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Nuove frontiere terapeutiche per il trattamento del glioblastoma: rivelato il meccanismo di riprogrammazione metabolica di una specifica popolazione di neutrofili (CD71+) presenti nel microambiente del tumore cerebrale

Uno studio internazionale, frutto della collaborazione tra la Sapienza e l’Istituto Wistar, rivela il meccanismo di riprogrammazione metabolica di una specifica popolazione di neutrofili presenti nel microambiente del tumore cerebrale. I risultati della ricerca, pubblicati su “Cancer Discovery”, aprono nuove strade per lo sviluppo di strategie terapeutiche più efficaci per il trattamento del glioblastoma.

A oggi il glioblastoma rimane, tra i tumori cerebrali nell’adulto, la forma più aggressiva e maggiormente resistente alle terapie. La scarsa efficacia delle opzioni terapeutiche disponibili è dovuta alle caratteristiche biologiche proprie del microambiente di questo tumore. L’ampia eterogeneità cellulare, la forte ipossia, cioè la carenza di ossigeno, e l’immunosoppressione rendono inefficienti anche gli approcci terapeutici più recenti.

Lo studio, pubblicato sulla rivista internazionale “Cancer Discovery” che ha visto la partecipazione del Dipartimento di Medicina Sperimentale della Sapienza, ha svelato il meccanismo con cui i neutrofili esprimenti il recettore per la transferrina (CD71) modificano il loro metabolismo in corrispondenza delle aree tumorali ipossiche. Il cambiamento metabolico di queste cellule potenzia la loro capacità immunosoppressoria, facilitando di conseguenza la progressione del glioblastoma.

In particolare, l’ambiente ipossico induce i neutrofili CD71+ a produrre una maggiore quantità di lattato. Questo metabolita è responsabile della lattilazione degli istoni, proteine che interagiscono con il DNA, e della conseguente produzione di arginasi-1, un enzima che contribuisce a bloccare la risposta dei linfociti T anti-tumorali. Lo studio ha evidenziato che bloccando la lattilazione degli istoni, si riduce la funzione immunosoppressoria dei neutrofili CD71+, rallentando la crescita tumorale.

Questo processo molecolare sembra essere particolarmente rilevante nel sostenere l’immunosoppressione nel glioblastoma. Infatti, lo stesso gruppo di ricercatori Sapienza-Wistar aveva descritto in un precedente lavoro che la lattilazione aumenta la capacità soppressoria dei macrofagi GLUT1+, infiltranti il microambiente tumorale.

“Il nostro lavoro – precisa Aurelia Rughetti, coordinatrice del team della Sapienza -sottolinea come la funzionalità delle cellule immunitarie infiltranti il tumore sia finemente regolata a livello epigenetico dalla lattilazione degli istoni. Interferire con questo processo molecolare, che interessa sia i neutrofili CD71+ che i macrofagi GLUT1+, può tradursi in una efficace strategia terapeutica per ridurre l’immunosoppressione, contrastare i meccanismi di resistenza del tumore e potenziare l’efficacia della target therapy e dell’immunoterapia.”

Al progetto hanno partecipato Alessio Ugolini, Fabio Scirocchi e Angelica Pace, alumni del Dottorato di Network Oncology and Precision Medicine, coordinati da Aurelia Rughetti e Marianna Nuti del Dipartimento di Medicina Sperimentale e i clinici Luca D’Angelo e Antonio Santoro della UOC di Neurochirurgia del Policlinico Universitario Umberto I.

Riferimenti bibliografici:

Ugolini A, De Leo A, Yu X, Scirocchi F, Liu X, Peixoto B, Scocozza D, Pace A, Perego M, Gardini A, D’Angelo L, Liu JKC, Etame AB, Rughetti A, Nuti M, Santoro A, Vogelbaum MA, Conejo-Garcia JR, Rodriguez PC, Veglia F. Functional reprogramming of neutrophils within the brain tumor microenvironment by hypoxia-driven histone lactylation, Cancer Discov. 2025 Feb 28, doi: 10.1158/2159-8290.CD-24-1056

Nuove frontiere terapeutiche per il trattamento del glioblastoma: il meccanismo di riprogrammazione metabolica di una specifica popolazione, i neutrofili CD71+ presenti nel microambiente del tumore cerebrale. Immagine di Gerd Altmann 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Un nuovo target terapeutico per il glioblastoma: descritto un nuovo meccanismo molecolare, responsabile della riprogrammazione metabolica dei macrofagi GLUT1+, che contribuisce all’inibizione della risposta immunitaria nel glioblastoma.

Uno studio internazionale, che ha visto la partecipazione di ricercatori della Sapienza Università di Roma, ha descritto un nuovo meccanismo molecolare che contribuisce all’inibizione della risposta immunitaria nel glioblastoma da parte di una specifica popolazione cellulare immunitaria, esasperando così l’aggressività di questo tumore. I risultati di questo studio, pubblicato sulla rivista Immunity, propongono nuovi bersagli cellulari e molecolari per il disegno di approcci terapeutici innovativi per il glioblastoma.

Il glioblastoma è la forma più aggressiva di tumore cerebrale nell’adulto e le opzioni terapeutiche oggi disponibili sono molto limitate. La marcata ipossia (mancanza di ossigeno) e l’immunosoppressione che caratterizzano il microambiente di questo tumore rendono inefficaci anche le più recenti strategie di immunoterapia.

Un nuovo studio pubblicato sulla rivista Immunity, frutto della collaborazione tra i ricercatori del Moffitt Cancer Center di Tampa in Florida, coordinati da Filippo Veglia, e i ricercatori del Dipartimento di Medicina Sperimentale della Sapienza Università di Roma, coordinati da Aurelia Rughetti, ha identificato una sottopopolazione di cellule immunitarie, i macrofagi, caratterizzata da livelli elevati del recettore del glucosio (GLUT1) che mostrano una marcata capacità immunosoppressoria, in grado di inibire la risposta immunitaria e favorire la progressione del glioblastoma.

“Il nostro lavoro – spiega Aurelia Rughetti della Sapienza – ha evidenziato che l’attività immunosoppresssoria dei macrofagi GLUT1+ presenti nel tumore è regolata a livello epigenetico dalla lattilazione, che prevede l’aggiunta del lattato sui residui di lisina degli istoni. Questo meccanismo molecolare, recentemente descritto, sembra essere responsabile della riprogrammazione metabolica della popolazione macrofagica GLUT1+ che risulta così in grado di sopprimere i linfociti T anti-tumoraliˮ.

La caratterizzazione di questa popolazione cellulare immunosoppressoria e l’identificazione del meccanismo molecolare con cui i macrofagi sono riprogrammati nel tumore rappresentano nuovi potenziali target per lo sviluppo di  nuovi approcci terapeutici con cui rimuovere il blocco dell’immunosoppressione e poter così potenziare l’efficacia delle terapie immunologiche.

Al progetto hanno partecipato i dottorandi Alessio Ugolini, Fabio Scirocchi e Angelica Pace del Dottorato di Network Oncology and Precision Medicine coordinati da Aurelia Rughetti e Marianna Nuti del Dipartimento di Medicina Sperimentale e i clinici Luca D’Angelo e Antonio Santoro della UOC di Neurochirugia del Policlinico Universitario Umberto I.

Riferimenti bibliografici:

Glucose-driven histone lactylation promotes the immunosuppressive activity of monocyte-derived macrophages in glioblastoma – De Leo A, Ugolini A, Yu X, Scirocchi F, Scocozza D, Peixoto B, Pace A, D’Angelo L, Liu JKC, Etame AB, Rughetti A, Nuti M, Santoro A, Vogelbaum MA, Conejo-Garcia JR, Rodriguez PC, Veglia F. – Immunity 2024, DOI: 10.1016/j.immuni.2024.04.006.

Immagine istologica del glioblastoma macrofagi
Immagine istologica del glioblastoma. Foto di KGH, CC BY-SA 3.0

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Long COVID in bambini e adolescenti: verso la comprensione dei meccanismi alla base della persistenza dei sintomi associati all’infezione da SARS-CoV-2 anche in età pediatrica

Uno studio condotto da ricercatori della Sapienza e pubblicato sulla rivista European Journal of Immunology ha evidenziato un’alterazione dei livelli trascrizionali degli interferoni di tipo I in bambini e adolescenti con sindrome da long COVID a partire dai 3/6 mesi dalla guarigione dal SARS-CoV-2.

Il long COVID è una sindrome caratterizzata dalla persistenza di segni clinici e sintomi correlati all’infezione da SARS-CoV-2. A oggi manca ancora una chiara comprensione dei meccanismi immunopatogenetici alla base di questo fenomeno. Molti pazienti descrivono effetti a lungo termine dell’infezione, quali affaticamento, cefalea, dispnea, anosmia e disturbi gastro-intestinali.

In un nuovo studio pubblicato sulla rivista European Journal of Immunology, frutto della collaborazione tra Raphael Viscidi della Johns Hopkins University di Baltimora e i gruppi di ricerca coordinati da Guido Antonelli del Dipartimento di Medicina molecolare e Fabio Midulla del Dipartimento di Pediatria e neuropsichiatria infantile della Sapienza, entrambi impegnati come direttori di Unità presso l’AOU Policlinico Umberto I,  è stato valutato il coinvolgimento del sistema degli interferoni – molecole prodotte naturalmente dalle cellule in risposta a infezioni virali – nello sviluppo e nella persistenza dei sintomi associati al Long COVID in età pediatrica, anche a distanza di tempo dall’infezione.

Le alterazioni nella produzione degli interferoni di tipo I a livello mucosale e sistemico nella fase precoce dell’infezione da SARS-CoV-2 erano già state associate a forme gravi di COVID-19 negli adulti; così come era stato evidenziato che una pre-attivazione dell’immunità innata può determinare una risposta anti-SARS-CoV-2 più rapida ed efficace nella popolazione pediatrica. Ma il fatto che un numero crescente di bambini e adolescenti continui a manifestare sintomi debilitanti anche dopo la risoluzione dell’infezione da SARS-CoV-2, ha portato i ricercatori a considerare un possibile coinvolgimento degli interferoni nello sviluppo e nella persistenza dei sintomi associati al Long COVID anche in età pediatrica.

In questo nuovo lavoro sono state osservate differenze nell’espressione degli interferoni di tipo I strettamente associate all’età: mentre negli adolescenti (12-17 anni) è stato riscontrato un aumento dei livelli trascrizionali I (particolarmente pronunciato in chi manifesta sintomi neurologici), nei bambini (6-11 anni) ne è stata osservata una diminuzione. È stato possibile registrare tale fenomeno sia in chi ha contratto l’infezione da SARS-CoV-2 ma non ha sviluppato sintomi Long COVID sia nei controlli sani.

“L’importanza della nostra ricerca – spiega Guido Antonelli – sta nel fatto di aver eseguito una dettagliata analisi trascrittomica degli interferoni di tipo I su un numero elevato di bambini ed adolescenti con long COVID, osservati a distanza di 3-6 mesi dalla fase acuta dell’infezione da SARS-CoV-2, che non avevano ancora aderito ai programmi di vaccinazione. Sono stati inoltre indagati ed esclusi possibili co-fattori che potessero alterare le analisi sulla risposta interferonica, quali la presenza di autoanticorpi neutralizzanti gli interferoni di tipo I”.

“Il nostro studio – dichiara Carolina Scagnolari, coordinatrice Sapienza della ricerca – aggiunge nuovi elementi alla comprensione dei meccanismi immunopatogenetici associati al long COVID”.

“Scenari immunologici interferon-correlati, distinti e opposti – continua Matteo Fracella del Dipartimento di Medicina molecolare della Sapienza – potrebbero influenzare in modo selettivo l’evolversi del long COVID nelle diverse fasce d’età”.

“L’individuazione dei meccanismi immunopatogenetici che sono alla base del Long COVID potrà essere di ausilio per una migliore gestione clinica terapeutica dei pazienti in età pediatrica” – conclude Fabio Midulla, responsabile del Pronto soccorso pediatrico del Policlinico Umberto I di Roma.

Riferimenti bibliografici:

Age-related transcript changes in type I interferon signaling in children and adolescents with long COVID – Fracella M, Mancino E, Nenna R, Virgillito C, Frasca F, D’Auria A, Sorrentino L, Petrarca L, La Regina D, Matera L, Di Mattia G, Caputo B, Antonelli G, Pierangeli A, Viscidi RP, Midulla F, Scagnolari C – Eur J Immunol. 2024, doi: 10.1002/eji.202350682

ospedale RNA circolari e rabdomiosarcoma
Long COVID in bambini e adolescenti: verso la comprensione dei meccanismi alla base della persistenza dei sintomi associati all’infezione da SARS-CoV-2 anche in età pediatrica. Foto di djedj

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Cerimonia di inaugurazione di CARE il Centro multidisciplinare per l’applicazione della medicina digitale

La nuova Unità di Coordinamento segue 4 progetti PNRR dedicati all’applicazione della medicina digitale analizzando e comparando i dati della ricerca scientifica della Sapienza con i dati clinici del Policlinico Umberto I.

Gruppo di lavoro CARE medicina digitale

In data odierna è stato inaugurato il CARE, nuova unità di Centro multidisciplinaRE per l’applicazione della medicina digitalE. Le attività del CARE sono mirate alla realizzazione degli obiettivi e delle attività multi- e trans-disciplinari previste e finanziate dai progetti che hanno come denominatore comune la Medicina Digitale e operano in una infrastruttura di ricerca comune nel contesto di un ecosistema di innovazione.

Antonella Polimeni e Domenico Alvaro
Antonella Polimeni e Domenico Alvaro

Alla cerimonia erano presenti la rettrice Antonella Polimeni, il direttore generale del Policlinico Umberto I Fabrizio d’Alba e il coordinatore dell’Unità nonché preside della Facoltà di Medicina e odontoiatria della Sapienza Domenico Alvaro.

Domenico Alvaro e Valeria Panebianco
Domenico Alvaro e Valeria Panebianco

L’Unità di Coordinamento, nata con lo scopo di razionalizzare risorse umane, tecnologiche e finanziarie, consente ai ricercatori di operare in uno spazio comune, utilizzando strumentazioni e piattaforme informatiche acquisite attraverso le risorse dei progetti finanziati. Qui lavorano e lavoreranno fino al 2027 anche quindici giovani ricercatori e dottorandi che sono stati reclutati con i progetti PNRR: tra l’altro, potranno utilizzare il cosiddetto “Digital Twin”, ovvero un modello tramite cui si crea una copia virtuale del paziente al quale applicare teoricamente sia degli iter diagnostici che prognostici. Durante la cerimonia sono state illustrate le attività di raccolta dei big data ottenuti grazie al super cervellone presente nella sede e i primi risultati dei progetti della nuova unità condotti dal team di giovani ricercatori di CARE.

In particolare, i progetti sono finanziati dal Ministero della Salute, da fondi PNRR e PNC (Piano Nazionale Complementare) e si identificano con i seguenti acronimi: e-DAI, Rome Technopole, HEAL ITALIA e D3-4-HEALTH, che rappresentano iniziative all’avanguardia nel campo dell’innovazione sanitaria, ciascuna affrontando sfaccettature distinte ma interconnesse per la Salute del Futuro.

Tutti i progetti si basano sulla trasformazione, creazione, elaborazione/analisi e classificazione dei dati digitali provenienti dalle sorgenti di sistemi utilizzati per la diagnosi e la cura di patologie specifiche, in particolare quelle ad alto impatto sul SSN (patologie neoplastiche, degenerative, dismetaboliche ecc.) sia perché croniche sia perché produttrici di una gran quantità di dati (big data). I big data oggi sono sostenibili se “trattati” con algoritmi ad alta specializzazione come quelli di Intelligenza Artificiale e di Network Analisi.

I progetti sono concepiti secondo un asse piramidale che parte dall’implementazione di una piattaforma digitale molto performante, appena installata al CARE, e prodotto dei primi obiettivi stabiliti nel progetto del Piano Operativo Salute (POS) finanziato dal Ministero della Salute e-DAI (Ecosistema digitale per analisi integrata di dati sanitari eterogenei relativi a patologie ad alto impatto: modello innovativo di assistenza e ricerca). Partecipano al POS vari affiliati operanti lungo l’asse centro-sud delle infrastrutture digitali per la gestione sia in termini predittivi, diagnostici che terapeutici di patologie croniche come quelle oncologiche ad alta incidenza e prevalenza, metaboliche e neuro-degenerative.

Il trattamento dei big data, dei dati digitali sanitari, attraverso questi algoritmi ad alta specialità trovano la massima espressione e si concretizzano attraverso la Medicina di Precisione, rappresentata dalla Diagnostica di Precisione e dal trattamento personalizzato ed adattato alle caretteristiche fenotipiche e genotipiche del singolo paziente. È questa la linea di ricerca promossa dal Partenariato Esteso 6 (PE6) HEAL ITALIA (Health extended alliance for innovative therapies, advanced lab-research, and integrated approaches of Precision Medicine), di cui l’HUB è rappresentato dall’Università di Palermo. Grande enfasi e spazio viene dedicato nello SPOKE 4, di cui Sapienza è leader, alla diagnostica di precisione (imaging, digital pathology e omics) applicata anche in questo caso a patologie poligeniche ad alto impatto (cardiovascolari e metaboliche), oncologiche e malattie rare.

Chiude il cerchio il progetto finanziato dai fondi per il Piano Nazionale Complementare con acronimo D3-4-HEALTH (digital, driven, diagnostics, prognostics and therapeutics for sustainable health care) di cui Sapienza rappresenta HUB nazionale e che vede coinvolte Università pubbliche e private, Istituti di ricerca e Imprese. Costituito da 4 SPOKE, si propone di ottenere come obiettivo finale il percorso digitale dei pazienti attraverso la creazione di un Digital Twin e Biological Twin, che saranno espressione di avanzamento della ricerca scientifica con inevitabile ricadute cliniche sull’ottimizzazione della cura del paziente. Gli obiettivi progettuali spaziano dall’elaborazione di dati con algoritmi di alta specializzazione, allo sviluppo di tecnologie indossabili, biosensori e biomarcatori di imaging e di omica, alla costruzione di modelli predittivi che riguardano, in particolare, 5 patologie di riferimento: neoplasia metastatica del colon-retto, tumori del fegato e delle vie biliari, tumori del sistema nervoso centrale, diabete mellito di tipo I e sclerosi multipla.

Parallelamente allo sviluppo dei progetti menzionati, Rome Technopole alimenterà la filiera di ricerca, formazione e innovazione in sinergia con il mondo imprenditoriale, nell’ambito di tre direttrici tematiche ad alta priorità per il Lazio: la transizione energetica, la transizione digitale e i settori legati al biopharma e alla salute.

Insieme, queste iniziative rappresentano una visione olistica per il futuro della sanità nazionale in una dimensione internazionale, unendo innovazione tecnologica, collaborazione interdisciplinare e un profondo impegno nell’affrontare diverse sfide per migliorare il benessere della popolazione.

L’Iniziativa rappresenta, inoltre, una grande opportunità per i giovani ricercatori, offrendo la possibilità di far parte di un programma di Ricerca e Sviluppo (R&S) finalizzato all’innovazione del sistema sanitario attraverso la transizione tecnologica digitale, in cui Ricerca e Impresa si incontrano per promuovere e sostenere congiuntamente ricerca di alto livello, trasferimento tecnologico e alta formazione.

Inoltre, la messa in opera delle soluzioni proposte avrà un effetto diretto e indiretto sui tre assi intorno ai quali è stato costruito il PNRR: promuovere la digitalizzazione e l’innovazione, influenzare e migliorare la transizione ecologica nazionale e infine favorire l’inclusione sociale, in particolare riguardo al divario Nord-Sud, garantendo l’uguaglianza nell’accesso alle migliori cure per tutti i cittadini. Si prevede un aumento degli investimenti pubblici e privati in ricerca e sviluppo grazie a un livello di collaborazione più efficace tra l’accademia e il mondo industriale, ed uno sviluppo di competenze scientifico-tecnologiche nel campo delle tecnologie digitali, della transizione ambientale e dei modelli di gestione.

 

 

Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Bronchiolite in età pediatrica: negli ultimi anni casi più gravi associati a nuove varianti del virus VRS

Uno studio condotto da ricercatori della Sapienza in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità e pubblicato sulla rivista internazionale Journal of Infection della Elsevier ha caratterizzato le varianti genetiche del virus emerse nel periodo post-pandemico, associate a forme di bronchiolite particolarmente gravi nei bambini.

Negli ultimi anni sono aumentati i casi gravi di bronchiolite nei bambini, e all’impennata hanno contribuito varianti del virus respiratorio sinciziale (VRS), responsabile della malattia. Lo suggeriscono i risultati di uno studio condotto dai virologi della Sapienza di Roma in collaborazione con il Dipartimento di Malattie infettive dell’Istituto Superiore di Sanità pubblicato dal Journal of Infection,

La bronchiolite è una malattia spesso associata all’infezione da VRS che può causare insufficienza respiratoria soprattutto nei bambini con età inferiore a un anno. È importante riuscire a comprendere perché alcuni di loro sviluppino forme cliniche molto gravi e tali da richiedere l’ospedalizzazione e ricovero in terapia intensiva. La caratterizzazione di questi casi, inclusa l’individuazione di ceppi virali che provocano un decorso severo dell’infezione, è di fondamentale importanza per una migliore gestione clinica e terapeutica dei pazienti e per l’utilizzo mirato di misure profilattiche già disponibili o disponibili a breve, come anticorpi monoclonali e vaccini anti-VRS.

La ricerca, finanziata da un progetto Ccm del ministero della Salute, ha analizzato i casi ospedalizzati per bronchiolite presso i reparti del Dipartimento Materno Infantile del Policlinico Umberto I nelle stagioni pre-pandemiche, durante e dopo la pandemia, utilizzando i dati della piattaforma di sorveglianza RespiVirNet dell’Iss.

I risultati hanno dimostrato che nell’autunno 2021 si è verificato un numero di ospedalizzazioni per bronchiolite da VRS quasi doppio rispetto ai periodi pre-pandemici, probabilmente per effetto dell’allentamento delle misure di contenimento del virus. La malattia è stata causata principalmente da ceppi di VRS sottotipo A, che circolavano anche prima della pandemia di COVID-19, e la gravità è stata simile a quella delle stagioni precedenti. Diversamente, le ospedalizzazioni per bronchiolite del 2022-2023, in numero simile all’anno precedente, sono state principalmente causate da nuove varianti genetiche di VRSVù sottotipo B, associate a una maggiore severità della malattia se confrontata a quella delle stagioni precedenti, soprattutto per l’elevata necessità di supporto respiratorio e di ricovero in terapia intensiva.

“Un punto di forza delle nostre ricerche – spiega Guido Antonelli della Sapienza – è quello di aver svolto un’analisi virologica dettagliata su un numero elevato di pazienti pediatrici ospedalizzati per bronchiolite durante le ultime sei stagioni invernali dal 2018-2019 al 2022-2023. In tutti i bambini ricoverati, è stata eseguita la caratterizzazione molecolare e il sequenziamento del ceppo di VRS e una analisi statistica dettagliata dei dati demografici e clinici associati ad un maggiore rischio di forme gravi di bronchiolite.”

“Il nostro studio – spiegano Alessandra Pierangeli e Carolina Scagnolari, coordinatrici della ricerca condotta in stretta collaborazione con il gruppo di pediatri diretti da Fabio Midulla e il coordinamento del Dipartimento di Malattie Infettive dell’Istituto Superiore di Sanità diretto da Anna Teresa Palamara – aggiunge nuovi elementi alla comprensione dei meccanismi patogenetici associati alle varianti di VRS circolanti nel periodo post-pandemico. In effetti sembra che la maggiore severità della patologia e l’aumento degli ingressi in terapia intensiva riscontrato nei casi di VRS sottotipo B, nel 2022-2023 non sono spiegabili solo dal debito immunitario associato ai periodi di lockdown”.

“Lo studio – sottolinea Palamara – evidenzia la necessità di rafforzare la sorveglianza epidemiologica a livello nazionale di VRS, così come degli altri virus respiratori circolanti soprattutto nei mesi invernali, e di progetti di sequenziamento genomico integrati da studi che possano monitorare infettività e patogenicità delle varianti virali. Attraverso dati come quelli evidenziati da questo studio è possibile prevedere l’intensità dei picchi stagionali di casi di bronchiolite allo scopo di razionalizzare le risorse sanitarie”.

Riferimenti:

Genetic diversity and its impact on disease severity in respiratory syncytial virus subtype-A and -B bronchiolitis before and after pandemic restrictions in Rome – A. Pierangeli, R. Nenna, M. Fracella, C. Scagnolari, G. Oliveto, L. Sorrentino, F. Frasca, M.G. Conti, L. Petrarca, P. Papoff, O. Turriziani, G. Antonelli, P. Stefanelli, A.T. Palamara, F. Midulla – Journal of Infection https://doi.org/10.1016/j.jinf.2023.07.008

bronchiolite nuove varianti VRS
Foto di Brandon Holmes 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Vaccinazione anti COVID-19: non solo le patologie pregresse e l’età, ma anche il sesso e lo stile di vita influenzano la risposta immunitaria acquisita

Un nuovo studio, promosso dalla Sapienza e dal Policlinico Umberto I, ha identificato i fattori demografici, clinici e sociali che interferiscono con la risposta immunitaria in seguito alla vaccinazione anti COVID-19. I risultati del lavoro, pubblicati sulla rivista Journal of Personalized Medicine, aprono la strada a programmi vaccinali personalizzabili.

 

È ormai noto che per il controllo a lungo termine della pandemia da COVID-19 risulta cruciale l’immunità indotta dal vaccino. Tuttavia, diverse variabili possono incidere sulla capacità degli individui di acquisire quest’immunità.

Una nuova ricerca interamente italiana, promossa dalla Sapienza e dal Policlinico Umberto I e coordinata da Stefania Basili del Dipartimento di Medicina traslazionale e di precisione della Sapienza, ha permesso di individuare una correlazione tra la risposta immunitaria acquisita dopo la somministrazione del vaccino anti COVID-19 e alcune variabili demografiche, cliniche e sociali, tra cui l’età, il sesso, le malattie pregresse, l’abitudine tabagica e lo stato civile.

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Vaccinazione anti COVID-19: non solo le patologie pregresse e l’età, ma anche il sesso e lo stile di vita influenzano la risposta immunitaria acquisita. Foto di PIRO4D

Lo studio, pubblicato sulla rivista Journal of Personalized Medicine, è frutto della collaborazione dei dipartimenti universitari della Sapienza con il Policlinico Umberto I e ha visto la partecipazione degli operatori della salute dell’ospedale universitario.

Un campione di 2065 lavoratori sanitari del Policlinico Umberto I, a cui era stato somministrato il vaccino anti COVID-19 a mRNA di Pfizer BioNTech, è stato sottoposto a due prelievi di sangue, dopo 1 mese e dopo 5 mesi dalla seconda vaccinazione.

“A tutti i soggetti coinvolti – spiega Stefania Basili, coordinatrice dello studio– è stato somministrato un questionario per raccogliere informazioni personali ed è stato eseguito un test sierologico quantitativo in grado di rilevare gli anticorpi anti-proteina S (Spike) del virus Sars-CoV2, il miglior strumento per valutare l’immunità acquisita a seguito della vaccinazione o dell’infezione”.

Dai risultati è emerso che dopo un mese dalla vaccinazione i soggetti con una pregressa infezione da COVID-19 e quelli più giovani hanno livelli di anticorpi più alti rispetto alle altre persone del campione considerato. Al contrario, le malattie autoimmuni, le patologie polmonari croniche e il tabagismo sono correlati ai più bassi livelli di risposta anticorpale.

Dopo cinque mesi dalla vaccinazione si è osservata una diminuzione mediana del 72% del livello anticorpale, che però è meno evidente nelle donne e nei soggetti con infezione pregressa. Invece nei fumatori, negli ipertesi e nei meno giovani è stato riscontrato un crollo drammatico di circa l’82% dei livelli di anticorpi anti-Spike.

Tra gli autori della ricerca anche la rettrice della Sapienza Antonella Polimeni, che dichiara “lo studio mette in rilievo come il perseguimento della salute, anche di fronte a situazioni pandemiche, sottenda a un più generale principio di benessere sociale. I fattori legati agli stili di vita, infatti, hanno un ruolo rilevante nella risposta immunitaria. La prima cura è quindi l’innalzamento della cultura sanitaria e degli standard qualitativi di vita”.

I ricercatori hanno inoltre rivelato un mantenimento maggiore della risposta anticorpale nei soggetti single o conviventi rispetto ai soggetti sposati, divorziati o vedovi, anche se questa associazione potrebbe essere dovuta ad altre variabili cliniche inesplorate, come lo stile alimentare e l’indice di massa corporea.

 “Gli esiti di questo lavoro che ancora una volta sottolineano l’importanza degli stili di vita – dichiara Fabrizio d’Alba, direttore generale del Policlinico Umberto I – ci rendono sempre confidenti della validità del percorso intrapreso da Sapienza e Umberto I. Un percorso comune in un’ottica di scambio sinergico che renderà più forte la nostra comunità scientifica”.

Lo studio, spiega Domenico Alvaro, preside della Facoltà di Medicina ed odontoiatria, è una dimostrazione di come Azienda ed Ateneo siano in assoluta sintonia anche nella ricerca, ed in particolare in settori così rilevanti per la salute pubblica. Inoltre, la ampia partecipazione del personale sanitario dimostra il senso di responsabilità per raggiungere dei risultati che, anche nei confronti di COVID-19, rappresentano un ulteriore stimolo a perseguire sani stili di vita.

“Sebbene il nostro studio abbia confermato molte correlazioni già note, ha anche preso in considerazione per la prima volta – conclude Stefania Basili – molti fattori tra cui il livello di istruzione, il tipo di lavoro, lo stato civile e il carico di coinvolgimento familiare. Al di là dei risultati, l’auspicio è che la nostra analisi possa incoraggiare ulteriori ricerche a indagare gli effetti delle variabili legate al genere e allo stile di vita sulla risposta immunitaria, facendo emergere una medicina personalizzata e di precisione.”

 

Riferimenti:
Serological Response and Relationship with Gender-Sensitive Variables among Healthcare Workers after SARS-CoV-2 Vaccination – Roberto Cangemi, Manuela Di Franco, Antonio Angeloni, Alessandra Zicari, Vincenzo Cardinale, Marcella Visentini, Guido Antonelli, Anna Napoli, Emanuela Anastasi, Giulio Francesco Romiti, Fabrizio d’Alba, Domenico Alvaro, Antonella Polimeni, Stefania Basili, SAPIENZAVAX Collaborators – Journal of Personalized Medicine (2022) https://doi.org/10.3390/jpm12060994

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Biomarcatori definiscono la fitness immunologica necessaria per la risposta clinica all’immunoterapia dei pazienti oncologici 

L’analisi di una specifica sottopopolazione di cellule del sistema immunitario consente di individuare meglio i pazienti che beneficeranno maggiormente dei trattamenti immunologici e di predire l’esito clinico della terapia. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Clinical Cancer Research.

biomarcatori immunoterapia
Biomarcatori definiscono la fitness immunologica necessaria per la risposta clinica all’immunoterapia dei pazienti oncologici. Foto di Konstantin Kolosov

Negli ultimi anni l’utilizzo di terapie basate sull’inibizione di molecole regolatrici di processi chiave del sistema immunitario (Immune Checkpoint) ha completamente cambiato il percorso terapeutico e la prognosi di pazienti affetti da cancro. In particolare, sono stati sviluppati anticorpi monoclonali capaci di legarsi in maniera specifica ad alcune cellule del sistema immunitario (in particolar modo ai linfociti T) e di bloccare l’interazione con le proteine presenti sulla superficie del tumore, permettendo una riattivazione e una amplificazione della risposta anti-tumorale.

L’introduzione di queste terapie (come l’immunoterapico anti-PD1), ha messo in evidenza quanto sia importante capire il livello del benessere del sistema immunitario dei pazienti che si sottopongono a tali trattamenti per predirne l’esito clinico.

Uno studio pubblicato sulla rivista Clinical Cancer Research e condotto dal Laboratorio di Immunologia dei tumori e terapie cellulari del Dipartimento di Medicina sperimentale della Sapienza Università di Roma, dall’Unità di Oncologia B e dal Dipartimento di Radiologia, oncologia e patologia del Policlinico Umberto I, in collaborazione con il Dipartimento di Oncologia del Policlinico Universitario Agostino Gemelli, ha dimostrato che la frequenza di un sottogruppo di cellule immunitarie, i linfociti CD137+, è in grado di definire i livelli di wellness del sistema immunitario del paziente oncologico e la sua capacità di rispondere all’immunoterapia.

Il gruppo di ricerca multidisciplinare, coordinato da Chiara Napoletano e Marianna Nuti del Dipartimento di Medicina sperimentale della Sapienza, ha dimostrato e validato che la frequenza dei linfociti T circolanti CD137+, analizzati prima dell’inizio del trattamento di immunoterapia, può essere considerato un marcatore di benessere del sistema immunitario, in grado di predire l’esito clinico della terapia, indipendentemente dal tipo di tumore e dal numero di terapie precedenti a cui il paziente oncologico è stato sottoposto.

“I pazienti con una elevata percentuale di linfociti T CD137+ nel sangue presentano una progressione libera da malattia e una sopravvivenza significativamente più alta rispetto ai pazienti che hanno in circolo livelli più bassi di queste cellule – spiega Chiara Napoletano. “Inoltre, associando la frequenza di questi linfociti con altri due parametri clinici, quali il sesso e lo stato clinico obiettivo (performance status) è stato possibile definire il profilo del paziente oncologico che meglio beneficerà dell’immunoterapia anti-PD1 in termini di sopravvivenza”.

L’analisi di questa sottopopolazione linfocitaria permetterà di migliorare la selezione dei pazienti che si sottoporranno ai trattamenti immunologici e di predire l’esito clinico della terapia permettendo agli oncologi di effettuare la migliore scelta terapeutica per il paziente.

Riferimenti:

Circulating CD137 + T cells correlate with improved response to anti-PD1 immunotherapy in cancer patients – Ilaria Grazia Zizzari, Alessandra Di Filippo, Andrea Botticelli, Lidia Strigari, Angelina Pernazza, Emma Rullo, Maria Gemma Pignataro, Alessio Ugolini, Fabio Scirocchi, Francesca Romana Di Pietro, Ernesto Rossi, Alain Gelibter, Giovanni Schinzari, Giulia d’Amati, Aurelia Rughetti, Paolo Marchetti, Marianna Nuti, Chiara Napoletano – Clin Can Res 2022 doi: 10.1158/1078-0432.CCR-21-2918

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma, sullo studio riguardante i biomarcatori definiscono la fitness immunologica necessaria per la risposta clinica all’immunoterapia dei pazienti oncologici.

Covid-19: Come cambiano i comportamenti dei vaccinati? 

Un’indagine congiunta Sapienza e dall’Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico Umberto I rileva come la maggioranza dei soggetti continua a rispettare le misure di protezione anche dopo il vaccino

Un’indagine rileva come la maggioranza dei soggetti vaccinati COVID-19 continua a mantenere gli stessi comportamenti, a rispettare le misure di protezione anche dopo il vaccino. Foto di Наркологическая Клиника

L’indagine pianificata dalla Sapienza Università di Roma e dall’Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico Umberto I ha coinvolto gli operatori delle strutture sanitarie dell’Azienda, sottoposti alla seconda dose di vaccino COVID Pfizer-BioNTech fino al 30 marzo 2021. Al personale è stato somministrato un questionario sulle misure di protezione contro SARS-CoV-2 e i soggetti che hanno volontariamente risposto, tra il 2 ed il 17 aprile 2021, sono stati 731, di età compresa tra i 24 ed i 69 anni.

“Il messaggio principale che deriva dall’indagine è che la maggioranza degli intervistati non ha cambiato le proprie abitudini dopo la vaccinazione.

In particolare, ben il 94% dei soggetti ha dichiarato che dopo la seconda vaccinazione contro Covid-19 non è cambiata la frequenza con la quale indossa la mascherina chirurgica o di comunità, in ambienti chiusi e con persone diverse dai familiari e conviventi. Solo il 4% ha ammesso di aver ridotto leggermente tale abitudine. Circa l’89% ha dichiarato che, dopo la seconda vaccinazione contro SARS-CoV-2, non ha cambiato la frequenza con la quale indossa la mascherina FFP2 o la doppia mascherina in ambienti chiusi e con persone diverse dai familiari e conviventi e la frequenza con la quale indossa la mascherina (chirurgica, di comunità o FFP2) all’aperto.

Dopo la seconda vaccinazione contro il Covid-19, la frequenza con la quale il soggetto si lava le mani con acqua e sapone o le disinfetta con soluzione idroalcolica per almeno 20 secondi non è cambiata nel 94% degli intervistati, così come il rispetto del numero massimo di 6 persone all’interno della sua abitazione, escludendo familiari e conviventi.

Infine, la frequenza con la quale il soggetto ha dichiarato di rispettare il distanziamento fisico di almeno 2 metri all’aperto non si è modificata nell’86% dei soggetti, mentre è diminuita leggermente nel 13% dei soggetti intervistati.

Sono risultati importanti che dimostrano come la consapevolezza di non abbassare la guardia neanche anche dopo la vaccinazione sia ampiamente diffusa”.

Questo hanno dichiarato i Coordinatori della ricerca, il professor Domenico Alvaro, Direttore del DAI di Medicina Interna e Specialità Mediche e Preside della Facoltà di Medicina e Odontoiatria e la Professoressa Stefania Basili, Direttrice della unità operativa complessa di Medicina Interna dell’Umberto I.

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Sapienza: al via lo studio sulla vaccinazione anti COVID-19. Che succede dopo il vaccino?

La Sapienza Università di Roma e l’Azienda Ospedaliero Universitaria Policlinico Umberto I da oggi sono impegnati insieme nel monitoraggio clinico e immunologico di tutti i soggetti sottoposti a vaccinazione anti-Sars-CoV-2

vaccinazione anti COVID-19
Foto Chairman of the Joint Chiefs of Staff from Washington D.C, United States – 201221-D-WD757-1126, CC BY 2.0

Lo studio, promosso e incentivato direttamente dalla Magnifica Rettrice della Sapienza Università di Roma, Antonella Polimeni, e dal Direttore Generale dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico Umberto I, Fabrizio d’Alba, comprenderà circa 10.000 soggetti e avrà lo scopo di valutare la risposta anticorpale nei soggetti vaccinati e di analizzare le associazioni del tipo di riposta con variabili importanti come l’età, il sesso, la presenza di comorbidità e le condizioni socioeconomiche.

Tutte le unità assistenziali e i docenti universitari verranno coinvolti con lo scopo di sviluppare una rete di ricerca che includa tutte le strutture del più grande Policlinico d’Europa.  

In tutti i soggetti verranno anche registrati gli eventi avversi dopo la vaccinazione. Ci si propone di valutare in tutti i soggetti la quantità e qualità della risposta immunitaria anti-Spike indotta dalla vaccinazione e di seguire contemporaneamente la dinamica dell’eventuale infezione e l’efficacia protettiva del vaccino, tramite la misurazione del titolo di anticorpi contro la nucleoproteina (N), specifici dell’infezione naturale.  

Tutti i 10.000 soggetti verranno valutati anche a distanza di 6 e 12 mesi dall’inizio della vaccinazione. L’Istituto Superiore di Sanità, che collaborerà allo studio, si occuperà, nel caso di infezione dopo vaccinazione, della ricerca delle possibili varianti virali.

Attualmente, sono stati vaccinati 5.000 operatori, da ausiliari a specializzandi, che rappresenteranno la popolazione immediatamente oggetto dello studio.  A breve inizierà il secondo ciclo di vaccinazioni che prevedrà anche una analisi pre vaccinazione.

Per la Sapienza e per il Policlinico Umberto I questo studio rappresenta un modello virtuoso di come le eccellenze della sanità e della ricerca si possano fondere in un progetto comune che ha come scopo quello di essere garante di una azione volta non solo a contrastare la pandemia, come dimostrato in questo lungo periodo, ma anche a sviluppare strategie comuni di ricerca.

 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma sul monitoraggio clinico e immunologico di soggetti sottoposti a vaccinazione anti COVID-19.

Albumina contro Covid-19: avviata con successo la sperimentazione clinica

Il gruppo di ricerca coordinato da Francesco Violi della Sapienza ha iniziato la sperimentazione dell’uso di albumina come supporto alla tradizionale terapia anticoagulante nel trattamento delle complicanze trombotiche. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Thrombosis and Haemostasis

albumina
Struttura dell’albumina sierica umana. Immagine Jawahar Swaminathan e staff MSD presso European Bioinformatics Institute (http://www.ebi.ac.uk/pdbe-srv/view/images/entry/1ao6600.png, su http://www.ebi.ac.uk/pdbe-srv/view/entry/1ao6/summary), in pubblico dominio

Nei pazienti con infezione da SARS-CoV-2 è ormai accertato l’elevato rischio legato alla formazione di trombi che possono determinare conseguenze devastanti come ostruzioni polmonari (embolie), infarto cardiaco e ictus con una frequenza più elevata di quella riscontrata nella polmonite comunitaria. Per tale ragione la comunità scientifica ha cercato di identificare una terapia mirata, a supporto di quelle tradizionali, per far fronte alle complicanze dovute alla formazione di trombi riducendo il ricorso alla terapia intensiva.

Un nuovo studio coordinato da Francesco Violi del Dipartimento di Scienze cliniche internistiche, anestesiologiche e cardiovascolari, ha indagato se l’impiego di albumina in pazienti Covid-19 con concomitante ipoalbuminemia, inibisse la coagulazione del sangue. Per una settimana, a 10 pazienti Covid-19, già in trattamento con anticoagulanti, è stata somministrata albumina endovena e si è osservata una ridotta coagulazione rispetto a quella di 20 pazienti in terapia con il solo anticoagulante. Allo studio, pubblicato sulla rivista Thrombosis and Haemostasis, hanno collaborato anche Francesco Pugliese del Reparto di Terapia intensiva, Claudio Maria Mastroianni e Mario Venditti del Reparto di Malattie Infettive del Policlinico Umberto I e Francesco Cipollone dell’Università degli studi “Gabriele Annunzio” di Chieti.

In un precedente lavoro il gruppo di Violi, aveva osservato che i pazienti Covid-19 presentano livelli ridotti di albumina, proteina che viene prodotta dal nostro organismo e che è tra i più potenti antinfiammatori oltre a svolgere anche un’azione anticoagulante. “Questa osservazione − dichiara Violi− ha fatto supporre che i bassi livelli di albumina potessero facilitare la coagulazione e dunque contrastare anche l’efficacia della terapia anticoagulante”.

Partendo da queste basi, il team di ricerca è passato alla osservazione clinica degli effetti dell’infusione di albumina, ottenendo risultati incoraggianti.

“Oggi, dai primi dati preliminari, sembrerebbe che il trattamento determina una minor comparsa di eventi vascolari – conclude Violi – Seppure sia necessario un numero maggiore di pazienti per confermare questo dato preliminare, lo studio apre la strada all’uso dell’albumina in pazienti Covid-19 per valutare se la sua infusione, associata alla terapia anticoagulante classica, riduca il rischio trombotico e quindi la mortalità”.

Riferimenti:

Albumin Supplementation Dampens Hypercoagulability in COVID-19: A Preliminary Report – Francesco Violi, Giancarlo Ceccarelli, Lorenzo Loffredo, Francesco Alessandri, Francesco Cipollone, Damiano D’ardes, Gabriella D’Ettorre, Pasquale Pignatelli, Mario Venditti, Claudio Maria Mastroianni, Francesco Pugliese –Thromb Haemost 2020. DOI: 10.1055/s-0040-1721486

 

Testo dall’Ufficio Stampa Sapienza Università di Roma.