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Quaternary Science Reviews

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Analizzato per la prima volta il DNA delle iene fossili della Sicilia

Le iene siciliane, che abitavano l’isola prima dell’arrivo di Homo sapiens, appartengono a un gruppo diverso da quelle africane: si tratta di una popolazione “relitta” di iene insulari, caratteristica che le rende uniche al mondo, il cui DNA fossile nei resti biologici è sopravvissuto al clima caldo del Mediterraneo. La pubblicazione su Quaternary Science Reviews.

Palermo, Milano, Roma, Firenze, 28 agosto 2024. Prima ancora che Homo sapiens arrivasse in Sicilia, circa 16 mila anni fa, sull’isola erano molto diffuse le iene del genere Crocuta.

Tra i più iconici carnivori delle savane, la iena macchiata è oggi presente in buona parte dell’Africa sub-sahariana, ma durante il Pleistocene, tra 800 e 16 mila anni fa, era diffusa in territori molto più ampi che includevano l’Europa e l’Asia, mentre l’unica isola dove la presenza di questa specie è stata documentata dai fossili, è la Sicilia. Questa caratteristica rende le iene siciliane uniche da un punto di vista paleobiologico e offre agli studiosi una rara opportunità per comprendere meglio sia gli adattamenti che i processi evolutivi legati all’isolamento geografico di un grande carnivoro, estremamente raro in contesti insulari.

Grazie ai recenti avanzamenti nello studio del DNA antico, negli ultimi anni i paleogenetisti sono stati in grado di analizzare porzioni di DNA di alcune iene fossili, ad oggi tutte provenienti da siti nord europei o dal nord della Russia e della Cina, dove le temperature basse favoriscono la conservazione del materiale genetico. In ambienti a clima caldo, come quello mediterraneo, nei resti antichi il DNA si conserva con maggiori difficoltà.

In un recente studio condotto dai ricercatori delle Università di Palermo, Statale di Milano, Firenze, Roma Sapienza, di Bangor e Cambridge, pubblicato sulla rivista internazionale Quaternary Science Reviews, è stato analizzato per la prima volta il DNA di una iena fossile della Sicilia. 

Il DNA nucleare è stato estratto con successo da un frammento di coprolite, un escremento fossilizzato di iena di oltre 20 mila anni, proveniente dal sito della Grotta San Teodoro (Messina). I risultati delle analisi hanno svelato che le iene siciliane possedevano caratteristiche genetiche molto particolari, uniche tra tutte le iene fossili di cui si conosce il DNA.

DNA delle iene fossili della Sicilia

Giulio Catalano, paleogenetista dell’Università di Palermo e primo autore dello studio, commenta: “Le analisi ci suggeriscono che le iene siciliane siano appartenute a un gruppo genetico molto antico, distinto dalle attuali iene africane e peculiare rispetto alle altre iene fossili”. Prosegue il ricercatore: “Questo insieme di caratteristiche ci fa ipotizzare che un tempo la popolazione di queste iene fosse ampiamente distribuita sul continente, circa 500mila anni fa. Ma arrivate in Sicilia, grazie all’isolamento geografico, questa popolazione ha conservato le proprie caratteristiche genetiche mentre nel resto d’Europa si è invece persa nel corso del tempo. Questo grazie anche al contributo dei diversi scambi genetici avvenuti con le iene africane”.

Questo tipo di analisi permette di ipotizzare che le iene pleistoceniche siciliane possano far parte di una popolazione genetica “relitta”, sopravvissuta sull’isola fino a circa 20 mila anni fa”, sottolinea Raffaele Sardella, paleontologo dell’Università Sapienza di Roma che ha partecipato alla ricerca.

Dawid A. Iurino, paleontologo dell’Università Statale di Milano e coautore dello studio, aggiunge: “Oltre al DNA di iena, nel coprolite abbiamo individuato tracce di DNA equino che ci ha permesso di rivelare il contenuto del pasto di una iena di 20 mila anni fa, costituito da Equus hydruntinus, l’unico equide vissuto in passato sull’isola. La scoperta e l’analisi di questo DNA fossile rappresentano una fonte inesauribile di ispirazione per nuove ricerche che rende il patrimonio geo-paleontologico della Sicilia una risorsa da preservare e valorizzare, in quanto unico nel suo genere”.

Luca Sineo, docente dell’Università di Palermo e responsabile del progetto, commenta: “Grotta San Teodoro, con il suo enorme patrimonio, si conferma tra i più importanti siti europei per lo studio del Pleistocene, ovvero gli ultimi 2.5 milioni di anni. Questa ricerca ha coinvolto studiosi internazionali ed è stata possibili grazie alla collaborazione con il Parco Archeologico di Tindari, la Proloco di Acquedolci e la Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Messina”.

Questo studio dimostra come, ad oggi, lo sviluppo tecnologico consenta di ottenere informazioni genetiche anche da substrati biologici complessi, come i coproliti”, spiega la Dott.ssa Alessandra Modi dell’Università di Firenze che ha partecipato alla ricerca. “Grazie alla grande mole di dati che si possono ottenere da un numero sempre maggiore di resti appartenenti a specie diverse, siamo in grado di delineare con elevata precisione la storia evolutiva non solo dell’uomo, ma di molteplici forme viventi”, conclude David Caramelli, Professore Ordinario di Antropologia dell’Università di Firenze.

Testo e immagini dalla Direzione Comunicazione ed Eventi Istituzionali dell’Ufficio Stampa Università degli Studi di Milano

La iena gigante che non ha resistito ai cambiamenti climatici 
Pachycrocuta brevirostris, la iena gigante dal muso corto diffusa nel Vecchio Mondo durante il Pleistocene, si è estinta in Europa circa 800 mila anni fa a seguito di cambiamenti climatici e ambientali e non a causa della competizione con altre specie che si diffusero nello stesso periodo. A svelarlo un nuovo studio del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza, pubblicato sulla rivista Quaternary Science Reviews.

Un super-predatore un tempo popolava Europa, Asia e Africa, la iena gigante dal muso corto Pachycrocuta brevirostris. Con un peso probabilmente superiore ai 100 chilogrammi, fu la iena più grande mai esistita. Diffusasi in Europa circa due milioni di anni fa, fu uno dei predatori più temibili che si trovarono ad affrontare le prime popolazioni di ominini avventuratesi fuori dall’Africa; sebbene il ruolo diretto delle iene come concorrenti ecologici degli ominini del Pleistocene venga spesso enfatizzato, esse erano comunque una componente unica della fauna incontrata da queste popolazioni.

Pachycrocuta brevirostris iena gigante dal muso corto
Pachycrocuta brevirostris, la iena gigante dal muso corto che non ha resistito ai cambiamenti climatici e ambientali

Le iene sono comunemente note per la loro abilità di rompere le ossa e cibarsi del loro contenuto, e Pachycrocuta brevirostris si era ben adattata a questa abitudine alimentare. La iena gigante era anche in grado di accumulare ossa, come oggi testimoniano alcuni siti che rappresentano un vero tesoro per i paleontologi. Durante il Pleistocene, gli ominini erano l’unico altro gruppo capace di sfruttare le ossa come risorsa alimentare, con l’ausilio di strumenti litici per romperle. Per questo motivo, la possibile competizione di queste popolazioni con la iena gigante suscita un grande interesse tra i ricercatori. Eppure, il motivo per cui la specie si estinse e la tempistica di questo evento in Europa rimanevano ancora avvolti nell’incertezza.

Un nuovo studio, condotto da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Scienze della Terra di Sapienza e pubblicato sulla rivista Quaternary Science Reviews, ha riconsiderato i fossili di Pachycrocuta brevirostris e di altre iene che si diffusero in Europa nel Pleistocene, rivelando che la iena gigante dal muso corto scomparve dall’Europa circa 800 mila anni fa, probabilmente a seguito di cambiamenti climatici e ambientali e non a causa della competizione con altre specie che si diffusero nello stesso periodo.

Pachycrocuta brevirostris, Crocuta crocuta e Hyaena prisca

Studi precedenti avevano infatti ipotizzato che la competizione generata dall’arrivo di Crocuta crocuta, l’attuale iena macchiata, potesse aver giocato un ruolo nell’estinzione di Pachycrocuta brevirostris. Tale ipotesi sarebbe supportata dalla coesistenza delle due specie in alcune località dove la iena gigante sopravvisse più a lungo. Tuttavia, i risultati di questa nuova ricerca vanno nella direzione opposta, escludendo l’ipotesi della compresenza e della competizione diretta tra queste iene.

“La scomparsa della iena gigante dall’Europa circa 800 mila anni fa – commenta Alessio Iannucci di Sapienza, primo nome dello studio – è pressappoco coincidente con l’arrivo della iena macchiata, Crocuta crocuta, e di un’altra specie meno nota, la “Hyaena” prisca. Tuttavia, queste specie furono in grado di diffondersi in Europa solo dopo il declino della iena gigante e non contribuirono alla sua estinzione”.

La iena gigante dunque, un tempo diffusa in tutto il continente, non fu in grado di far fronte ai cambiamenti climatici e ambientali che avvennero durante la transizione tra Pleistocene Inferiore e Pleistocene Medio, la cosiddetta “Early–Middle Pleistocene Transition”. Si tratta di un periodo che vide acuirsi l’intensità delle fluttuazioni tra intervalli glaciali e interglaciali, dando poi inizio all’era glaciale. L’avvicendamento tra Pachycrocuta brevirostris e le altre iene fu uno degli eventi più caratteristici del rinnovamento faunistico avvenuto in quel momento: diversi carnivori specializzati, come le tigri dai denti a sciabola, andarono in declino o si estinsero, mentre si diffusero specie nuove e più adattabili. Tra queste si ricordano le linee evolutive dei moderni cervi, cinghiali, daini e lupi, così come popolazioni umane in grado di produrre strumenti litici bifacciali (come cunei, o asce da pugno).

“Le specie meglio adattate a particolari ambienti o a strategie alimentari, come Pachycrocuta brevirostris, sono quelle più a rischio, ma anche quelle che si sono evolute facendo fronte alle fluttuazioni climatiche dell’ultimo milione di anni potrebbero non essere in grado di adattarsi ai rapidi cambiamenti causati dall’attività umana – conclude Raffaele Sardella di Sapienza. “Studiare la risposta degli ecosistemi del passato è cruciale per interpretare criticamente i cambiamenti climatici che osserviamo attualmente”.

 

Riferimenti:

The extinction of the giant hyena Pachycrocuta brevirostris and a reappraisal of the Epivillafranchian and Galerian Hyaenidae in Europe: faunal turnover during the Early-Middle Pleistocene Transition – Alessio Iannucci, Beniamino Mecozzi, Raffaele Sardella, Dawid Adam Iurino – Quaternary Science Reviews 2021, 272:107240. https://doi.org/10.1016/j.quascirev.2021.107240

 

Testo, video e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Quando le linci pardine popolavano l’Europa: dal Gargano nuove testimonianze sull’evoluzione di questi felini oggi a rischio di estinzione  

Un nuovo studio coordinato dal Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza e dall’Università di Perugia, con il contributo di altri enti e atenei internazionali, ha dimostrato per la prima volta che durante il Pleistocene la specie più diffusa nel nostro continente era la lince pardina. Questo singolare felino, dalla coda corta ma dalla lunga storia, oggi popola solo la penisola iberica ed è ad alto rischio di scomparsa. I risultati del lavoro sono stati pubblicati su Quaternary Science Reviews

La lince pardina (Lynx pardinus), che per sotto molti aspetti ricorda i suoi simili europei dalla coda corta, si distingue da questi ultimi per i caratteristici pennacchi sulle orecchie, i ciuffi sotto il mento e le macchie ben definite che spiccano sul pelo bruno-giallastro. Questo felino oggi vive soltanto in ristrette aree della penisola iberica ed è oggetto di numerosi progetti di conservazione e salvaguardia.

Un team di studiosi e paleontologi della Sapienza e dell’Università di Perugia, con il contributo di altri enti e università internazionali, ha ricostruito la storia evolutiva di questo predatore in nuovo studio pubblicato sulla rivista Quaternary Science Reviews. I risultati del lavoro hanno dimostrato come le linci pardine abbiano avuto una storia evolutiva distinta rispetto a quelle eurasiatiche, diffuse nella penisola italiana solo in tempi molto più recenti.

L’analisi dei numerosi fossili rinvenuti nel Gargano, in Puglia, ha permesso infatti ai ricercatori di comprendere come migliaia di anni fa, nel corso del Pleistocene, la lince pardina fosse diffusa in gran parte dell’Europa mediterranea, mentre l’attuale lince eurasiatica, Lynx lynx, fosse meno diffusa di quanto comunemente creduto finora.

Cranio della lince da Ingarano

“I fossili studiati, conservati presso il Dipartimento di Scienze della Terra del nostro Ateneo, rappresentano il più ricco campione di resti di crani, mandibole e denti attribuibili a linci pleistoceniche – spiega Raffaele Sardella della Sapienza. “Sebbene precedentemente attribuiti alla lince eurasiatica, rappresentano in realtà esemplari di lince pardina. Le nuove analisi hanno dimostrato infatti che questo felino era molto più diffuso migliaia di anni fa di quanto si sapesse, con una distribuzione geografica che includeva tutta l’Europa mediterranea”.

linci pardine
Cranio ricostruito digitalmente della lince da Ingarano

Un ruolo di primo piano nello studio lo hanno avuto le analisi tomografiche, eseguite da Dawid A. Iurino, dell’Università di Perugia e coordinatore dello studio, che hanno permesso ai ricercatori di restaurare, virtualmente e senza comprometterne lo stato, i crani garganici e di studiarne l’anatomia in dettaglio.

“La ricostruzione della massa corporea – aggiunge Beniamino Mecozzi della Sapienza – rivela come le linci pardine del passato fossero comunque in generale più grandi rispetto a quelle che oggi sopravvivono nella penisola iberica. La forte contrazione dell’areale e la drastica riduzione del numero di individui, oggi solo poche decine di esemplari, è una condizione raggiunta all’inizio del Novecento”.

Le attuali popolazioni iberiche quindi rappresentano gli ultimi eredi di una linea evolutiva di linci molto antiche. Lo studio aggiunge un ulteriore elemento a sostegno della protezione di un felino dalla coda corta, ma dalla lunga storia.

linci pardine
Ricostruzione delle linci pardine da Ingarano

Riferimenti:

The tale of a short-tailed cat: new outstanding Late Pleistocene fossil Lynx pardinus from southern Italy – Mecozzi B., Sardella R., Boscaini A., Cherin M., Costeur L., Madurell-Malapeira J., Pavia M., Profico A., Iurino D.A. (2021). Quaternary Science Reviews. DOI: 10.1016/j.quascirev.2021.106840

Testo, video e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma