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CALVERA È ESPLOSA DOVE NON DOVEVA: UNA PULSAR “IN FUGA” SFIDA LE REGOLE DELLA VIA LATTEA

Un’esplosione stellare, una pulsar in fuga e un resto di supernova: è la storia di Calvera, un sistema scoperto a oltre 6500 anni luce sopra il piano galattico, che sta mettendo in discussione ciò che sappiamo sull’evoluzione delle stelle. A raccontarla è un team di ricerca dell’INAF in uno studio pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Immagine nei raggi X della stella di neutroni Calvera, indicata dal cerchio giallo, e della regione di emissione diffusa oggetto di studio di questo articolo, identificata dall'ellisse bianca. Il materiale responsabile dell'emissione osservata ha una temperatura compresa tra 1 e 10 milioni di gradi Celsius. Crediti: E. Greco, INAF
Immagine nei raggi X della stella di neutroni Calvera, indicata dal cerchio giallo, e della regione di emissione diffusa oggetto di studio di questo articolo, identificata dall’ellisse bianca. Il materiale responsabile dell’emissione osservata ha una temperatura compresa tra 1 e 10 milioni di gradi Celsius. Crediti: E. Greco, INAF

Un gruppo di ricerca guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell’Università degli Studi di Palermo ha approfondito lo studio di un sistema unico nel suo genere: una pulsar e un resto di supernova situati a oltre 6500 anni luce sopra il piano della nostra galassia, la Via Lattea, in una zona finora considerata estremamente rarefatta e quasi priva di oggetti di questo tipo. Grazie a nuove osservazioni e analisi, pubblicate sulla rivista Astronomy & Astrophysics, la ricerca sfida l’idea che queste regioni periferiche della galassia siano poco attive dal punto di vista energetico, offrendo nuovi importanti spunti sull’origine e l’evoluzione delle stelle massicce.

A oltre 6500 anni luce sopra il piano della Via Lattea, dove la densità di stelle si dirada e il vuoto interstellare domina, un sistema estremo sfida le regole dell’evoluzione stellare. È lì che è stato identificato un raro resto di supernova associato a una pulsar in fuga, nota con il nome di Calvera, un omaggio all’antagonista del film “I Magnifici 7”, film western del 1960 diretto da John Sturges. Come il suo omonimo cinematografico, Calvera si muove ai margini, fuori dalle regole, e sta riscrivendo ciò che sappiamo sulla vita e la morte delle stelle massicce nelle regioni più estreme della nostra galassia.

La storia del resto di supernova di Calvera inizia nel 2022, quando grazie allo strumento LOFAR – un network europeo di radiotelescopi progettato per osservare il cielo a basse frequenze – viene individuata una struttura estesa e quasi perfettamente circolare, interpretabile come un resto di supernova. Si trova a circa 37 gradi di latitudine galattica, molto lontano dal piano della galassia, dove solitamente si concentrano le esplosioni stellari. A pochi arcominuti di distanza, una pulsar già nota agli astronomi per la sua intensa emissione nei raggi X e battezzata anch’essa Calvera, si presenta come potenziale compagna del resto di supernova. Tuttavia, la sua traiettoria mostra un moto proprio molto marcato, circa 78 milliarcosecondi all’anno, che suggerisce che si stia allontanando dal centro dell’esplosione. Il quadro che emerge è quello di un legame fisico tra i due oggetti: una stella massiccia esplosa migliaia di anni fa, che ha lasciato dietro di sé un guscio di gas in espansione e una stella di neutroni in fuga.

Per ricostruire questa storia cosmica, un team guidato da Emanuele Greco dell’INAF ha analizzato osservazioni dettagliate nella banda dei raggi X ottenute con il satellite XMM-Newton dell’Agenzia Spaziale Europea. Le proprietà del gas caldo all’interno del resto di supernova, combinate con il moto della pulsar e le informazioni multi-banda raccolte da diversi strumenti, hanno permesso di stimare età e distanza del sistema. Le analisi indicano che il resto di supernova si trova a una distanza compresa tra 13.000 e 16.500 anni luce, e che ha un’età tra i 10.000 e i 20.000 anni. Dati perfettamente compatibili con quelli della pulsar, che rafforzano l’ipotesi di un’origine comune.

“Le stelle massicce – cioè almeno otto volte più grandi del Sole – si formano quasi esclusivamente sul piano galattico, dove la densità del gas è più alta e favorisce la nascita stellare”, spiega Greco. “Trovarne i resti a simili distanze dal piano è estremamente raro. La nostra analisi ha permesso di stimare con maggiore precisione la distanza, l’età e perfino le caratteristiche della possibile stella progenitrice che ha originato sia la pulsar Calvera che il suo resto di supernova”.

A rendere il quadro ancora più interessante è il fatto che il sistema si trovi in un ambiente molto diverso da quello tipico del piano galattico. L’emissione di raggi gamma rilevata nel sistema proviene, infatti, da un ambiente estremamente rarefatto, lontano dalle regioni dense del piano galattico. Tradizionalmente si pensa che per attivare uno dei principali meccanismi di produzione della radiazione gamma siano necessarie elevate densità di particelle, soprattutto di protoni. Questo risultato, invece, mostra che anche nelle “periferie” della galassia, considerate per lo più “vuote”,  possono esistere le condizioni sufficienti ad attivare meccanismi energetici intensi, capaci di produrre emissione gamma in modo efficiente.

“Grazie ai telescopi spaziali come XMM-Newton e Fermi/LAT, e a strumenti terrestri come il Telescopio Nazionale Galileo, possiamo analizzare i resti di supernova e le pulsar in diverse bande dello spettro elettromagnetico”, prosegue Greco. “Nel caso di Calvera, abbiamo mostrato che anche in ambienti rarefatti può esserci emissione di plasma a milioni di gradi, se l’onda d’urto dell’esplosione incontra addensamenti locali. Questi addensamenti, a loro volta, raccontano qualcosa sulla storia evolutiva della stella che è esplosa”.

Il lavoro nasce dalla collaborazione tra le sedi INAF di Palermo e Milano, che hanno unito competenze complementari: da un lato lo studio degli oggetti compatti come le pulsar, dall’altro l’analisi delle strutture diffuse associate ai resti di supernova. Le osservazioni effettuate con il Telescopio Nazionale Galileo mostrano la presenza di filamenti di idrogeno ionizzato, mentre nei raggi X si evidenzia una struttura estesa ma compatta, coerente con l’impatto dell’onda d’urto sui materiali presenti nell’ambiente e rilasciati dalla stella progenitrice di Calvera. Questo indica che la zona, seppur remota, può presentare localmente degli addensamenti di materia, al contrario di quanto si assume per le regioni ad alta latitudine galattica.

La scoperta – e il legame tra la pulsar Calvera e il suo resto di supernova – dimostrano che anche lontano dal piano galattico possono trovarsi, in modo del tutto inatteso, stelle massicce. Alcune di queste riescono a sfuggire al loro luogo di origine e a esplodere come supernovae in regioni remote della Galassia, lasciando dietro di sé una nube di gas in espansione e un oggetto compatto come una stella di neutroni.

“Il nostro studio mostra che anche le zone più tranquille e apparentemente vuote della galassia possono nascondere processi estremi”, conclude Greco. “Non solo abbiamo vincolato le proprietà fisiche del sistema Calvera con precisione, ma abbiamo anche dimostrato che, localmente, è possibile trovare densità sufficienti a generare emissioni X e gamma anche molto lontano dal piano galattico. Una scoperta che ci invita a guardare con occhi nuovi alle periferie della Via Lattea”.

Emanuele Greco, ricercatore INAF presso la sede di Palermo
Emanuele Greco, ricercatore INAF presso la sede di Palermo

Riferimenti bibliografici: 

L’articolo “Multi-wavelength study of the high Galactic latitude supernova remnant candidate G118.4+37.0 associated with the Calvera pulsar”, di Emanuele Greco et al., è stato pubblicato su Astronomy & Astrophysics.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

PSR J1023+0038, TRA GLI ALTI E BASSI DI UNA PULSAR: IL SEGRETO È NELLA SUA POLARIZZAZIONE

Un team internazionale guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica ha misurato per la prima volta la polarizzazione della luce emessa da una pulsar al millisecondo transizionale in tre diverse bande dello spettro elettromagnetico. Lo studio, pubblicato su The Astrophysical Journal Letters, indica che l’emissione è dominata dal vento di particelle prodotto della pulsar e non dalla materia che la pulsar stessa sta risucchiando alla sua stella compagna.

Rappresentazione artistica delle regioni centrali del sistema PSR J1023+0038, che mostra la pulsar, il disco di accrescimento interno e il vento della pulsar. Crediti: Marco Maria Messa (Università di Milano e INAF) e Maria Cristina Baglio (INAF)
Rappresentazione artistica delle regioni centrali del sistema PSR J1023+0038, che mostra la pulsar, il disco di accrescimento interno e il vento della pulsar. Crediti: Marco Maria Messa (Università di Milano e INAF) e Maria Cristina Baglio (INAF)

Un team internazionale, guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha individuato nuove prove su come le pulsar al millisecondo transizionali, una particolare classe di resti stellari, interagiscono con la materia circostante. Il risultato, pubblicato su The Astrophysical Journal Letters, è stato ottenuto grazie a osservazioni effettuate con l’Imaging X-ray Polarimetry Explorer (IXPE) della NASA, il Very Large Telescope (VLT) dell’European Southern Observatory (ESO) in Cile e il Karl G. Jansky Very Large Array (VLA) nel New Mexico: si tratta di una delle prime campagne osservative di polarimetria multi-banda mai realizzate su una sorgente binaria a raggi X, coprendo simultaneamente le bande X, ottica e radio.

La missione spaziale IXPE in preparazione prima del lancio. Crediti: NASA
La missione spaziale IXPE in preparazione prima del lancio. Crediti: NASA

La sorgente analizzata è PSR J1023+0038, una cosiddetta pulsar al millisecondo transizionale. Questi oggetti sono particolarmente interessanti perché alternano fasi in cui si comportano come pulsar “canoniche” – ovvero stelle di neutroni isolate che ruotano su sé stesse centinaia di volte in un secondo, emettendo fasci di luce pulsata – a fasi in cui attraggono e accumulano materia da una stella compagna vicina, formando un disco di accrescimento visibile nei raggi X.

“Le pulsar al millisecondo transizionali sono laboratori cosmici che ci aiutano a capire come le stelle di neutroni evolvono nei sistemi binari”, spiega Maria Cristina Baglio, ricercatrice INAF e prima autrice dello studio. “J1023 è una sorgente particolarmente preziosa di dati perché transita chiaramente tra il suo stato attivo, in cui si nutre della stella compagna, e uno stato più dormiente, in cui si comporta come una pulsar standard emettendo onde radio rilevabili. Durante le osservazioni, la pulsar era in una fase attiva a bassa luminosità, caratterizzata da rapidi cambiamenti tra diversi livelli di luminosità in raggi X”.

Maria Cristina Baglio
Maria Cristina Baglio

In questo studio, per la prima volta, si è misurata simultaneamente la polarizzazione della luce emessa da questa sorgente in tre bande dello spettro elettromagnetico: raggi X (con IXPE), luce visibile (con il VLT) e onde radio (con il VLA). In particolare, IXPE ha rilevato un livello di polarizzazione nei raggi X di circa il 12%, il più elevato mai osservato finora in un sistema binario come quello di J1023. Nella banda ottica, la sorgente mostra una polarizzazione più bassa (circa 1%), ma con un angolo perfettamente allineato a quello della radiazione X, suggerendo una comune origine fisica. Nelle onde radio, invece, è stato fissato un limite massimo di polarizzazione di circa il 2%.

“Questa osservazione, data la bassa intensità del flusso X, è stata estremamente impegnativa, ma la sensibilità di IXPE ci ha permesso di rilevare e misurare con sicurezza questo notevole allineamento tra la polarizzazione ottica e quella nei raggi X”, afferma Alessandro Di Marco, ricercatore INAF e co-autore del lavoro. “Questo studio rappresenta un modo ingegnoso per testare scenari teorici grazie a osservazioni polarimetriche su più lunghezze d’onda”.

I risultati confermano una previsione teorica pubblicata nel 2023 da Maria Cristina Baglio e Francesco Coti Zelati, ricercatore presso l’Istituto di scienze spaziali di Barcellona, Spagna e co-autore dello studio, secondo cui l’emissione polarizzata osservata sarebbe generata dall’interazione tra il vento della pulsar e la materia del disco di accrescimento. La forte polarizzazione nei raggi X prevista, tra il 10 e il 15%, è stata effettivamente rilevata, confermando il modello teorico. Si tratta di un’indicazione chiara che le pulsar al millisecondo transizionali sono alimentate principalmente dalla rotazione e dal vento relativistico della pulsar, piuttosto che dal solo accrescimento di materia dalla stella compagna.

Capire cosa alimenta davvero queste stelle ultra-compatte, che alternano due nature profondamente diverse, rappresenta un passo fondamentale per decifrare il comportamento della materia e dell’energia in condizioni estreme. Questo studio porta la comunità scientifica un passo più vicino a comprendere meccanismi universali che regolano fenomeni come i getti dei buchi neri e le nebulose da vento di pulsar.

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “Polarized multiwavelength emission from pulsar wind – accretion disk interaction in a transitional millisecond pulsar”, di M. C. Baglio, F. C. Zelati, A. Di Marco, F. La Monaca, A. Papitto, A. K. Hughes, S. Campana, D. M. Russell, D. F. Torres, F. Carotenuto, S. Covino, D. De Martino, S. Giarratana, S. E. Motta, K. Alabarta, P. D’Avanzo, G. Illiano, M. M. Messa, A. M. Zanon e N. Rea, è stato pubblicato online sulla rivista Astrophysical Journal Letters.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

UNA STELLA FATTA A PEZZI DA UN BUCO NERO: RARO EVENTO COSMICO OSSERVATO IN DUE GALASSIE IN COLLISIONE; L’EVENTO DI DISTRUZIONE MAREALE AT 2022wtn, NEL NUCLEO DELLA GALASSIA MENO MASSICCIA DELLA COPPIA (SDSSJ232323.79+104107.7)

 

Pubblicato sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society un articolo scientifico a guida dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) riporta l’osservazione di un raro evento di distruzione mareale (o TDE, dall’inglese Tidal Disruption Event) in una coppia di galassie in interazione. Chiamato AT 2022wtn, il fenomeno è stato segnalato alla comunità astronomica dalla Zwicky Transient Facility (ZTF) e quindi classificato come TDE grazie a osservazioni spettroscopiche a cui ha fatto seguito una campagna multi-frequenza nell’ambito della collaborazione ePessto+, coprendo lo spettro elettromagnetico dalla banda radio agli infrarossi, per arrivare fino ai raggi X. Questo studio apre nuove prospettive sui processi che si innescano quando una stella si avvicina troppo a un buco nero supermassiccio al centro di una galassia e sulla connessione tra questi eventi distruttivi e l’evoluzione dinamica delle galassie.

L’evento di distruzione mareale si è verificato nel nucleo della galassia meno massiccia della coppia (denominata SDSSJ232323.79+104107.7), circa dieci volte più piccola della sua compagna, in un sistema in fase iniziale di “fusione” che ha probabilmente già subito un primo passaggio ravvicinato.

AT 2022wtn mostra caratteristiche particolarmente insolite rispetto agli eventi simili già noti, come spiega Francesca Onori, assegnista di ricerca dell’INAF in Abruzzo e prima autrice dello studio.

“È un evento peculiare. La sua curva di luce è caratterizzata de un plateau nella fase di massima luminosità – della durata di circa 30 giorni – accompagnato da un brusco crollo della temperatura e una sequenza spettrale che mostra lo sviluppo di due righe in emissione in corrispondenza delle lunghezze d’onda dell’elio e dell’azoto. Qualcosa che non avevamo mai osservato con tanta chiarezza”.

Gli eventi di distruzione mareale si verificano quando una stella si avvicina a un buco nero supermassiccio, generalmente situato al centro di una normale galassia. La potente forza gravitazionale esercitata dal buco nero supera la forza di gravità che tiene insieme la stella, riuscendo prima a deformarla e poi a distruggerla, allungandola sino a formare sottili filamenti, in un processo, chiamato “spaghettificazione”, durante il quale viene rilasciata un’enorme quantità di energia osservabile da Terra. I frammenti stellari catturati formano un disco di materiale che orbita intorno al buco nero (il disco di accrescimento) che, cadendo su di esso, si riscalda a temperature altissime ed emette radiazioni intense alle frequenze X, UV e del visibile.

Tra gli aspetti più sorprendenti riportati nell’articolo c’è anche la rilevazione di un’emissione radio transiente, segno della presenza di flussi di materia in uscita (outflow in inglese), e forti variazioni nel tempo delle velocità delle linee spettrali. Tutti questi indizi indicano che una stella di bassa massa è stata completamente distrutta da un buco nero supermassiccio di circa un milione di masse solari, generando il disco di accrescimento e una sorta di “bolla” quasi sferica di gas espulso in espansione.

“Abbiamo trovato tracce chiare della dinamica del materiale circostante anche in alcune righe in emissione – spiega Francesca Onori – che mostrano caratteristiche compatibili con una veloce propagazione verso l’esterno. Grazie alla nostra campagna di monitoraggio siamo riusciti a proporre un’interpretazione dell’origine della radiazione osservata: AT2022wtn ha dato luogo a una rapida formazione del disco attorno al buco nero e alla successiva espulsione di parte della materia stellare. Questo risultato è particolarmente rilevante, poiché la sorgente della luce visibile e le condizioni fisiche della regione da cui essa proviene, nei TDE, sono ancora oggetto di studio”.

Il gruppo di ricerca si è inoltre concentrato sull’ambiente galattico dell’evento. AT 2022wtn è il secondo TDE osservato in una coppia di galassie in interazione, una coincidenza che, secondo quanto si legge nello studio, non è casuale: le prime fasi delle fusioni galattiche potrebbero infatti favorire un aumento della frequenza di questi fenomeni estremi, ancora poco compresi.

“Questa eccellente scoperta scientifica mette in luce quanto l’astrofisica moderna richieda sempre maggiori conoscenze interdisciplinari e notevoli capacità di analisi multibanda. È davvero molto importante che l’INAF sia pronto a raccogliere queste sfide scientifiche con giovani ricercatrici come Francesca Onori”, conclude Enzo Brocato, dirigente di ricerca presso l’INAF a Roma e tra gli autori dell’articolo.

Immagine dal Legacy Survey DR10 del campo di AT 2022wtn. Nel riquadro viene mostrato il transiente che si è verificato nel nucleo della galassia minore in interazione, indicata dalla croce blu. Sono ben visibili le code mareali, risultato dell’interazione gravitazionale e della fusione tra le due galassie. Crediti: Legacy Surveys / D. Lang (Perimeter Institute) / INAF / F. Onori
Immagine dal Legacy Survey DR10 del campo di AT 2022wtn. Nel riquadro viene mostrato il transiente che si è verificato nel nucleo della galassia minore in interazione, indicata dalla croce blu. Sono ben visibili le code mareali, risultato dell’interazione gravitazionale e della fusione tra le due galassie. Crediti: Legacy Surveys / D. Lang (Perimeter Institute) / INAF / F. Onori

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “The case of AT2022wtn: a Tidal Disruption Event in an interacting galaxy”, di F. Onori, M. Nicholl, P. Ramsden, S. McGee, R. Roy, W. Li, I. Arcavi, J. P. Anderson, E. Brocato, M. Bronikowski, S. B. Cenko, K. Chambers, T. W. Chen, P. Clark, E. Concepcion, J. Farah, D. Flammini, S. González-Gaitán, M. Gromadzki, C. P. Gutiérrez, E. Hammerstein, K. R. Hinds, C. Inserra, E. Kankare, A. Kumar, L. Makrygianni, S. Mattila, K. K. Matilainen, T. E. Müller-Bravo, T. Petrushevska, G. Pignata, S. Piranomonte, T. M. Reynolds, R. Stein, Y. Wang, T. Wevers, Y. Yao, D. R. Young, è stato pubblicato sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

ERUZIONI? NO, ESPLOSIONI DI STELLE – SVELATA LA NATURA DI TRANSIENTI ROSSI A LUMINOSITÀ INTERMEDIA

Un team internazionale coordinato da ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha osservato quattro transienti rossi a luminosità intermedia (in inglese intermediate-luminosityred transients o ILRT), ovvero enigmatiche sorgenti variabili nel tempo di cui finora era incerta l’origine. Le accurate indagini svolte, pubblicate in due articoli sulla rivista Astronomy & Astrophysics, indicano che questi transienti sono con ogni probabilità delle vere esplosioni di stelle, e non delle semplici eruzioni.

ell’immagine la galassia NGC 300 (nota anche come C 70) in direzione della costellazione dello Scultore e nel riquadro rosso al centro l’evento transiente NGC300OT. Nell'inserto in alto a destra viene mostrata - con dati del telescopio Spitzer della NASA - l'evoluzione negli anni di questo transiente, dal progenitore (nel 2003) fino alla completa sparizione sotto la soglia di rilevamento del telescopio" (nel 2019). Le immagini di Spitzer sono nell'infrarosso, mentre l'immagine della galassia è nella luce visibile. Crediti: INAF/G. Valerin
nell’immagine la galassia NGC 300 (nota anche come C 70) in direzione della costellazione dello Scultore e nel riquadro rosso al centro l’evento transiente NGC300OT. Nell’inserto in alto a destra viene mostrata – con dati del telescopio Spitzer della NASA – l’evoluzione negli anni di questo transiente, dal progenitore (nel 2003) fino alla completa sparizione sotto la soglia di rilevamento del telescopio” (nel 2019). Le immagini di Spitzer sono nell’infrarosso, mentre l’immagine della galassia è nella luce visibile. Crediti: INAF/G. Valerin

Il cielo si accende e si spegne continuamente, in ogni direzione, con segnali che possono durare da pochi millesimi di secondo fino a settimane, mesi o anni prima di non essere più rilevabili dai nostri strumenti. Analisi e studi negli ultimi anni hanno permesso di comprendere la natura di molti di essi, mentre altri sono ancora di origine ignota.

Il team di ricerca ha monitorato l’evoluzione dei quattro transienti ILRT, con l’obiettivo di determinare il meccanismo che genera questi fenomeni: sono forse delle violente eruzioni, a cui però la stella sopravvive, oppure sono vere e proprie esplosioni terminali, significativamente più deboli rispetto alle “classiche” esplosioni che già conosciamo? La luminosità di queste particolari sorgenti transienti si trova a metà strada tra due fenomeni ben noti: le nove, violente eruzioni stellari a cui la stella sopravvive, e le supernove, brillanti esplosioni dove la stella viene definitivamente distrutta, lasciando dietro di sé una stella di neutroni o un buco nero.

“In seguito alla scoperta di tre nuovi ILRT nel 2019, abbiamo colto la possibilità di studiare e capire meglio questi fenomeni”, commenta Giorgio Valerin, ricercatore postdoc INAF e primo autore dei due articoli su queste sorgenti appena pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics. “Abbiamo quindi raccolto dati per anni attraverso telescopi sparsi in tutto il mondo (la Palma, la Silla, las Campanas, Asiago, solo per citare l’ubicazione dei telescopi più usati) e perfino diversi telescopi in orbita (SWIFT, Spitzer, WISE, JWST). Abbiamo anche ripreso la campagna osservativa di NGC 300 OT, l’ILRT più vicino mai osservato, ad ‘appena’ sei milioni e mezzo di anni luce da noi”.

E aggiunge: “Le prime immagini di NGC 300 OT risalgono al 2008, e in questo lavoro l’abbiamo osservato nuovamente per studiarne l’evoluzione dopo più di dieci anni. L’analisi delle immagini e degli spettri raccolti durante queste campagne osservative ci ha consentito di monitorare l’evoluzione nel tempo dei nostri target, ottenendo informazioni come la luminosità, la temperatura, la composizione chimica e le velocità del gas associate a ogni ILRT che abbiamo studiato”.

 Immagine della Galassia Vortice (M51) ottenuta con il James Webb Space Telescope. In basso, nello zoom, viene evidenziata la posizione di AT 2019abn, uno dei transienti analizzati. Crediti: INAF/G. Valerin, A. Rigutti
transienti rossi a luminosità intermedia sono con ogni probabilità delle vere esplosioni di stelle, e non delle semplici eruzioni. Immagine della Galassia Vortice (M51) ottenuta con il James Webb Space Telescope. In basso, nello zoom, viene evidenziata la posizione di AT 2019abn, uno dei transienti analizzati. Crediti: INAF/G. Valerin, A. Rigutti

L’osservazione di oggetti come NGC 300 OT sul lungo periodo ha permesso di ottenere un indizio fondamentale per rispondere alla domanda su cosa siano esattamente questi transienti. In particolare, le immagini dell’oggetto ottenute con il telescopio spaziale Spitzer mostrano come questo sia diventato fino a dieci volte più debole della stella progenitrice nel corso di sette anni, per poi sparire sotto alla soglia di rilevamento del telescopio. E non sarebbe l’unico caso fra quelli analizzati dagli autori. Un simile destino sembra attendere anche la sorgente denominata AT 2019abn: grazie a osservazioni effettuate con il James Webb Space Telescope, a cinque anni dalla sua scoperta si è visto che anche questo transiente è diventato più debole della sua stella progenitrice, e il suo costante declino in luminosità non sembra volersi arrestare.

Ai ricercatori la conclusione sembra dunque chiara: vere e proprie esplosioni di stelle, e non delle semplici eruzioni. Le stelle che danno loro origine, in gergo le progenitrici, sono circondate da uno spesso strato di gas e polvere, che vengono improvvisamente scaldati a temperature intorno ai 6000 kelvin nel corso dei pochi giorni che vanno dalla scoperta dell’evento al momento di massima luminosità osservato. Contemporaneamente, il gas viene accelerato a velocità che possono raggiungere i 700 chilometri al secondo.

“Questa velocità è decisamente inferiore a quella di una supernova in esplosione, che raggiunge spesso anche i 10 mila chilometri al secondo”, commenta Leonardo Tartaglia, ricercatore INAF e coautore degli articoli. “Eppure, riteniamo che la stella possa essere davvero esplosa, lanciando materiale a migliaia di chilometri al secondo in ogni direzione, ma che questa esplosione sia stata parzialmente soffocata dalla densa coltre di gas e polvere circumstellare, che si scalda come conseguenza del violento urto”.

Un’ipotesi, questa, che troverebbe conferma proprio nella diminuzione di luminosità degli ILRT sul lungo periodo. Non solo. Date queste premesse gli autori sono riusciti a dare un nome e un cognome a questo fenomeno osservativo: supernova a cattura elettronica (in inglese electron capture supernovae), un tipo di supernova previsto dalla teoria ma di cui c’è carenza di controparti osservative. Si tratta di particolari esplosioni stellari che hanno origine da stelle con massa tra 8 e 10 masse solari.

Nonostante le teorie di evoluzione stellare ne prevedano l’esistenza, l’osservazione delle supernovae a cattura elettronica è stata difficile. Alcuni oggetti sono stati interpretati come tali, ma studi recenti suggeriscono l’esistenza di un’intera classe associata a queste sorgenti. Secondo l’evoluzione stellare, le stelle con massa superiore a 10 masse solari esploderanno come supernove “classiche”, mentre quelle con meno di 8 masse solari finiranno come nane bianche.

Le supernovae a cattura elettronica sono quindi particolarmente interessanti, poiché segnano il confine tra queste due categorie.

“Stiamo finalmente osservando quegli eventi che separano le stelle destinate a esplodere come classiche supernove dalle stelle che si spegneranno lentamente come nane bianche”, conclude Valerin.


 

Per ulteriori informazioni:

Gli articoli sono stati pubblicati su Astronomy & Astrophysics:
“A study in scarlet I. Photometric properties of a sample of intermediate-luminosity red transients”, di G. Valerin et al.

“A study in scarlet II. Spectroscopic properties of a sample of intermediate-luminosity red transients”, di G. Valerin et al.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

PROGETTO ALMAGAL: COSÌ SI FORMANO E SI ACCENDONO LE STELLE, OSSERVANDO OLTRE 1000 REGIONI DI FORMAZIONE STELLARE, CON UN LIVELLO DI DETTAGLIO SENZA PRECEDENTI

Arrivano i primi risultati del progetto ALMAGAL, il più esteso censimento finora realizzato con ALMA delle regioni di formazione stellare, guidato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica. Le prime analisi, in pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics, rivelano che le stelle si formano più numerose e più grandi in aree delle nebulose con una maggiore concentrazione di materiale.

Il progetto ALMAGAL inizia a fornire nuove e decisive informazioni su come si formano le stelle nella nostra Galassia, osservando più di 1000 regioni di formazione stellare con un livello di dettaglio senza precedenti. Grazie alla potenza del radiotelescopio ALMA (Atacama Large Millimeter/Submillimeter Array) situato sull’altopiano di Chajnantor, nel deserto di Atacama in Cile, il team di ALMAGAL è riuscito a esplorare queste enormi “fucine” cosmiche in maniera completamente nuova, offrendo una visione impareggiabile dei processi che portano alla nascita delle stelle. Il progetto ALMAGAL, una collaborazione internazionale guidata dall’Istituto Nazionale di Astrofisica, insieme all’Università di Colonia, l’Università del Connecticut e all’Academia Sinica, è nato per gettare nuova luce sui processi che portano le nubi molecolari a frammentarsi nei nuclei elementari da cui poi si formano le singole stelle.

“ALMAGAL rappresenta un salto quantico rispetto ad altri progetti che studiano la nascita di nuovi ammassi stellari” dice Sergio Molinari, responsabile italiano del progetto e ricercatore dell’INAF di Roma. “Osservando più di 1000 di queste regioni, ALMAGAL da solo è 4 volte più grande di tutti gli altri programmi simili messi insieme permettendo per la prima volta studi quantitativi statisticamente significativi”.

Collage di alcune fra le più di 1000 regioni di formazione stellare osservate in ALMAGAL. Le immagini rappresentano l'emissione termica della polvere fredda nel continuo alla lunghezza d'onda di 1.38mmCrediti: ESO/ALMA/ALMAGAL. Creato da C. Mininni
Collage di alcune fra le più di 1000 regioni di formazione stellare osservate in ALMAGAL. Le immagini rappresentano l’emissione termica della polvere fredda nel continuo alla lunghezza d’onda di 1.38mm
Crediti: ESO/ALMA/ALMAGAL. Creato da C. Mininni

Le nubi molecolari – enormi agglomerati di gas e polveri presenti nello spazio interstellare – sono le fucine in cui si generano le stelle. Da decenni i ricercatori che studiano la formazione stellare stanno cercando di comprendere perché le nebulose, pur utilizzando elementi costitutivi simili – per lo più idrogeno, elio e piccole quantità di elementi più pesanti – producono stelle con masse molto diverse da caso a caso. Il radiotelescopio ALMA osserva la radiazione cosmica a lunghezze d’onda millimetriche e submillimetriche molto più lunghe di quella visibile. Questo lo rende perfetto per osservare oggetti celesti freddi, proprio come la polvere e il gas delle nubi molecolari, che emettono proprio a quelle lunghezze d’onda. Inoltre, poiché ALMA combina la luce di 66 antenne situate anche a chilometri di distanza l’una dall’altra, è in grado di distinguere dettagli in questa finestra osservativa come nessun altro strumento oggi operativo.

All’interno delle nubi molecolari, polvere e gas si addensano per creare strutture più piccole chiamate “grumi” (clumps in inglese), di dimensioni fino a qualche anno-luce. Questi grumi si frazionano ulteriormente in ammassi di oggetti più piccoli chiamati “nuclei” (o cores), densi agglomerati in cui si formano le stelle singole. Oltre alla gravità, si pensa che diversi processi come la turbolenza nel gas o i campi magnetici controllino il modo in cui le nebulose si frammentano in grumi e nuclei.

ALMAGAL è progettato per capire meglio come tutto ciò avviene: è il primo censimento completo che ha osservato grumi di tutte le età, masse e ubicazioni in tutti i quartieri della nostra Galassia, fornendo un quadro imparziale. I risultati iniziali basati sull’analisi di 800 grumi e più di 6000 nuclei, evidenziano che non tutte le regioni di formazione stellare sono uguali. Le analisi presentate in questi primi articoli suggeriscono che i grumi più densi tendono a produrre un numero maggiore di nuclei, e quindi di stelle. Curiosamente è la maggiore concentrazione di materiale presente in un grumo, e non solo la sua quantità, che determina una sua maggiore capacità di formare nuove stelle. I nuclei hanno bisogno del materiale dei loro grumi iniziali per crescere, ed i grumi più densi e massicci sono in grado di produrre un maggior numero di nuclei che sono anche più ricchi di massa.

“La vastità del campione di strutture analizzato ci ha permesso di rivelare e di descrivere con un livello di dettaglio mai raggiunto prima la varietà delle caratteristiche fisiche (oltre che statistiche) di questi nuclei, ad esempio in termini di massa, dimensioni e densità” spiega Alessandro Coletta, dottorando dell’INAF di Roma. “Inoltre, è stato possibile indagare se, ed in quale misura, tali caratteristiche siano legate alle proprietà dei grumi ospitanti: ciò ci ha consentito di interpretare i risultati ricavati dalle osservazioni nel più ampio contesto del processo di formazione stellare, formulando dei primi scenari coerenti per arrivare a spiegarne i meccanismi”.

Osservando infatti regioni di età diverse, ALMAGAL ha scoperto che queste fucine si trasformano nel tempo. La maggior parte dei grumi più giovani mostrano solo pochissimi nuclei, e con il procedere del tempo la frammentazione ne produce un numero sempre crescente, che si distribuiscono nel modo più vario: da strutture circolari a distribuzioni filamentari, sviluppando geometrie più intricate.

“Questo è solo l’inizio” continua Sergio Molinari. “Per comprendere davvero quali siano i meccanismi fisici dominanti che giustifichino questi risultati è di fondamentale importanza il confronto con predizioni teoriche. Con il progetto Rosetta Stone sviluppato all’interno del progetto ERC Synergy ECOGAL (di cui ALMAGAL è parte) siamo pronti per il confronto delle immagini ALMAGAL con un’ampia gamma di simulazioni numeriche in cui i processi di frammentazione e formazione stellare vengono riprodotti al computer”.


 

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “ALMAGAL I. The ALMA evolutionary study of high mass protocluster formation in the Galaxy. Presentation of the survey and early results”, di Molinari, S., et al. è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

L’articolo “ALMAGAL II. The ALMA evolutionary study of high-mass protocluster formation in the Galaxy. ALMA data processing and pipeline”, di Sánchez-Monge, Á., et al. è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

L’articolo “ALMAGAL III. Compact source catalog: fragmentation statistics and physical evolution of the core population”, di Coletta, A., et al. è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

 

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

LA DANZA DELLE STELLE DA DUE MILIONI E MEZZO DI EURO: IL PROGETTO STARDANCE DELLA RICERCATRICE ELENA PANCINO SI AGGIUDICA L’ERC ADVANCED GRANT

 Elena Pancino, ricercatrice dell’Istituto Nazionale di Astrofisica si aggiudica un finanziamento di 2,5 milioni di euro dal Consiglio Europeo delle Ricerche. Il progetto vincitore del grant Advanced si chiama StarDance e metterà alla prova delle osservazioni l’ipotesi innovativa secondo cui molte popolazioni esotiche – finora incomprese – negli ammassi stellari e nella Via Lattea, sono il risultato di scambio di massa e fusione tra coppie di stelle.

Elena Pancino
Elena Pancino. Crediti: INAF

Dal primo novembre prossimo e per i successivi cinque anni, Elena Pancino – ricercatrice INAF a Firenze – guiderà il progetto europeo StarDance che, con un budget di due milioni e mezzo di euro messo a disposizione dall’European Research Council (ERC), il Consiglio Europeo delle Ricerche, cercherà di dare risposta a una domanda fondamentale aperta da decenni: “Come si formano le stelle?
StarDance studierà le proprietà fisiche e chimiche delle popolazioni stellari esotiche negli ammassi stellari e nella popolazione di campo della Via Lattea, per comprovare la nuova ipotesi proposta da Elena Pancino basata sullo studio di un tipo di stelle “non-canoniche”, risultato di interazioni tra stelle binarie che si fonderebbero dando origine a un’unica stella più massiccia. Queste popolazioni di stelle verranno studiate soprattutto negli ammassi stellari, sia aperti che globulari, ovvero le “culle” entro cui la maggior parte delle stelle si forma, rendendoli quindi ambienti molto attivi dal punto di vista chimico e dinamico. Proprio di questi ammassi, a oggi non è ancora del tutto chiaro quale sia il meccanismo di formazione, soprattutto per i più antichi (i globulari), né se la formazione stellare nell’universo primordiale fosse diversa da quella che è possibile osservare oggi.

Alcune di queste stelle esotiche attendono da decenni una interpretazione certa della loro origine. La definizione deriva da alcune loro caratteristiche peculiari: per esempio una composizione chimica anomala, il tipo di rotazione o la loro estrema ricchezza di litio, oppure la perdita di una parte importante della loro atmosfera.

Il titolo accattivante del progetto StarDance richiama la danza delle stelle, un concetto spesso usato per descrivere il percorso di oggetti che gravitano l’uno attorno all’altro.

“Nel mio progetto, metterò assieme la danza delle stelle che da sole ruotano molto velocemente sul loro asse, delle stelle binarie che ruotano l’una attorno all’altra, e degli ammassi stellari in cui migliaia o addirittura milioni di stelle seguono i loro percorsi non-deterministici, solitarie o in coppie e multipli, sotto l’azione del comune campo gravitazionale” spiega Elena Pancino, che continua: “Con StarDance avrò la possibilità di mettere alla prova una mia nuova ipotesi, secondo cui le interazioni tra stelle molto vicine tra loro, con scambio di massa e anche con la fusione delle due stelle, possono spiegare tutte le osservazioni in maniera naturale e organica. L’ambizione sta nel fatto che il progetto richiede una batteria di test ad ampio spettro, con osservazioni che vanno dalla banda dei raggi X fino all’infrarosso, ottenute per di più con tecniche diversissime, dalle più classiche fino all’intelligenza artificiale, e richiede anche competenze astrofisiche molto variegate. In sostanza, per la prima volta si guarderà il problema da diversi angoli in maniera organica e spaziando tra diversi campi di ricerca che tradizionalmente non comunicano molto tra loro”.

Questa ricerca si inserisce in un contesto scientifico già in grande fermento nel campo della formazione e dell’evoluzione stellare, grazie anche al contributo della missione astrometrica europea Gaia e altre missioni spaziali e grandi survey da Terra, che stanno producendo una enorme mole di dati di altissima qualità ancora lontana, però, dall’essere interpretata in modo soddisfacente. In questo contesto, gli ammassi stellari si confermano come potenti laboratori astrofisici da utilizzare per testare i modelli teorici.

“Io e il mio gruppo potremo contare su una enorme mole di lavoro fatta dalla comunità a cui apparteniamo. Tuttavia, l’ERC finanzia progetti alla cui base c’è un elemento di novità o di rottura con il passato, soprattutto dove ci sono grandi problemi aperti da lungo tempo, a cui le tecniche tradizionali non hanno saputo dare finora una risposta, proprio come nel nostro caso” conclude Pancino.

Elena Pancino
Elena Pancino. Crediti: INAF

Testo e foto dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

VELA, UNA PULSAR AL LIMITE (DELLA POLARIZZAZIONE)

Le pulsar, stelle di neutroni che ruotano rapidamente, emettono un vero e proprio vento, composto da particelle di alta energia e permeato da campi magnetici, che può scontrarsi con il gas che incontra sul suo cammino. Da questo scontro viene prodotta radiazione di sincrotrone che letteralmente “accende” le nebulose. Un’indagine sulle proprietà della luce proveniente da uno di questi oggetti celesti, la Vela Pulsar Wind Nebula (PWN), osservabile nella direzione della costellazione della Vela, nel cielo australe, mostra come essa risulti polarizzata.

Questo aspetto fornisce importanti indicazioni sulla distribuzione e sulla geometria dei campi magnetici che caratterizzano la pulsar, e dalle quali dipende la direzione di emissione del vento di particelle responsabile della radiazione di sincrotrone all’origine della luminosità della nebulosa circostante. Il risultato, pubblicato oggi, mercoledì 21 dicembre, sulla rivista Nature, è stato ottenuto dalla collaborazione internazionale dell’esperimento Imaging X-ray Polarimetry Explorer (IXPE), satellite, frutto di una collaborazione tra NASA e ASI, che è dotato di innovativi rivelatori sviluppati, realizzati e testati dall’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) e dall’INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica). IXPE è stato in grado di osservare la polarizzazione della luce nella banda X dalla Vela PWN e di studiare il vento prodotto dalla sua pulsar.

pulsar Vela nebulosa
Immagine composita della pulsar Vela e della sua nebulosa, ottenuta con osservazioni degli osservatori spaziali IXPE,Chandra e Hubble Space Telescope. Crediti: NASA/CXC/SAO/IXPE

Prodotta circa 12000 anni fa a seguito dell’esplosione di una stella, la nebulosa della Vela, insieme a quella del  Granchio (risultato anch’essa di una supernova, talmente luminosa da essere visibile anche di giorno, come riportato da astronomi cinesi nel 1054), sono tra i più studiati oggetti celesti della loro tipologia. Ma le somiglianze tra le due sorgenti astrofisiche non terminano qui. Le radiazioni emesse da entrambe le nebulose risultano infatti polarizzate. Ciò significa che i campi elettromagnetici dei fotoni non sono distribuiti in modo casuale, ma risultano essere allineati lungo direzioni specifiche, che variano in base alla regione della nebulosa da cui sono stati emessi. L’allineamento dei fotoni implica che gli elettroni ad altissima energia che compongono il vento della pulsar alla base del meccanismo responsabile dell’emissione della luce di sincrotrone, e quindi dei fotoni stessi, si muovano lungo una spirale all’interno del campo magnetico delle PWN. Comportamento che suggerisce che i campi magnetici di Vela PWN siano disposti in una geometria molto ordinata.

“IXPE ha rivelato che i campi magnetici di Vela PWN sono ben allineati con l’immagine nei raggi X della nebulosa” dice Fei Xie, professoressa associata alla Guangxi University e già post-doc presso l’INAF di Roma, prima autrice dell’articolo pubblicato su Nature. “Questi campi formano delle strutture a forma di ciambella (dette tori) che circondano l’equatore della pulsar e i getti di emissione che partono dai poli della pulsar stessa. Ancora più sorprendentemente, il grado di polarizzazione misurato risulta essere molto elevato, superando il 60% in più regioni. Questo è il grado di polarizzazione più elevato mai misurato in una sorgente celeste nei raggi X ed è un valore prossimo al valore massimo permesso dalla fisica dell’emissione di sincrotrone”.

“L’alta polarizzazione vista da IXPE, assieme alla distribuzione energetica costante (nel blu), suggerisce che gli elettroni non sono accelerati da processi di shock turbolenti, che risultano svolgere un ruolo predominante in altre sorgenti di raggi X, quali i resti di Supernova con strutture a guscio. A produrre un tale risultato, invece, potrebbe essere un processo non turbolento come la riconnessione magnetica”, dice Roger W. Romani, astrofisico di Stanford coinvolto nell’analisi dei dati.

“Questa misura di polarizzazione in banda X, ottenuta da IXPE, aggiunge un pezzo finora mancante al puzzle di Vela PWN”, dichiara Alessandro Di Marco, ricercatore presso l’INAF di Roma che ha contribuito all’analisi dei dati. “IXPE ha svelato la struttura dei campi magnetici nella regione centrale, fornendoci una loro mappa con una risoluzione precedentemente mai ottenuta, mostrando come questa sia in accordo con le immagini ottenute in radio per la nebulosa esterna”.

“Il risultato è stato reso possibile dalle caratteristiche uniche degli strumenti, tutti Italiani, al piano focale dei tre telescopi di IXPE, che non solo forniscono una sensibilità alla polarizzazione senza precedenti in questa banda di energia, ma permettono anche di misurare, fotone per fotone, la direzione d’arrivo e l’energia”, commenta Luca Baldini, ricercatore dell’INFN e dell’Università di Pisa, Co-Principal Investigator italiano di IXPE.

“Le misure di polarizzazione della Vela PWN nei raggi X evidenziano quanto sia diversificata in sorgenti astrofisiche la struttura dei campi magnetici alla base dell’emissione X osservata. Quella della Vela PWN è di certo tra le meno complesse, dato l’elevato grado di polarizzazione vicino al limite teorico previsto” dice Immacolata Donnarumma, ASI Project Scientist.

IXPE sta continuando a osservare il cielo ai raggi X sondando più in profondità nelle strutture dei campi magnetici di diverse sorgenti celesti, fornendoci nuove informazioni sulla fisica estrema di questi acceleratori cosmici di particelle.

 

Testo e immagine dagli Uffici Stampa Agenzia Spaziale Italiana, Istituto Nazionale di Astrofisica, Istituto Nazionale di Fisica Nucleare.

NELLA VIA LATTEA, NATALITÀ STELLARE NELLA MEDIA, MA SI POTREBBE FARE DI PIÙ

Una nuova analisi dei dati raccolti dal satellite Herschel dell’Agenzia Spaziale Europea ha stimato il tasso di formazione stellare della nostra galassia, la Via Lattea, stabilendo che in media produce nuove stelle per un ammontare pari a due volte la massa del Sole ogni anno. Questo fa della Via Lattea una galassia “mediamente attiva”. Lo studio, guidato da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, getta un ponte tra l’astrofisica galattica e quella extragalattica.

Mappa della densità del tasso di formazione stellare nella Via Lattea. I valori più alti sono rappresentati in bianco e giallo, mentre valori più moderati sono indicati in arancione, rosso, viola, blu e nero. Il centro galattico è riportato al centro dell’immagine, mentre la X in grigio nella parte inferiore indica la posizione del Sole. Sono indicati (in quattro diversi toni di verde) quattro bracci della spirale galattica.
Crediti: D. Elia et al. (2022)

Hanno contato tutti i clump, grumi di gas e polvere dispersi nel mezzo interstellare che pervade la Via Lattea, identificando quali tra essi ospitano formazione stellare e misurando la loro massa. Così, un team internazionale guidato da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha stimato il tasso di formazione stellare della nostra galassia, ovvero quanto rapidamente produce nuove stelle: con una natalità stellare pari a circa due masse solari l’anno, la Via Lattea risulta essere una galassia “mediamente attiva”.

Il risultato si basa sulle osservazioni del piano galattico – dove risiede la maggior parte delle stelle della Via Lattea – condotte tra il 2009 e il 2013 dal telescopio spaziale Herschel dell’Agenzia Spaziale Europea nell’ambito della survey a guida italiana Hi-GAL ed è in accordo con le poche stime precedenti di questa grandezza, che facevano uso di tecniche completamente diverse. Questo lavoro permette di consolidare quanto noto finora sulla capacità della Via Lattea di convertire il gas freddo in stelle ed è stato pubblicato oggi su The Astrophysical Journal.

“In primo luogo, stimare il tasso di formazione stellare della Via Lattea ci consente di operare confronti tra essa e le altre galassie”, spiega Davide Elia, ricercatore INAF a Roma e primo autore del nuovo studio. “In secondo luogo, consente di affrontare un annoso dilemma nell’astrofisica galattica, ossia il fatto che il tasso di formazione stellare osservato, di poche masse solari per anno, risulta piuttosto esiguo rispetto alla quantità di materia disponibile. Produrre una stima aggiornata di questa quantità fornisce dunque un dato di riferimento ai colleghi che cercano di spiegare per via teorica questo inatteso comportamento”.

NELLA VIA LATTEA, NATALITÀ STELLARE NELLA MEDIA
La regione di formazione stellare Westerhout 43, a circa 20mila anni luce da noi, nella costellazione dell’Aquila, in un’immagine realizzata dal telescopio spaziale Herschel. Questa regione ospita oltre 20 “culle” di formazione stellare, evidenti in blu all’interno delle nubi di gas e polvere che pervadono l’immagine. Si stima che la regione coperta da questa immagine ospiti circa il 3,5 per cento del tasso di formazione stellare dell’intera Via Lattea.
Crediti: ESA/Herschel/PACS, SPIRE/Hi-GAL Project. Acknowledgement: UNIMAP / L. Piazzo, La Sapienza – Università di Roma; E. Schisano / G. Li Causi, IAPS/INAF, Italy

La velocità con cui una galassia produce nuove stelle, che dipende dalla massa di gas freddo disponibile e quantifica il suo grado di attività in termini di formazione stellare, non è un parametro facile da misurare: negli ultimi 45 anni sono state pubblicate solo una quindicina di stime di questa grandezza. Il team è riuscito nell’impresa partendo da un’idea di Sergio Molinari, dirigente di ricerca INAF a Roma, principal investigator di Hi-GAL e secondo autore dell’articolo. Dopo aver selezionato dal catalogo della survey, pubblicato lo scorso anno, gli oltre 150mila clump all’interno dei quali stanno nascendo nuove stelle, è stato possibile, a partire dalla loro massa e per confronto con i modelli teorici, stimare la frazione di massa che verrà convertita in stelle e il tempo necessario affinché ciò accada. Il valore trovato, ottenuto per la prima volta a partire dai dati di Herschel, rappresenta uno dei prodotti finali attesi da una importante survey del piano galattico come Hi-GAL.

“Stime di questo genere sono molto “attese” dalla comunità e quindi riteniamo di aver fissato una nuova pietra miliare nella storia delle misurazioni di questa grandezza”, chiarisce Elia.

Questo metodo ha permesso anche di mappare, come mai prima d’ora, il tasso di formazione stellare nel piano galattico, delineando il suo comportamento dal centro alla periferia della Via Lattea e il suo legame con il ruolo dei bracci di spirale. Si è stimato che l’84% del tasso di formazione stellare della Via Lattea è contenuto entro l’orbita del Sole attorno al centro galattico, e solo il 16% al di fuori di essa.

“Per le galassie esterne alla nostra, e in particolare quelle molto lontane e non osservabili in dettaglio con gli strumenti a disposizione, il tasso di formazione stellare è spesso una delle poche quantità globalmente misurabili”, aggiunge Elia. “Calcolarlo anche per la galassia in cui viviamo, la Via Lattea, ci consente di operare un confronto tra essa e le altre galassie, per capire se la nostra abbia un comportamento “usuale” o in qualche modo peculiare. La tecnica usata, oltretutto, ci consente non solo di stimare il tasso di formazione stellare globale, ma anche di mapparlo zona per zona. Naturalmente esistono varie difficoltà dovute al fatto che possiamo osservare la Via Lattea solo dal di dentro e, oltretutto, da una posizione relativamente defilata”.


 

Per ulteriori informazioni: L’articolo “The Star Formation Rate of the Milky Way as seen by Herschel” di D. Elia, S. Molinari, E. Schisano, J. D. Soler, M. Merello, D. Russeil, M. Veneziani, A. Zavagno, A. Noriega-Crespo, L. Olmi, M. Benedettini, P. Hennebelle, R. S. Klessen, S. Leurini, R. Paladini, S. Pezzuto, A. Traficante, D. J. Eden, P. G. Martin, M. Sormani, A. Coletta, T. Colman, R. Plume, Y. Maruccia, C. Mininni, S. J. Liu, è stato pubblicato online su The Astrophysical Journal.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza
Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

LA DOPPIA ANIMA DEL MAGNETISMO STELLARE

L’abbondanza di elementi pesanti all’interno di una stella ha un ruolo importante nei meccanismi che portano alla formazione e riorganizzazione del campo magnetico su grande scala, un fenomeno chiamato “dinamo stellare”. È il risultato dello studio guidato da due ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, che hanno compilato il più grande catalogo ad oggi dei periodi del ciclo di attività e di rotazione stellari, per un campione di 67 stelle

In che modo la rotazione di una stella può influenzare il periodo del suo ciclo di attività? Questa domanda, uno dei grandi quesiti aperti nell’astrofisica stellare, è collegata a una domanda ancor più fondamentale: il Sole è una stella di tipo solare?

LA DOPPIA ANIMA DEL MAGNETISMO STELLARE
Variazioni dell’attività del Sole osservate nel corso di 25 anni dal satellite ESA/NASA SOHO (Solar and Heliospheric Observatory).
Crediti: SOHO (ESA & NASA)

Hanno fatto finalmente chiarezza Alfio Bonanno ed Enrico Corsaro, ricercatori presso l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) a Catania, in un articolo pubblicato questa settimana su The Astrophysical Journal Letters. Il nuovo studio mostra infatti l’esistenza di una dicotomia nella distribuzione di quanto rapidamente varia il ciclo di attività di una stella in funzione della sua rotazione, con stelle la cui frequenza del ciclo di attività aumenta, e altre per cui questa diminuisce, con la rotazione. Il nostro Sole appartiene alla seconda categoria.

“Come spesso capita nella scienza moderna, fenomeni complessi ammettono una pluralità di interpretazioni. Nel caso delle stelle attive, cioè di stelle che presentano variabilità fotometrica e spettroscopica dovuta alla presenza di campi magnetici, la necessità di spiegare le cause della complessa fenomenologia osservativa in maniera consistente e unitaria è tuttavia essenziale per almeno due ragioni”, spiega Bonanno. “La prima è quella di comprendere meglio fenomeni potenzialmente distruttivi come tempeste solari e ‘super flare’, particolarmente importanti nel contesto dello space weather. La seconda è la comprensione della dinamo stellare, ovvero il complesso meccanismo che presiede formazione e riorganizzazione di un campo magnetico coerente su larga scala in un fluido stellare o planetario turbolento. Infatti senza la presenza combinata di campi magnetici stellari o planetari la vita non sarebbe possibile nel Sistema solare”.

Il lavoro si basa su un nuovo approccio statistico, che non trova precedenti nella letteratura scientifica, sviluppato per l’occasione e qui applicato ai dati della terza release del satellite Gaia, la missione dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) che da oltre otto anni scansiona il cielo per realizzare una mappa tridimensionale sempre più ricca e precisa della nostra galassia, la Via Lattea. Questa combinazione ha permesso la compilazione di un catalogo di 67 stelle – il più grande di questo genere finora realizzato – con la misura dei periodi del ciclo di attività e di rotazione stellari.

“Quanti e quali regimi di dinamo stellare sono presenti in stelle di massa simili al Sole? Cosa genera un tipo di dinamo stellare rispetto a un altro? Abbiamo studiato il legame tra la rotazione e i cicli di attività stellare, poiché questo ci permette di comprendere come i cicli di attività si possono distribuire in funzione della velocità di rotazione della stella”, chiarisce Corsaro. “Abbiamo poi analizzato questo legame alla luce di parametri stellari di metallicità, età, luminosità, massa, resi disponibili dai dati della missione ESA Gaia e da spettroscopia ad alta risoluzione, al fine di identificare quale parametro possa realmente influenzare il tipo di dinamo prodotta in stelle simili al Sole”.

Il motivo della distinzione tra le due categorie di stelle si trova nella loro composizione chimica. Lo studio dimostra finalmente che le stelle del primo tipo hanno abbondanze di elementi più pesanti dell’elio (che gli astronomi chiamano, in gergo, “metalli”) significativamente inferiori rispetto alle stelle del secondo tipo, come il Sole. Ciò indica che le proprietà della turbolenza magnetoidrodinamica nei plasmi stellari sono essenzialmente determinate dalla composizione chimica microscopica, e non dalla geometria o dall’estensione della zona convettiva, come si pensava in precedenza. Questa nuova prospettiva potrebbe permettere di interpretare, per la prima volta, il magnetismo stellare in maniera unitaria e coerente, anche in vista di future missioni che osserveranno grandi campioni di stelle, come il futuro satellite PLATO dell’ESA.

“Abbiamo scoperto che il Sole rientra perfettamente in uno dei regimi identificati sui cicli di attività magnetica – a differenza di quanto proposto da alcuni anni a questa parte, in cui il Sole era visto come una stella in una particolare fase di transizione verso un altro regime”, sottolinea Bonanno. “Abbiamo inoltre appreso che la metallicità stellare può essere l’ingrediente responsabile per generare un tipo di dinamo anziché un altro, poiché la metallicità cambia le proprietà microscopiche della zona convettiva della stella, zona all’interno della quale si ritiene che la dinamo stellare venga generata”, aggiunge Corsaro.

L’attività magnetica stellare è tra i fenomeni astrofisici più difficili da affrontare e la sua origine non è ancora compresa del tutto. Migliorare la nostra conoscenza del magnetismo stellare è di fondamentale importanza per il suo impatto sull’evoluzione stellare, e di conseguenza sull’evoluzione e l’abitabilità di potenziali pianeti in orbita intorno alle stelle.

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “On the Origin of the Dichotomy of Stellar Activity Cycles” di Alfio Bonanno ed Enrico Corsaro, è stato pubblicato su The Astrophysical Journal Letters.

 

Testo e foto dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

DALLA MISSIONE DELLA NASA ALLE OSSERVAZIONI UNITO: TOI-500, UN SISTEMA PLANETARIO DI QUATTRO PIANETI CON UN PROCESSO DI MIGRAZIONE PECULIARE

Il pianeta più vicino alla stella è molto simile alla Terra e ha un periodo orbitale di sole 13 ore. La sua orbita stretta può essere spiegata con un modello di migrazione “non violento”

TOI-500

È stata annunciata la scoperta di un sistema planetario non comune attorno alla stella TOI-500, composto da quattro pianeti di piccola massa, uno dei quali con periodo inferiore a un giorno, il cui processo di migrazione ed evoluzione può essere spiegato con uno scenario non violento. Fino ad oggi non era mai stato dimostrato che tale scenario potesse giustificare l’esistenza e l’architettura di sistemi planetari così peculiari. La ricerca, pubblicata sulla prestigiosa rivista Nature Astronomy con il titolo “A low-eccentricity migration pathway for a 13-h-period Earth analogue in a four-planet system”, è stata guidata da Luisa Maria Serrano e Davide Gandolfi del Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino e ha coinvolto un team internazionale di ricercatori europei, giapponesi, americani e cileni, di cui fanno anche parte Elisa Goffo ed Enrico Bellomo dello stesso Dipartimento.

Il pianeta più vicino alla stella, battezzato TOI-500b, è un cosiddetto Ultra-Short Period (USP) planet, in quanto il suo periodo orbitale è di appena 13 ore. È inoltre considerato un Earth analogue, ovvero un pianeta roccioso simile alla Terra, perché ha raggio, massa e densità confrontabili con quelli del nostro pianeta.

Tuttavia la sua vicinanza alla stella lo rende così caldo (circa 1350 °C) che la sua superficie è molto probabilmente un’immensa distesa di lava”, afferma Enrico Bellomo.

TOI-500b è stato inizialmente identificato dal telescopio spaziale della NASA TESS (Transiting Exoplanet Survey Satellite) che ricerca pianeti extrasolari utilizzando il metodo dei transiti.  Questo metodo permette di identificare i pianeti che periodicamente occultano la loro stella, causando una diminuzione della luce che riceviamo. Il pianeta è stato successivamente confermato grazie ad un’intensa campagna osservativa condotta da UniTo con lo spettrografo HARPS dell’Osservatorio Europeo Australe (ESO), nell’ambito del programma osservativo del Prof. Davide Gandolfi. I dati coprono un intero anno e la loro analisi, congiunta a quella dei dati TESS, ha consentito di misurare la massa, il raggio, e i parametri orbitali del pianeta interno.

Le stesse misure HARPS hanno anche permesso di scoprire 3 pianeti aggiuntivi, con periodi orbitali di 6.6, 26.2 e 61.3 giorni. TOI-500 è un sistema planetario straordinario per capire l’evoluzione dinamica dei pianeti”, dichiara il Prof. Gandolfi.

In aggiunta alla scoperta del sistema, la novità presentata dall’articolo appena pubblicato risiede nel processo di migrazione che avrebbe portato il sistema planetario alla configurazione attuale.

La comunità scientifica è unanimemente d’accordo che un pianeta come TOI-500b non si possa essere formato nella sua posizione attuale, ma che debba essersi originato in una zona più esterna del disco protoplanetario, per poi migrare molto più vicino alla sua stella”, afferma Elisa Goffo. Sul processo di migrazione c’è attualmente ancora molto dibattito, ma è opinione comune che solitamente avvenga in maniera violenta, un processo che comporta anche “urti” tra pianeti i quali, partendo da orbite non circolari e inclinate tra loro, migrano verso orbite più piccole sempre più circolari e coplanari.

Nell’articolo invece gli autori presentano delle simulazioni con cui dimostrano che i pianeti attorno a TOI-500 possono essersi formati su orbite quasi circolari, per poi migrare seguendo un processo cosiddetto secolare e quasi statico durato circa 2 miliardi di anni.

Si tratta di un modello di migrazione quieto in cui i pianeti, non urtandosi tra loro, si muovono lungo orbite che rimangono pressoché circolari e che sono via via sempre più piccole”, spiega la Dottoressa Serrano.

L’articolo dimostra l’importanza di associare alla scoperta di sistemi che ospitano pianeti di tipo USP simulazioni numeriche per testare i possibili processi migratori che possano averli portati alla configurazione corrente. “Acquisire dati per lunghi periodi di tempo permette di studiare l’architettura interna di sistemi analoghi a TOI-500 e di capire come i pianeti si siano assestati sulle loro orbite”, concludono Luisa Maria Serrano e Davide Gandolfi.

 

Testo e immagine dall’Ufficio Stampa dell’Università degli Studi di Torino