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Proteine da un fossile di rinoceronte risalente a 21-24 milioni di anni fa rivoluzionano gli studi evoluzionistici

Una ricerca internazionale pubblicata su Nature ha recuperato sequenze proteiche da un fossile di rinoceronte segnando una svolta nella ricostruzione dell’evoluzione delle specie estinte

Uno studio innovativo che sarà pubblicato in “Nature” annuncia il recupero di sequenze proteiche da un fossile di rinoceronte risalente a 21-24 milioni di anni fa, spingendo indietro di milioni di anni i confini della ricerca sulle proteine antiche. Questo risultato senza precedenti apre una nuova frontiera per la paleoproteomica, promettendo di svelare segreti dell’evoluzione risalenti a tempi remoti, ben oltre la portata del DNA antico.

Un nuovo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista “Nature” il 9 luglio 2025, descrive l’estrazione e il sequenziamento di antiche proteine dello smalto da un dente di rinoceronte fossilizzato risalente a 21-24 milioni di anni fa, risalente al Miocene inferiore.

Questa straordinaria impresa, ottenuta a partire da un fossile rinvenuto nell’Alto Artico canadese, estende di ben dieci volte la scala temporale delle sequenze proteiche recuperabili e informative sull’evoluzione rispetto al più antico DNA conosciuto.

Questa ricerca segna un momento cruciale per la paleoproteomica, lo studio delle proteine antiche. Sebbene proteine antiche siano state trovate in fossili del Miocene medio-superiore (circa gli ultimi 10 milioni di anni), l’ottenimento di sequenze sufficientemente dettagliate per ricostruzioni robuste delle relazioni evolutive era precedentemente limitato a campioni non più vecchi di 4 milioni di anni. Questo nuovo studio amplia significativamente tale finestra temporale, dimostrando lo straordinario potenziale delle proteine di persistere su vaste scale temporali geologiche nelle giuste condizioni.

Lo studio, coordinato dal Globe Institute dell’Università di Copenaghen, ha ricostruito sequenze proteiche dallo smalto dentale di un rinoceronte vissuto nell’attuale Artico canadese durante il Miocene inferiore. Grazie alla stabilità dello smalto e alle condizioni ambientali estreme del cratere di Haughton — freddo costante e permafrost — le proteine sono risultate sorprendentemente ben conservate. Queste sequenze proteiche antiche hanno permesso di collocare con precisione evolutiva il rinoceronte all’interno del suo albero genealogico, e suggeriscono che la divergenza tra le sottofamiglie Elasmotheriinae e Rhinocerotinae sia avvenuta durante l’Oligocene (34–22 milioni di anni fa), più recentemente di quanto ipotizzato in precedenza.

Il progetto è stato guidato dal Dott. Ryan Sinclair Paterson e diretto dal Prof. Enrico Cappellini dell’Università di Copenaghen. All’interno di questo progetto, l’apporto del Dott. Gabriele Scorrano (Università di Tor Vergata), del Prof. Raffaele Sardella (Dipartimento di Scienze della Terra, Sapienza Università di Roma) e del Dott. Luca Bellucci (Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Firenze) è stato fondamentale: hanno fornito e analizzato un esemplare di dente di rinoceronte di circa 400.000 anni fa, proveniente dal sito archeo-paleontologico di Fontana Ranuccio (Lazio, provincia di Frosinone).

La ricerca vede coinvolte anche due ricercatrici dell’Università di Torino: Meaghan Mackie, dottoranda del Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi di UniTo e dell’University College Dublin, e la sua supervisor, la Prof.ssa Beatrice Demarchi, docente ordinaria presso l’Ateneo torinese ed esperta di biomolecole antiche.

 

In questo sito, insieme a una ricca fauna, sono stati rinvenuti alcuni tra i più antichi reperti del genere Homo in Italia. Il reperto ha funzionato da riferimento intermedio tra i campioni più recenti (esemplari medievali) e quello molto più antico analizzato in questo studio, offrendo un confronto diretto sulla conservazione proteica nel tempo.

Il contributo del team dell’Università di Torino è stato cruciale per la validazione dei dati e l’interpretazione dei processi di diagenesi proteica. “Abbiamo calcolato – spiega la Prof.ssa Beatrice Demarchi – che la bassa temperatura ha reso l’età termica del campione equivalente a quella di un reperto dieci volte più giovane in un luogo con temperatura media di 10°C, il che significa che le proteine erano significativamente meno danneggiate rispetto a quelle che si trovano in luoghi della stessa età geologica ma con clima più caldo”.

“È stato sorprendente”, commenta Meaghan Mackie. Il primo campione che ho analizzato pensavo non contenesse nulla, perché troppo antico! Sono rimasta a fissare lo schermo del computer per un minuto”. Questo risultato apre nuove prospettive per la ricerca evolutiva e la paleoproteomica perché permette di ricostruire la storia evolutiva di specie estinte da milioni di anni, ben oltre i limiti del DNA e, in prospettiva, potrebbe riaccendere le speranze per lo studio della biologia di specie dell’era Mesozoica. Indagini future su fossili della Formazione di Haughton e di altri contesti simili potrebbero far emergere ulteriori tracce di questa straordinaria conservazione biomolecolare.

“Si profila una nuova fase per la biologia evolutiva – aggiunge la Prof.ssa Demarchi – in cui le proteine antiche diventano preziosi testimoni della storia più remota della vita sulla Terra. Per l’Università di Torino, questo risultato conferma il ruolo di primo piano nell’ambito della paleobiologia molecolare internazionale”.

Vista del Cratere di Haughton sull'isola di Devon, Nunavut (Canada). Le condizioni aride e fredde del "deserto polare" hanno contribuito a preservare l'antico fossile di rinoceronte qui rinvenuto, comprese tracce di proteine originali risalenti a oltre 20 milioni di anni fa. Il terreno modellato in primo piano indica la presenza di permafrost. Crediti per la foto: Martin Lipman
Vista del Cratere di Haughton sull’isola di Devon, Nunavut (Canada). Le condizioni aride e fredde del “deserto polare” hanno contribuito a preservare l’antico fossile di rinoceronte qui rinvenuto, comprese tracce di proteine originali risalenti a oltre 20 milioni di anni fa. Il terreno modellato in primo piano indica la presenza di permafrost. Crediti per la foto: Martin Lipman

Riferimenti bibliografici:

Paterson, R. S., Mackie, M., Capobianco, A., Heckeberg, N. S., Fraser, D., Demarchi, B., Munir, F., Patramanis, I., Ramos-Madrigal, J., Liu, S., Ramsøe, A. D., Dickinson, M. R., Baldreki, C., Gilbert, M., Sardella, R., Bellucci, L., Scorrano, G., Leonardi, M., Manica, A., Racimo, F., Willerslev, E., Penkman, K. E. H., Olsen, J. V., MacPhee, R. D. E., Rybczynski, N., Höhna, S., Cappellini, E., Phylogenetically informative proteins from an Early Miocene rhinocerotid. Nature (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41586-025-09231-4

 

Testi dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma e dalla Sezione Comunicazione Digitale e Media Relations, Area Comunicazione dell’Università di Torino

Analizzato per la prima volta il DNA delle iene fossili della Sicilia

Le iene siciliane, che abitavano l’isola prima dell’arrivo di Homo sapiens, appartengono a un gruppo diverso da quelle africane: si tratta di una popolazione “relitta” di iene insulari, caratteristica che le rende uniche al mondo, il cui DNA fossile nei resti biologici è sopravvissuto al clima caldo del Mediterraneo. La pubblicazione su Quaternary Science Reviews.

Palermo, Milano, Roma, Firenze, 28 agosto 2024. Prima ancora che Homo sapiens arrivasse in Sicilia, circa 16 mila anni fa, sull’isola erano molto diffuse le iene del genere Crocuta.

Tra i più iconici carnivori delle savane, la iena macchiata è oggi presente in buona parte dell’Africa sub-sahariana, ma durante il Pleistocene, tra 800 e 16 mila anni fa, era diffusa in territori molto più ampi che includevano l’Europa e l’Asia, mentre l’unica isola dove la presenza di questa specie è stata documentata dai fossili, è la Sicilia. Questa caratteristica rende le iene siciliane uniche da un punto di vista paleobiologico e offre agli studiosi una rara opportunità per comprendere meglio sia gli adattamenti che i processi evolutivi legati all’isolamento geografico di un grande carnivoro, estremamente raro in contesti insulari.

Grazie ai recenti avanzamenti nello studio del DNA antico, negli ultimi anni i paleogenetisti sono stati in grado di analizzare porzioni di DNA di alcune iene fossili, ad oggi tutte provenienti da siti nord europei o dal nord della Russia e della Cina, dove le temperature basse favoriscono la conservazione del materiale genetico. In ambienti a clima caldo, come quello mediterraneo, nei resti antichi il DNA si conserva con maggiori difficoltà.

In un recente studio condotto dai ricercatori delle Università di Palermo, Statale di Milano, Firenze, Roma Sapienza, di Bangor e Cambridge, pubblicato sulla rivista internazionale Quaternary Science Reviews, è stato analizzato per la prima volta il DNA di una iena fossile della Sicilia. 

Il DNA nucleare è stato estratto con successo da un frammento di coprolite, un escremento fossilizzato di iena di oltre 20 mila anni, proveniente dal sito della Grotta San Teodoro (Messina). I risultati delle analisi hanno svelato che le iene siciliane possedevano caratteristiche genetiche molto particolari, uniche tra tutte le iene fossili di cui si conosce il DNA.

DNA delle iene fossili della Sicilia

Giulio Catalano, paleogenetista dell’Università di Palermo e primo autore dello studio, commenta: “Le analisi ci suggeriscono che le iene siciliane siano appartenute a un gruppo genetico molto antico, distinto dalle attuali iene africane e peculiare rispetto alle altre iene fossili”. Prosegue il ricercatore: “Questo insieme di caratteristiche ci fa ipotizzare che un tempo la popolazione di queste iene fosse ampiamente distribuita sul continente, circa 500mila anni fa. Ma arrivate in Sicilia, grazie all’isolamento geografico, questa popolazione ha conservato le proprie caratteristiche genetiche mentre nel resto d’Europa si è invece persa nel corso del tempo. Questo grazie anche al contributo dei diversi scambi genetici avvenuti con le iene africane”.

Questo tipo di analisi permette di ipotizzare che le iene pleistoceniche siciliane possano far parte di una popolazione genetica “relitta”, sopravvissuta sull’isola fino a circa 20 mila anni fa”, sottolinea Raffaele Sardella, paleontologo dell’Università Sapienza di Roma che ha partecipato alla ricerca.

Dawid A. Iurino, paleontologo dell’Università Statale di Milano e coautore dello studio, aggiunge: “Oltre al DNA di iena, nel coprolite abbiamo individuato tracce di DNA equino che ci ha permesso di rivelare il contenuto del pasto di una iena di 20 mila anni fa, costituito da Equus hydruntinus, l’unico equide vissuto in passato sull’isola. La scoperta e l’analisi di questo DNA fossile rappresentano una fonte inesauribile di ispirazione per nuove ricerche che rende il patrimonio geo-paleontologico della Sicilia una risorsa da preservare e valorizzare, in quanto unico nel suo genere”.

Luca Sineo, docente dell’Università di Palermo e responsabile del progetto, commenta: “Grotta San Teodoro, con il suo enorme patrimonio, si conferma tra i più importanti siti europei per lo studio del Pleistocene, ovvero gli ultimi 2.5 milioni di anni. Questa ricerca ha coinvolto studiosi internazionali ed è stata possibili grazie alla collaborazione con il Parco Archeologico di Tindari, la Proloco di Acquedolci e la Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Messina”.

Questo studio dimostra come, ad oggi, lo sviluppo tecnologico consenta di ottenere informazioni genetiche anche da substrati biologici complessi, come i coproliti”, spiega la Dott.ssa Alessandra Modi dell’Università di Firenze che ha partecipato alla ricerca. “Grazie alla grande mole di dati che si possono ottenere da un numero sempre maggiore di resti appartenenti a specie diverse, siamo in grado di delineare con elevata precisione la storia evolutiva non solo dell’uomo, ma di molteplici forme viventi”, conclude David Caramelli, Professore Ordinario di Antropologia dell’Università di Firenze.

Testo e immagini dalla Direzione Comunicazione ed Eventi Istituzionali dell’Ufficio Stampa Università degli Studi di Milano

Quando a Roma c’erano gli ippopotami

La ricerca di un gruppo di paleontologi del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza ha gettato nuova luce sulla diffusione in Europa dell’ippopotamo comune largamente presente in tutto il continente durante il Pleistocene. Lo studio, pubblicato su PLoS ONE, ha rivelato che questa specie comparve in Europa circa 500 mila anni fa, probabilmente in seguito a intensi cambiamenti climatici e ambientali.

C’è stato un tempo in cui il territorio di Roma fu popolato da elefanti, ippopotami, rinoceronti e iene, testimonianza di ecosistemi scomparsi e condizioni climatiche ben differenti da quelle attuali. Resti fossili di mammiferi sono conosciuti fin dalla fine dell’Ottocento, oggi patrimonio culturale oltre che scientifico di diversi musei del territorio laziale, fra cui il Museo universitario di Scienze della Terra della Sapienza Università di Roma (MUST).

Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista PLoS ONE da ricercatori del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza e dell’Istituto di Geologia ambientale e geoingegneria del Consiglio Nazionale delle Ricerche ha permesso di ridefinire la comparsa dell’ippopotamo comune Hippopotamus amphibius grazie ad analisi condotte su un cranio rinvenuto durante la prima metà del Novecento nell’area di Tor di Quinto e di datarla a circa 500 mila anni fa.

“L’approccio multidisciplinare applicato allo studio del cranio fossile di ippopotamo – spiega Beniamino Mecozzi della Sapienza – è stato fondamentale per ottenere preziose informazioni in merito all’età del reperto e alla sua classificazione tassonomica. I risultati permettono di attribuire il cranio alla specie Hippopotamus amphibius e di affermare con certezza che il reperto è stato rinvenuto presso una cava, denominata Montanari, operante lungo la via Flaminia, oggi non più esistente. Integrando i dati geologici, sedimentologici e cartografici, abbiamo potuto stimare l’età del reperto”.

La diffusione dell’ippopotamo comune in Europa è intimamente legata ai cambiamenti climatici e ambientali avvenuti negli ultimi 800 mila anni, in particolare durante la cosiddetta Early–Middle Pleistocene Transition (Transizione Pleistocene Inferiore–Pleistocene Medio), periodo in cui si registra l’estinzione di molte specie vissute durante il Quaternario nonchè la comparsa di forme moderne, come cervi, cinghiali, daini e lupi.

Lo studio del cranio di ippopotamo, identificato come un individuo maschile di circa 22-24 anni, rientra in un ampio progetto di restauro dei reperti di grandi mammiferi esposti presso il MUST.

Questo lavoro ha permesso di rimuovere precedenti integrazioni effettuate nel XX secolo che mascherano alcune morfologie originali del cranio e di recuperare sedimenti ancora presenti in alcune cavità craniali e mandibolari.

“I fossili esposti presso il Museo Universitario di Scienze della Terra di Sapienza – commenta Raffaele Sardella della Sapienza – rappresentano un patrimonio da tutelare e preservare. Il restauro del reperto di ippopotamo, per esempio, ha permesso di recuperare, e quindi analizzare, il sedimento originale del deposito, oggi non più accessibile a causa dell’intensa urbanizzazione che caratterizzò il quartiere di Tor di Quinto durante il Novecento. I risultati di questo lavoro, oltre alle notevoli ripercussioni scientifiche, offrono nuove preziose informazioni essenziali per una cosciente e più completa divulgazione del patrimonio paleontologico custodito presso il nostro Museo”.

Riferimenti bibliografici:

Reinforcing the idea of an early dispersal of Hippopotamus amphibius in Europe: Restoration and multidisciplinary study of the skull from the Middle Pleistocene of Cava Montanari (Rome, central Italy) – Beniamino Mecozzi, Alessio Iannucci, Marco Mancini, Daniel Tentori, Chiara Cavasinni, Jacopo Conti, Mattia Yuri Messina, Alex Sarra, Raffaele Sardella – PLoS ONE 2023, DOI: 10.1371/journal.pone.0293405.

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Un ululato dal Medioevo – Uno studio multidisciplinare firmato dalle Università Sapienza, Bologna e Parma fornisce la descrizione più completa di un campione di lupo del Medioevo in Italia.

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Un ululato dal Medioevo: un campione di lupo del Po. Foto del ritrovamento del cranio di lupo sulla spiaggia Boschi Maria Luigia, presso Coltaro (PR), 2018. (Foto di Davide Persico)

È stato pubblicato nei giorni scorsi un importante articolo sullo studio di un cranio fossile di lupo (Canis lupus), rinvenuto nel settembre 2018 nel Fiume Po da Davide Persico, Professore associato presso l’Università di Parma e autore senior che ha diretto lo studio.

Il fossile, completo e in ottimo stato di conservazione, è esposto nel Museo Paleoantropologico del Po di San Daniele Po (CR) ed è già stato oggetto di uno studio paleogenetico nel 2019. Nel recente articolo scientifico però, viene presentata la sua prima descrizione completa basata su un approccio multidisciplinare.

“Il riconoscimento e la prima classificazione tassonomica dell’esemplare, nonché la deter-minazione dell’età anagrafica e del sesso, sono state eseguite attraverso un’analisi biome-trica svolta presso il Dipartimento di Scienze Chimiche della Vita e della Sostenibilità ambientale dell’Università di Parma” – afferma Davide Persico.

Il cranio quasi completo è stato ritrovato sulla barra alluvionale del Fiume Po denominata Boschi Marialuigia, in sponda destra ma in territorio cremonese. Mediante l’analisi radiometrica al Carbonio 14, il fossile è stato collocato in pieno Medioevo, esattamente tra il 967 e il 1157 d.C.

Il periodo medievale ha rappresentato una fase cruciale per la storia evolutiva del lupo in quanto segnato sia da importanti cambiamenti ecosistemici, soprattutto nei paesaggi boschivi, sia da pesanti persecuzioni umane, che hanno portato questa specie a un drammatico declino demografico. Nonostante il lupo sia senza dubbio uno dei predatori più iconici e ampiamente studiati di tutti i tempi, in Europa i resti osteologici di lupi medievali sono estremamente rari, limitando la comprensione delle dinamiche e dei fenomeni che hanno influenzato l’evoluzione delle popolazioni passate di questa specie. Per questo motivo, il cranio fossile oggetto di studio ha rappresentato un’eccezionale e rara opportunità di ricerca.

Scansione tomografica del cranio (Foto di Dawid A. Iurino)

“Le analisi biometriche e quelle basate sulla Tomografia Computerizzata (TC)” – afferma Raffaele Sardella, professore ordinario presso il Dipartimento di Scienze della Terra di Sapienza Università di Roma – “indicano che il lupo del Po rientra nella variabilità cranica della sottospecie Canis lupus italicus esistente tutt’oggi nella nostra penisola”.

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Confronto tra l’immagine fotografica del cranio (sinistra) e il modello 3D ottenuto tramite l’elaborazione di immagini tomografiche (destra). (Immagine di Dawid A. Iurino)

 

“L’usura dei denti ha consentito di ricondurre il cranio ad un individuo adulto tra i 6 e gli 8 anni, di sesso femminile – ha sottolineato Dawid Adam Iurino, primo autore dell’articolo, esperto di paleopatologie e applicazioni della paleontologia virtuale presso Sapienza. Questo esemplare – continua lo studioso – manifesta chiare prove di una grave parodontite che ha causato la completa perdita del canino sinistro producendo un grande foro che collega l’alveolo con la cavità nasale. Tale condizione patologica ha probabilmente debilitato gravemente il soggetto; non è però possibile stabilire con certezza se la morte sia stata una conseguenza di questa malattia”.

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Scansione tomografica del cranio (Foto di Dawid A. Iurino)

Le analisi filogenetiche, condotte presso il Laboratorio del DNA antico dell’Università di Bologna, hanno collocato il pool genetico del DNA mitocondriale (piccola porzione del genoma ereditata solo per via materna) del reperto all’interno della variabilità genetica dei lupi moderni, chiaramente distinto da quello dei cani. In particolare, secondo Elisabetta Cilli, Professoressa a contratto di Archeogenetica all’Università di Bologna e co-autrice dello studio, il campione rientra nell’aplogruppo 2 dei lupi, cioè fa parte delle linee di discendenza materne più antiche che derivano tutte da un antenato comune. In Europa tale aplogruppo, a partire da almeno 2.700-1.200 anni fa, è stato in gran parte sostituito dal più recente aplogruppo 1, tranne in Italia dove persiste solo l’aplogruppo 2. Le stesse analisi hanno inoltre dimostrato che la sequenza mitocondriale dell’esemplare studiato è molto simile a quella tipica greca, chiamata W15, da cui mostra solo una mutazione di differenza.

Estrazione del DNA antico dal reperto (Foto Elisabetta Cilli)

Secondo Elisabetta Cilli, questa sequenza di DNA rappresenta parte dell’antica variabilità genetica della popolazione italiana di lupi oggi persa a causa dell’impatto negativo delle persecuzioni antropiche perpetrate nel Medioevo e, per l’Europa occidentale, in particolare negli ultimi 150 anni.

Questo studio multidisciplinare fornisce la descrizione più completa di un campione di lupo del Medioevo in Italia e dimostra come i campioni archeozoologici rappresentino una fonte essenziale di informazioni per comprendere le dinamiche, la diversità e la distribuzione dei lupi tra presente e passato.

Tra gli autori anche Romolo Caniglia, ricercatore di ISPRA, Elena Fabbri, ricercatrice di ISPRA, Marta Maria Ciucani dell’Università di Copenaghen e Beniamino Mecozzi di Sapienza Università di Roma.

Esemplare di Lupo ripreso recentemente nella bassa Pianura Padana (Foto di Alessandro Barbieri)

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Ritrovato a Roma il fossile del primo lupo d’Europa 

L’enigmatico fossile ritrovato nei pressi di Ponte Galeria (Roma) è stato analizzato da un gruppo di paleontologi e geologi del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza Università di Roma e dell’Università Statale di Milano. La ricostruzione 3D dei resti ha permesso di identificare il fossile come il più antico esemplare adulto di lupo (Canis lupus) in Europa, databile a circa 400.000 anni fa. I risultati dello studio, che gettano nuova luce sulle dinamiche di diffusione del lupo nel nostro continente, sono stati pubblicati sulla rivista Scientific Reports.

Ritrovato a Roma il fossile del primo lupo d’Europa
Ritrovato a Roma il fossile del primo lupo d’Europa

Il lupo è una delle specie più emblematiche della biodiversità europea, animale simbolo delle foreste del nostro continente, così radicato nel nostro immaginario da entrare a far parte della cultura, del folklore e della tradizione di tutti i popoli europei. Sebbene l’uomo conviva con il lupo da migliaia di anni, la storia evolutiva di questo predatore iconico è ancora fonte di dibattito nella comunità scientifica, con punti interrogativi sul momento in cui questo animale si è diffuso nel nostro continente.

Ritrovato a Roma il fossile del primo lupo d’Europa
Ritrovato a Roma il fossile del primo lupo d’Europa

Un gruppo di paleontologi e geologi del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza Università di Roma e del Dipartimento di Scienze della Terra “Ardito Desio” dell’Università Statale di Milano, ha esaminato un enigmatico cranio fossile di canide di grandi dimensioni sono stati ritrovati nei pressi di Roma, più precisamente a Ponte Galeria. La scansione 3D dei resti frammentari ha permesso di identificare il cranio fossile come il più antico esemplare adulto di lupo (Canis lupus), risalente a circa 400.000 anni fa (Pleistocene Medio). I risultati dello studio sono stati pubblicati su Scientific Reports, rivista scientifica internazionale del gruppo Nature.

“In particolare i frammenti fossili sono stati scansionati tramite TAC e poi uniti digitalmente per ricreare l’assetto originale del cranio, il quale è stato poi analizzato, misurato e comparato con altre scansioni di canidi moderni come lo sciacallo, o il lupo appenninico che popola attualmente la penisola italiana”, spiega Dawid A. Iurino, primo autore dello studio.

Poiché l’area di Ponte Galeria è ricca di giacimenti di diverse datazioni, il gruppo di ricerca ha analizzato il sedimento vulcanico che ricopriva e riempiva i frammenti fossili per stabilire l’età precisa del reperto.

“Prima di questa ricerca i resti fossili più antichi di lupo erano quelli datati intorno ai 300.000 anni ritrovati in Francia (Lunel-Viel) e in Italia (Polledrara di Cecanibbio, di cui però manca una descrizione formale del reperto) – commenta Raffaele Sardella, coordinatore dello studio. “Questo nuovo studio ha permesso quindi di individuare nel lupo di Ponte Galeria il resto fossile di questa specie più antico rinvenuta fino ad ora in Europa”.

Le nuove analisi hanno dimostrato come la dispersione del lupo sia avvenuta durante il “Mid-Brunhes Event”, una fase del Pleistocene caratterizzata dall’aumento dell’ampiezza dei cicli/interglaciali, che diventano più lunghi e più intensi. Questo cambiamento climatico ebbe una forte ripercussione sugli ecosistemi terrestri favorendo probabilmente la diffusione di nuove specie in Europa tra cui il lupo.

Riferimenti:

A Middle Pleistocene wolf from central Italy provides insights on the first occurrence of Canis lupus in Europe – Dawid A. Iurino, Beniamino Mecozzi, Alessio Iannucci, Alfio Moscarella, Flavia Strani, Fabio Bona, Mario Gaeta & Raffaele Sardella – Scientific Reports https://doi.org/10.1038/s41598-022-06812-5

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

La iena gigante che non ha resistito ai cambiamenti climatici 
Pachycrocuta brevirostris, la iena gigante dal muso corto diffusa nel Vecchio Mondo durante il Pleistocene, si è estinta in Europa circa 800 mila anni fa a seguito di cambiamenti climatici e ambientali e non a causa della competizione con altre specie che si diffusero nello stesso periodo. A svelarlo un nuovo studio del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza, pubblicato sulla rivista Quaternary Science Reviews.

Un super-predatore un tempo popolava Europa, Asia e Africa, la iena gigante dal muso corto Pachycrocuta brevirostris. Con un peso probabilmente superiore ai 100 chilogrammi, fu la iena più grande mai esistita. Diffusasi in Europa circa due milioni di anni fa, fu uno dei predatori più temibili che si trovarono ad affrontare le prime popolazioni di ominini avventuratesi fuori dall’Africa; sebbene il ruolo diretto delle iene come concorrenti ecologici degli ominini del Pleistocene venga spesso enfatizzato, esse erano comunque una componente unica della fauna incontrata da queste popolazioni.

Pachycrocuta brevirostris iena gigante dal muso corto
Pachycrocuta brevirostris, la iena gigante dal muso corto che non ha resistito ai cambiamenti climatici e ambientali

Le iene sono comunemente note per la loro abilità di rompere le ossa e cibarsi del loro contenuto, e Pachycrocuta brevirostris si era ben adattata a questa abitudine alimentare. La iena gigante era anche in grado di accumulare ossa, come oggi testimoniano alcuni siti che rappresentano un vero tesoro per i paleontologi. Durante il Pleistocene, gli ominini erano l’unico altro gruppo capace di sfruttare le ossa come risorsa alimentare, con l’ausilio di strumenti litici per romperle. Per questo motivo, la possibile competizione di queste popolazioni con la iena gigante suscita un grande interesse tra i ricercatori. Eppure, il motivo per cui la specie si estinse e la tempistica di questo evento in Europa rimanevano ancora avvolti nell’incertezza.

Un nuovo studio, condotto da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Scienze della Terra di Sapienza e pubblicato sulla rivista Quaternary Science Reviews, ha riconsiderato i fossili di Pachycrocuta brevirostris e di altre iene che si diffusero in Europa nel Pleistocene, rivelando che la iena gigante dal muso corto scomparve dall’Europa circa 800 mila anni fa, probabilmente a seguito di cambiamenti climatici e ambientali e non a causa della competizione con altre specie che si diffusero nello stesso periodo.

Pachycrocuta brevirostris, Crocuta crocuta e Hyaena prisca

Studi precedenti avevano infatti ipotizzato che la competizione generata dall’arrivo di Crocuta crocuta, l’attuale iena macchiata, potesse aver giocato un ruolo nell’estinzione di Pachycrocuta brevirostris. Tale ipotesi sarebbe supportata dalla coesistenza delle due specie in alcune località dove la iena gigante sopravvisse più a lungo. Tuttavia, i risultati di questa nuova ricerca vanno nella direzione opposta, escludendo l’ipotesi della compresenza e della competizione diretta tra queste iene.

“La scomparsa della iena gigante dall’Europa circa 800 mila anni fa – commenta Alessio Iannucci di Sapienza, primo nome dello studio – è pressappoco coincidente con l’arrivo della iena macchiata, Crocuta crocuta, e di un’altra specie meno nota, la “Hyaena” prisca. Tuttavia, queste specie furono in grado di diffondersi in Europa solo dopo il declino della iena gigante e non contribuirono alla sua estinzione”.

La iena gigante dunque, un tempo diffusa in tutto il continente, non fu in grado di far fronte ai cambiamenti climatici e ambientali che avvennero durante la transizione tra Pleistocene Inferiore e Pleistocene Medio, la cosiddetta “Early–Middle Pleistocene Transition”. Si tratta di un periodo che vide acuirsi l’intensità delle fluttuazioni tra intervalli glaciali e interglaciali, dando poi inizio all’era glaciale. L’avvicendamento tra Pachycrocuta brevirostris e le altre iene fu uno degli eventi più caratteristici del rinnovamento faunistico avvenuto in quel momento: diversi carnivori specializzati, come le tigri dai denti a sciabola, andarono in declino o si estinsero, mentre si diffusero specie nuove e più adattabili. Tra queste si ricordano le linee evolutive dei moderni cervi, cinghiali, daini e lupi, così come popolazioni umane in grado di produrre strumenti litici bifacciali (come cunei, o asce da pugno).

“Le specie meglio adattate a particolari ambienti o a strategie alimentari, come Pachycrocuta brevirostris, sono quelle più a rischio, ma anche quelle che si sono evolute facendo fronte alle fluttuazioni climatiche dell’ultimo milione di anni potrebbero non essere in grado di adattarsi ai rapidi cambiamenti causati dall’attività umana – conclude Raffaele Sardella di Sapienza. “Studiare la risposta degli ecosistemi del passato è cruciale per interpretare criticamente i cambiamenti climatici che osserviamo attualmente”.

 

Riferimenti:

The extinction of the giant hyena Pachycrocuta brevirostris and a reappraisal of the Epivillafranchian and Galerian Hyaenidae in Europe: faunal turnover during the Early-Middle Pleistocene Transition – Alessio Iannucci, Beniamino Mecozzi, Raffaele Sardella, Dawid Adam Iurino – Quaternary Science Reviews 2021, 272:107240. https://doi.org/10.1016/j.quascirev.2021.107240

 

Testo, video e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

7 MILIONI DI ANNI FA IL COCCODRILLO AFRICANO ATTRAVERSÒ L’ATLANTICO E COLONIZZÒ IL NUOVO MONDO

 

La ricostruzione in 3D dei resti del cranio di un coccodrillo, ritrovato ad As Sahabi (Libia) e conservato per quasi un secolo presso il Museo Universitario di Scienze della Terra (MUST) della Sapienza Università di Roma, ha permesso di identificare nel rettile sahariano l’antenato degli attuali coccodrilli americani. I risultati dello studio, sviluppato da Massimo Delfino dell’Università di Torino in collaborazione con l’Università di Firenze e altri ricercatori italiani, sono stati pubblicati sulla rivista Scientific Reports, permettendo di ripercorrere milioni di anni di storia evolutiva.

Dopo una lunga traversata dell’Oceano Atlantico, l’esploratore scorge in lontananza la terra ferma, un continente fino a quel momento sconosciuto, dove presto però sarebbe stata scritta una nuova storia.

Sembra la narrazione dell’approdo di Cristoforo Colombo nel Nuovo Mondo circa 500 anni fa, eppure si tratta di quanto emerge da un nuovo studio pubblicato sulla rivista Scientific Reports grazie al quale viene ricostruito un tassello della storia evolutiva dei coccodrilli. È possibile che alcuni esemplari di coccodrilli siano partiti circa 7 milioni di anni fa dal Nord Africa, e abbiano verosimilmente attraversato l’Oceano Atlantico per arrivare sulle coste del Sud America, dove si sono adattati e diversificati dando origine alle specie di Crocodylus, che ancora oggi abitano il continente americano.

La ricerca colloca il reperto africano del Miocene, identificato come Crocodylus checchiaialla base dell’albero evolutivo dei coccodrilli americani.

Libia
As Sahabi in Libia: è possibile che – 7 milioni di anni fa – esemplari di coccodrillo africano abbiano attraversato l’Oceano Atlantico

Il lavoro, sviluppato da Massimo Delfino dell’Università di Torino e coordinato da Raffaele Sardella, Direttore del Museo Universitario di Scienze della Terra (MUST) della Sapienza Università di Roma, in collaborazione con l’Università di Firenze, ha permesso di ricostruire in 3D l’unico “superstite” dei cinque crani fossili ritrovati agli inizi degli anni ‘30 nel corso di una spedizione scientifica in Libia, in una località del Sahara settentrionale chiamata As Sahabi. Il fossile studiato è stato conservato nelle collezioni del museo romano per quasi un secolo.

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Il cranio di Crocodylus checchiai ancora conservato al Museo Universitario di Scienze della Terra

“L’esemplare di Crocodylus checchiai – spiega Raffaele Sardella – è il cranio meglio conservato di questa specie vissuta nel Miocene, oltre 7 milioni di anni fa, in Africa, quando il Sahara era un territorio molto diverso da come appare oggi, popolato da grandi mammiferi e ricco di vegetazione e corsi d’acqua”.

 

“Abbiamo visto che il coccodrillo di As Sahabi condivide con le specie americane numerose particolarità anatomiche” – commenta Massimo Delfino, del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino“Ma non solo, abbiamo confrontato, grazie a specifici software, i dati ottenuti con le caratteristiche anatomiche di altre specie sia esistenti che fossili con lo scopo di realizzare una analisi filogenetica che ha chiarito che questa specie rappresenta una sorta di anello di congiunzione fra le specie africane e quelle americane”.

“Il nostro è un risultato di estrema importanza – afferma Lorenzo Rook dell’Università di Firenze – che valorizza le collezioni storiche di un giacimento paleontologico unico per la comprensione dei popolamenti faunistici dell’area circum-mediterranea alla fine del Miocene”.

Attraverso l’uso di scansioni tomografiche i ricercatori hanno ottenuto le immagini 3D sia dell’interno, sia dell’esterno del cranio. Le dimensioni della testa hanno permesso di stabilire che il coccodrillo fosse di età adulta e lungo poco più di 3 metri.

“L’uso di queste tecnologie – aggiunge Dawid A. Iurino, ricercatore del team che ha elaborato le TAC realizzate sul cranio libico, ora all’Università di Perugia – apre grandi prospettive nel campo della ricerca paleontologica e permette di analizzare elementi altrimenti impossibili da osservare”.

I risultati dello studio trovano infatti conferme anche da un punto di vista cronologico. Nel Nuovo Mondo infatti, i fossili più antichi di Crocodylus risalgono all’inizio del Pliocene (5 milioni di anni fa) risultando ben più recenti della specie studiata. È quindi possibile che durante il Miocene alcuni esemplari di C. checchiai (o una forma affine e ancora sconosciuta) abbiano attraversato l’Oceano Atlantico approdando sulle coste del sud America.

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Ricostruzione di Crocodylus checchiai: è possibile che esemplari di coccodrillo africano abbiano attraversato l’Oceano Atlantico

L’attraversamento di un così ampio tratto di mare, che nel Miocene era comunque più breve di oggi, potrebbe apparire sorprendente, ma tra i coccodrilli attuali esistono specie in grado di tollerare l’elevata salinità dell’acqua marina e di compiere ampi spostamenti in mare aperto sfruttando le correnti di superficie. Studi con tracciamento satellitare condotti su alcuni esemplari di coccodrillo marino australiano (Crocodylus porosus), hanno rivelato come, sfruttando le correnti, questi rettili siano in grado di percorrere in diversi giorni oltre 500 km in mare aperto.

I risultati di questo studio rappresentano un importante contributo per ricostruire la storia evolutiva e la paleobiogeografia dei coccodrilli, ovvero le modalità e i tempi con i quali questi rettili hanno colonizzato i diversi continenti raggiungendo la loro attuale distribuzione geografica.

 

Riferimenti:

Old African fossils provide new evidence for the origin of the American crocodiles – Delfino, M., Iurino, D., Mercurio, B., Piras, P., Rook, L., and Sardella, R., 2020, Scientific Reports  https://doi.org/10.1038/s41598-020-68482-5

 

Testo, video e immagine sul coccodrillo africano e l’attraversamento dell’Atlantico dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma e dall’Università degli Studi di Torino.