News
Ad
Ad
Ad
Tag

pianeti

Browsing

Cha 1107-7626, un pianeta vagabondo cresce a ritmo record

Situato a circa 620 anni luce di distanza, il pianeta vagabondo Cha 1107-7626, circa 5-10 volte più massiccio di Giove, non orbita attorno a una stella. E sta divorando il materiale da un disco che lo circonda a una velocità di sei miliardi di tonnellate al secondo: la più alta mai rilevata per qualsiasi tipo di pianeta. A guidare la scoperta, pubblicata oggi su ApJL, è stato Víctor Almendros-Abad dell’INAF di Palermo.

Rappresentazione artistica di Cha 1107-7626. Situato a circa 620 anni luce di distanza, questo pianeta vagabondo è circa 5-10 volte più massiccio di Giove e non orbita attorno a una stella. Sta divorando il materiale da un disco che lo circonda e, utilizzando il Very Large Telescope (Vlt) dell’Eso, gli astronomi hanno scoperto che lo sta facendo a una velocità di sei miliardi di tonnellate al secondo, la più alta mai rilevata per qualsiasi tipo di pianeta. Il team sospetta che forti campi magnetici potrebbero incanalare il materiale verso il pianeta, un fenomeno osservato solo nelle stelle. Crediti: ESO/L. Calçada/M. Kornmesser
Rappresentazione artistica di Cha 1107-7626. Situato a circa 620 anni luce di distanza, questo pianeta vagabondo è circa 5-10 volte più massiccio di Giove e non orbita attorno a una stella. Sta divorando il materiale da un disco che lo circonda e, utilizzando il Very Large Telescope (Vlt) dell’Eso, gli astronomi hanno scoperto che lo sta facendo a una velocità di sei miliardi di tonnellate al secondo, la più alta mai rilevata per qualsiasi tipo di pianeta. Il team sospetta che forti campi magnetici potrebbero incanalare il materiale verso il pianeta, un fenomeno osservato solo nelle stelle. Crediti: ESO/L. Calçada/M. Kornmesser

Gli astronomi hanno identificato un enorme “scatto di crescita” in un cosiddetto pianeta erratico. A differenza dei pianeti del Sistema solare, questi oggetti non orbitano intorno a una stella, ma fluttuano liberamente, isolati. Le nuove osservazioni, effettuate con il Very Large Telescope dell’Osservatorio europeo australe (VLT dell’ESO), rivelano che il pianeta vagabondo sta divorando gas e polvere dai dintorni a un ritmo di sei miliardi di tonnellate al secondo. Si tratta del tasso di crescita più elevato mai registrato per un pianeta erratico, ma anche per un pianeta di qualsiasi tipo, e fornisce preziose informazioni su come i pianeti si formano e crescono.

«Molti pensano ai pianeti come a mondi tranquilli e stabili, ma con questa scoperta vediamo che oggetti di massa planetaria che fluttuano liberamente nello spazio possono essere luoghi avvincenti»,

dice Víctor Almendros-Abad, astronomo dell’INAF – Osservatorio astronomico di Palermo e autore principale del nuovo studio.

L’oggetto appena studiato, con una massa da cinque a dieci volte quella di Giove, si trova a circa 620 anni luce di distanza da noi nella costellazione del Camaleonte. Chiamato ufficialmente Cha 1107-7626, questo pianeta vagabondo è ancora in formazione ed è alimentato da un disco di gas e polvere che lo circonda. Questo materiale ricade costantemente sul pianeta isolato, un processo noto come accrescimento. Tuttavia, il gruppo guidato da Almendros-Abad ha ora scoperto che il tasso di accrescimento del giovane pianeta non è costante.

Nell’agosto del 2025, l’accrescimento sul pianeta aveva un tasso circa otto volte superiore rispetto a quello di pochi mesi prima, pari a sei miliardi di tonnellate al secondo!

«Questo è l’episodio di accrescimento più intenso mai registrato per un oggetto di massa planetaria»,

aggiunge Almendros-Abad. La scoperta, pubblicata oggi su The Astrophysical Journal Letters, è stata realizzata con lo spettrografo X-shooter installato sul VLT dell’Eso, situato nel deserto di Atacama, in Cile. Il gruppo ha utilizzato anche i dati del telescopio spaziale James Webb, gestito dalle agenzie spaziali di Usa, Europa e Canada, e i dati d’archivio dello spettrografo Sinfoni installato sul VLT dell’ESO.

«L’origine dei pianeti erratici rimane una questione non risolta: sono gli oggetti di formazione stellare con la minima massa possibile o pianeti giganti espulsi dai propri sistemi di origine?»

Questo si chiede il coautore Aleks Scholz, astronomo presso l’Università di St Andrews, Regno Unito. I risultati indicano che almeno alcuni pianeti vagabondi potrebbero condividere un percorso di formazione simile a quello delle stelle, poiché simili aumenti rapidi del tasso di accrescimento sono stati osservati in precedenza in stelle giovani. Come spiega la coautrice Belinda Damian, astronoma presso l’Università di St Andrews,

«questa scoperta sfuma il confine tra stelle e pianeti e ci offre un’anteprima dei primi periodi di formazione dei pianeti vagabondi».

Confrontando la luce emessa prima e durante l’aumento, gli astronomi hanno raccolto indizi sulla natura del processo di accrescimento. Sorprendentemente, l’attività magnetica sembra aver giocato un ruolo nel guidare la drastica caduta di massa, un fenomeno osservato finora solo nelle stelle. Ciò suggerisce che anche oggetti di piccola massa possano possedere forti campi magnetici in grado di alimentare questi eventi di accrescimento. Il gruppo ha anche scoperto che la chimica del disco intorno al pianeta è cambiata durante l’episodio di accrescimento, con la presenza di vapore acqueo durante l’evento ma non prima. Questo fenomeno era stato osservato nelle stelle, ma mai in un pianeta di alcun tipo.

I pianeti liberi sono difficili da rivelare, poiché sono molto deboli, ma il futuro ELT (Extremely Large Telescope) dell’ESO potrebbe cambiare la situazione. I suoi potenti strumenti e il gigantesco specchio principale consentiranno agli astronomi di scoprire e studiare un numero maggiore di questi pianeti solitari, aiutando a comprendere meglio quanto siano simili a stelle. Come afferma la coautrice e astronoma dell’ESO Amelia Bayo,

«l’idea che un oggetto planetario possa comportarsi come una stella è suggestivo e ci invita a chiederci come potrebbero essere i mondi oltre il nostro durante le fasi iniziali».

 

DICHIARAZIONE DI VÍCTOR ALMENDROS-ABAD, ASTRONOMO INAF E PRIMO AUTORE DELLO STUDIO:

“Ciò che rende questa scoperta davvero speciale non è solo il fatto di aver misurato il più alto tasso di crescita mai osservato in un oggetto di massa planetaria, ma anche che si tratta della prima eruzione documentata in un oggetto di questo tipo. Fino ad ora, eventi di questo tipo erano stati osservati soltanto in giovani stelle, dove si ritiene giochino un ruolo fondamentale nell’accumulo di massa durante le prime fasi dell’evoluzione. Trovarne uno in un oggetto di appena cinque-dieci volte la massa di Giove dimostra che i meccanismi che guidano la formazione stellare possono operare sulla scala planetaria. Questo apre una finestra del tutto nuova su come evolvono i pianeti e i loro dischi.”

“Per me, la scoperta è stata emozionante anche a livello personale. Tutto è iniziato come un semplice controllo tecnico, per verificare che un problema strumentale fosse stato risolto. Ma nei nuovi dati ho visto subito che la riga di emissione dell’idrogeno appariva completamente diversa, molto più intensa e con una nuova forma. Ho capito immediatamente che stava accadendo qualcosa di straordinario e ho avvisato subito il team. Da quel momento abbiamo seguito l’oggetto passo dopo passo, e con l’arrivo di nuovi dati è diventato sempre più chiaro che si trattava di un’eruzione lunga e complessa. È stata un’esperienza unica, e un promemoria che in astronomia le scoperte avvengono spesso quando meno te lo aspetti.”

Riferimenti bibliografici:

Victor Almendros-Abad et al., 2025 ApJL 992 L2, DOI: 10.3847/2041-8213/ae09a8

Testi, video e immagini dall’Ufficio Stampa INAF – Istituto Nazionale di Astrofisica, ESO.

INDIVIDUATE NUOVE TRACCE DI SOSTANZE ORGANICHE NEI SOLFATI SU MARTE

Tracce di composti organici associati a solfati sono state individuate sulla superficie di Marte. A riportare la scoperta è un articolo pubblicato oggi sulla rivista Nature Astronomy, basato su dati raccolti dallo spettrometro Sherloc a bordo del rover Perseverance della NASA, in campioni prelevati nel cratere marziano Jezero. Non è possibile escludere che queste molecole organiche siano residui derivanti dalla degradazione di materia microbica antica, sebbene l’origine più probabile sia considerata abiotica, più specificamente attraverso reazioni di gas magmatici con ossidi di ferro presenti nelle rocce vulcaniche. A guidare il team è Teresa Fornaro, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

Vista 3D del target Pilot Mountain, situato sulla sommità del ventaglio deltizio di Jezero crater, dove lo strumento Sherloc del rover Perseverance della NASA ha rilevato firme spettrali compatibili con idrocarburi policiclici aromatici all’interno di grani di solfato, suggerendo la preservazione di molecole organiche complesse in matrici minerali evaporitiche. Crediti: Teresa Fornaro, Andrew Alberini, Giovanni Poggiali, con modello 3D del target Pilot Mountain da: "M2020 WATSON -- Pilot Mountain, sol 874" (https://skfb.ly/oJWWx) by Mastcam-Z is licensed under Creative Commons Attribution (http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/)
Vista 3D del target Pilot Mountain, situato sulla sommità del ventaglio deltizio di Jezero crater, dove lo strumento Sherloc del rover Perseverance della NASA ha rilevato firme spettrali compatibili con idrocarburi policiclici aromatici all’interno di grani di solfato, suggerendo la preservazione di molecole organiche complesse in matrici minerali evaporitiche. Crediti: Teresa Fornaro, Andrew Alberini, Giovanni Poggiali, con modello 3D del target Pilot Mountain da: “M2020 WATSON — Pilot Mountain, sol 874” (https://skfb.ly/oJWWx) by Mastcam-Z is licensed under Creative Commons Attribution (http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/)

La ricerca di molecole organiche su Marte è centrale per capire se il pianeta abbia mai offerto condizioni favorevoli alla vita. Alcuni composti organici possono infatti rappresentare nutrienti, mentre altri, più complessi, potrebbero costituire vere e proprie biofirme. Nonostante in passato siano già state individuate molecole organiche, la loro origine e conservazione restano ancora poco chiare.

Proprio per questo il cratere Jezero, antica area deltizia che un tempo ospitava un lago e che potrebbe aver avuto un alto potenziale di abitabilità, è oggi uno dei luoghi più interessanti da studiare. Qui, lo strumento Sherloc (Scanning Habitable Environments with Raman and Luminescence for Organics and Chemicals) a bordo del rover Perseverance ha rilevato segnali Raman forti e complessi associati a solfati, in particolare nelle aree denominate Quartier e Pilot Mountain, rispettivamente sul fondo del cratere e sul ventaglio deltizio.

“Quando Sherloc ha rivelato forti segnali Raman nella regione spettrale degli organici nel target Quartier, ci siamo entusiasmati. Questi segnali erano associati spazialmente a solfati di magnesio e calcio, che sulla Terra mostrano grandi capacità di preservazione della materia organica”, sottolinea Teresa Fornaro. “L’associazione con i solfati era davvero un enigma affascinante e mi ha spinta a esaminare uno per uno gli 839 spettri acquisiti da Sherloc in cui sono stati rilevati solfati sul fondo del cratere e sul ventaglio deltizio di Jezero, alla ricerca di segnali potenzialmente indicativi di composti organici. In questo modo, ho scoperto che il target Pilot Mountain, situato sulla sommità del ventaglio, mostra segnali Raman simili a quelli osservati in Quartier”.

Per verificare l’ipotesi che i segnali osservati sono effettivamente dovuti a molecole organiche, il team ha condotto esperimenti nel Laboratorio di Astrobiologia dell’INAF a Firenze. Sono stati utilizzati materiali analoghi marziani e strumenti simili a Sherloc, riproducendo processi naturali in condizioni controllate. Il confronto con i dati acquisiti in situ ha permesso di consolidare l’interpretazione organica.

“Il Laboratorio di Astrobiologia di Arcetri, grazie al supporto dell’INAF e dell’Agenzia Spaziale Italiana, ha acquisito nel corso degli anni strumentazioni all’avanguardia che ci hanno permesso di ritagliarci un ruolo di rilievo nel contesto internazionale per quanto riguarda i temi dell’astrobiologia” spiega John Brucato dell’INAF, responsabile del laboratorio e coautore dello studio. “Siamo in grado di caratterizzare i composti organici presenti nei materiali che ci giungono dallo spazio, come le meteoriti o i campioni riportati a terra dalle missioni, e di simulare le condizioni e i processi chimico-fisici che possono verificarsi sulla superficie di Marte. Grazie alla partecipazione alle missioni marziane con i rover Perseverance della NASA e Rosalind Franklin dell’ESA, il nostro ambizioso obiettivo è riuscire a trovare le biofirme di una vita extraterrestre”.

“Nello specifico, abbiamo mescolato minerali solfati con molecole organiche aromatiche facilmente rilevabili da Sherloc, utilizzando metodi che imitano processi naturali potenzialmente avvenuti in passato in un ambiente acquoso a Jezero, seguiti da essiccazione. Successivamente, abbiamo analizzato i campioni preparati con strumenti analoghi a Sherloc”, spiega ancora Fornaro. “Questo metodo ci ha permesso di acquisire un set di dati di riferimento da confrontare direttamente con le osservazioni in situ, essenziali per interpretare correttamente i complessi segnali provenienti da Marte. Sulla base di queste indagini, abbiamo potuto attribuire questi segnali a idrocarburi policiclici aromatici preservati all’interno dei solfati”.

Il Cratere Jezero su Marte ripreso dalla sonda Mars Express dell'Agenzia Spaziale Europea (ESA). Crediti: ESA/DLR/FU Berlin
Il Cratere Jezero su Marte ripreso dalla sonda Mars Express dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA). Crediti: ESA/DLR/FU Berlin

Il rilevamento in rocce vulcaniche suggerisce che gli idrocarburi policiclici aromatici possano essersi formati attraverso processi magmatici e, in seguito, essere stati mobilizzati dall’acqua e intrappolati nei solfati. I fluidi circolanti, comprese possibili acque idrotermali, avrebbero favorito il loro accumulo selettivo e la conservazione nelle rocce del cratere Jezero. Questi risultati si aggiungono a precedenti evidenze da meteoriti e dal cratere Gale, rafforzando il ruolo dei solfati nella conservazione della materia organica marziana.

“Sebbene non siano state trovate prove che questa materia organica sia di origine biologica, non è possibile escludere completamente che le sostanze organiche rilevate in queste rocce possano derivare dall’alterazione chimica di antichi composti biotici” conclude Fornaro“In attesa di un possibile futuro ritorno di questi campioni marziani per analisi più dettagliate sulla Terra, stiamo continuando a indagare sulla natura delle altre componenti di questi segnali complessi, la cui origine è ancora da chiarire del tutto”.

Riferimenti bibliografici:
L’articolo Evidence for polycyclic aromatic hydrocarbons detected in sulfates at Jezero crater by the Perseverance rover, di Teresa Fornaro, Sunanda Sharma, Ryan S. Jakubek, Giovanni Poggiali, John Robert Brucato, Rohit Bhartia, Andrew Steele, Ashley E. Murphy, Mike Tice, Mitchell D. Schulte, Kevin P. Hand, Marc D. Fries, William J. Abbey, Andrew Alberini, Daniela Alvarado-Jiménez, Kathleen C. Benison, Eve L. Berger, Sole Biancalani, Adrian J. Brown, Adrian Broz, Wayne P. Buckley, Denise K. Buckner, Aaron S. Burton, Sergei V. Bykov, Emily L. Cardarelli, Edward Cloutis, Stephanie A. Connell, Cristina Garcia-Florentino, Felipe Gómez, Nikole C. Haney, Carina Lee, Valeria Lino, Paola Manini, Francis M. McCubbin, Michelle Minitti, Richard V. Morris, Yu Yu Phua, Nicolas Randazzo, Joseph Razzell Hollis, Francesco Renzi, Sandra Siljeström, Justin I. Simon, Anushree Srivastava, Nicola Tasinato, Kyle Uckert, Roger C. Wiens, Amy J. Williams, è stato pubblicato su Nature Astronomy.

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

KEPLER-10c: UN PIANETA DI ACQUA SVELATO DAI CIELI DELLE CANARIE

Un team guidato dall’INAF ha misurato con grande precisione la massa del pianeta Kepler-10c, definendolo come un possibile mondo in gran parte composto da ghiaccio di acqua. Lo studio, pubblicato oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics e realizzato grazie ai dati raccolti dallo spettrografo HARPS-N installato al Telescopio Nazionale Galileo, ha permesso anche di confermare la presenza di un altro pianeta nel sistema di Kepler-10, fornendo nuove informazioni per comprendere la formazione dei pianeti e le origini del nostro Sistema solare.

Un team internazionale guidato da ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) ha determinato la massa e la densità del pianeta Kepler-10c con precisione e accuratezza senza precedenti. Grazie a circa 300 misure di velocità radiale raccolte con lo spettrografo High Accuracy Radial velocity Planet Searcher for the Northern hemisphere (HARPS-N) installato al Telescopio Nazionale Galileo (TNG) che scruta il cielo dalle Isole Canarie, è stato possibile stimarne la sua composizione – in gran parte di acqua allo stato solido ma forse anche liquido – e capire come si possa essere formato. Lo studio è stato pubblicato oggi sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Kepler-10 è un sistema esoplanetario storico: ospita Kepler-10b, la prima super-Terra rocciosa scoperta dalla missione spaziale Kepler della NASA con un periodo orbitale inferiore al giorno terrestre, e Kepler-10c, un pianeta con un periodo orbitale di 45 giorni, classificato come sub-Nettuno, ovvero un pianeta con raggio e massa inferiori a quelli di Nettuno. Per anni, la massa di Kepler-10c è stata oggetto di grande incertezza: stime discordanti avevano reso difficile capire di cosa fosse fatto.

I dati acquisiti con HARPS-N sono stati elaborati con un nuovo metodo che corregge per effetti strumentali e variazioni dell’attività magnetica della stella madre, anche se di bassa intensità, e sono stati analizzati indipendentemente da tre gruppi dentro il team, raggiungendo gli stessi risultati. Questo lavoro ha permesso di capire che probabilmente Kepler-10c è un water world, ovvero un pianeta con gran parte della sua massa in acqua allo stato solido (ghiaccio) e forse, in piccola percentuale, anche liquido. I ricercatori ritengono che il pianeta si sia formato oltre la cosiddetta linea di condensazione dell’acqua a circa due o tre unità astronomiche dalla sua stella, e che poi si sia progressivamente avvicinato fino alla sua attuale orbita.

Ma non è tutto: il team ha anche confermato l’esistenza di un terzo pianeta, non visibile nei transiti ma rivelato per una piccola anomalia che esso induce sull’orbita di Kepler-10c, riscontrabile nelle  variazioni dei tempi di transito proprio del pianeta Kepler-10c, in modo analogo alla scoperta di Nettuno grazie alle anomalie osservate nell’orbita di Urano. Questo pianeta “fantasma” era stato ipotizzato in precedenza, ma solo ora è stato possibile determinarne in modo accurato il periodo orbitale di 151 giorni e la massa minima, grazie all’eccezionale qualità delle misure di velocità radiale HARPS-N.

“L’analisi delle velocità radiali e delle variazioni dei tempi di transito, dapprima singolarmente e poi in combinazione tra loro, ha dato dei risultati in ottimo accordo sui parametri del terzo pianeta; abbiamo così corretto precedenti stime inaccurate delle sue proprietà”, commenta Luca Borsato dell’INAF di Padova, secondo autore dell’articolo.

Aldo Bonomo dell’INAF di Torino, primo autore dell’articolo, aggiunge: “L’esistenza dei water world è stata prevista teoricamente dai modelli di formazione e migrazione planetarie, ma non ne abbiamo ancora una conferma certa. Tuttavia, una quindicina di pianeti attorno a stelle di tipo solare come Kepler-10c sembrano avere proprio la composizione prevista da questi modelli. La prova del nove dell’esistenza dei water world dovrebbe venire dallo studio delle loro atmosfere con il telescopio spaziale James Webb, perché ci aspettiamo che essi abbiano delle atmosfere particolarmente ricche di vapore acqueo”.

Lo studio del sistema Kepler-10 ci aiuta a capire come si formano i pianeti attorno alle loro stelle. Super-terre come Kepler-10b e sub-Nettuni come Kepler-10c, così comuni nella Galassia ma assenti nel nostro Sistema solare, rappresentano un tassello cruciale per comprendere la varietà dei mondi che orbitano attorno ad altre stelle. In particolare, studiare la composizione dei pianeti cosiddetti sub-nettuniani e capire se sono ricchi o poveri di ghiaccio, può fornire indicazioni non solo sulla loro origine, ma anche sulle prime fasi di formazione dei sistemi planetari e quindi del nostro stesso Sistema solare. Conoscere come e dove si formano questi pianeti e i loro moti di migrazione verso la loro stella, significa guardare indietro nel tempo per scoprire qualcosa in più sulle origini della Terra e forse anche  della vita.


 

Riferimenti Bibliografici:

L’articolo In-depth characterization of the Kepler-10 three-planet system with HARPS-N radial velocities and Kepler transit timing variations, di A. S. Bonomo, L. Borsato, V.M. Rajpaul, L. Zeng, M. Damasso, N.C. Hara, M. Cretignier, A. Leleu, N. Unger, X. Dumusque, F. Lienhard, A. Mortier, L. Naponiello, L. Malavolta, A. Sozzetti, D.W. Latham, K. Rice, R. Bongiolatti, L. Buchhave, A.C. Cameron, A.F. Fiorenzano, A. Ghedina, R.D. Haywood, G. Lacedelli, A. Massa, F. Pepe, E. Poretti e S. Udry è stato pubblicato online sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

Marte: uno studio rivela la struttura interna e l’età della sua calotta ghiacciata

Una ricerca internazionale, a cui ha contribuito la Sapienza, ha fornito nuove informazioni sulla composizione del sottosuolo marziano e ha definito le caratteristiche dei ghiacciai che ricoprono il polo nord del pianeta.  I risultati, pubblicati su Nature, si basano su un’analisi geofisica simile a quella utilizzata sulla Terra per studiare la deformazione della crosta sotto il peso delle masse glaciali.

La superficie della Terra e quella di Marte, come degli altri pianeti terrestri, è costituita perlopiù da roccia e metalli. Nonostante l’aspetto apparentemente inalterabile, la crosta di questi pianeti è soggetta a una serie di deformazioni. Ma rispetto al mantello terrestre, quello marziano risulta essere molto più resistente: a questa scoperta, recentemente pubblicata su Nature, ha contribuito il Dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale della Sapienza. Gli scienziati sono partiti dallo studio del polo nord di Marte per capire come la superficie del pianeta risponda alla pressione esercitata da una vasta calotta di ghiaccio, documentando per la prima volta in ambito planetario processi di isostasia post-glaciale.

La calotta polare di Marte, con uno spessore di circa 3 km e un’età relativamente giovane, deforma la crosta marziana in modo simile a quanto osservato sulla Terra, dove la crosta si solleva gradualmente dopo lo scioglimento delle calotte glaciali. Questo processo, noto come assestamento isostatico glaciale, è stato studiato sulla Terra per stimare la viscosità e la struttura del mantello. L’applicazione di questo metodo a Marte ha rappresentato una sfida significativa a causa della limitata disponibilità di dati.

Se sulla Terra si possono sfruttare sismometri distribuiti in una rete complessa per monitorare con precisione la risposta della crosta al carico glaciale, su Marte le opportunità di osservazione sono molto più limitate. Ad oggi, infatti, è stato posizionato solo un sismometro sul pianeta rosso, a bordo della missione InSight. Per superare questa difficoltà, il gruppo di ricerca ha combinato le misure provenienti dal sismometro con l’analisi delle variazioni temporali delle anomalie gravitazionali su Marte. A ciò si aggiungono modelli di evoluzione termica, che insieme hanno permesso di ottenere informazioni fondamentali sulla deformazione della crosta marziana, e quindi sulle caratteristiche della struttura interna.

“Grazie a questo approccio combinato, è stato possibile misurare il tasso di deformazione della crosta marziana, che risulta estremamente lento – spiega Antonio Genova della Sapienza – Le nostre stime indicano che il polo nord di Marte sta attualmente cedendo ad una velocità massima di 0,13 millimetri all’anno, un valore che riflette la viscosità del mantello superiore, compresa tra dieci a cento volte quella terrestre. Questo implica che l’interno di Marte è estremamente freddo e resistente alla deformazione”.

Lo studio fornisce informazioni importanti sulla struttura interna di Marte, un pianeta che potrebbe offrire ulteriori indizi sull’evoluzione dei pianeti rocciosi, compresa la Terra. Inoltre, i risultati indicano che la calotta polare marziana, con un’età stimata in questo studio tra 2 e 12 milioni di anni, è significativamente più giovane rispetto ad altre grandi strutture della superficie del pianeta. Questa scoperta apre nuove prospettive per le future missioni spaziali, come Oracle, proposta e concepita dal gruppo di Sapienza, e MaQuIs, che potranno approfondire la comprensione della storia geologica del pianeta, del suo passato climatico e della sua potenziale abitabilità.

Riferimenti bibliografici:

Broquet, A., Plesa, AC., Klemann, V. et al. Glacial isostatic adjustment reveals Mars’s interior viscosity structure, Nature (2025), DOI: https://doi.org/10.1038/s41586-024-08565-9

Marte Curiosity cratere
Immagine da Curiosity. Foto NASA/JPL-Caltech/MSSS in pubblico dominio

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Pianeti mancanti: arriva in libreria il libro sui mondi nascosti nel Sistema Solare dell’astrofisico Luca Nardi

 

Arriva nelle librerie fisiche e digitali Pianeti mancanti. Da Plutone a Planet Nine, gli astri erranti nascosti nell’oscurità, il primo libro che racconta della caccia di tutti i mondi che, nel corso della storia, gli astronomi hanno ipotizzato potessero esistere attorno al Sole. Dagli asteroidi a Plutone, da Vulcano a Planet X, sulle tracce di questi corpi celesti l’astrofisico Luca Nardi ripercorre le tappe che hanno condotto a scoprire tutto il Sistema Solare.

la copertina del saggio di Luca Nardi, Pianeti mancanti. Da Plutone a Planet Nine, gli astri erranti nascosti nell’oscurità, pubblicato da Edizioni Dedalo (2025)
la copertina del saggio di Luca Nardi, Pianeti mancanti. Da Plutone a Planet Nine, gli astri erranti nascosti nell’oscurità, pubblicato da Edizioni Dedalo (2025)

Nel corso della storia, gli astronomi hanno ipotizzato l’esistenza di molti mondi attorno al Sole, molti più di quanto siano poi stati trovati davvero. Sono i cosiddetti “pianeti mancanti”, mondi cercati e mai esistiti, come Vulcano, un piccolo corpo vicinissimo al Sole che guidò Einstein alla scoperta della relatività generale. Oppure sono oggetti cercati e poi trovati davvero, come il gigante ghiacciato Nettuno ai confini del Sistema Solare. A volte, poi, da questa ricerca è scaturito tutt’altro: a inizio ‘900 gli astronomi hanno cercato un pianeta misterioso oltre l’orbita di Nettuno, chiamato Planet X. Cercandolo, Clyde Tombaugh scoprì il pianeta nano Plutone, che abbiamo avuto modo di conoscere più da vicino solo nel 2015 grazie alla sonda New Horizons.

Ma la caccia ai pianeti mancanti non è solo storia. Ancora oggi stiamo cercando un pianeta mancante: il misterioso Planet Nine, una gelida super-Terra che si troverebbe nell’oscurità ai margini del sistema planetario.

Pianeti Mancanti, pubblicato per Edizioni Dedalo, è il primo libro interamente dedicato al mistero dei pianeti mancanti, la più affascinante epopea di scoperta astronomica, che lega a doppio filo oltre tre secoli di scienza, storia ed esplorazione spaziale. Un libro adatto a tutti, sia a chi è a digiuno di questi argomenti sia ai lettori più appassionati di saggistica scientifica.

Quella dei pianeti mancanti è in effetti la storia di come abbiamo scoperto tutti i corpi del Sistema Solare” commenta Nardi. “Dalle prime ipotesi dei pensatori greci, fino alle recenti su Planet Nine, passando per gli asteroidi, Nettuno, Vulcano e Planet X, tutte queste storie sono legate da un unico filo conduttore, che ci racconta di come abbiamo imparato a conoscere il nostro vicinato cosmico.”

Il libro è disponibile a partire dal 14 febbraio 2025 in tutte le librerie fisiche e sugli store online di Amazon ed Edizioni Dedalo.

la copertina del saggio di Luca Nardi, Pianeti mancanti. Da Plutone a Planet Nine, gli astri erranti nascosti nell’oscurità, pubblicato da Edizioni Dedalo (2025)
la copertina del saggio di Luca Nardi, Pianeti mancanti. Da Plutone a Planet Nine, gli astri erranti nascosti nell’oscurità, pubblicato da Edizioni Dedalo (2025)

Luca Nardi è astrofisico, dottore in scienze planetarie e divulgatore scientifico. È noto su tutti i social network, ma in particolare sul suo canale YouTube. Collabora con il Planetario di Roma e con varie testate tra cui Wired Italia. Ha pubblicato “Un mese a testa in giù” (Geo4Map, 2021), “Giganti Ghiacciati” (Dedalo, 2023), e “Pianeti Mancanti” (Dedalo, 2025). Con Giganti Ghiacciati ha vinto il Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica.

 

Testo e immagini dall’autore.

GJ 367 b, UN PIANETA DAL CUORE DI FERRO IN UN SISTEMA EXTRASOLARE

LA SCOPERTA DEI RICERCATORI DI UNITO ARRICCHISCE
IL PUZZLE SULLA FORMAZIONE DEI PIANETI

Insieme agli scienziati del Thüringer Landessternwarte, i ricercatori dell’Ateneo torinese hanno confermato che l’esopianeta GJ 367 b ha una densità altissima, quasi doppia rispetto a quella della Terra. Il team ha anche trovato altri due pianeti che orbitano attorno alla stessa stella.

GJ 367 b
– Illustrazione artistica del sistema planetario attorno alla stella GJ 367, con il pianeta più interno e ultra-denso GJ 367 b, e i due pianeti esterni (GJ 367 c e GJ 367 d) appena scoperti © Elisa Goffo

Negli ultimi decenni, gli astronomi hanno scoperto diverse migliaia di pianeti extrasolari. I pianeti extrasolari orbitano attorno a stelle al di fuori del nostro sistema solare. La nuova frontiera in questo campo di ricerca include lo studio della loro composizione e struttura interna, al fine di comprendere meglio il loro processo di formazione.

Elisa Goffo, dottoranda presso il Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino e il Thüringer Landessternwarte (Germania), insieme a un team di ricerca internazionale, ha fatto una scoperta unica, relativamente al pianeta GJ 367 b, che solleva domande interessanti su come nascano i pianeti. È la prima autrice dell’articolo Company for the ultra-high density, ultra-short period sub-Earth GJ 367 b: discovery of two additional low-mass planets at 11.5 and 34 days pubblicato sulla rivista “The Astrophysical Journal Letters”.

La ricercatrice fa parte della collaborazione internazionale KESPRINT che ha confermato come l’esopianeta, che impiega sole 7.7 ore a compiere una rivoluzione attorno alla sua stella, sia anche ultra-denso. La densità di un pianeta viene determinata a partire dalla sua massa e dal suo raggio. Il pianeta GJ 367 b è denominato ultra-denso perché i ricercatori hanno scoperto che la sua densità è di 10,2 grammi per centimetro cubo. Si tratta di una densità quasi doppia rispetto a quella della Terra, il che suggerisce che questo pianeta extrasolare sia costituito quasi interamente di ferro.

Una composizione insolita

Una simile composizione per un pianeta è molto rara e pone diversi interrogativi sulla sua formazione.

Si potrebbe paragonare GJ 367 b a un pianeta simile alla Terra che ha però perso il suo mantello roccioso. Questo potrebbe avere importanti implicazioni sulla sua formazione. Ipotizziamo infatti che il pianeta possa essere stato inizialmente simile alla Terra, con un core denso di ferro circondato da uno spesso mantello ricco di silicati. Un evento catastrofico potrebbe aver stappato il mantello di GJ 367 b, scoprendo il denso core del pianeta. In alternativa GJ 367 b potrebbe essere nato in una regione del disco protoplanetario ricca di ferro“,

spiega Elisa Goffo. Durante l’osservazione di GJ 367 b, il team ha scoperto altri due pianeti di piccola massa che orbitano intorno alla stella GJ 367, rispettivamente in 11,5 e 34 giorni. Questi tre pianeti e la loro stella costituiscono un sistema planetario extrasolare.

GJ 367 b è stato individuato per la prima volta dal Transiting Exoplanet Survey Satellite (TESS), un telescopio spaziale della NASA. TESS utilizza il metodo dei transiti per misurare il raggio degli esopianeti – oltre ad altre proprietà. I ricercatori dell’Università di Torino e del Thüringer Landessternwarte hanno utilizzato misure di velocità radiale, ottenute con lo spettrografo HARPS dell’ESO, per determinare con precisione la sua massa e confermare che il pianeta ha una densità molto elevata. Lo spettrografo HARPS è uno strumento ad alta precisione installato presso il telescopio con uno specchio di 3,6 metri di diametro dell’European Southern Observatory (ESO) a La Silla, in Cile.

Il consorzio di ricerca KESPRINT, composto da oltre 40 membri di nove Paesi (Repubblica Ceca, Danimarca, Germania, Italia, Giappone, Spagna, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti), è specializzato nella conferma e nella caratterizzazione di esopianeti transitanti individuati da diversi telescopi spaziali. Per determinare la densità di GJ 367 b, il team ha ottenuto quasi 300 misure in due anni utilizzando lo spettrografo HARPS, nell’ambito di una campagna osservativa coordinata dal professor Davide Gandolfi, docente del Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino. Grazie a queste numerose osservazioni i ricercatori sono riusciti a misurare la densità con grande precisione.

Grazie all’intensa campagna osservativa con lo spettrografo HARPS abbiamo anche rivelato la presenza di altri due pianeti di piccola massa con periodi orbitali di 11,5 e 34 giorni. Questo riduce il numero di scenari possibili che potrebbero aver portato alla formazione di un pianeta così denso“, afferma Davide Gandolfi. “Mentre GJ 367 b potrebbe essersi formato in un ambiente ricco di ferro, non escludiamo uno scenario di formazione che coinvolga eventi violenti e catastrofici come la collisione tra pianeti“.

Artie Hatzes, direttore del Thüringer Landessternwarte, sottolinea l’importanza di questa scoperta: “GJ 367 b è un caso estremo. Prima di poter sviluppare valide teorie sulla sua formazione abbiamo dovuto misurare con elevata precisione la sua massa e il suo raggio. Ci aspettiamo che un sistema planetario sia composto da diversi pianeti, quindi era importante cercare e trovare altri pianeti in orbita nel sistema – studiare cioè la sua architettura“.

——————————————————————————————————————————–

SCHEDA TECNICA

ALLA SCOPERTA DI GJ 367 b

ULTERIORI INFORMAZIONI

KESPRINT. Il consorzio KESPRINT si occupa della conferma e della caratterizzazione di esopianeti transitanti individuati da missioni spaziali (ad esempio Kepler, K2, TESS) e, in particolare, della caratterizzazione dei pianeti più piccoli. È un team internazionale che include ricercatori del Dipartimento di Fisica, Università di Torino (Italia), del Thüringer Landessternwarte Tautenburg (Germania), dell’Institute of Planetary Research, German Aerospace Center (Germania), del Technische Universität Berlin (Germania), del Rheinisches Institut für Umweltforschung an der Universität zu Köln (Germania), dell’Astronomical Institute of the Czech Academy of Sciences (Repubblica Ceca), del Chalmers University of Technology (Svezia), Instituto de Astrofísica de Canarias (Spagna), del Mullard Space Science Laboratory, University College London (Regno Unito), dell’University of Oxford (Regno Unito), del Stellar Astrophysics Centre, Department of Physics and Astronomy, Aarhus University (Danimarca), dell’Astronomy Department and Van Vleck Observatory, Wesleyan University (USA), del McDonald Observatory, The University of Texas at Austin (USA), del The University of Tokyo (Giappone), dell’Astrobiology Center, National Institute of Natural Sciences (Giappone).

La nomenclatura del pianeta GJ 367 b. Solitamente i pianeti prendono il nome dalla stella attorno a cui orbitano. I pianeti che orbitano la stella GJ 367 sono stati chiamati usando il nome di questa seguito dalle lettere minuscole b, c, d, etc, seguendo l’ordine di scoperta. Tuttavia, al pianeta GJ 367 b e alla sua stella GJ 367 sono stati assegnati dei nomi particolari nell’ambito dell’iniziativa “NameExoWorlds” del 2022 coordinata dall’Unione Astronomica Internazionale. Il pianeta GJ 367 b si chiama Tahay e la sua stella Añañuca, dal nome di fiori selvatici cileni.

Tra le sue tante peculiarità, GJ 367 b si distingue da altri pianeti per il suo periodo orbitale estremamente breve di 7,7 ore. Un anno su questo pianeta dura solo 7,7 ore! La sua massa è pari al 60% di quella della Terra. Il suo raggio è pari al 70% di quello terrestre. Pertanto è più piccolo del nostro pianeta Terra e meno massiccio.

A causa della sua vicinanza alla stella, si stima che la superficie del pianeta rivolta a questa abbia una temperatura di quasi 1.100 gradi Celsius. La stella GJ 367 (Añañuca) si trova a circa 31 anni luce dalla Terra. Questo vuol dire che la luce della stella impiega 31 anni per raggiungere la Terra.

Come funziona il metodo dei transiti: Il telescopio TESS della NASA utilizza il metodo dei transiti per cercare pianeti intorno a stelle diverse dal Sole. Un transito avviene quando un pianeta si muove tra la sua stella e noi. Ogni volta che passa davanti alla sua stella, blocca una piccola parte della luce di questa. Il metodo dei transiti misura questa variazione di luce, da cui si ricavano il periodo e l’inclinazione orbitale, il raggio e altri parametri del pianeta.

Come funziona il metodo delle velocità radiali: Il team di KESPRINT osserva gli esopianeti utilizzando il metodo delle velocità radiali. Questo metodo rivela l’esistenza di un pianeta attorno alla sua stella sfruttando l’effetto Doppler. Nell’immaginario collettivo si pensa che i pianeti orbitino attorno alle loro stelle, ma non è del tutto vero! I pianeti e le stelle orbitano attorno al loro comune centro di massa. A causa del moto orbitale attorno a questo, la luce che riceviamo dalle stelle diventa “più blu” o “più rossa” a seconda che queste si avvicinino o si allontanino da noi. Combinato con il metodo dei transiti, il metodo delle velocità radiali consente di determinare la massa del pianeta.

Informazioni sul Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino. Da quasi 10 anni il gruppo di esopianeti del Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino si occupa dello studio e della caratterizzazione di esopianeti transitanti, combinando dati acquisiti con telescopi spaziali e spettrografi di elevata precisione. Il gruppo di Torino ha coordinato la campagna di osservazione di GJ 367 condotta con lo spettrografo HARPS.

 

Testi e immagine dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino

Intitolato un cratere di Marte a Giovanni Picardi

Il riconoscimento è stato attribuito dall’Unione Astronomica Internazionale al professore della Sapienza, punto di riferimento nel mondo delle applicazioni spaziali di tecnologie radar, scomparso nel 2015.

Lo IAU Working Group per la nomenclatura del sistema planetario ha assegnato il nome di Giovanni Picardi a un ampio cratere di Marte.

“Un riconoscimento per il contributo che il nostro docente ha dato allo studio e alla conoscenza del Pianeta rosso – ha dichiarato la rettrice Antonella Polimeni – e per i nostri ricercatori e le nostre ricercatrici che quotidianamente lavorano per rendere lo spazio meno lontano e sconosciuto”.

Giovanni Picardi è stato punto di riferimento per tutti i radar dell’Agenzia spaziale italiana, a partire dal programma X-SAR sviluppato in collaborazione con l’Agenzia spaziale tedesca e presente in tre voli dello Space Shuttle. Ma ha avuto un ruolo fondamentale anche per i radar presenti in diverse missioni interplanetarie, da Mars Express – di cui è stato responsabile scientifico del radar MARSIS – a Mars Reconnaissance Orbiter fino a Cassini.

Il lavoro scientifico di Picardi, ampiamente riconosciuto a livello internazionale in particolare presso il Jet Propulsion Laboratory della NASA, ha prodotto innovativi concetti di sistema in grado di svelare gli aspetti più nascosti di mondi quali Marte e Titano; nonché di contribuire  a realizzare l’avanzato e innovativo sistema italiano COSMO-SkyMed per l’osservazione della Terra con tecniche radar.

Il contributo del docente della Sapienza è stato fondamentale anche nell’ambito della formazione e della didattica. Come fondatore e primo direttore del Dipartimento di Scienza e tecnica dell’informazione e della comunicazione, poi confluito nel Dipartimento di ingegneria dell’informazione, elettronica e telecomunicazioni, Picardi è stato un “maestro” per almeno tre generazioni accademiche di studenti e ricercatori nel settore delle telecomunicazioni e creatore di un nuovo dottorato interdisciplinare in Telerilevamento.

Marte Curiosity cratere
Immagine da Curiosity. Foto NASA/JPL-Caltech/MSSS in pubblico dominio

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

ZONA ABITABILE: NUOVO STUDIO CHE RILEVA COME PER REALIZZARE LE CONDIZIONI ADATTE ALLA VITA NON BASTI LA SOLA ACQUA, MA SI NECESSITA UNA RADIAZIONE UV DELLA STELLA NÉ TROPPO INTENSA DA RISULTARE DANNOSA NÉ TROPPO DEBOLE DA NON AGIRE COME CATALIZZATORE PER LO SVILUPPO DELLA VITA

Rappresentazione artistica di uno dei pianeti nel sistema TRAPPIST-1. Crediti: ESO/N. Bartmann/spaceengine.org

Un team tutto italiano di ricercatori dell’Università dell’Insubria, dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) e dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) ha di recente portato alla luce una tematica molto rilevante nell’ambito della ricerca di mondi abitabili tra gli esopianeti. Nello specifico i ricercatori si sono chiesti se gli esopianeti scoperti nella cosiddetta “zona abitabile” (vale a dire la zona intorno a una stella dove c’è possibilità che esista acqua liquida sulla superficie) ricevono un flusso di radiazione ultravioletta favorevole allo sviluppo e al mantenimento della vita. Per la raccolta dei dati il team ha utilizzato il telescopio spaziale Swift della NASA per osservare 17 stelle che ospitano 23 pianeti nella zona abitabile. I risultati sono stati pubblicati oggi sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society (MNRAS). Riccardo Spinelli, dottorando dell’Università dell’Insubria e primo autore dello studio, spiega:

“Abbiamo dimostrato che i pianeti scoperti nella zona abitabile delle nane rosse, che sono circa il 75% delle stelle dell’universo, non ricevono abbastanza radiazione ultravioletta per innescare alcuni processi che – secondo esperimenti recenti – portano alla formazione dei mattoni fondamentali della vita (ad esempio RNA)”.

zona abitabile acqua radiazione UV
Rappresentazione artistica della stella nana bianca WD1054–226 attorno alla quale orbitano nubi di detriti planetari e un pianeta nella sua zona abitabile. Crediti: Mark A. Garlick / markgarlick.com

L’acqua è sicuramente un elemento fondamentale per lo sviluppo della vita come la conosciamo noi. Tuttavia, alcuni esperimenti dimostrano che le condizioni per generare la vita e preservarla potrebbero essere molteplici. Ad esempio, la luce ultravioletta della stella attorno a cui i pianeti orbitano può essere un fattore determinante nel definire l’abitabilità di un pianeta. La radiazione ultravioletta prodotta dalla stella che raggiunge il pianeta ha un duplice ruolo: può favorire la formazione di zuccheri primari che assieme agli altri “mattoni” possono portare allo sviluppo della vita ma può anche risultare dannosa distruggendo le catene del DNA delle prime cellule e batteri che si formano. La zona abitabile, l’intervallo di distanze a cui un pianeta in orbita attorno alla sua stella riesce a conservare l’acqua allo stato liquido sulla sua superficie, deve sovrapporsi, almeno in parte, con la zona in cui la radiazione UV della stella non è né troppo intensa da risultare dannosa né troppo debole da non agire come catalizzatore per lo sviluppo della vita.

Il ricercatore aggiunge: “Dai dati raccolti abbiamo dedotto che le nane rosse che abbiamo studiato emettono troppa poca radiazione vicino-ultravioletta per innescare l’origine della vita secondo una chimica che richiede tale radiazione. Inoltre abbiamo trovato una relazione tra la luminosità di una stella nella banda vicino-ultravioletta e la temperatura superficiale di una stella. Questa relazione ci consente di dire che una stella per innescare tali reazioni nella zona abitabile, ovvero irraggiare un pianeta in zona abitabile con un flusso vicino-ultravioletto sufficiente, deve avere una temperatura superficiale di almeno 4000 gradi. Dato che circa il 75% delle stelle dell’Universo sono stelle più fredde questo potrebbe dire che la maggior parte delle stelle dell’Universo non riesce a formare questi mattoni fondamentali per la vita”.

Al contrario, le stelle più calde delle nane rosse riescono a fornire ai pianeti orbitanti nella zona abitabile una radiazione ultravioletta sufficiente ad innescare i processi per la formazione dei mattoni fondamentali per la vita.

Recenti studi sperimentali hanno dimostrato che, in laboratorio, alcuni zuccheri fondamentali per la vita si formano efficientemente se alcune molecole (come acido cianidrico e anidride solforica) vengono esposte ad un flusso minimo di radiazione con lunghezza d’onda nel vicino-ultravioletto.

“D’altra parte sappiamo che troppa radiazione ultravioletta è deleteria per la vita, perché danneggia il DNA e distrugge molte proteine. Dunque esiste attorno ad ogni stella una fascia entro la quale un pianeta potrebbe ricevere abbastanza radiazione UV per innescare l’origine della vita, ma non troppa da distruggerla. Abbiamo definito questa fascia zona ‘UV abitabile’. È una definizione analoga a quella di zona abitabile, che delimita la zona attorno ad una stella dove l’irraggiamento stellare consente una temperatura adatta alla presenza di acqua liquida sulla superficie planetaria, condizione che si ritiene necessaria alla vita sulla Terra. Il nostro lavoro è partito dalla domanda: gli esopianeti scoperti che orbitano nella zona abitabile, orbitano anche nella zona UV abitabile?”, sottolinea Francesco Borsa dell’INAF di Milano.

Perché utilizzare Swift? Questo telescopio osserva nella banda ultravioletta, mediante lo strumento UltraViolet Optical Telescope (UVOT) “che ci ha permesso di misurare il flusso delle stelle selezionate che hanno attorno a loro pianeti orbitanti nella fascia abitabile. Alcune delle osservazioni di cui avevamo bisogno non erano presenti nell’archivio di dati Swift e quindi abbiamo fatto una proposta osservativa ottenendo una frazione del tempo che l’Italia ha a disposizione in accordo con gli altri stati (USA e UK) che hanno costruito e gestiscono il satellite”, afferma ancora Spinelli.

“Un cambiamento di prospettiva interessante è che in futuro l’eventuale scoperta di vita su pianeti abitabili attorno a nane rosse, potrebbe farci riconsiderare l’ipotesi che la luce ultravioletta sia fondamentale per la formazione della vita. In qualche modo, gli esopianeti potrebbero rappresentare anche dei laboratori per studiare come la vita si è originata sulla terra”, conclude Giancarlo Ghirlanda dell’INAF di Milano.


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “The ultraviolet habitable zone of exoplanets”, di Riccardo Spinelli, Francesco Borsa, Giancarlo Ghirlanda, Gabriele Ghisellini, Francesco Haardt, è stato pubblicato su pubblicato su Monthly Notices Royal Astronomical Society (MNRAS).

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

SCOPERTE DUE ESO-TERRE POTENZIALMENTE ABITABILI A 16 ANNI LUCE DA NOI

Un team internazionale di ricercatori, tra cui alcuni dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha scoperto la presenza di due pianeti di massa comparabile a quella della Terra in orbita attorno alla stella GJ 1002, una nana rossa distante 16 anni luce da noi. Entrambi i pianeti orbitano all’interno della zona del sistema considerata potenzialmente abitabile.

SCOPERTE DUE ESO-TERRE POTENZIALMENTE ABITABILI A 16 ANNI LUCE DA NOI
Scoperte due eso-terre potenzialmente abitabili a 16 anni luce da noi. Rappresentazione artistica del sistema esoplanetario attorno alla stella GJ 1002. Crediti: Alejandro Suárez Mascareño e Inés Bonet Márquez

I nuovi pianeti individuati orbitano attorno alla vicina stella GJ 1002, situata a meno di 16 anni luce di distanza dal Sistema solare, in direzione della costellazione della Balena. Entrambi hanno una massa simile a quella della Terra e orbitano a una distanza dalla loro stella ideale per mantenere l’acqua allo stato liquido, condizione considerata fondamentale per ospitare forme di vita. Un anno su GJ 1002 b, il pianeta più interno, dura solo 10 giorni: tanto, infatti, il pianeta impiega per completare un’orbita attorno alla sua stella. Il secondo corpo celeste del sistema, GJ 1002 c, più distante, percorre interamente la sua orbita in 21 giorni.

“La natura sembra determinata a dimostrare che gli esopianeti simili alla Terra sono molto comuni. Con questi due, ne conosciamo già 7 in sistemi vicini”, spiega Alejandro Suárez Mascareño, ricercatore dell’Instituto de Astrofísica de Canarias (IAC), primo autore dell’articolo che riporta la scoperta accettato per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics.

“La stella centrale è un astro di bassa luminosità, con solo il 12% della massa del nostro Sole. È una sorella gemella di Proxima Centauri, la stella a noi più vicina, e per questo la regione di abitabilità del sistema è situata nelle sue immediate vicinanze”, spiega Alessandro Sozzetti, coautore dell’articolo e primo ricercatore presso l’INAF di Torino.

Scoperte due eso-terre potenzialmente abitabili a 16 anni luce da noi: infografica che mette a confronto le dimensioni dei pianeti del nostro Sistema solare con le due eso-terre scoperte attorno alla stella GJ 1002, denominate “GJ 1002 b” e “GJ 1002 c”. Crediti: Alejandro Suárez Mascareño / NASA

La vicinanza della stella al nostro sistema solare rende entrambi i pianeti, GJ 1002 c in particolare, ottimi candidati per la caratterizzazione atmosferica attraverso lo studio della loro luce riflessa o dell’emissione termica.

“Ci aspettiamo di poter investigare la presenza di un’atmosfera attorno a GJ 1002 c, alla ricerca di ossigeno in particolare, utilizzando lo spettrografo ANDES, strumento la cui progettazione è a guida italiana, in cui INAF e fortemente coinvolto e che opererà in futuro sull’Extremely Large Telescope dell’ESO, il più grande telescopio al mondo con il suo specchio principale di ben 39 metri di diametro, in costruzione nel deserto cileno”, spiega Sozzetti.

Inoltre, entrambi i pianeti hanno le caratteristiche giuste per diventare obiettivi primari di futuri ambiziosi progetti di missioni spaziali in grado di ottenerne immagini dirette, quali LUVEx, recentemente raccomandato a NASA da un comitato di esperti americani, o LIFE, al momento oggetto di studio in Europa nel contesto del programma di lungo termine Voyage 2050 dell’ESA.

Questa scoperta è stata possibile solo grazie alle osservazioni combinate degli strumenti ESPRESSO e CARMENES. GJ 1002 è stata osservata da CARMENES (Calar Alto high-Resolution search for M dwarfs with Exoearths with Near-infrared and optical Échelle Spectrographs), lo spettroscopio installato al telescopio da 3,5 metri di diametro dell’Osservatorio Calar Alto, in Spagna, tra il 2017 e il 2019. Successivamente, tra il 2019 e il 2021, la stella è stata osservata anche con lo spettrografo ESPRESSO (Echelle SPectrograph for Rocky Exoplanet and Stable Spectroscopic Observations installato al Very Large Telescope dell’ESO, sulle Ande cilene. La combinazione di ESPRESSO e della grande superficie di raccolta della luce messa a disposizione dagli specchi principali del VLT, ciascuno del diametro di 8 metri, ha permesso di ottenere misure di velocità radiali con una precisione di 30 centimetri al secondo, un risultato fuori dalla portata di quasi ogni altro strumento al mondo. “L’individuazione dei segnali dovuti ai due pianeti nei dati di CARMENES ed ESPRESSO separatamente era tutt’altro che chiara. La loro effettiva combinazione è stata la chiave di volta che ci ha permesso di stabilirne la presenza senza ombra di dubbio. Possiamo ben affermare che in questo caso, grazie all’efficace collaborazione tra gruppi diversi, l’unione fa la forza!”, conclude Alessandro Sozzetti.

Per ulteriori informazioni:

La scoperta è in corso di pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics nell’articolo Twotemperate Earth-mass planets orbiting the nearby star GJ 1002 di A. Suárez Mascareño, E. González–Álvarez, M. R. Zapatero Osorio, J. Lillo-Box, J. P. Faria, V. M. Passegger, J. I. González Hernández, P. Figueira, A. Sozzetti, R. Rebolo, F. Pepe,N. C. Santos, S. Cristiani, C. Lovis, A. M. Silva, I. Ribas, P. J. Amado, J. A. Caballero, A. Quirrenbach, A. Reiners, M. Zechmeister, V. Adibekyan, Y. Alibert, V. J. S. Béjar, S. Benatti, V. D’Odorico, M. Damasso, J. -B. Delisle, P. Di Marcantonio, S. Dreizler, D. Ehrenreich, A. P. Hatzes, N. Hara, Th. Henning, A. Kaminski, M. J. López–González, C. J. A. P. Martin, G. Micela, D. Montes, E. Pallé, S. Pedraz, E. Rodríguez, C. Rodríguez–López, L. Tal–Or, S. Sousa e S. Udry.

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza
Istituto Nazionale di Astrofisica – INAF

PROTOSTELLE: LA VIA PER STUDIARE LA FORMAZIONE DEI PIANETI

Uno studio condotto da un team internazionale a cui hanno partecipato ricercatrici e ricercatori dell’Istituto Nazionale di Astrofisica ha analizzato le primissime fasi di formazione delle stelle di piccola massa per comprendere in dettaglio il processo di accrescimento che porta alla nascita di stelle come il Sole e pianeti come quelli del Sistema solare. La ricerca ha rivelato una relazione tra il tasso di accrescimento delle protostelle e il disco di materia che le circonda sin dai primordi della formazione stellare. Questi risultati, basati su osservazioni di 26 protostelle, permetteranno di individuare le condizioni iniziali che danno luogo alla formazione dei pianeti.

PROTOSTELLE: LA VIA PER STUDIARE LA FORMAZIONE DEI PIANETI
Illustrazione che mostra i diversi stadi della formazione stellare. Crediti: Bill Saxton, Nrao/Aui/Nsf

Le stelle di piccola massa, come il nostro Sole, si formano a partire da concentrazioni di gas e polveri cosmiche che collassano sotto la loro stessa gravità. Durante il collasso, questi oggetti ruotano e condensano la massa al centro, dando origine a una protostella, attorno alla quale si forma un disco circumstellare, il tutto all’interno di un alone, o inviluppo, di materia. Un nuovo studio, guidato da Eleonora Fiorellino dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha analizzato queste prime fasi della formazione stellare in cerca di una possibile relazione fra il tasso di accrescimento di una stella in formazione e il suo disco circumstellare. I risultati sono stati pubblicati su The Astrophysical Journal Letters.

“Pensiamo che sia l’inviluppo che il disco attorno a una protostella dissipino la propria massa nel tempo, espellendola nel mezzo interstellare e al contempo accrescendo la massa della stella in formazione”, afferma Fiorellino, ricercatrice post-doc presso la sede INAF di Napoli, che ha svolto parte dello studio anche presso il Konkoly Observatory di Budapest, in Ungheria. “Questo lavoro tratta proprio del processo di accrescimento per il quale una parte del materiale del disco, seguendo le linee di campo magnetico della stella in formazione, arriva sulla stella, accrescendone la massa”.

Una simile analisi era già stata realizzata per oggetti un po’ più evoluti: le cosiddette “stelle di pre-sequenza principale”, ovvero lo stadio che precede la sequenza principale, fase fondamentale dell’evoluzione di una stella, caratterizzata dalla fusione dell’idrogeno nel nucleo della stella. Per questi oggetti si era trovata una relazione fra le varie grandezze fisiche in gioco, individuando alcuni modelli teorici, in particolare il modello viscoso e quello che prevede venti idrodinamici, in grado di spiegare i dati osservativi. Il nuovo studio si concentra, per la prima volta, sulle protostelle, cioè lo stadio precedente alle stelle di pre sequenza, registrando un trend evolutivo con le stelle di pre-sequenza, come aspettato, ma anche alcune differenze.

“Paradossalmente, come spesso accade in fisica, sono proprio le differenze che troviamo ad essere interessanti”, commenta Fiorellino, “perché potrebbero dirci non solo come si formano le stelle ma anche darci le condizioni iniziali per la formazione planetaria, che sempre più lavori ci indicano avvenire proprio durante la fase prestellare. Per interpretare al meglio questi dati osservativi, abbiamo capito che abbiamo bisogno di modelli teorici ancora più accurati perché quelli che abbiamo al momento non tengono conto di aspetti specifici della fase protostellare”.

I processi fisici che avvengono mentre le stelle in formazione acquistano massa non sono ancora del tutto chiari. La conoscenza attuale è limitata alla fase di pre-sequenza, facile da osservare in banda ottica. Al contrario, gli oggetti più giovani, nella fase protostellare, non sono visibili nell’ottico ed è molto più complicato studiarli, poiché occorrono osservazioni in banda infrarossa.

La ricercatrice Eleonora Fiorellino, post-doc presso l’Istituto Nazionale di Astrofisica a Napoli (a sinistra) e Lukasz Tychoniec, ricercatore post-doc presso il quartier generale dell’ESO a Garching (a destra). Crediti: E. Fiorellino; L. Tychoniec

Grazie a nuovi strumenti, tra i quali KMOS montato sul Very Large Telescope dell’ESO – European Southern Observatory in Cile, e all’uso di nuove tecniche di analisi, Fiorellino ha studiato le 26 protostelle più brillanti entro circa 1600 anni luce da noi, calcolando i loro tassi di accrescimento. Inoltre, osservazioni ottenute con l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA) hanno permesso al collega Lukasz Tychoniec, ricercatore post-doc presso il quartier generale dell’ESO a Garching, in Germania, di calcolare la massa dei dischi che circondano queste protostelle, per capire se i processi fisici che valgono per le stelle di pre-sequenza sono gli stessi che valgono per le protostelle.

“Questo lavoro mostra un trend evolutivo evidente fra protostelle brillanti (dette di classe I) e stelle di pre-sequenza (classe II), suggerendoci di andare a studiare protostelle ancora più giovani e meno brillanti (classe 0) con strumenti più potenti da Terra o con JWST nello spazio. Inoltre mostra che i modelli che hanno successo nello spiegare le fasi di pre-sequenza falliscono se applicati alle protostelle. Pensiamo che il motivo per cui ciò avvenga sia dovuto al fatto che l’inviluppo delle protostelle, trascurato nelle stelle di pre-sequenza, giochi invece un ruolo cruciale durante l’accrescimento”, conclude Fiorellino. “Queste grandezze non sono utili solo a capire come le stelle si formano ma anche a dare le condizioni iniziali per la formazione dei pianeti, come la Terra, che hanno origine sempre nel disco circumstellare”.


 

Per ulteriori informazioni:

L’articolo “The relation between the Mass Accretion Rate and the Disk Mass in Class I Protostars” di Eleonora Fiorellino, Lukasz Tychoniec, Carlo F. Manara, Giovanni Rosotti, Simone Antoniucci, Fernando Cruz-Sáenz de Miera, Ágnes Kóspál e Brunella Nisini, è stato pubblicato online sulla rivista The Astrophysical Journal Letters.

Testo e foto dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)