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Rogier A.Windhorst

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JWST OSSERVA AMMASSI STELLARI NELL’UNIVERSO PRIMORDIALE: IL COSMIC GEMS ARC, UNA GALASSIA CHE VEDIAMO COM’ERA APPENA 460 MILIONI DI ANNI DOPO IL BIG BANG

Gli ammassi stellari osservati con il telescopio spaziale James Webb in una galassia a soli 460 milioni di anni dopo il Big Bang, nota come Cosmic Gems Arc, potrebbero essere i progenitori degli ammassi globulari che popolano le galassie odierne. È il risultato di un gruppo di ricerca internazionale a cui partecipano anche Eros Vanzella e Matteo Messa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, pubblicato oggi su Nature.

Lo studio delle galassie giovani, a poche centinaia di milioni di anni dal Big Bang, è una finestra per comprendere i processi che hanno modellato le galassie nell’universo primordiale. Galassie così distanti possono essere difficili da osservare, ma per fortuna l’universo stesso offre un assist attraverso le lenti gravitazionali: distribuzioni di materia così dense che curvano lo spaziotempo e deviano il percorso dei raggi luminosi, amplificando la luce proveniente dalle galassie più lontane.

This image shows two panels. On the right is field of many galaxies on the black background of space, known as the galaxy cluster SPT-CL J0615−5746. On the left is a callout image from a portion of this galaxy cluster showing two distinct lensed galaxies. The Cosmic Gems arc is shown with several galaxy clusters.
A destra, un’immagine dell’ammasso di galassie SPT-CL J0615−5746. A sinistra, lo zoom mostra due galassie di sfondo, molto più lontane rispetto alle galassie dell’ammasso, le cui immagini sono state distorte e amplificate dall’effetto di lente gravitazionale dell’ammasso stesso. La galassia Cosmic Gems Arc è la lunga striscia elongata al centro, all’interno della quale si possono riconoscere una serie di puntini luminosi: si tratta di ammassi stellari, progenitori degli odierni ammassi globulari.
Crediti: ESA/Webb, NASA & CSA, L. Bradley (STScI), A. Adamo (Stockholm University) and the Cosmic Spring collaboration

È così che si è scoperto il Cosmic Gems Arc, una giovanissima galassia che vediamo com’era appena 460 milioni di anni dopo il Big Bang. La sua forma appare distorta in forma di arco e la sua luminosità è fortemente amplificata grazie all’effetto di lente gravitazionale. Osservata per la prima volta dal telescopio spaziale Hubble nel 2018, si mostra in tutta la sua gloria in una nuova immagine del telescopio spaziale James Webb (JWST) che rivela ben cinque ammassi stellari al suo interno.

Ciascuno degli ammassi ha una dimensione di circa 3-4 anni luce: questo indica che si tratta di ammassi molto densi, mille volte di più rispetto ai tipici ammassi di stelle giovani che si possono osservare nell’universo locale. La scoperta implica che la formazione degli ammassi stellari e il feedback relativo potrebbero aver contribuito a scolpire le proprietà delle galassie durante le primissime epoche della storia cosmica. I risultati dello studio, guidato dalla ricercatrice italiana Angela Adamo dell’Università di Stoccolma e Oskar Klein Centre, in Svezia, sono stati pubblicati oggi su Nature.

“Riteniamo che queste galassie siano la fonte principale dell’intensa radiazione che ha reionizzato l’universo primordiale”, commenta Angela Adamo, prima autrice del lavoro. “La particolarità del Cosmic Gems Arc è che, grazie alla lente gravitazionale, possiamo effettivamente risolvere la galassia fino a una scala di pochi anni luce!”

Le osservazioni ad altissima risoluzione realizzate da JWST nell’infrarosso, insieme all’ampificazione fornita dalla lente gravitazionale, hanno mostrato dettagli senza precedenti: è la prima volta che si osservano le proprietà interne di una galassia così lontana. Solo così è stato possibile dimostrare il ruolo chiave degli ammassi stellari nelle galassie primordiali, sia nel contesto della formazione degli ammassi globulari e nel processo di reionizzazione dell’idrogeno dell’Universo.

“Quando vidi le immagini del Cosmic Gems Arc, la sequenza di “pallini” che replicavano in modo speculare richiamando proprio l’effetto di lente gravitazionale, rimasi sbalordito”, racconta Eros Vanzella, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) a Bologna e terzo autore dell’articolo. “Scrissi subito alla collega di Stoccolma Angela Adamo e a Larry Bradley, principal investigator delle osservazioni di JWST: ma allora gli ammassi stellari sono il modo dominante nella formazione stellare nell’Universo iniziale! Come fuochi d’artificio sconquassano la galassia ospite, la rendono un potenziale ionizzatore, per poi proseguire come ammassi globulari”.

La presenza di ammassi stellari così densi e massicci è rilevante per due aspetti. Innanzitutto, sono i precursori degli ammassi globulari che vediamo oggi, i quali sono quasi tanto antichi quanto l’Universo. Inoltre, ammassi stellari così giovani, durante la loro formazione, possono “distruggere” il mezzo interstellare della galassia ospite e, con le loro stelle giovani e massicce, giocare un ruolo chiave nel processo di reionizzazione dell’Universo. È probabile che le galassie in formazione nell’universo primordiale ospitino normalmente oggetti di questo tipo.

“Il messaggio generale, a mio parere, è che stiamo finalmente “smascherando” le origini delle prime galassie con la qualità e potenza del telescopio JWST e, grazie al lensing gravitazionale, stiamo vedendo dettagli senza precedenti”, aggiunge Vanzella. “L’Universo a quell’epoca non era come quello odierno e questo ci appare adesso come un dato di fatto”.

Nel frattempo, il team si sta preparando per ulteriori osservazioni con JWST, in programma per l’inizio del 2025; il principal investigator è lo stesso Vanzella, che conclude:

“Nel prossimo ciclo, studieremo il Cosmic Gems Arc con due strumenti, NIRSpec e MIRI: così avremo la conferma del redshift della galassia e, tramite misure con spettroscopia integrata, andremo più a fondo riguardo le proprietà fisiche degli ammassi stellari trovati, del gas ionizzato, oltre a eseguire una mappa bidimensionale del tasso di formazione stellare sull’intero arco gravitazionale”.

This image shows two panels. On the right is a field of many galaxies on the black background of space, known as the galaxy cluster SPT-CL J0615−5746. On the left is a callout image from a portion of this galaxy cluster showing two distinct lensed galaxies. The Cosmic Gems arc is shown with several galaxy clusters.
A destra, un’immagine dell’ammasso di galassie SPT-CL J0615−5746. A sinistra, lo zoom mostra due galassie di sfondo, molto più lontane rispetto alle galassie dell’ammasso, le cui immagini sono state distorte e amplificate dall’effetto di lente gravitazionale dell’ammasso stesso. La galassia Cosmic Gems Arc è la lunga striscia elongata al centro, all’interno della quale si possono riconoscere una serie di puntini luminosi: si tratta di ammassi stellari, progenitori degli odierni ammassi globulari.
Crediti: ESA/Webb, NASA & CSA, L. Bradley (STScI), A. Adamo (Stockholm University) and the Cosmic Spring collaboration

Riferimenti bibliografici:

L’articolo “Bound star clusters observed in a lensed galaxy 460 Myr after the Big Bang”, di Angela Adamo, Larry D. Bradley, Eros Vanzella, Adélaïde Claeyssens, Brian Welch4, Jose M Diego, Guillaume Mahler, Masamune Oguri, Keren Sharon, Abdurro’uf, Tiger Yu-Yang Hsiao, Xinfeng Xu, Matteo Messa, Augusto E. Lassen, Erik Zackrisson, Gabriel Brammer, Dan Coe, Vasily Kokorev, Massimo Ricotti, Adi Zitrin, Seiji Fujimoto, Akio K. Inoue, Tom Resseguier, Jane R. Rigby, Yolanda Jiménez-Teja, Rogier A. Windhorst, Takuya Hashimoto e Yoichi Tamura, è stato pubblicato online sulla rivista Nature.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza
Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF.

IL PROTOAMMASSO PIÙ ANTICO E LONTANO DELL’UNIVERSO, A2744-z7p9OD, L’HA TROVATO WEBB. LO STUDIO PUBBLICATO SU THE ASTROPHYSICAL JOURNAL LETTERS

Avvistato da Hubble e confermato da Webb, con la preziosa collaborazione dell’ammasso Pandora che ha agito come lente gravitazionale, il protoammasso di galassie più antico e più lontano conta, ad oggi, sette galassie. Si stava assemblando già circa 650 milioni di anni dopo il Big Bang, un periodo in cui stavano cominciando a formarsi le prime strutture cosmiche. Nel team che ha realizzato lo studio partecipano anche ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica.

Il protoammasso più antico e lontano dell'universo, A2744-z7p9OD
Le sette galassie evidenziate in questa immagine del James Webb Space telescope sono state confermate avere un redshift di 7,9 che le colloca a un’epoca di 650 milioni di anni dopo il Big Bang. Queste sono le più antiche galassie ad essere confermate spettroscopicamente come costituenti di un ammasso in formazione. Crediti: NASA, ESA, CSA, Takahiro Morishita (IPAC), image processing: Alyssa Pagan (STScI)

Ogni gigante è stato un tempo un bambino, ma riuscire a immaginarlo senza averlo mai visto può essere difficile. Un esercizio che hanno dovuto fare per anni, gli astronomi, dovendo ricostruire come si sono formate le strutture cosmiche più grandi, come gli ammassi di galassie, senza poterne vedere direttamente i progenitori. Fino ad oggi. Grazie al telescopio spaziale James Webb di NASA ed ESA, e grazie all’aiuto della lente gravitazionale di un ammasso di galassie vicino, l’inaccessibile è diventato accessibile. In un articolo pubblicato su The Astrophysical Journal Letters arriva la conferma dell’osservazione del protoammasso più antico e più lontano di sempre, in un’epoca in cui la formazione e l’assemblaggio delle galassie era cominciato da poco. Redshift 7,9, o 650 milioni di anni dopo il Big bang, a tanto si è spinto lo specchio dorato di Webb. In quel momento cominciava a formarsi questa struttura destinata – secondo i calcoli – a diventare un enorme ammasso di galassie. Grazie alle osservazioni di spettroscopia infrarossa di Webb, un gruppo di astronomi, fra cui alcuni dell’istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha confermato che si possono contare almeno sette galassie legate gravitazionalmente all’interno del protoammasso, e molte altre sono destinate a finirci dentro.

«Questo è un sito molto speciale e unico in cui le galassie evolvono in maniera accelerata, e Webb ci ha dato la possibilità senza precedenti di misurare le velocità di queste sette galassie e di confermare con sicurezza che sono legate insieme in un protoammasso», dice Takahiro Morishita, ricercatore all’IPAC-California Institute of Technology e primo autore dello studio.

Gli ammassi di galassie sono le più grandi concentrazioni di massa dell’universo conosciuto e possono ospitare migliaia di galassie legate gravitazionalmente all’interno di un’unica culla (o alone) di materia oscura. Sono talmente massicci da deformare visibilmente il tessuto dello spaziotempo, in un effetto di relatività generale noto come lensing gravitazionale. Proprio come una classica lente ottica, un ammasso di galassie produce un ingrandimento degli oggetti che si trovano, in proiezione, dietro di esso, rendendoli così visibili nonostante la distanza. L’ammasso che è stato utilizzato come lente in questo studio è l’ammasso di Pandora, o Abell 2744, che si trova a poco più di 3,5 miliardi di anni luce da noi.

“È sorprendente che solo 650 milioni di anni dopo il Big Bang ci fosse già una sovradensità di questo tipo formata, nell’universo”, commenta Benedetta Vulcani, ricercatrice dell’INAF di Padova e coautrice dell’articolo. “Il protoammasso ha un raggio di 195.000 anni luce, che è circa la distanza tra noi e la Grande nube di Magellano. È quindi abbastanza compatto, visto che il raggio di un ammasso nell’universo locale può essere 20 volte tanto. Stimare la massa è molto difficile, abbiamo seguito diversi approcci e abbiamo trovato un valore – che riteniamo conservativo – di circa 400 miliardi di masse solari. È un valore che può sembrare molto piccolo a noi addetti ai lavori che siamo abituati a pensare ai grandi ammassi moderni, ma con l’aiuto delle simulazioni abbiamo potuto vedere che questa struttura, evolvendo nel tempo, potrebbe raggiungere una massa simile all’ammasso di Coma, il più grande ammasso noto”.

La pulce nell’orecchio a Morishita e collaboratori, nel caso di A2744-z7p9OD – questo il nome del protoammasso – l’ha messa Hubble. Le sette galassie erano infatti già state individuate nel programma Frontier Fields del telescopio spaziale ottico e ultravioletto, attraverso osservazioni che sfruttavano proprio l’effetto di lente gravitazionale di alcuni ammassi di galassie vicini per vedere oggetti lontani. Per vedere i dettagli di queste strutture, però, non basta ingrandirle: occorre disporre di strumenti in grado di lavorare a lunghezze d’onda infrarosse, alle quali la luce ottica emessa da questi oggetti è stata portata a causa dell’espansione dell’Universo. Ma non potendo osservare a queste lunghezze d’onda, il telescopio Hubble non era stato in grado di dire molto sulla struttura e aveva lasciato aperta la porta della curiosità.

Curiosità che il telescopio spaziale Webb, grazie al suo spettrografo nel vicino infrarosso NIRSpec, è riuscito a soddisfare. Per prima cosa, infatti, è riuscito a confermare la distanza delle sette galassie finora confermate come parte della struttura, a misurare la velocità con la quale si muovono all’interno dell’alone di materia oscura dell’ammasso, e le principali proprietà fisiche. E in secondo luogo, ha consentito di modellare e costruire la storia futura del protoammasso, scoprendo che somiglierà molto all’ammasso di Coma – uno degli ammassi più densi e popolosi dell’universo moderno.

Per crescere, una struttura come questa finirà per acquisire diverse centinaia e migliaia di altre galassie, delle quali gli astronomi hanno già trovato alcune tracce. Nella stessa regione di cielo ci sono infatti altre galassie che hanno un redshift fotometrico – stimato cioè con un metodo meno sicuro di quello utilizzato da Webb – simile a quello del protoammasso. Si trovano però ancora abbastanza lontane da questo, fino a un milione di anni luce di distanza dal centro della struttura, cinque volte più in là del suo raggio.

“Tutte le sette candidate che abbiamo osservato si sono rivelate parte della struttura, con un successo del 100%”, continua Vulcani. “In futuro di certo cercheremo di confermare anche gli altri candidati, per riuscire ad avere una stima più accurata delle dimensioni del protoammasso. Molto probabilmente finora ne abbiamo osservato solo il cuore, o una zona densa, ma pensiamo che ci siano altre galassie che non abbiamo individuato e che appartengono alla stessa struttura”.

Secondo la teoria della formazione e accrescimento delle strutture comiche, nel corso di miliardi di anni nuove galassie “cadranno” in questo protoammasso e contribuiranno alla sua crescita.

“La crescita delle strutture è simile a quella dei corsi d’acqua: torrenti che nascono da montagne diverse possono poi confluire in fiumi più grandi fino a formare i grandi fiumi. Così galassie inizialmente lontane con il passare del tempo si agglomerano in uno stesso spazio” commenta Vulcani, e conclude: “Quello che è sorprendente è che il nostro risultato supporta l’idea secondo cui galassie ad alto redshift che sono fisicamente lontane e magari non ancora parte di una struttura formata, in qualche modo sono già consapevoli del loro destino che le porterà a confluire in un ammasso. Queste galassie, infatti, formano stelle in maniera e quantità molto simili nel corso degli anni e hanno tutte un’evoluzione accelerata rispetto alle altre galassie che vivono la stessa epoca cosmica ma sono isolate. Come se, tornando all’immagine del fiume, le gocce d’acqua che nascono da sorgenti diverse in qualche modo sapessero che prima o poi si incontreranno”.

L’articolo Early results from GLASS-JWST. XVIII:A spectroscopically confirmed protocluster 650 million years after the Big Bang di Takahiro Morishita, Guido Roberts-Borsani, Tommaso Treu, Gabriel Brammer, Charlotte A. Mason, Michele Trenti, Benedetta Vulcani, Xin Wang, Ana Acebron, Yannick Bah´e, Pietro Bergamini, Kristan Boyett, Marusa Bradac, Antonello Calabrò, Marco Castellano, Wenlei Chen, Gabriella De Lucia, Alexei V.Filippenko, Adriano Fontana, Karl Glazebrook, Claudio Grillo, Alaina Henry, Tucker Jones, Patrick L. Kelly, Anton M. Koekemoer, Nicha Leethochawalit, Ting-Yi Lu, Danilo Marchesini, Sara Mascia, Amata Mercurio, Emiliano Merlin, Benjamin Metha, Themiya Nanayakkara, Mario Nonino, Diego Paris, Laura Pentericci, Piero Rosati, Paola Santini, Victoria Strait, Eros Vanzella, Rogier A.Windhorst e Lizhi Xie è stato pubblicato sul sito web della rivista The Astrophysical Journal Letters. DOI: 10.3847/2041-8213/acb99e

 Testo e immagine dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza
Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)