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BENNU, UN ASTEROIDE DA MANEGGIARE CON CURA

Sulla superficie di Bennu si sprofonda, i massi che la compongono sono completamente slegati e il materiale che lo costituisce è molto simile a quello delle meteoriti carbonacee alterate dall’acqua. Sono questi alcuni dei principali risultati presentati in due articoli sulle riviste Science e Science Advances realizzati con tutti i dati raccolti durante il campionamento della sonda OSIRIS-REx sull’asteroide, avvenuto nel 2020. Nel team che ha condotto le analisi pubblicate su Science partecipa anche Maurizio Pajola, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

OSIRIS-REx è la missione della NASA che il 20 ottobre 2020 si è posata sulla superficie dell’asteroide Bennu e ne ha prelevato un consistente campione di rocce e polvere, il più grande per massa raccolta dopo le missioni Apollo. Oggi, tutti i risultati ottenuti da questo campionamento sono stati pubblicati in due articoli sulle riviste Science e Science Advances.

Bennu asteroide

Un asteroide di sorprese

Sin dal primo avvicinamento della sonda OSIRIS-REx, nel dicembre 2018, l’asteroide Bennu si è mostrato diverso da quello che gli scienziati del team si aspettavano. La superficie dell’asteroide, infatti, che secondo le previsioni doveva essere liscia e coperta di materiale fine come una distesa di sabbia, era invece disseminata di massi, ed era attiva: Bennu stava lanciando granelli di roccia nello spazio.

La seconda sorpresa, poi, c’è stata non appena la sonda ha trasmesso a Terra le immagini ravvicinate della superficie dell’asteroide scattate durante il campionamento, che mostravano una ampia e densa nube di detriti sollevati dal sito di raccolta. Vista la delicatezza con cui la sonda ha toccato la superficie, gli scienziati sono rimasti spiazzati dall’abbondanza di sassolini sparsi. Non solo: secondo i risultati pubblicati oggi, il processo di raccolta ha creato un cratere di forma ellittica con un semiasse maggiore largo 9 metri.

Cosa è successo durante il campionamento

“La superficie di Bennu ha risposto al contatto con il TAGSAM – ovvero il modulo all’estremità del braccio robotico deputato al campionamento –  come un fluido viscoso, ma con resistenza minima, come se le particelle presenti sulla superficie dell’asteroide avessero coesione tra di loro pari a zero” spiega Maurizio Pajola, ricercatore dell’INAF di Padova e membro italiano del team di OSIRIS-Rex, tra i coautori dell’articolo pubblicato oggi su Science a prima firma di Dante Lauretta, responsabile scientifico della missione.

L’operazione di raccolta del materiale sulla superficie di Bennu è durata 5 secondi e il TAGSAM era largo appena 30 cm. L’enorme cratere generato ha esposto, in parte, gli strati meno superficiali della superficie, che si sono mostrati più scuri, più arrossati e caratterizzati da particolato molto più fine rispetto a quello che si trova in superficie. Infine, gli scienziati hanno notato che l’impatto con il braccio robotico ha causato lo spostamento di un masso del diametro di 1,25 metri di circa 12 metri.

“Le difficoltà per arrivare a questo campionamento sono state estreme. La superficie è solo composta di massi. Ci si aspettava di trovare una zona di almeno 25-50 metri quadrati della superficie dell’asteroide ricche di polvere e prive di rischio. In realtà, di zone con quelle caratteristiche non ce ne sono proprio su Bennu. Ciononostante, sono stati raccolti ben oltre i 60 grammi minimi richiesti dalla NASA”, commenta Pajola. “Il veicolo spaziale ha recuperato circa 250 grammi di materiale. Molto molto di più se pensiamo ai 5 grammi raccolti su Ryugu dalla sonda Hayabusa 2”.

 

Di cos’è fatto Bennu

Dalle analisi effettuate, poi, il materiale che si è alzato dalla superficie e che in parte si è depositato sulla strumentazione di bordo assomiglia al materiale che ritroviamo dentro alle meteoriti carbonacee alterate dall’acqua.

“Bennu è un Near Earth Object di tipo B, e quindi ci aspettavamo che la sua superficie fosse caratterizzata dalla presenza di minerali idrati. Però è anche un oggetto particolarmente scuro, e quindi ricco di composti del carbonio” sottolinea Pajola. “Quel che non ci aspettavamo era che si depositasse abbondante polvere su alcune delle ottiche, e questo ha diminuito un po’ il segnale acquisito dalla strumentazione di bordo. I dati che abbiamo preso quando OSIRIS-REx si è avvicinato e poi allontanato dalla superficie comunque confermano quanto atteso: il materiale era ricco composti organici e minerali idrati. La prova definitiva di questo ce l’avremo quando potremo analizzare i campioni a Terra, anzi: come successo per Hayabusa-2, siamo sicuri che dentro ai grani ci sia molto di più di quel che abbiamo potuto vedere finora”.

Se Osiris-Rex si fosse posato sulla superficie

Il fatto che si sia creato un cratere così grande in seguito al campionamento sull’asteroide è la prima dimostrazione che le particelle che compongono l’esterno di Bennu sono così poco impacchettate e legate tra loro da opporre una resistenza minima alla pressione. Per fare un esempio, se una persona dovesse camminare su Bennu si troverebbe come se calpestasse una distesa di palline di plastica come quelle che si trovano nelle aree di gioco per bambini. Se quindi la sonda non avesse azionato i suoi propulsori per indietreggiare subito dopo aver afferrato polvere e roccia dalla superficie dell’asteroide, sarebbe sprofondata al suo interno.

È possibile che asteroidi come Bennu – solo debolmente tenuti insieme dalla gravità o dalla forza elettrostatica – possano disgregarsi in caso di ingresso nell’atmosfera terrestre e quindi rappresentare un tipo di pericolo diverso rispetto agli asteroidi solidi. La ricerca su questi corpi, comunque, è ancora all’inizio e le domande aperte sono ancora molte. Quel che è certo è che le informazioni precise ricavate dagli scienziati sulla superficie di Bennu possono aiutare gli scienziati a interpretare meglio le osservazioni a distanza di altri asteroidi, il che potrebbe essere utile per progettare future missioni e per sviluppare metodi per proteggere la Terra dalle collisioni con gli asteroidi.

I risultati sono stati pubblicati oggi negli articoli:

Spacecraft sample collection and subsurface excavation of asteroid (101955) Bennu di D.S. Lauretta, C. D. Adam, A. .J. Allen, R.-L. Ballouz, O. S. Barnouin, K. .J.Becker, T. Becker, C.A.Bennett, E. B.Bierhaus, B. .J. Bos, R. D. Burns, H. Campins, Y. Cho, P.R. Christensen, E. C. A. Church, B. E. Clark, H. C.Connolly .Jr.,M. G. Daly, D. N. DellaGiustina, C. Y. Drouetd’Aubigny, J.P. Emery, H. L. Enos, S.FreundKasper, J.B. Garvin, K. Getzandanner,D.R. Golish, V. E. Hamilton, C.W. Hergenrotber, H. H. Kaplan, L. P. Keller, E. .J. Lessac-Chenen, A. .J. Liounis, H. Ma, L. K.McCartby, B. D. Miller, M. C. Moreau, T. Morota, D.S. Nelson, J. O. Nolau, R. Olds, M. Pajola, J. Y. Pelgrift, A. T. Polit, M.A. Ravine, D. C. Reuter, B. Rizk, B. Rozitis, A. .J. Ryan, E. M. Sahr, N.Sakatani, J. A. Seabrook, S. H. Selznick,M.A. Skeen, A. A. Simon, S. Sugita, K. .J.Walsh, M. M.Westermann, C.W. V. Wolner e K.Yumoto (Science)

Near-zero cohesion and loose packing of Bennu’s near subsurface revealed by spacecraft contact di Kevin J. Walsh, Ronald-Louis Ballouz et al. (Science Advances)

 

Testo e foto dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

EFFETTI DEL Mo.S.E. SULLA STRUTTURA MORFOLOGICA
DELLA LAGUNA DI VENEZIA

Team di ricercatori coordinato dall’Università di Padova evidenzia che l’utilizzo del sistema Mo.S.E., modificando l’idrodinamica e il trasporto di sedimenti, condiziona il mantenimento della preziosa diversità morfologica della laguna

Se da un lato l’utilizzo del sistema Mo.S.E. a protezione della città di Venezia risolve, almeno temporaneamente, il problema delle acque alte che sempre più frequentemente minacciano Venezia e gli altri insediamenti lagunari, dall’altro avrà un impatto importante sull’evoluzione morfologica della laguna nel suo insieme. L’utilizzo del Mo.S.E. per la regolazione delle maree con livello previsto maggiore di 110 cm sul riferimento di Punta della Salute ha, infatti, importanti conseguenze sull’idrodinamica e sul trasporto di sedimenti all’interno della laguna. In particolare, la riduzione dei livelli di marea incrementa la risospensione dei sedimenti dai bassifondali lagunari, favorendo l’interrimento dei canali e riducendo al contempo la capacità delle barene – formazioni pianeggianti tipiche degli ambienti lagunari – di sopravvivere al progressivo innalzamento del livello medio del mare. Se non opportunamente contrastati, tali processi porteranno nel tempo a un progressivo appiattimento della topografia lagunare, modificandone in modo sostanziale l’attuale morfologia.

Mo.S.E. laguna di Venezia
Effetti del Mo.S.E. sulla struttura morfologica della laguna di Venezia. Photo credit: Davide Tognin

Questo è quanto emerge dallo studio Loss of geomorphic diversity in shallow tidal embayments promoted by storm-surge barriers, pubblicato da un team di ricercatori dell’Università di Padova sulla prestigiosa rivista scientifica «Science Advances», frutto della collaborazione tra Centro Interdipartimentale di Idrodinamica e Morfodinamica Lagunare (CIMoLa), Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale (ICEA) e Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova, che ha coinvolto anche il Dipartimento di Scienze Ambientali, Informatica e Statistica dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e il Dipartimento di Ingegneria Ambientale dell’Università della Calabria e che si è svolto nell’ambito del Progetto Venezia 2021, finanziato dal Provveditorato alle Acque di Venezia tramite CO.RI.LA. – il Consorzio per il coordinamento delle ricerche inerenti al sistema lagunare di Venezia.

Andrea D’Alpaos

La ricerca, coordinata dai docenti Luca Carniello del Dipartimento ICEA e Andrea D’Alpaos del Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova, ha analizzato gli effetti delle prime chiusure del Mo.S.E. avvenute nell’autunno 2020 sulla morfologia della laguna di Venezia.

Luca Carniello

Integrando strumenti modellistici e misure di campo, i ricercatori hanno analizzato gli effetti prodotti dall’utilizzo del sistema di paratoie mobili alle bocche di porto sul trasporto di sedimenti e sull’evoluzione morfologica della laguna di Venezia.

Mo.S.E. laguna di Venezia
Effetti del Mo.S.E. sulla struttura morfologica della laguna di Venezia. Photo credit: Davide Tognin

L’effetto principale della riduzione dei livelli di marea prodotta dal sollevamento delle paratoie del Mo.S.E. durante i cosiddetti eventi di “acqua alta” è un aumento della risospensione dei sedimenti dai bassifondali, dovuta principalmente all’azione delle onde che si generano all’interno della laguna a causa dei forti venti che tipicamente accompagnano questo tipo di eventi e che, contro intuitivamente, sollecitano maggiormente i fondali quando il livello di marea in laguna è regolato dalle paratoie.

Una volta rimobilitati dalle onde, a causa del ridotto dinamismo delle acque lagunari causato dalla chiusura delle bocche di porto, i sedimenti tendono ad essere depositati all’interno dei canali, contribuendo così all’interrimento degli stessi, con conseguenze negative sul ricambio d’acqua in condizioni ordinarie e sull’aumento dei costi di dragaggio per mantenerne la navigabilità.

Allo stesso tempo, la riduzione dei livelli di marea in laguna contribuisce ad una sostanziale riduzione del volume di sedimenti depositato sulle barene.

Tali sedimenti, che sono di vitale importanza per permettere alle barene di sopravvivere all’innalzamento del livello medio del mare, vengono depositati su di esse in larga parte proprio durante gli eventi di acqua alta per i quali è prevista l’attivazione delle barriere del Mo.S.E.

Pertanto, l’utilizzo ripetuto e prolungato del Mo.S.E. rischia, se non opportunamente controbilanciato, di minare tale processo di accrescimento delle barene minacciandone l’esistenza e, con essa, l’espletamento dei numerosi servizi ecosistemici che queste forme lagunari forniscono.

Se da un lato la temporanea chiusura delle bocche di porto risulta indispensabile per la limitazione delle acque alte – evidenziando, allo stesso tempo, che soluzioni ingegneristiche diverse da quella adottata per il Mo.S.E. non avrebbero modificato in modo sostanziale le dinamiche evidenziate dallo studio –, dall’altro i ricercatori sostengono la necessità di trovare un compromesso tra le esigenze di salvaguardia delle aree urbane dalle inondazioni e la conservazione dell’ecosistema lagunare.

Appare pertanto urgente e inderogabile la necessità di mettere allo studio interventi in grado di mitigare gli effetti messi in luce dalle indagini, in modo da poterli realizzare prima possibile. Soluzioni complementari al sistema Mo.S.E. potrebbero, ad esempio, essere adottate al fine di ridurre il numero complessivo di chiusure annuali, mitigandone così, almeno in parte, gli effetti negativi sulla conservazione della morfologia lagunare.

Link alla ricerca: 10.1126/sciadv.abm8446

Titolo: Loss of geomorphic diversity in shallow tidal embayments promoted by storm-surge barriers – «Science Advances» – 2022 Autori: Davide Tognin, Alvise Finotello, Andrea D’Alpaos, Daniele P. Viero, Mattia Pivato, Riccardo A. Mel, Andrea Defina, Enrico Bertuzzo, Marco Marani, Luca Carniello

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università degli Studi di Padova

Clima: equilibrio artico sempre più a rischio

Il cambiamento climatico modifica i delicati ecosistemi lacustri artici. Una ricerca di Sapienza e Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) alle Isole Svalbard studia i cambiamenti in corso. I risultati sono pubblicati su Scientific Reports.

clima equilibrio artico
Clima: equilibrio artico sempre più a rischio. In foto, il rifugio Papphytta, Brøggerhalvøya presso le isole Svalbard. Foto di Superchilum, CC BY-SA 3.0

Uno nuovo studio coordinato dal gruppo di Ecologia trofica del Dipartimento di biologia ambientale della Sapienza fa luce sulle relazioni che legano il clima al funzionamento dei delicati ecosistemi lacustri artici, considerati hotspot di biodiversità e sink di carbonio alle più elevate latitudini.

La ricerca, pubblicata sulla rivista Scientific Reports, fortemente interdisciplinare, è stata realizzata in collaborazione con l’Istituto di scienze polari e l’Istituto di ricerca sulle acque del Cnr, combinando l’analisi elementare e degli isotopi stabili di campioni animali e vegetali con l’analisi di immagini satellitari e la ricostruzione dell’idrodinamica di 18 laghi in 3D alle Isole Svalbard.

I ricercatori hanno studiato le fonti di nutrienti nei laghi e tracciato il loro trasferimento attraverso la rete alimentare, mettendo in relazione i modelli osservati con gli aspetti climatici e idrodinamici dei laghi artici, la copertura nevosa e vegetazionale e la presenza di specie migratrici caratteristiche dell’area. I risultati chiariscono gli effetti diretti e indiretti che queste variabili legate al clima hanno sulle interazioni tra le specie e sul ciclo dei nutrienti (carbonio e azoto) in questi ambienti estremi. Le evidenze ottenute permettono di prevedere che l’aumento della temperatura comporterà un aumento del carico di nutrienti in questi ecosistemi, con conseguenze sulla loro produttività e sui tassi di rilascio di carbonio in atmosfera, entrambi ad oggi limitati dalla carenza di azoto e altri elementi.

“Lo studio, che fa parte di una linea di ricerca più ampia coordinata da Sapienza nell’ambito del Programma di ricerche in Artico e del Programma nazionale di ricerche in Antartide, – evidenzia Edoardo Calizza della Sapienza – aiuta a comprendere meglio come l’aumento delle temperature potrebbe incidere sulla biodiversità e sul funzionamento degli ecosistemi polari, e sui servizi cruciali che essi svolgono sia a scala locale che globale, inclusa la regolazione stessa del clima”.

“L’approccio multidisciplinare, che vede collaborare insieme biologi e geologi sul campo ed in laboratorio, nello studio dei laghi artici, rappresenta sicuramente un valore aggiunto al progetto e consente di studiare in dettaglio le complesse dinamiche esistenti tra fattori biotici ed abiotici, che guidano e vincolano la circolazione dei nutrienti anche a queste latitudini”, sottolinea David Rossi dell’Istituto di ricerca sulle acque del Cnr.

“Il contributo innovativo alle ricerche sugli ecosistemi dei laghi artici è rappresentato dall’integrazione di immagini satellitari e dati al terreno per l’analisi della variabilità spaziale e temporale delle coperture nevose nelle isole Svalbard in cui Il Cnr ha maturato una esperienza pluriennale”, aggiunge Rosamaria Salvatori dell’Istituto di scienze polari. “Il sistema dei laghi analizzati ricade nel territorio della Brogger Peninsula in cui è situata la base scientifica Dirigibile Italia del Cnr”.

 

Riferimenti:

Climate-related drivers of nutrient inputs and food web structure in shallow Arctic lake ecosystems – Edoardo Calizza, Rosamaria Salvatori, David Rossi, Vittorio Pasquali, Giulio Careddu, Simona Sporta Caputi, Deborah Maccapan, Luca Santarelli, Pietro Montemurro, Loreto Rossi & Maria Letizia Costantini – Scientific Reports. DOI https://doi.org/10.1038/s41598-022-06136-4

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Individuare fenomeni quantistici attraverso rapporti di causa-effetto

Per comprendere la relazione quantistica fra due eventi, un team di ricercatori del QuantumLab della Sapienza ha sviluppato un nuovo metodo basato sulla misura della forza dei rapporti causa-effetto tra le variabili. La tecnica, eseguita sperimentalmente nei laboratori dell’Ateneo, potrà essere utilizzata per verificare il corretto funzionamento di nuove tecnologie quantistiche

Individuare fenomeni quantistici attraverso rapporti di causa-effetto: un nuovo su Science Advances

“Qual è il motivo?”, “Perché sta succedendo?” sono domande molto frequenti nella vita quotidiana, in cui spesso si è portarti a chiedersi la causa degli eventi che succedono, cercando motivi più o meno diretti o astratti. La strategia intuitivamente più efficace per capire se due eventi siano l’uno la causa dell’altro è verificare la loro correlazione, ovvero chiedersi: l’evento A succede sempre quando succede l’evento B? Come quando ogni volta che viene spinto un interruttore (evento A) si accende una lampadina (evento B). Tuttavia, questo processo, apparentemente così semplice e immediato, nasconde una grande insidia: quando due eventi sono correlati, possono sia essere la causa l’uno dell’altro ma possono anche essere influenzati da una causa comune, di cui spesso non si tiene conto. Per esempio, ogni anno, in estate, aumentano parallelamente il consumo di gelati e il numero di persone che soffrono di cali di pressione. Questi due eventi sono indubbiamente correlati, ma non sono l’uno la causa dell’altro. Avvengono simultaneamente solo perché hanno una causa comune: l’aumento delle temperature.

Comprendere se due eventi siano causati da un fattore comune o se siano direttamente collegati non è affatto semplice, per cui tali relazioni sono da sempre una sfida per gli scienziati. Secondo la fisica classica è possibile comprendere appieno la relazione causa-effetto tra due eventi effettuando una serie di opportune misurazioni. Molto più difficile è quando entrano in gioco effetti quantistici, perché i rapporti di causa-effetto tra un evento A e un evento B hanno conseguenze diverse se questi hanno una causa comune non classica. Tuttavia, la discrepanza tra predizioni classiche e quantistiche può tornare utile proprio per rilevare la presenza di fenomeni quantistici, come avviene nei cosiddetti test di Bell, effettuati per misurare le proprietà di particelle fisicamente separate ma correlate in maniera non classica.

fenomeni quantistici causa-effetto

Il gruppo QuantumLab (https://www.quantumlab.it/) della Sapienza Università di Roma ha presentato, in un lavoro recentemente pubblicato sulla rivista Science Advances, un metodo altamente innovativo che è basato sulla misura della forza dei rapporti causa-effetto tra due variabili. Lo studio è nato nell’ambito di una collaborazione internazionale dell’Ateneo romano con l’International Institute of Physics di Natal (Brasile), l’Università di Colonia (Germania) e l’Università di Gdansk (Polonia).

Il team di fisici, da tempo impegnato nello studio di questi fenomeni con l’obiettivo di creare tecniche per rilevare la presenza di fenomeni quantistici, è partito dal caso in cui un evento A è causa di un evento B e, in più, questi hanno una causa comune quantistica. In tale situazione, si può dimostrare che, per ottenere determinati effetti su B, c’è bisogno di un’influenza causale più debole da parte di A, rispetto al caso classico. Quindi, misurando la forza del rapporto causa-effetto tra A e B, è possibile capire se il processo che stiamo osservando è quantistico oppure puramente classico.

“La novità di questo approccio – afferma Iris Agresti della Sapienza – sta nel fatto che permette di individuare comportamenti quantistici del tutto nuovi, che non potevano essere individuati con le tecniche note finora”.

Per mostrare queste nuove tracce di fenomeni quantistici è stato riprodotto nei laboratori di ottica e informazione quantistica della Sapienza lo schema di rapporti causa-effetto menzionato (chiamato processo strumentale) su una piattaforma fotonica.

In dettaglio, nell’esperimento, gli eventi A e B erano i risultati di due misure su fotoni, mentre la causa comune era una sorgente di stati quantistici.

“Abbiamo generato coppie di fotoni entangled (cioè correlati quantisticamente) e abbiamo implementato il rapporto di causa-effetto tra le misure A e B, scegliendo la misura B in base al risultato di A” – spiega Fabio Sciarrino, coordinatore del gruppo. “Siccome i due fotoni da misurare vengono generati nello stesso istante, per avere il tempo di eseguire la misura A, abbiamo dovuto ritardare il fotone misurato in B tramite una fibra lunga più di 100 metri e abbiamo sfruttato un dispositivo elettro-ottico per cambiare la misura B in pochi nanosecondi”.

Questa tecnica che si basa sulla misura della forza dell’influenza causale tra due eventi per dimostrare la presenza di fenomeni quantistici, che è stata eseguita sperimentalmente dai ricercatori del QuantumLab, ha dei risvolti sia dal punto di vista applicativo, perché potrà essere utilizzata per verificare il corretto funzionamento di nuove tecnologie quantistiche, sia teorico, perché ha permesso di individuare nuove tipologie di comportamenti non classici.

Riferimenti:

Experimental test of quantum causal influences – Iris Agresti, Davide Poderini, Beatrice Polacchi, Nikolai Miklin, Mariami Gachechiladze, Alessia Suprano, Emanuele Polino, Giorgio Milani, Gonzalo Carvacho, Rafael Chaves and Fabio Sciarrino – Science Advances, Vol 8, Issue 8 https://doi.org/10.1126/sciadv.abm1515 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

SVOLTA NELLA RISPOSTA IMMUNITARIA A BATTERI, PARASSITI E VIRUS: IDENTIFICATA LA MOLECOLA MIR-210

La ricerca, condotta da un team di scienziati dell’Università di Torino (MBC) e del VIB-KU Leuven, può aprire nuove strade nella gestione delle infezioni

miR-210 macrofagi
Macrofago. Foto Flickr dal NIAID, CC BY 2.0

Venerdì 7 maggio 2021, sulla rivista Science Advances, è stata pubblicata la ricerca Macrophage miR-210 induction and metabolic reprogramming in response to pathogen interaction boost life-threatening inflammation, condotta dal team del Prof. Massimiliano Mazzone (VIB-KU Leuven e Università di Torino) in collaborazione con la Prof.ssa Daniela Taverna (Università di Torino) e il Dr. Federico Virga (Università di Torino e VIB-KU Leuven).

Lo studio ha analizzato i macrofagi, un tipo specifico di globuli bianchi che forma la prima linea di difesa contro gli agenti patogeni. In particolare, il team ha identificato la molecola miR-210 come un regolatore chiave della risposta infiammatoria dei macrofagi a batteri, parassiti e proteine virali. Più nel dettaglio i ricercatori hanno dimostrato che, durante la sepsi e nel corso di diverse infezioni, il miR-210 favorisce uno stato infiammatorio dannoso per l’organismo.

I macrofagi sono tra i principali attori nella lotta contro gli agenti patogeni come batteri, parassiti e virus. Da un lato, l’attivazione dei macrofagi è essenziale per avviare e coordinare la risposta immunitaria per proteggere l’individuo dall’attacco microbico. Dall’altro lato però, possono contribuire ad uno stato infiammatorio esacerbato portando al danneggiamento e alla disfunzione di diversi organi.

Nei laboratori del Prof. Massimiliano Mazzone e della Prof.ssa Daniela Taverna, il Dr. Federico Virga, mettendo a contatto macrofagi sia murini che umani con agenti patogeni, ha studiato il ruolo del miR-210. “L’interazione tra macrofagi e agenti patogeni come batteri, parassiti e la proteina spike della SARS-CoV-2 induce l’espressione del miR-210 nei macrofagi, scatenando una risposta pro infiammatoria”, ha dichiarato il Dr. Virga.

Oltre a queste nuove scoperte, il team ha studiato i monociti, cellule precursori dei macrofagi, isolati da pazienti settici. Questi monociti hanno mostrato livelli più elevati di miR-210 rispetto agli individui sani o ai pazienti con una malattia diversa come il cancro. In una collezione storica di campioni di plasma di pazienti settici, livelli più elevati di miR-210 circolanti sono stati correlati a una ridotta sopravvivenza. Anche se ulteriori studi prospettici sono necessari, questi risultati incoraggiano a indagare il miR-210 come biomarcatore nella sepsi.

Il potenziale traslazionale di questi risultati è stato sottolineato dal Prof. Massimiliano Mazzone“Più di 10 milioni di persone sono morte a causa della sepsi nel 2017. Nonostante l’alta mortalità e morbilità di questa sindrome, l’identificazione e il monitoraggio della sepsi rimangono impegnativi e le opzioni terapeutiche sono limitate. I nostri dati suggeriscono che gli approcci basati sul miR-210 potrebbero aprire nuove strade per una migliore gestione della sepsi”.

La Prof.ssa Daniela Taverna ha aggiunto: “Questo studio sottolinea ulteriormente la rilevanza della ricerca sull’RNA. Infatti, in questo lavoro, siamo riusciti ad evidenziare il ruolo di un piccolo RNA non codificante, il miR-210, nel controllo delle infezioni e il suo possibile collegamento con la clinica. In contemporanea, la pandemia da SARS-CoV-2 ha dimostrato come i vaccini a RNA, sviluppati peraltro molto rapidamente, siano altamente efficaci contro l’infezione. Sicuramente gli sforzi degli ultimi 20 anni, volti a capire meglio il ruolo delle diverse molecole di RNA presenti nelle nostre cellule, ci permetteranno di intervenire in maniera più mirata a livello clinico, in tempi rapidi”.

La ricerca è stata condotta grazie al finanziamento da parte di diversi enti e associazioni. Massimiliano Mazzone è stato supportato da un ERC Consolidator Grant, dal Flanders Research Foundation e dal programma di ricerca e innovazione dell’Unione Europea Horizon 2020. Daniela Taverna è stata sostenuta da AIRCFondazione Cassa di Risparmio Torino e dal Ministero della Salute. Federico Virga ha usufruito di una borsa di dottorato in Medicina Molecolare presso l’Università di Torino.
Testo e foto dall’Università degli Studi di Torino

Conversazioni crittografate: quando le leggi della fisica proteggono i dati sensibili

Un nuovo studio Sapienza, frutto della collaborazione tra due gruppi sperimentali del Dipartimento di Fisica, dimostra come, attraverso l’impiego di un nuovo tipo di emettitori di fotoni, i quantum dots, sia possibile garantire un ulteriore livello di sicurezza per i dati trasmessi in un canale di comunicazione, sia che si tratti di una conversazione telefonica che una transazione bancaria. La ricerca, pubblicata su Science Advances, ha previsto lo sviluppo sperimentale del primo canale di comunicazione quantistica tra due edifici all’interno del campus Sapienza.

Comunicare a distanza è diventata la regola nella vita di tutti i giorni sia per contattare privatamente amici o conoscenti, che per inviare dati sensibili, come ad esempio nelle transazioni bancarie.

Diventa quindi di fondamentale importanza creare un apparato di protezione che renda sicuro lo scambio di dati, salvaguardandoli da potenziali intrusi. Infatti gli attuali mezzi di comunicazione sono intrinsecamente vulnerabili e il loro livello di sicurezza dipende esclusivamente dalle capacità tecnologiche dell’intruso.

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Conversazioni crittografate: quando le leggi della fisica proteggono i dati sensibili, con lo sviluppo sperimentale del primo canale di comunicazione quantistica tra due edifici

Una soluzione a questo problema è stata individuata nella meccanica quantistica, che fornisce sistemi oggi conosciuti con la denominazione di “distribuzione a chiave quantistica”, in cui la sicurezza della comunicazione è garantita dalle leggi della fisica stessa: in una comunicazione crittografata, due utenti usano una chiave segreta per codificare un qualsiasi messaggio che diventa incomprensibile all’esterno. Questa chiave viene trasmessa, come suggerisce il nome, utilizzando segnali quantistici.

La sicurezza di tali protocolli è garantita dalla impossibilità di duplicare esattamente uno stato quantistico sconosciuto, una peculiare proprietà che rende visibile la presenza di un eventuale intruso nel canale di comunicazione. Nonostante questo tipo di soluzione sia già stata studiata e implementata sperimentalmente negli ultimi anni grazie all’aiuto delle tecnologie ottiche, una delle sfide più difficili da affrontare è quella di ottimizzare la generazione dei portatori di informazione quantistica per tale scopo, ovvero i singoli fotoni, e la loro peculiare proprietà di correlazione a distanza, l’entanglement quantistico.

Foto del gruppo Nanophotonics

Oggi un nuovo studio della Sapienza Università di Roma, frutto della collaborazione sinergica tra due gruppi sperimentali del Dipartimento di Fisica, il gruppo Nanophotonics coordinato da Rinaldo Trotta e il gruppo Quantum Lab coordinato da Fabio Sciarrino, dimostra come sia possibile garantire un ulteriore livello di sicurezza per i dati trasmessi in un canale di comunicazione attraverso l’impiego di un nuovo tipo di emettitori di fotoni, i quantum dots.

Foto del gruppo Quantum Lab

I quantum dots, o punti quantici, sono nanostrutture le cui dimensioni sono migliaia di volte più piccole di un capello umano ed è stato dimostrato che, sotto opportune condizioni, sono in grado di generare coppie di fotoni entangled di altissima qualità.

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Conversazioni crittografate: quando le leggi della fisica proteggono i dati sensibili, con lo sviluppo sperimentale del primo canale di comunicazione quantistica tra due edifici

Per raggiungere i risultati pubblicati sulla rivista Science Advances, i giovani ricercatori hanno realizzato il primo canale di comunicazione quantistica sviluppato all’interno del campus della Sapienza, un’infrastruttura per la distribuzione in aria di una chiave crittografata tra due strutture del Dipartimento di Fisica, l’edificio Marconi e l’edificio Fermi, distanti oltre 250 metri: il “mittente Marconi”, con un dispositivo a quantum dot, produce coppie di fotoni entangled, usate per creare a distanza due copie uniche di una chiave segreta e il “destinatario Fermi” che riceve una sequenza di fotoni singoli da cui estrae la sua copia della chiave segreta. Questa può essere utilizzata per inviare messaggi privati, come avviene nelle comuni conversazioni sul sistema di messaggistica WhatsApp.

Schema di network quantistico

La realizzazione di un tale canale in aria ha comportato la necessità di contrastare gli effetti ambientali di disallineamento. Difficoltà risolta con successo attraverso l’applicazione di un metodo di stabilizzazione attiva della luce.

“Uno degli aspetti più affascinanti di questo esperimento – commenta Francesco Basso Basset, assegnista di ricerca del gruppo Nanophotonics – è stata la realizzazione del sistema trasmissione-ricezione in aria tra i due edifici, cosa nuova per noi, abituati a portare avanti la ricerca solitamente nella stessa stanza di laboratorio”.

Conversazioni crittografate: quando le leggi della fisica proteggono i dati sensibili, con lo sviluppo sperimentale del primo canale di comunicazione quantistica tra due edifici

Durante l’esperimento, una coppia di singoli fotoni entangled è stata infatti separata e mandata alle due estremità del canale, permettendo così la condivisione di una chiave segreta grazie alla correlazione quantistica.

“In questo protocollo, è possibile condividere una stringa di bit, che forma la chiave segreta, sfruttando l’entanglement quantistico che è presente nei due singoli fotoni – spiega Mauro Valeri, dottorando del gruppo QuantumLab. “Un altro aspetto rilevante sta nel fatto che la meccanica quantistica ci fornisce gli strumenti per capire se ci sono eventuali intrusi nel canale: se un intruso vuole appropriarsi dei segnali inviati, possiamo immediatamente identificarlo misurando nei nostri laboratori l’avvenuta perdita dell’entanglement”.

conversazioni crittografate fisica quantistica dati sensibili
Conversazioni crittografate: quando le leggi della fisica proteggono i dati sensibili, con lo sviluppo sperimentale del primo canale di comunicazione quantistica tra due edifici

“La novità di questo studio – aggiunge Fabio Sciarrino – è costituita dall’introduzione dei punti quantici nel campo della comunicazione quantistica; infatti, a differenza delle soluzioni del passato, questi dispositivi non si basano su un processo fisico probabilistico e possono ambire a fornire fotoni “on demand”, fattore di rilevanza fondamentale per la realizzazione sperimentale di molti protocolli di comunicazione quantistica a distanza.”

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Conversazioni crittografate: quando le leggi della fisica proteggono i dati sensibili, con lo sviluppo sperimentale del primo canale di comunicazione quantistica tra due edifici

“Il quantum dot – conclude Rinaldo Trotta – ha tutti i requisiti per essere tra i più promettenti emettitori di segnali ottici nel campo della comunicazione quantistica, e questo esperimento dimostra che un suo utilizzo nei network quantistici del futuro è possibile. Siamo convinti che questa sia solamente la punta dell’iceberg e molte altre scoperte verranno fatte partendo da questo studio; il prossimo passo da fare sarà l’aumento della velocità di trasmissione, realizzando quantum dot con una efficienza di emissione sempre più alta. L’obiettivo è di condurre questa tecnologia ad una implementazione su scala globale.”

Conversazioni crittografate: quando le leggi della fisica proteggono i dati sensibili, con lo sviluppo sperimentale del primo canale di comunicazione quantistica tra due edifici

Riferimenti:

Quantum key distribution with entangled photons generated on-demand by a quantum dot – Francesco Basso Basset, Mauro Valeri, Emanuele Roccia, Valerio Muredda, Davide Poderini, Julia Neuwirth, Nicolò Spagnolo, Michele B. Rota, Gonzalo Carvacho, Fabio Sciarrino and Rinaldo Trotta – Science Advances (2021) DOI: 10.1126/sciadv.abe6379

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Dinamiche evolutive e biodiversità: nuove scoperte dal lago più antico d’Europa

Un nuovo studio internazionale, a cui hanno preso parte ricercatrici del Dipartimento di Biologia ambientale della Sapienza, ha evidenziato come i cambiamenti climatici in corso costituiscano un pericolo anche per un ecosistema antico e resiliente come quello del lago di Ocrida, serbatoio di biodiversità per il nostro continente. Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista Science Advances 

Lago di Ocrida biodiversità Europa
Il lago di Ocrida, formatosi 1,4 milioni di anni, al confine tra l’Albania e la Macedonia del Nord (Photo credit: Thomas Wilke)

Un gruppo di ricerca internazionale guidato da Thomas Wilke dell’Università Justus Liebig di Giessen (Germania) a cui hanno partecipato Laura Sadori e Alessia Masi del Dipartimento di Biologia ambientale della Sapienza Università di Roma, ha gettato nuova luce sull’evoluzione biologica utilizzando il record sedimentario profondo del lago di Ocrida (al confine tra l’Albania e la Macedonia del Nord) il quale, con una storia lunga 1,4 milioni di anni e oltre 300 specie endemiche, non è solo il lago più antico d’Europa, ma anche uno dei più ricchi di biodiversità. I risultati del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista Science Advances

Per studiare le dinamiche evolutive del lago a partire dalla sua formazione, i ricercatori hanno confrontato dati ambientali e climatici con i reperti fossili di oltre 150 specie endemiche di diatomee (alghe unicellulari spesso presenti in depositi lacustri) ritrovate lungo la sequenza sedimentaria lunga 568 metri.

Lago di Ocrida biodiversità Europa
Immagine al microscopio elettronico a scansione in falsi colori della diatomea Scoliodiscus glaber, specie endemica del lago di Ocrida. Dimensione del guscio di silice 0,1 mm (Photo credit: Z. Levkov)

“I dati – spiega Alessia Masi della Sapienza – hanno mostrato che poco dopo la formazione del lago, e nel giro di poche migliaia di anni, sono avvenuti i primi eventi evolutivi che hanno portato velocemente alla formazione di nuove specie. Molte di queste specie hanno avuto vita breve, perché si estinsero altrettanto rapidamente, quando il lago era ancora relativamente piccolo e poco profondo”.

Lo studio evidenzia infatti come laghi “nuovi” e di piccole dimensioni offrono grandi opportunità di speciazione. D’altra parte, però, questi ecosistemi sono anche particolarmente sensibili ai cambiamenti ambientali quali le fluttuazioni di temperatura, le variazioni edafiche e di livello lacustre.

Con l’aumento della superficie e della profondità del lago i processi di speciazione ed estinzione hanno subito un drastico rallentamento. Ciò è imputabile alla riduzione del numero di nuovi habitat, all’elevato numero di specie, prossimo alla massima capacità dell’ambiente e delle sue risorse, nonché alla crescente capacità del lago nel mitigare il microclima.

“La novità di questo lavoro – conclude Laura Sadori della Sapienza – sta nel fatto che la storia ecosistemica del Lago di Ocrida, raccontata da un insieme di specie “effimere”, cioè evolutivamente di breve durata ma sviluppate in una comunità stabile di specie longeve, sia in realtà ricca di elementi utili alla comprensione delle dinamiche evolutive biologiche. Per tale ragione i risultati del lavoro potranno avere un forte grande impatto anche per le future ricerche sulla biodiversità”.

Piattaforma di perforazione utilizzata per recuperare la sequenza di sedimenti studiata nel lavoro (Photo credit: Thomas Wilke)

Riferimenti:

Wilke T., Hauffe T., Jovanovska E., Cvetkoska A., Donders T., Ekschmitt K., Francke A., Lacey J.H., Levkov Z., Marshall C.R., Neubauer T.A., Silvestro D., Stelbrink B., Vogel H., Albrecht Ch., Holtvoeth J., Krastel S., Leicher N., Leng M.J., Lindhorst K., Masi A., Ognjanova-Rumenova N., Panagiotopoulos K., Reed J.M., Sadori L., Tofilovska S., Van Bocxlaer B., Wagner-Cremer F., Wesselingh F.P., Wolters V., Zanchetta G. , Zhang X., Wagner B., 2020. Deep drilling reveals massive shifts in evolutionary dynamics after formation of ancient ecosystem. Science Advances, 6, eabb2943. doi.org/10.1126/sciadv.abb2943

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Sapienza Università di Roma sul lago più antico d’Europa, il lago di Ocrida, serbatoio di biodiversità.

Scoperta una correlazione tra terremoti e anidride carbonica in Appennino

L’analisi di dieci anni di campionamento di CO2 disciolta nelle acque delle falde appenniniche ha mostrato la sua massima concentrazione in occasione di intensa attività sismica

terremoti anidride carbonica Appennino
Forte emissione di CO2 associata alla risalita di acqua (piana di San Vittorino, Rieti).
L’emissione è ubicata a circa 30 chilometri dall’epicentro del terremoto dell’Aquila di aprile 2009.

Nella catena appenninica l’emissione di CO2 di origine profonda appare ben correlata con l’occorrenza e l’evoluzione delle sequenze sismiche dell’ultimo decennio. È questo il risultato dello studioCorrelation between tectonic CO2 Earth degassing and seismicity is revealed by a ten-year record in the Apennines, Italy” condotto da un team di ricercatori dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e dell’Università degli Studi di Perugia (UNIPG) appena pubblicato su ‘Science Advances’.

Per la prima volta è stata condotta un’analisi dei dati geochimici e geofisici raccolti dal 2009 al 2018”, spiega Giovanni Chiodini, ricercatore dell’INGV e coordinatore dello studio. “Gli esiti di questa ricerca hanno evidenziato una corrispondenza tra le emissioni di CO2 profonda e la sismicità mostrando come, in periodi di elevata attività sismica, si registrino picchi nel flusso di CO2 profonda che man mano diminuiscono al diminuire dell’energia sismica e del numero di terremoti”.

Il nostro pianeta rilascia CO2 di origine profonda prevalentemente dai vulcani; tuttavia tali emissioni avvengono anche in aree sismiche in cui non sono presenti vulcani attivi. In particolare, questo fenomeno risulta più intenso nelle regioni caratterizzate da tettonica estensionale, come l’area degli Appennini. 

Per quanto le relazioni temporali tra il verificarsi di un evento sismico e il rilascio di CO2 siano ancora da approfondire”, prosegue Chiodini, “in questo studio ipotizziamo che l’evoluzione della sismicità nella zona appenninica sia modulata dalla risalita del gas che deriva dalla fusione di porzioni di placca che si immergono nel mantello”.

Questa produzione continua di CO2 in profondità e su larga scala favorisce la formazione di serbatoi sovrapressurizzati. 

La sismicità nelle catene montuose”, aggiungono i ricercatori dell’INGV Francesca Di Luccio e Guido Ventura, co-autori dello studio, “potrebbe essere correlata alla depressurizzazione di questi serbatoi e al conseguente rilascio di fluidi che, a loro volta, attivano le faglie responsabili dei terremoti”.

Lo studio è stato condotto attraverso il campionamento di sorgenti ad alta portata (decine di migliaia di litri al secondo) situate nelle vicinanze delle zone epicentrali dei terremoti verificatisi in Italia centrale tra il 2009 e il 2018.

Tali campionamenti hanno permesso di caratterizzare l’origine della CO2 disciolta nell’acqua delle falde acquifere e di quantificare l’entità della CO2 profonda”, spiega Carlo Cardellini, ricercatore del Dipartimento di Fisica e Geologia dell’Università di Perugia, anche lui nel team di ricercatori coinvolti nella scoperta.

La stretta relazione tra il rilascio di CO2 e l’entità dei terremoti, unitamente ai risultati di precedenti indagini sismologiche, indica che i terremoti dell’Appennino registrati nel decennio analizzato sono associati alla risalita di CO2 profonda. È interessante rimarcare il fatto che le quantità di CO2 coinvolte sono dello stesso ordine di quelle emesse durante le eruzioni vulcaniche (circa 1,8 milioni di tonnellate)”, conclude Chiodini.

I risultati dello studio forniscono, dunque, delle evidenze su come i fluidi derivati dalla fusione di placca nel mantello svolgano un ruolo importante nella genesi dei terremoti, aprendo nuovi orizzonti nella valutazione delle emissioni di COa scala globale. Questo lavoro dimostra e ricorda, infine, come il moderno studio dei terremoti necessiti di un approccio multidisciplinare in cui integrare dati geochimici, geofisici e geodinamici.

terremoti anidride carbonica Appennino (1)
I terremoti appenninici nel periodo 2007-2019 (inclusi gli eventi catastrofici del 2009 e 2016) sono stati accompagnati da picchi evidenti nella quantità di CO2 trasportata dalle grandi sorgenti in Appennino (tonnellate al giorno di CO2 nel grafico)

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Abstract 

Deep CO 2 emissions characterize many non-volcanic, seismically active regions worldwide and the involvement of deep CO 2 in the earthquake cycle is now generally recognized. However, no long-time records of such emissions have been published and the temporal relations between earthquake occurrence and tectonic CO 2 release remain enigmatic. Here we report a ten-year record (2009-2018) of tectonic CO 2 flux in the Apennines (Italy) during intense seismicity. The gas emission correlates with the evolution of the seismic sequences: peaks in the deep CO 2 flux are observed in periods of high seismicity and decays as the energy and number of earthquakes decrease. We propose that the evolution of seismicity is modulated by the ascent of CO 2 accumulated in crustal reservoirs and originating from the melting of subducted carbonates. This large scale, continuous process of CO 2 production favors the formation of overpressurized CO 2 -rich reservoirs potentially able to trigger earthquakes at crustal depth.

 

Testo e immagini sulla correlazione tra terremoti e anidride carbonica in Appennino dagli Uffici Stampa Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia e dell’Università di Perugia.