La ricerca di un gruppo di paleontologi del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza ha gettato nuova luce sulla diffusione in Europa dell’ippopotamo comune largamente presente in tutto il continente durante il Pleistocene. Lo studio, pubblicato su PLoS ONE, ha rivelato che questa specie comparve in Europa circa 500 mila anni fa, probabilmente in seguito a intensi cambiamenti climatici e ambientali.
odierno Hippopotamus amphibus
la Valle del Tevere durante la Transizione Pleistocene Inferiore–Pleistocene Medio
Restauro del cranio di ippopotamo da Cava Montanari
cranio di Hippopotamus amphibius da Cava Montanari dopo i restauri. Cranio visto da punti di vista dorsale (A), ventrale (B), laterale destro (C), laterale sinistro (D) e posteriore (E). Mandibola dal punto di vista occlusale (F) laterale destro (G) e laterale destro (H). Barra della scala: 10 cm
modello 3D della emimandibola sinistra di Hippopotamus amphibius da Cava Montanari (A-C) e la mappa di profondità (D). Legenda della mappa di profondità: blu è la superficie dell’osso e rosso è dove i ciotoli sono andati contro l’osso formando depressioni nella superficie
il cranio di ippopotamo da Cava Montanari, come raffigurato da Fabiani & Maxia (1953)
Immagini storiche dell’area di Tor di Quinto dall’archivio dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA, A, B) e la stessa area oggi (immagine USGS National MAP Viewer, C) e dalle cartine topografiche
C’è stato un tempo in cui il territorio di Roma fu popolato da elefanti, ippopotami, rinoceronti e iene, testimonianza di ecosistemi scomparsi e condizioni climatiche ben differenti da quelle attuali. Resti fossili di mammiferi sono conosciuti fin dalla fine dell’Ottocento, oggi patrimonio culturale oltre che scientifico di diversi musei del territorio laziale, fra cui il Museo universitario di Scienze della Terra della Sapienza Università di Roma (MUST).
Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista PLoS ONE da ricercatori del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza e dell’Istituto di Geologia ambientale e geoingegneria del Consiglio Nazionale delle Ricerche ha permesso di ridefinire la comparsa dell’ippopotamo comune Hippopotamus amphibius grazie ad analisi condotte su un cranio rinvenuto durante la prima metà del Novecento nell’area di Tor di Quinto e di datarla a circa 500 mila anni fa.
“L’approccio multidisciplinare applicato allo studio del cranio fossile di ippopotamo – spiega Beniamino Mecozzi della Sapienza – è stato fondamentale per ottenere preziose informazioni in merito all’età del reperto e alla sua classificazione tassonomica. I risultati permettono di attribuire il cranio alla specie Hippopotamus amphibius e di affermare con certezza che il reperto è stato rinvenuto presso una cava, denominata Montanari, operante lungo la via Flaminia, oggi non più esistente. Integrando i dati geologici, sedimentologici e cartografici, abbiamo potuto stimare l’età del reperto”.
La diffusione dell’ippopotamo comune in Europa è intimamente legata ai cambiamenti climatici e ambientali avvenuti negli ultimi 800 mila anni, in particolare durante la cosiddetta Early–Middle Pleistocene Transition (Transizione Pleistocene Inferiore–Pleistocene Medio), periodo in cui si registra l’estinzione di molte specie vissute durante il Quaternario nonchè la comparsa di forme moderne, come cervi, cinghiali, daini e lupi.
Lo studio del cranio di ippopotamo, identificato come un individuo maschile di circa 22-24 anni, rientra in un ampio progetto di restauro dei reperti di grandi mammiferi esposti presso il MUST.
Questo lavoro ha permesso di rimuovere precedenti integrazioni effettuate nel XX secolo che mascherano alcune morfologie originali del cranio e di recuperare sedimenti ancora presenti in alcune cavità craniali e mandibolari.
“I fossili esposti presso il Museo Universitario di Scienze della Terra di Sapienza – commenta Raffaele Sardella della Sapienza – rappresentano un patrimonio da tutelare e preservare. Il restauro del reperto di ippopotamo, per esempio, ha permesso di recuperare, e quindi analizzare, il sedimento originale del deposito, oggi non più accessibile a causa dell’intensa urbanizzazione che caratterizzò il quartiere di Tor di Quinto durante il Novecento. I risultati di questo lavoro, oltre alle notevoli ripercussioni scientifiche, offrono nuove preziose informazioni essenziali per una cosciente e più completa divulgazione del patrimonio paleontologico custodito presso il nostro Museo”.
Riferimenti bibliografici:
Reinforcing the idea of an early dispersal of Hippopotamus amphibius in Europe: Restoration and multidisciplinary study of the skull from the Middle Pleistocene of Cava Montanari (Rome, central Italy) – Beniamino Mecozzi, Alessio Iannucci, Marco Mancini, Daniel Tentori, Chiara Cavasinni, Jacopo Conti, Mattia Yuri Messina, Alex Sarra, Raffaele Sardella – PLoS ONE 2023, DOI: 10.1371/journal.pone.0293405.
Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
Inaugurato nel Museo Archeologico nazionale “Domenico Ridola” il nuovo allestimento “Giuliana degli Abissi”
Giuliana degli Abissi
È stato inaugurato oggi nel Museo Archeologico nazionale “Domenico Ridola” il nuovo allestimento “Giuliana degli Abissi”, a cura di Annamaria Mauro e Laura D’Esposito, dedicato al fossile della Balena Giuliana, scoperto nel 2006 sulle sponde del Lago di San Giuliano, a 8 km da Matera. All’inaugurazione hanno preso parte la Direttrice del Museo nazionale di Matera, arch. Annamaria Mauro, il Direttore generale Musei, prof. Massimo Osanna, il sindaco di Matera, Domenico Bennardi.
Il percorso espositivo dedicato alla Balena Giuliana si compone di quattro sale. La prima è dedicata alla scoperta del fossile e alle fasi del difficile recupero. Dopo lo scavo, completato nel 2011, i resti dell’animale furono consolidati, frazionati in blocchi, protetti con camicie di gesso e collocati all’interno di casse lignee costruite su misura e protette da un imballaggio di argilla espansa e schiuma di poliuretano. Tutte le casse furono trasportate presso la sede materana dell’allora Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici della Basilicata dove rimasero fino al 2013 quando vennero trasferite al Museo Archeologico nazionale “D. Ridola” di Matera.
Nella seconda sala il visitatore è accompagnato in un viaggio di grande impatto visivo attraverso una videoinstallazione immersiva ideata dal visual artist Silvio Giordano e realizzata da ETT SpA, azienda del Gruppo SCAI. Al fine di creare un flusso emotivo dinamico, le varie sezioni che compongono il filmato sono state realizzate utilizzando tecniche differenti, dall’animazione 2D al 3D fotorealistico, passando per il compositing, le riprese video live e la motion graphic. Alle riprese reali da drone, inoltre, si affiancano parti prevalentemente documentaristiche. La sala è caratterizzata dalla presenza di una proiezione immersiva su due lati che si attiva all’ingresso del visitatore, rendendo l’esperienza coinvolgente grazie anche alla grande parete specchiata. Un ruolo estremamente importante rivestono il suono e le musiche, che accompagnano lo spettatore in una dimensione acquatica. Alla voce del narratore Christian Iansante è affidato il racconto della vita marina, dalla genesi fino alla caccia violenta alla balena che, in tutta la letteratura, da Moby Dick a Giona della Bibbia, rappresenta una tappa verso la salvezza, recando con sé la possibilità del rinnovamento.
La terza sala è dedicata al paleoambiente, con l’esposizione di alcuni reperti riconducibili alla fauna e alle piante acquatiche dell’ecosistema in cui la balena è stata ritrovata. Attraverso un monitor il visitatore può inoltre seguire i lavori di restauro del fossile,eseguiti dalla ditta Lithos s.r.l, in corso nel laboratorio allestito nella Ex Palazzina Fio del Museo “Ridola”. Le notevoli dimensioni e la giacitura sulla spiaggia sommersa in cui l’animale si era arenato prima che fosse ricoperto dal sedimento sabbioso hanno infatti causato la perdita di gran parte dello scheletro; a questi si aggiungono i danni provocati dalle variazioni di temperatura e umidità che hanno interessato il reperto negli anni intercorsi dal suo recupero ad oggi. Pertanto, grazie ad una proficua collaborazione tra diversi enti coinvolti, è stato possibile individuare una metodologia di intervento che prevede, attraverso diversi step, la messa in sicurezza/consolidamento dei reperti osteologici. Tali operazioni, che si svolgeranno con la supervisione del paleontologo, in alcuni casi permetteranno il recupero dei frammenti e, ove possibile, le integrazioni che agevoleranno la lettura morfologica del fossile e il ristabilimento della coesione delle parti superstiti.
restauro
Nella quarta sala sono esposti i primi due reperti ossei integralmente restaurati: la bulla timpanica e l’omero dell’arto destro. Grazie ad un lungo e delicato intervento infatti, è stato possibile recuperare tutte le parti del cetaceo fossile giunte sino a noi: dodici vertebre toraciche, diverse costole, di cui una lunga oltre 3 metri, la pinna pettorale e gran parte del cranio. Proprio il rinvenimento della bulla timpanica ha consentito di attribuire con sicurezza l’animale al genere Balenoptera la cui lunghezza presunta è di 26 metri e che può essere assimilata all’odierna specie della balenottera azzurra. Gli specialisti confermano che la Balena Giuliana, probabilmente il più grande esemplare che abbia mai solcato le acque del mare che oggi chiamiamo Mediterraneo, visse nel Pleistocene inferiore, fra 1,5 e 1,25 milioni di anni fa ed aveva un peso compreso tra 130 e 150 tonnellate, contro le circa 100 tonnellate del più grande fossile dei dinosauri. Il rinvenimento di questa balena, quindi, risulta di grande importanza per l’approfondimento delle conoscenze sulla storia biologica del Mediterraneo.
Il racconto dell’allestimento viene completato dal fumetto d’autore “La Regina degli abissi” (Osanna Edizioni) realizzato dall’illustratore e fumettista Giulio Giordano. La semi dea Talassa, figlia del possente Nettuno, è stata incaricata dal padre di risolvere un enigma nei pressi della diga di San Giuliano. “La Regina degli abissi” riaffiora dagli oceani del tempo. Porta con sé l’eco di un mondo primitivo e selvaggio. Finalmente libera dalla prigione di sabbia che intrappolava i suoi resti, la Balena Giuliana racconterà la sua storia a chi vorrà ascoltarla. L’allestimento “Giuliana degli Abissi” viene introdotto dal nuovo visitor center, che prende spunto dagli scatti di alcuni reperti realizzati dal fotografo Mario Cresci, per offrire un’anticipazione delle principali sezioni archeologiche del rinnovato Museo “Ridola”.
«Il nuovo percorso espositivo “Giuliana degli Abissi” – sottolinea il Direttore generale Musei, prof. Massimo Osanna – è il frutto di un lungo e complesso lavoro che oggi rappresenta un grande traguardo non solo per il museo archeologico “Domenico Ridola” e per il Museo nazionale di Matera, ma per tutto il Sistema museale nazionale, in cui l’allestimento ben si inserisce sia per l’importanza scientifica del rinvenimento del fossile sia per le potenzialità che questo offre nel campo della valorizzazione. Un progetto che si è caratterizzato sin dal primo momento per la multidisciplinarietà che ha composto la squadra e che dimostra come proprio attraverso questa modalità operativa si ottengono risultati straordinari».
«Oggi è una giornata importante per il territorio materano e per l’intera Basilicata, ma credo anche per il mondo scientifico internazionale, perché apriamo al pubblico un esempio virtuoso di percorso espositivo dove si uniscono tutela, conservazione, restauro e valorizzazione insieme – evidenzia la Direttrice Annamaria Mauro -. Il visitatore verrà immerso nel racconto del fossile Giuliana, dal suo ritrovamento fino all’allestimento dei reperti già restaurati, ma potrà visitare anche il cantiere in fieri, ponendo domande ai restauratori e ammirando la grandezza e l’unicità di questo reperto che man mano dalle casse diventa uno scheletro vero. Accompagnerà la vista una videoinstallazione immersiva emozionante che racconta l’identità della Balena nell’immaginario collettivo».
«Come sindaco di Matera, Capitale Europea della Cultura, esprimo soddisfazione e felicità per l’apertura dell’allestimento dedicato alla Balena Giuliana, con la possibilità di vedere il restauro del fossile all’interno del Museo “Ridola” – spiega il sindaco Domenico Bennardi -. Una grande emozione, ricordando i primi mesi di insediamento del mio mandato, quando ho voluto aprire fortemente quelle casse che da tanti anni tenevano relegata la Balena Giuliana, un fossile che è tra i più grandi al mondo mai trovati per massa e che può diventare un potenziale nuovo attrattore culturale e scientifico per la città. Un plauso al Museo nazionale di Matera che ha permesso il restauro, con l’auspicio che si possa avere una collaborazione proficua con l’Amministrazione comunale nella progettazione dei percorsi turistico- culturali».
Testo e foto dall’Ufficio Stampa e Comunicazione Museo Archeologico nazionale “Domenico Ridola” di Matera
La iena gigante che non ha resistito ai cambiamenti climatici Pachycrocuta brevirostris, la iena gigante dal muso corto diffusa nel Vecchio Mondo durante il Pleistocene, si è estinta in Europa circa 800 mila anni fa a seguito di cambiamenti climatici e ambientali e non a causa della competizione con altre specie che si diffusero nello stesso periodo. A svelarlo un nuovo studio del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza, pubblicato sulla rivista Quaternary Science Reviews.
Un super-predatore un tempo popolava Europa, Asia e Africa, la iena gigante dal muso corto Pachycrocuta brevirostris. Con un peso probabilmente superiore ai 100 chilogrammi, fu la iena più grande mai esistita. Diffusasi in Europa circa due milioni di anni fa, fu uno dei predatori più temibili che si trovarono ad affrontare le prime popolazioni di ominini avventuratesi fuori dall’Africa; sebbene il ruolo diretto delle iene come concorrenti ecologici degli ominini del Pleistocene venga spesso enfatizzato, esse erano comunque una componente unica della fauna incontrata da queste popolazioni.
Pachycrocuta brevirostris, la iena gigante dal muso corto che non ha resistito ai cambiamenti climatici e ambientali
Le iene sono comunemente note per la loro abilità di rompere le ossa e cibarsi del loro contenuto, e Pachycrocuta brevirostris si era ben adattata a questa abitudine alimentare. La iena gigante era anche in grado di accumulare ossa, come oggi testimoniano alcuni siti che rappresentano un vero tesoro per i paleontologi. Durante il Pleistocene, gli ominini erano l’unico altro gruppo capace di sfruttare le ossa come risorsa alimentare, con l’ausilio di strumenti litici per romperle. Per questo motivo, la possibile competizione di queste popolazioni con la iena gigante suscita un grande interesse tra i ricercatori. Eppure, il motivo per cui la specie si estinse e la tempistica di questo evento in Europa rimanevano ancora avvolti nell’incertezza.
Un nuovo studio, condotto da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Scienze della Terra di Sapienza e pubblicato sulla rivista Quaternary Science Reviews, ha riconsiderato i fossili di Pachycrocuta brevirostris e di altre iene che si diffusero in Europa nel Pleistocene, rivelando che la iena gigante dal muso corto scomparve dall’Europa circa 800 mila anni fa, probabilmente a seguito di cambiamenti climatici e ambientali e non a causa della competizione con altre specie che si diffusero nello stesso periodo.
Pachycrocuta brevirostris, Crocuta crocuta e Hyaena prisca
Studi precedenti avevano infatti ipotizzato che la competizione generata dall’arrivo di Crocuta crocuta, l’attuale iena macchiata, potesse aver giocato un ruolo nell’estinzione di Pachycrocuta brevirostris. Tale ipotesi sarebbe supportata dalla coesistenza delle due specie in alcune località dove la iena gigante sopravvisse più a lungo. Tuttavia, i risultati di questa nuova ricerca vanno nella direzione opposta, escludendo l’ipotesi della compresenza e della competizione diretta tra queste iene.
“La scomparsa della iena gigante dall’Europa circa 800 mila anni fa – commenta Alessio Iannucci di Sapienza, primo nome dello studio – è pressappoco coincidente con l’arrivo della iena macchiata, Crocuta crocuta, e di un’altra specie meno nota, la “Hyaena” prisca. Tuttavia, queste specie furono in grado di diffondersi in Europa solo dopo il declino della iena gigante e non contribuirono alla sua estinzione”.
La iena gigante dunque, un tempo diffusa in tutto il continente, non fu in grado di far fronte ai cambiamenti climatici e ambientali che avvennero durante la transizione tra Pleistocene Inferiore e Pleistocene Medio, la cosiddetta “Early–Middle Pleistocene Transition”. Si tratta di un periodo che vide acuirsi l’intensità delle fluttuazioni tra intervalli glaciali e interglaciali, dando poi inizio all’era glaciale. L’avvicendamento tra Pachycrocuta brevirostris e le altre iene fu uno degli eventi più caratteristici del rinnovamento faunistico avvenuto in quel momento: diversi carnivori specializzati, come le tigri dai denti a sciabola, andarono in declino o si estinsero, mentre si diffusero specie nuove e più adattabili. Tra queste si ricordano le linee evolutive dei moderni cervi, cinghiali, daini e lupi, così come popolazioni umane in grado di produrre strumenti litici bifacciali (come cunei, o asce da pugno).
“Le specie meglio adattate a particolari ambienti o a strategie alimentari, come Pachycrocuta brevirostris, sono quelle più a rischio, ma anche quelle che si sono evolute facendo fronte alle fluttuazioni climatiche dell’ultimo milione di anni potrebbero non essere in grado di adattarsi ai rapidi cambiamenti causati dall’attività umana – conclude Raffaele Sardella di Sapienza. “Studiare la risposta degli ecosistemi del passato è cruciale per interpretare criticamente i cambiamenti climatici che osserviamo attualmente”.
Riferimenti:
The extinction of the giant hyena Pachycrocuta brevirostris and a reappraisal of the Epivillafranchian and Galerian Hyaenidae in Europe: faunal turnover during the Early-Middle Pleistocene Transition – Alessio Iannucci, Beniamino Mecozzi, Raffaele Sardella, Dawid Adam Iurino – Quaternary Science Reviews 2021, 272:107240. https://doi.org/10.1016/j.quascirev.2021.107240
Testo, video e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma