News
Ad
Ad
Ad
Tag

Rosa Valiante

Browsing

JWST OSSERVA UN ANTICHISSIMO BUCO NERO SUPERMASSICCIO DORMIENTE, A ‘RIPOSO’ DOPO UN’ABBUFFATA COSMICA, NELLA GALASSIA GN-1001830

È uno dei più grandi buchi neri supermassicci non attivi mai osservati nell’universo primordiale e il primo individuato durante l’epoca della reionizzazione. La scoperta, pubblicata sulla rivista Nature, è stata possibile grazie alle rilevazioni del telescopio spaziale James Webb. Allo studio hanno partecipato anche INAF, Scuola Normale Superiore di Pisa e Sapienza Università di Roma.

JWST buco nero dormiente GN-1001830 Illustrazione artistica che rappresenta l'aspetto potenziale del buco nero supermassiccio scoperto dal team di ricerca durante la sua fase di intensa attività super-Eddington. Crediti: Jiarong Gu
Illustrazione artistica che rappresenta l’aspetto potenziale del buco nero supermassiccio scoperto dal team di ricerca durante la sua fase di intensa attività super-Eddington. Crediti: Jiarong Gu

Anche i buchi neri schiacciano un sonnellino tra una mangiata e l’altra. Un team internazionale di scienziati, guidato dall’Università di Cambridge, ha scoperto un antichissimo buco nero supermassiccio “dormiente” in una galassia compatta, relativamente quiescente e che vediamo come era quasi 13 miliardi di anni fa. La galassia è GN-1001830. Il buco nero, descritto in un articolo pubblicato oggi sulla rivista Nature, ha una massa pari a 400 milioni di volte quella del Sole e risale a meno di 800 milioni di anni dopo il Big Bang, rendendolo uno degli oggetti più antichi e massicci mai rilevati.

Questo mastodontico oggetto è inoltre il primo buco nero supermassiccio non attivo, in termini di accrescimento di materia, osservato durante l’epoca della reionizzazione, una fase di transizione nell’universo primordiale durante la quale il gas intergalattico è stato ionizzato dalla radiazione delle prime sorgenti cosmiche. Probabilmente rappresenta solo la punta dell’iceberg di una intera popolazione di buchi neri “a riposo” ancora da osservare in questa epoca lontana. La scoperta, a cui partecipano ricercatrici e ricercatori anche dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), della Scuola Normale Superiore di Pisa e della Sapienza Università di Roma, si basa sui dati raccolti telescopio spaziale James Webb (JWST), nell’ambito del programma JADES (JWST Advanced Extragalactic Survey).

In che senso il buco nero è “dormiente”? Grazie a questi dati, il gruppo di ricerca ha stabilito che, nonostante la sua dimensione colossale, questo buco nero sta accrescendo la materia circostante a un ritmo molto basso a differenza di quelli di massa simile osservati nella stessa epoca (i cosiddetti quasar) – circa 100 volte inferiore al limite teorico massimo – rendendolo praticamente inattivo.

JWST buco nero dormiente GN-1001830 Immagine in falsi colori ottenuta dal telescopio spaziale JWST, che mostra una piccola frazione del campo GOODS-North. La galassia evidenziata nel riquadro ospita un antichissimo buco nero supermassiccio 'dormiente'. Crediti: JADES Collaboration
Immagine in falsi colori ottenuta dal telescopio spaziale JWST, che mostra una piccola frazione del campo GOODS-North. La galassia evidenziata nel riquadro ospita un antichissimo buco nero supermassiccio ‘dormiente’. Crediti: JADES Collaboration

Un’altra peculiarità di questo buco nero ad alto redshift (ossia collocato nell’universo primordiale) è il suo rapporto con la galassia ospite: la sua massa rappresenta il 40 per cento della massa stellare totale, un valore mille volte superiore a quello dei buchi neri normalmente osservati nell’universo vicino. Alessandro Trinca, ricercatore post-doc oggi in forza all’Università degli studi dell’Insubria ma già post-doc presso l’INAF di Roma per un anno, spiega:

“Questo squilibrio suggerisce che il buco nero abbia avuto una fase di crescita rapidissima, sottraendo gas alla formazione stellare della galassia. Ha rubato tutto il gas che aveva a disposizione prima di diventare dormiente lasciando la componente stellare a bocca asciutta”.

Alessandro Trinca, ricercatore post-doc presso l’Università degli studi dell’Insubria
Alessandro Trinca, ricercatore post-doc presso l’Università degli studi dell’Insubria

Rosa Valiante, ricercatrice dell’INAF di Roma coinvolta nel team internazionale e coautrice dell’articolo, aggiunge:

“Comprendere la natura dei buchi neri è da sempre un argomento che affascina l’immaginario collettivo: sono oggetti apparentemente misteriosi che mettono alla prova ‘famose’ teorie scientifiche come quelle di Einstein e Hawking. La necessità di osservare e capire i buchi neri, da quando si formano a quando diventano massicci fino a miliardi di volte il nostro Sole, spinge non solo la ricerca scientifica a progredire, ma anche l’avanzamento tecnologico”.

Rosa Valiante, ricercatrice presso l’INAF di Roma
Rosa Valiante, ricercatrice presso l’INAF di Roma

I buchi neri supermassicci così antichi, come quello descritto nell’articolo su Nature, rappresentano un mistero in astrofisica. La rapidità con cui questi oggetti sono cresciuti nelle prime fasi della storia dell’Universo sfida i modelli tradizionali, che non sono in grado di spiegare la formazione di buchi neri di tale portata. In condizioni normali, i buchi neri accrescono materia fino a un limite teorico, chiamato “limite di Eddington”, oltre il quale la pressione della radiazione generata dall’accrescimento contrasta ulteriori flussi di materiale verso il buco nero. La scoperta di questo buco nero primordiale supporta l’ipotesi che fasi brevi ma intense di accrescimento dette “super-Eddington” siano essenziali per spiegare l’esistenza di questi “giganti cosmici” nell’universo primordiale. Si tratta di fasi durante le quali i buchi neri riuscirebbero a inglobare materia a un ritmo molto superiore, sfuggendo temporaneamente a questa limitazione, intervallate da periodi di dormienza.

“Se la crescita avvenisse a un ritmo inferiore al limite di Eddington, il buco nero dovrebbe accrescere il gas in modo continuativo nel tempo per sperare di raggiungere la massa osservata. Sarebbe quindi molto improbabile osservarlo in una fase dormiente”, spiega Raffaella Schneider, professoressa del Dipartimento di Fisica della Sapienza.

Raffaella Schneider, professoressa del Dipartimento di Fisica della Sapienza
Raffaella Schneider, professoressa del Dipartimento di Fisica della Sapienza

Gli scienziati ipotizzano che buchi neri simili siano molto più comuni di quanto si pensi, ma oggetti in un tale stato dormiente emettono pochissima luce, il che li rende particolarmente difficili da individuare, persino con strumenti estremamente avanzati come il telescopio spaziale Webb. E allora come scovarli? Sebbene non possano essere osservati direttamente, la loro presenza viene svelata dal bagliore di un disco di accrescimento che si forma intorno a loro. Con il JWST, telescopio delle agenzie spaziali americana (NASA), europea (ESA) e canadese (CSA) progettato per osservare oggetti estremamente poco luminosi e distanti, sarà possibile esplorare nuove frontiere nello studio delle prime strutture galattiche.

Stefano Carniani, ricercatore della Scuola Normale Superiore di Pisa e membro del team JADES commenta:

“Questa scoperta apre un nuovo capitolo nello studio dei buchi neri distanti. Grazie alle  immagini del James Webb, potremo indagare le proprietà dei buchi neri dormienti, rimasti finora invisibili. Queste osservazioni offrono i pezzi mancanti per completare il puzzle della formazione e dell’evoluzione delle galassie nell’universo primordiale”.

Stefano Carniani, ricercatore presso la Scuola Normale Superiore di Pisa
Stefano Carniani, ricercatore presso la Scuola Normale Superiore di Pisa

La scoperta rappresenta solo l’inizio di una nuova fase di indagine. Il JWST sarà ora utilizzato per individuare altri buchi neri dormienti simili, contribuendo a svelare nuovi misteri sull’evoluzione delle strutture cosmiche nell’universo primordiale.Le osservazioni utilizzate in questo lavoro sono state ottenute nell’ambito della collaborazione JADES tra i team di sviluppo degli strumenti Near-Infrared Camera (NIRCam) e Near-Infrared Spectrograph (NIRSpec), con un contributo anche dal team statunitense del Mid-Infrared Instrument (MIRI).

JWST buco nero dormiente GN-1001830 Un’immagine in tre colori del nucleo galattico attivo e della galassia ospite JADES GN 1146115. L’immagine è stata creata con diversi filtri (rosso F444W, verde F277W e blu F115W) utilizzando gli strumenti dal James Webb Space Telescope NIRCam e NIRSpec in modalità multi-oggetto, come parte del programma JADES (JWST Advanced Extragalactic Survey). La galassia si trova a un redshift di 6.68, che corrisponde a un’epoca di meno di 800 milioni di anni dopo il Big Bang. Crediti: I. Juodzbalis et al. / Nature (2024)
Un’immagine in tre colori del nucleo galattico attivo e della galassia ospite JADES GN 1146115. L’immagine è stata creata con diversi filtri (rosso F444W, verde F277W e blu F115W) utilizzando gli strumenti dal James Webb Space Telescope NIRCam e NIRSpec in modalità multi-oggetto, come parte del programma JADES (JWST Advanced Extragalactic Survey). La galassia si trova a un redshift di 6.68, che corrisponde a un’epoca di meno di 800 milioni di anni dopo il Big Bang. Crediti: I. Juodzbalis et al. / Nature (2024)

 

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “A dormant, overmassive black hole in the early Universe”, di Ignas Juodžbalis, Roberto Maiolino, William M. Baker, Sandro Tacchella, Jan Scholtz, Francesco D’Eugenio, Raffaella Schneider, Alessandro Trinca, Rosa Valiante, Christa DeCoursey, Mirko Curti, Stefano Carniani, Jacopo Chevallard, Anna de Graaff, Santiago Arribas, Jake S. Bennett, Martin A. Bourne, Andrew J. Bunker, Stephane Charlot, Brian Jiang, Sophie Koudmani, Michele Perna, Brant Robertson, Debora Sijacki, Hannah Ubler, Christina C. Williams, Chris Willott, Joris Witstok, è stato pubblicato sulla rivista Nature.

Testo e immagini dagli Uffici Stampa INAF, Scuola Normale Superiore Pisa, Ufficio Stampa e Comunicazione Sapienza Università di Roma

Rilevato gas molecolare freddo, sotto forma di monossido di carbonio, nel mezzo interstellare della galassia che ospita il quasar Pōniuā‘ena

Osservato per la prima volta gas molecolare freddo, sotto forma di monossido di carbonio, nella galassia che ospita un buco nero supermassiccio in un’epoca remota della storia del cosmo, quando l’Universo aveva solo settecento milioni di anni. La scoperta, realizzata da un team internazionale guidato da ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), è stata possibile grazie all’osservatorio NOEMA sulle Alpi francesi.

Le 12 antenne dell’osservatorio NOEMA, sulle Alpi francesi.
Crediti: IRAM, J.Boissier

Come si influenzano a vicenda la crescita di un buco nero supermassiccio e quella della galassia che lo ospita? Che impatto hanno questi buchi neri sulle primissime fasi evolutive delle galassie? Un team internazionale guidato da ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) si è posto questi quesiti, tra i più spinosi dell’astrofisica contemporanea, e per affrontarli ha osservato uno dei tre quasar luminosi più distanti noti, la cui luce è partita circa tredici miliardi di anni fa, quando l’universo aveva un’età di appena settecento milioni di anni.

Illustrazione del quasar Pōniuāʻena.
Crediti: International Gemini Observatory/NOIRLab/NSF/AURA/P. Marenfeld

I quasar sono nuclei estremamente brillanti di galassie attive, la cui enorme luminosità deriva dall’intensa attività del buco nero supermassiccio nascosto nel cuore della galassia. Il quasar scelto dal team si chiama Pōniuā‘ena, che in lingua hawaiana “evoca l’invisibile fonte rotante della creazione, circondata da brillantezza”, ed è alimentato da un buco nero la cui massa è pari a un miliardo e mezzo di volte quella del Sole. La galassia che lo ospita si trova nel mezzo dell’epoca della reionizzazione, quel periodo della storia cosmica, verificatosi alcune centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang, durante il quale l’Universo è diventato trasparente alla radiazione emessa da stelle e galassie, così che la loro luce può raggiungerci oggi. Quasar come questo si sono formati molto presto nella sequenza temporale del cosmo, trovandosi in ambienti estremi caratterizzati dall’accumulo di enormi quantità di gas e polvere, ma le ragioni di una comparsa così rapida sono ancora uno dei misteri più grandi nell’astrofisica extragalattica.

gas molecolare freddo quasar Pōniuā‘ena
Mappa dell’emissione di gas molecolare (monossido di carbonio) da parte del quasar Poniua‘ena, realizzata dall’osservatorio NOEMA.
Crediti: IRAM/NOEMA/C. Feruglio (INAF)

Osservando il quasar Pōniuā‘ena con il Northern Extended Millimeter Array (NOEMA), il più potente radiotelescopio del suo genere nell’emisfero nord, il team ha rilevato gas molecolare freddo, sotto forma di monossido di carbonio, nel mezzo interstellare della galassia che ospita il quasar. Si tratta di un rilevamento da record: non era mai stato osservato gas molecolare freddo a epoche così antiche nella storia dell’Universo. I risultati sono stati pubblicati su The Astrophysical Journal Letters.

gas molecolare freddo quasar Pōniuā‘ena
Mappa dell’emissione di gas molecolare (monossido di carbonio) da parte del quasar Poniua‘ena, realizzata dall’osservatorio NOEMA.
Crediti: IRAM/NOEMA/C. Feruglio (INAF)

Si ritiene che il gas molecolare freddo sia uno degli ingredienti chiave per una efficiente formazione stellare. Per questo, gli astronomi ritengono che il gas molecolare fosse presente già nell’Universo primordiale, anche prima che le stelle si formassero in grandi quantità. Di conseguenza, la scoperta del monossido di carbonio nel quasar Pōniuā’ena rappresenta una nuova pietra miliare per comprendere la formazione delle primissime molecole nell’Universo.

“È la prima volta che misuriamo la riserva di gas molecolare freddo e polvere nell’Universo primordiale, appena qualche centinaia di milioni di anni dopo il Big Bang”, spiega Chiara Feruglio, ricercatrice INAF a Trieste e prima autrice dello studio. “Troviamo che le galassie ospiti di quasar nell’Universo antico hanno già la capacità di accumulare una massa di gas e polvere molto elevata: circa venti miliardi di masse solari, comparabile con quanto osservato in epoche cosmiche successive. È interessante notare che, nonostante il breve tempo cosmico intercorso dal Big Bang all’epoca in cui osserviamo il quasar Pōniuā‘ena, le quantità relative di gas freddo e polvere fredda è già molto simile al valore misurato nella nostra galassia, la Via Lattea, e altre galassie che popolano l’Universo odierno”.

“Sappiamo che questo quasar ospita un buco nero molto massiccio, che deve essersi formato o da una marcata concentrazione primordiale di massa oppure tramite accrescimento di gas a un tasso molto elevato su concentrazioni di massa più piccole” nota la co-autrice Francesca Civano, Chief Scientist presso il Physics of the Cosmos Program Office del NASA Goddard Space Flight Center a Greenland nel Maryland, Stati Uniti. “Le osservazioni erano state programmate per studiare solamente la componente della polvere, non ci aspettavamo di rilevare anche una grande riserva di gas freddo, anche perché, per gli altri due quasar noti a distanze così elevate, il gas freddo non è stato ancora individuato. Invece con sorpresa abbiamo trovato due righe molto forti, che indicano una massiccia riserva di gas freddo e denso”.

“Solo la notevole sensibilità recentemente raggiunta da NOEMA, unita alla sua ampia larghezza di banda di frequenza, ha consentito la scoperta del monossido di carbonio a Pōniuā’ena” aggiunge Jan Martin Winters, astronomo dell’Institut de radioastronomie millimétrique (IRAM) in Francia e co-autore dello studio. “La potenza recentemente acquisita da NOEMA mantiene ora la promessa di rilevare il gas molecolare freddo in molte più sorgenti che ospitano quasar in queste epoche cosmiche primordiali. Tali rilevazioni permetterebbero di far luce anche sulla produzione di elementi pesanti nelle primissime fasi dell’Universo”.

L’idrogeno molecolare è di fondamentale importanza in quanto è il costituente base da cui nascono le stelle, e spesso viene invocato come il “serbatoio” della formazione stellare. Sfortunatamente, l’idrogeno molecolare non può essere osservato di per sé, ma si può utilizzare una relazione empirica tra la massa del monossido di carbonio e la massa dell’idrogeno molecolare per ricavare la quantità di idrogeno molecolare dalla quantità misurata di monossido di carbonio. L’osservazione del monossido di carbonio nel quasar Pōniuā’ena ha quindi permesso al team di ottenere una prima stima della densità cosmica di idrogeno molecolare. La stima di questo parametro fornisce importanti informazioni sulla chimica primordiale, svelando nuovi dettagli su come si sono formate le prime e più semplici molecole dell’Universo. Queste stime erano finora limitate a epoche cosmiche molto successive, a partire da circa un miliardo di anni dopo il Big Bang. “La densità cosmica di idrogeno molecolare stimata grazie alle osservazioni del quasar Pōniuā‘ena concorda con quanto predetto dai più recenti modelli di formazione ed evoluzione di gas freddo nelle prime fasi dell’Universo e dalle simulazioni cosmologiche”, ricorda il ricercatore INAF Umberto Maio, co-autore dello studio. Questo risultato indica che i modelli teorici sono sulla buona strada per spiegare le proprietà fondamentali dell’Universo primordiale.

Conclude Luca Zappacosta dell’INAF, co-autore della ricerca e a capo della collaborazione scientifica HYPERION: “Pōniuā‘ena fa parte di HYPERION, un campione dei quasar primordiali luminosi, specificamente selezionati per le ‘abitudini alimentari’ estreme dei loro buchi neri massicci. Studiando i quasar di HYPERION miriamo a comprendere la natura della comparsa così precoce di questi oggetti sorprendenti e a caratterizzare l’evoluzione simultanea di un buco nero e della sua galassia ospite. In questo contesto, questo rilevamento da record è cruciale in quanto pone le basi per scoprire il ruolo del gas molecolare freddo accumulato nei primi quasar in formazione e le avide abitudini alimentari dei buchi neri”.

 


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo HYPERION: First constraints on dense molecular gas at z=7.5149 from the quasar Pōniuā‘ena, di Chiara Feruglio, Umberto Maio, Roberta Tripodi, Jan Martin Winters, Luca Zappacosta, Manuela Bischetti, Francesca Civano, Stefano Carniani, Valentina D’Odorico, Fabrizio Fiore, Simona Gallerani, Michele Ginolfi, Roberto Maiolino, Enrico Piconcelli, Rosa Valiante, Maria Vittoria Zanchettin, è stato pubblicato online sulla rivista Astrophysical Journal Letters.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

Un gruppo di ricerca internazionale rileva il precursore di un buco nero supermassiccio nei dati di archivio del telescopio Hubble

Una collaborazione internazionale, che ha visto la partecipazione di astrofisici della Sapienza e dell’Istituto nazionale di astrofisica – Inaf, ha scoperto un oggetto distante circa 13 miliardi di anni luce dalla Terra, estremamente compatto e arrossato dalla polvere stellare. La rilevazione, effettuata grazie all’utilizzo del telescopio spaziale Hubble, farà luce sul mistero della crescita dei buchi neri supermassicci nell’universo primordiale. I risultati del lavoro sono stati pubblicati su Nature.

il precursore di un buco nero supermassiccio
Il precursore di un buco nero supermassiccio nei dati di archivio di Hubble. Figura 1: GNz7q, un oggetto scoperto a circa 13,1 miliardi di anni luce dalla Terra che mostra segni di un buco nero in rapida crescita all’interno di una galassia in forte formazione stellare e ricca di polvere interstellare (starburst polverosa), colorato nell’immagine combinando i dati di tre osservazioni a colori del telescopio spaziale Hubble. Trovato nella regione GOODS-North[1], una delle regioni del cielo più studiate fino ad oggi, GNz7q è l’oggetto rosso al centro dell’immagine ingrandita (Credito: ESA/Hubble/Fujimoto et al.)

La scoperta di buchi neri supermassicci nell’universo primordiale, con masse fino a diverse centinaia di milioni di volte quella del sole, ha sollevato il problema di capire come oggetti di questa taglia siano stati in grado di formarsi e crescere nel breve periodo di tempo successivo alla nascita dell’Universo (meno di un miliardo di anni). Teoricamente, un buco nero inizia dapprima ad aumentare la sua massa accrescendo gas e polvere nel nucleo di una galassia ricca di polvere e caratterizzata da elevati tassi di formazione stellare (una cosiddetta galassia starburst polverosa). L’energia generata nel processo spazza via i materiali circostanti, trasformando il sistema in un quasar, una sorgente astrofisica molto luminosa e compatta.

Fino a oggi sono state scoperte galassie starburst polverose e quasar luminosi post-transizione ad appena 700-800 milioni di anni dopo il Big Bang, ma non è mai stato trovato un “giovane” quasar nella fase di transizione, la cui scoperta deterrebbe la chiave per la comprensione dei meccanismi di formazione dei buchi neri supermassicci nell’Universo primordiale.

Un gruppo di ricerca internazionale, coordinato dall’astronomo Seiji Fujimoto dell’Università di Copenaghen, con la partecipazione, fra gli altri, di ricercatori del Dipartimento di Fisica della Sapienza e dell’Istituto nazionale di astrofisica – Inaf, ha rianalizzato una grande quantità di dati d’archivio estratti dal telescopio spaziale Hubble e ha scoperto un oggetto, denominato poi GNz7q, che è proprio l’anello mancante tra le galassie starburst e i quasar luminosi nell’universo primordiale. I risultati del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista Nature.

Le osservazioni spettroscopiche con i radiotelescopi hanno mostrato che il giovane quasar è nato solo 750 milioni di anni dopo il Big Bang. Tali osservazioni, sono state poi confrontate con i modelli teorici. Questa importante fase del lavoro è stata svolta da Rosa Valiante dell’Inaf e Raffaella Schneider della Sapienza e ha mostrato come le caratteristiche dello spettro elettromagnetico di questo oggetto, dai raggi X alle onde radio, non si discostano dalle previsioni delle simulazioni teoriche.

“Questo suggerisce che GNz7q sia il primo esempio di buco nero in rapida crescita nel centro di una galassia starburst polverosa – commentano Schneider e Valiante. “Pensiamo che GNz7q sia un precursore dei buchi neri supermassicci trovati nell’universo primordiale”.

La scoperta di GNz7q non solo rappresenta un elemento importante per comprendere l’origine dei buchi neri supermassicci, ma anche un motivo di sorpresa per i ricercatori: la rilevazione infatti è stata fatta in una delle regioni più osservate nel cielo notturno – denominata GOODS, Great Observatories Origins Deep Survey, oggetto d’indagine astronomica dei telescopi più potenti mai costruiti (ovvero quelli operativi nello spazio come Hubble, Herschel e XMM-Newton dell’ESA, il telescopio Spitzer della NASA e l’Osservatorio a raggi X Chandra, oltre a potenti telescopi terrestri, compreso il telescopio Subaru) – suggerendo quindi che sorgenti di questo tipo possano essere più frequenti di quanto si pensasse in precedenza.

Il gruppo di ricerca si propone di condurre una ricerca sistematica di sorgenti simili utilizzando campagne osservative ad alta risoluzione e di sfruttare gli strumenti spettroscopici del telescopio spaziale James Webb della NASA/ESA/CSA, una volta che sarà in regolare funzionamento, per studiare oggetti come GNz7q con una ricchezza di dettagli senza precedenti.

il precursore di un buco nero supermassiccio
Il precursore di un buco nero supermassiccio nei dati di archivio di Hubble. Figura 2: un’impressione artistica di un giovane buco nero in crescita che emerge dal centro di una galassia starburst polverosa, mentre i materiali densi circostanti di gas e polvere vengono spazzati via dalla potente energia generata quando il buco nero evolve rapidamente accrescendo la materia circostante. (Credito: ESA/Hubble)

Riferimenti:

A dusty compact object bridging galaxies and quasars at cosmic dawn – S. Fujimoto, G. B. Brammer, D. Watson, G. E. Magdis, V. Kokorev, T. R. Greve, S. Toft, F. Walter, R. Valiante, M. Ginolfi, R. Schneider, F. Valentino, L. Colina, M. Vestergaard, R. Marques-Chaves, J. P. U. Fynbo, M. Krips, C. L. Steinhardt, I. Cortzen, F. Rizzo & P. A. Oesch – Nature https://doi.org/10.1038/s41586-022-04454-1 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma