe essere quello di evaporare fino a dischiudere le singolarità gravitazionali altrimenti celate dall’inviolabile barriera rappresentata dall’orizzonte degli eventi, oppure assumere una forma stabile e paragonabile ai più suggestivi oggetti previsti dalla Relatività Generale di Einstein, i wormholes. È questa una delle conclusioni a cui è giunto uno studio condotto da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Fisica della Sapienza e dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (INFN), in collaborazione con una collega del Niels Bohr Institute danese, che, attraverso complesse simulazioni numeriche, ha esplorato per la prima volta, nell’ambito di una teoria della relatività generale modificata, i possibili esiti finali dell’evaporazione dei buchi neri, fenomeno previsto dal celebre fisico teorico Stephen Hawking. Il risultato, pubblicato sulla rivista Physical Review Letter, mette in evidenza l’importanza delle simulazioni numeriche (numerical relativity) per fornire nuove spiegazioni sul destino dei buchi neri, suggerendo al tempo stesso la possibilità di nuovi candidati di materia oscura formatisi alla fine della loro evaporazione nei primi istanti dell’universo.

Sebbene il regime di campo gravitazionale forte che li contraddistingue non consenta né alla materia, né alla luce, di liberarsi dalla loro oscura morsa, i buchi neri, a causa di effetti quantistici, evaporano emettendo radiazione termica in maniera continua. Descritta nel 1974 da Stephen Hawking, questa evaporazione comporterebbe il restringimento dell’orizzonte degli eventi di un buco nero, un processo non ancora osservato, il cui stadio finale rappresenta a sua volta uno dei grandi misteri della fisica teorica. La dissoluzione del buco nero potrebbe infatti non costituire l’unico esito possibile dell’evaporazione, che potrebbe cambiare drasticamente a seconda delle condizioni gravitazionali durante il processo.

“La riduzione di un buco nero”, spiega Fabrizio Corelli, ricercatore del Dipartimento di Fisica della Sapienza associato INFN e primo autore dello studio, “potrebbe comportare l’avvicinarsi dell’orizzonte degli eventi verso la singolarità gravitazionale presente al suo interno, e quindi verso regioni dello spaziotempo di curvatura sempre maggiore. È quindi inevitabile che, durante l’evaporazione di Hawking, effetti gravitazionali legati all’alta curvatura dello spaziotempo diverrebbero via via sempre più rilevanti, al punto da modificare lo stadio finale dell’evaporazione. Proprio per questo è particolarmente interessante studiare questi fenomeni in una teoria di gravità modificata come quella da noi considerata.”

Imponendo le opportune correzioni alla Relatività Generale e facendo ricorso a complesse simulazioni numeriche, i ricercatori sono stati perciò in grado di ottenere per la prima volta alcuni possibili stati finali per il processo di evaporazione dei buchi neri. Tra i risultati discussi nell’articolo apparso su Physical Review Letter, c’è quello che suggerisce la comparsa di singolarità al di fuori dei loro orizzonti degli eventi. Scenario che si pone tuttavia in contrasto con il cosiddetto principio di “censura cosmica” di Roger Penrose, il quale ipotizza come la singolarità debba essere relegata all’interno del buco nero e non possa essere in comunicazione diretta con l’esterno. Una seconda alternativa riguarda invece la trasformazione dei buchi neri in wormholes, strutture capaci di collegare punti diversi dello spaziotempo, previste sulla base di alcune soluzioni esotiche delle equazioni della Relatività Generale, ma finora mai osservate, le cui caratteristiche potrebbero consentire di spiegare l’ancora sfuggente natura della materia oscura.

“I risultati di questo studio – conclude Paolo Pani del Dipartimento di Fisica della Sapienza e ricercatore INFN – mostrano che l’evaporazione di un buco nero in teorie con correzioni ad alta curvatura alla Relatività Generale potrebbe violare la censura cosmica. Le simulazioni evidenziano infatti come durante il processo di evaporazione le singolarità potrebbero uscire dal buco nero. Se confermato, questo implicherebbe la necessità di una teoria quantistica della gravitazione per spiegare il destino dei buchi neri. È comunque possibile che il destino dell’evaporazione di Hawking sia la formazione di un wormhole, un oggetto senza singolarità e senza orizzonte degli eventi che non evapora ulteriormente, rispettando così la congettura di Penrose. Se confermato, in questo scenario i buchi neri primordiali, formati nei primi istanti dell’universo, evaporerebbero fino a raggiungere una configurazione stabile, diventando così dei perfetti candidati per spiegare la materia oscura”.

Riferimenti:

What is the fate of Hawking evaporation in gravity theories with higher curvature terms? – Fabrizio Corelli, Marina De Amicis, Taishi Ikeda, Paolo Pani – Physical Review Letter  https://doi.org/10.1103/PhysRevLett.130.091501

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Articolo a cura di Silvia Giomi e Piero Paduano

L’Universo in cui viviamo ci è in gran parte ignoto. La materia di cui siamo fatti noi, i pianeti, le stelle e tutti gli oggetti che osserviamo – e quindi conosciamo – ne costituisce meno del 5%. La restante parte dell’Universo è energia oscura (70%) e materia oscura (25%). Quest’ultima è detta “oscura” poiché, non emettendo radiazione elettromagnetica, rimane invisibile ai nostri strumenti, ma la sua presenza si rivela per via degli effetti gravitazionali osservati.

La ricerca delle particelle di materia oscura è una sfida che coinvolge da anni la comunità scientifica che si cimenta in esperimenti di osservazione diretta (in laboratori sotterranei come CERN, LNGS) e indiretta (nello spazio).

Tra i metodi indiretti vi è quello che sfrutta il fenomeno della superradianza dei buchi neri, esplorato approfonditamente nell’articolo Black hole superradiant instability from ultralight spin-2 fields, pubblicato sulla rivista Physical Review Letters.

Tale metodo è estremamente interessante anche perché si inserisce nel contesto della LGQ (Loop Quantum Gravity), teoria che cerca di unificare la meccanica quantistica e la relatività generale.

Abbiamo il piacere e l’onore di parlarne con il professor Paolo Pani, associato in Fisica Teorica presso il Dipartimento di Fisica della Sapienza Università di Roma, tra i protagonisti dello studio.

instabilità per superradianza Paolo Pani buchi neri materia oscura
Il buco nero supermassiccio nel nucleo della galassia ellittica Messier 87 nella costellazione della Vergine. Si tratta della prima foto diretta di un buco nero, realizzata dal progetto internazionale Event Horizon Telescope. Foto modificata Event Horizon TelescopeCC BY 4.0

 

In cosa consiste l’instabilità per superradianza, e in che modo la sfruttate per la vostra indagine?

La superradianza è un fenomeno che avviene in molti sistemi fisici quando un’onda riflessa da un oggetto viene amplificata a scapito dell’energia dell’oggetto stesso. Questo avviene anche per un buco nero, che può amplificare le onde elettromagnetiche o gravitazionali che “sbattono” su di esso. L’energia in eccesso viene presa dalla velocità di rotazione dell’oggetto, che diminuisce.

L’instabilità per superradianza è un fenomeno collegato: se le particelle del campo elettromagnetico (fotoni) o del campo gravitazionale (gravitoni) avessero una seppur minuscola massa, la radiazione amplificata per superradianza rimarrebbe intrappolata vicino al buco nero, generando un effetto a cascata che rallenta il buco nero fino quasi a fermare completamente la sua rotazione.

In questo caso l’energia in eccesso viene emessa in onde gravitazionali la cui frequenza è direttamente collegata all’ipotetica massa del campo. Se queste particelle ultraleggere esistessero, quindi, non dovremmo osservare buchi neri rotanti e ciascun buco nero si comporterebbe come un “faro” di onde gravitazionali.

 

Il fenomeno della superradianza ha qualche connessione con la radiazione di Hawking?

Sì, si può dire che la superradianza è la controparte “classica” della radiazione di Hawking, che è invece un effetto “quantistico”. La superradianza richiede che il buco nero ruoti, mentre nel caso della radiazione di Hawking il buco nero può rimanere statico. In questo caso la radiazione viene emessa spontaneamente, a scapito della massa del buco nero.

 

Può spiegarci quali sono i vantaggi di aver esteso il fenomeno al caso di campo tensoriale rispetto allo scalare e al vettoriale?

Il caso di campo tensoriale è strettamente collegato ad alcune teorie che prevedono una massa minuscola per il gravitone, una proprietà che potrebbe risolvere il problema della costante cosmologica e dell’energia oscura responsabile dell’espansione accelerata dell’universo.

Inoltre, campi tensoriali ultraleggeri sono ottimi candidati per spiegare la materia oscura che sembra permeare il cosmo ma che finora non si è riusciti a misurare in laboratorio. Il nostro studio mostra che i segnali di onde gravitazionali presenti e futuri permettono di ricercare queste particelle anche quando la loro massa è troppo piccola per essere vista in esperimenti terrestri, come negli acceleratori di particelle.

 

I vostri risultati sono condizionati dalla scelta della metrica di Kerr?

Nella teoria della gravitazione di Einstein, la relatività generale, la metrica di Kerr è l’unica possibile per descrivere un buco nero astrofisico. Nelle teorie che menzionavo sopra, tuttavia, possono esistere altre soluzioni che descrivono buchi neri differenti.

Nel nostro studio abbiamo fatto l’ipotesi standard che i buchi neri siano descritti dalla metrica di Kerr. Scelte differenti renderebbero i calcoli più laboriosi ma ci aspettiamo che non modifichino sostanzialmente il risultato: in presenza di campi ultraleggeri tutti i buchi neri rotanti sono instabili per superradianza ed emettono onde gravitazionali.

 

Quali porte si stanno aprendo e/o quali si stanno chiudendo sulla ricerca della materia oscura?

Il problema della materia oscura è che sappiamo davvero poco su di essa, e quindi svariate speculazioni teoriche sono possibili. Nel corso dei decessi alcuni modelli teorici sono divenuti più popolari di altri, ma l’ultima parola ce l’ha sempre l’esperimento: finché non scopriremo tracce di materia oscura oltre quelle ben note, non sarà possibile distinguere diversi modelli.

Gli esperimenti attuali atti a ricercare uno dei candidati più promettenti (le cosidette WIMPS, weakly interacting massive particles) hanno raggiunto precisioni tali che possono quasi escludere questa ipotesi. Un altro candidato molto promettente sono gli assioni, che sono appunto particelle ultraleggere che producono l’instabilita’ di superradianza dei buchi neri.

Penso che la risposta al problema della materia oscura arriverà da esperimenti innovativi, o magari proprio dai buchi neri, tramite segnali inaspettati di onde gravitazionali.

 

 

Riferimenti allo studio su instabilità per superradianza, buchi neri, materia oscura:

Black Hole Superradiant Instability from Ultralight Spin-2 Fields – Richard Brito, Sara Grillo, and Paolo Pani – Phys. Rev. Lett. 124, 211101 – Published 27 May 2020 DOI:https://doi.org/10.1103/PhysRevLett.124.211101

Lo studio che lo dimostra mettendo insieme due teorie finora discordanti è stato pubblicato su Physical Review X
Sferici, lisci e semplici secondo la teoria della relatività o estremamente complessi e ricchissimi d’informazione come, seguendo le leggi quantistiche, diceva Stephen Hawking: su questi misteriosi oggetti cosmici una risposta univoca non c’è. Una nuova ricerca propone ora una soluzione al dilemma. Davvero sorprendente
buchi neri ologramma
Credits: Gerd Altmann da Pixabay

Tutti abbiamo negli occhi la prima incredibile immagine di un buco nero che ha fatto il giro del mondo circa un anno fa. Eppure, secondo una nuova ricerca targata Sissa, Ictp e Infn, i buchi neri sarebbero come un ologramma, dove tutte le informazioni sono ammassate su una superficie a due dimensioni capace di riprodurre un’immagine tridimensionale.

In questo modo questi corpi cosmici, come sostenuto dalle teorie quantistiche, potrebbero essere incredibilmente complessi e concentrare un’enorme quantità di informazione al proprio interno, come “il più grande hard disk che esista in Natura”, in due dimensioni. E questo senza contrapporsi alla relatività di Einstein che li vorrebbe in tre dimensioni, semplici, sferici, lisci, come si presentano in quella celebre immagine. Insomma, i buchi neri “appaiono” come non sono, proprio come gli ologrammi. Lo studio che lo dimostra, e che mette insieme due teorie finora discordanti, è da poco stato pubblicato su.

Il mistero dei buchi neri

Per gli scienziati, i buchi neri rappresentano un grosso punto interrogativo per diversi aspetti. Sono, per esempio, ottimi rappresentanti delle grosse difficoltà della fisica teorica nel mettere insieme i principi della teoria della relatività generale di Einstein con quelli della fisica quantistica quando si parla di gravità. Secondo la prima teoria sarebbero corpi semplici e senza informazione. Secondo l’altra, come sostenuto da Jacob Bekenstein e Stephen Hawking, sarebbero invece “i sistemi più complessi esistenti” perché caratterizzati da un enorme “entropia”, che misura la complessità di un sistema, e quindi con moltissima informazione al loro interno.

Il principio olografico applicato ai buchi neri

Per studiare i buchi neri, i due autori della ricerca Francesco Benini e Paolo Milan hanno utilizzato un’idea vecchia di quasi trent’anni ma ancora sorprendente detta “Principio olografico”. Raccontano i ricercatori: “Questo principio, rivoluzionario e un po’ controintuitivo, propone che il comportamento della gravità in una determinata regione di spazio si possa alternativamente descrivere in termini di un diverso sistema, che vive solo lungo il bordo di quella regione e quindi in una dimensione in meno. E, cosa più importante, in questa descrizione alternativa (detta appunto olografica) la gravità non compare esplicitamente. In altre parole, il principio olografico ci permette di descrivere la gravità usando un linguaggio che non contiene la gravità, evitando così frizioni con la meccanica quantistica”.

Quello che Benini e Milan hanno fatto in questo studio “è applicare la teoria del principio olografico ai buchi neri. In questo modo le loro misteriose proprietà termodinamiche sono diventate più comprensibili:
focalizzandoci sulla previsione che questi corpi abbiano una grande entropia, e osservandoli dal punto di vista della meccanica quantistica, si può descriverli proprio come un ologramma: sono a due dimensioni, in cui la gravità sparisce, ma riproducono un oggetto in tre dimensioni”.

Dalla teoria all’osservazione

“Questo studio” spiegano i due scienziati “è solo il primo passo verso una comprensione più profonda di questi corpi cosmici e delle proprietà che li caratterizzano quando la meccanica quantistica si incrocia con la relatività generale. Il tutto è ancora più importante ora, nel momento in cui le osservazioni in astrofisica stanno conoscendo un incredibile sviluppo. Basti pensare all’osservazione delle onde gravitazionali provenienti dalla fusione di buchi neri frutto della collaborazione LIGO e Virgo o, per l’appunto, quella del buco nero fatta dall’Event Horizon Telescope che ha prodotto quella straordinaria immagine. In un futuro vicino potremo forse mettere alla prova dell’osservazione le nostre predizioni teoriche riguardo la gravità quantistica, come quelle fatte in questo studio. E questo, dal punto di vista scientifico, sarebbe una cosa assolutamente eccezionale”.

Comunicato stampa sui buchi neri come ologramma dalla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati