News
Ad
Ad
Ad
Tag

pediatria

Browsing

Ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca scoprono una nuova emoglobina grazie alla tecnologia più avanzata: è l’Emoglobina Monza

Si chiama Emoglobina Monza ed è una nuova variante di emoglobina instabile associata ad anemia emolitica acuta in età pediatrica: è stata identificata alla Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori di Monza e studiata grazie all’intelligenza artificiale e ad altre tecniche avanzate.

Milano, 19 dicembre 2024 – Una nuova variante emoglobinica, denominata “Emoglobina Monza”, è stata individuata da un gruppo di ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca. Questa variante, causata da una duplicazione di 23 aminoacidi nel gene dell’emoglobina (HBB), comporta instabilità della proteina, provocando episodi di anemia emolitica acuta, soprattutto in occasione di episodi febbrili. La scoperta, pubblicata sulla rivista Med di Cell Press, apre il campo a nuove prospettive per lo studio di queste rare patologie grazie all’utilizzo di tecniche di Intelligenza artificiale.

Il caso clinico che ha portato alla scoperta è stato quello di una bambina di origine cinese che, a seguito di un episodio febbrile, ha sviluppato una grave anemia emolitica, condizione patologica caratterizzata da una distruzione accelerata dei globuli rossi, a un ritmo superiore alla capacità del midollo osseo di produrli. Le conseguenze della patologia possono essere gravi, specialmente in età pediatrica quando gli episodi acuti possono compromettere seriamente lo stato di salute dei piccoli pazienti.

«Esistono varianti emoglobiniche, note come “emoglobine instabili”, che tendono a essere degradate (ovvero distrutte) sotto stress fisici, come gli episodi febbrili, scatenando così crisi emolitiche. A causarle generalmente sono alterazioni puntiformi nella sequenza amminoacidica dell’emoglobina, che modifica la stabilità e la funzionalità della proteina stessa», spiega Carlo Gambacorti-Passerini, direttore del reparto di Ematologia della Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori di Monza e professore presso l’Università di Milano-Bicocca, che ha coordinato il progetto di ricerca.

La piccola paziente è stata seguita presso la Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori di Monza dalla pediatra Paola Corti e dal tecnico Amedeo Messina, che hanno realizzato che l’anemia era dovuta a una variante anomala di emoglobina con un comportamento instabile in situazioni di stress. Indagini successive hanno rivelato che anche la madre e i due fratelli della bambina possedevano la stessa variante e manifestavano episodi simili nel corso di episodi febbrili. Un’analisi genetica specifica ha mostrato che la variante non solo era inedita, ma era anche caratterizzata da una duplicazione molto lunga (23 aminoacidi) del gene che codifica la catena beta dell’Emoglobina (HBB), una caratteristica mai osservata prima in altre emoglobine instabili.

Le duplicazioni lunghe nel gene HBB sono molto rare e sono state sempre associate a un’altra malattia, la beta-talassemia. Infatti, si è sempre ritenuto che le lunghe duplicazioni comportino un’alterata interazione tra le due catene che compongono l’emoglobina, Beta e Alfa. Il dottor Ivan Civettini, ematologo, ora dottorando presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele, e la dottoressa Arianna Zappaterra, medico presso la divisione di Ematologia della Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori di Monza, si sono quindi chiesti come una mutazione di tale portata potesse comunque consentire all’emoglobina di mantenere una funzionalità normale, almeno in condizioni fisiologiche. 

«La struttura della variante emoglobinica è stata ricreata utilizzando tecniche di modeling tridimensionale e intelligenza artificiale (reti neurali), recentemente premiate con il Nobel per la chimica», precisa Ivan Civettini. «In condizioni normali, il legame tra le due catene dell’emoglobina è preservato e la duplicazione si presenta come una lunga protrusione che sbatte un po’ come una banderuola nel vento, al di fuori della struttura proteica dell’emoglobina. Inoltre abbiamo osservato che questa mutazione non compromette il centro attivo dell’emoglobina, dove avviene il legame con ossigeno e ferro. In sintesi, in condizioni normali, l’emoglobina Monza resta stabile e il legame preservato tra le catene dell’emoglobina non causa beta-talassemia».

Che cosa avviene dunque nel sangue durante l’episodio febbrile? Per ricreare questa condizione sono state utilizzate ulteriori tecniche computazionali avanzate, note come “dinamica molecolare”. È stato ricreato un fluido con la stessa “salinità” del sangue umano, dove è stata inserita l’emoglobina normale e l’emoglobina Monza e che è stato portato alla temperatura di 38°C, come durante un episodio febbrile. Risultato? L’Emoglobina Monza si degrada più velocemente di quella normale, perdendo il contatto con l’atomo di ferro. Questi esperimenti sono stati eseguiti in collaborazione col professor Alfonso Zambon dell’Università di Modena e Reggio Emilia.

«La scoperta offre nuovi spunti per comprendere meglio varianti rare di emoglobina, ma che diverranno sempre più frequenti in Italia con l’aumento di etnie diverse da quella caucasica», aggiunge Carlo Gambacorti-Passerini. «L’uso di tecniche computazionali moderne e l’ausilio dell’intelligenza artificiale hanno reso questo tipo di studi più rapido ed economico rispetto a metodi tradizionali come, per esempio, la cristallografia a raggi X. Un’ulteriore prova dell’importanza della collaborazione tra diverse istituzioni nella medicina moderna».

 

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca

UNA NUOVA SPERANZA PER LA CURA DEL NEUROBLASTOMA INFANTILE: I RISULTATI DELLO STUDIO DELL’UNIVERSITÀ DI TORINO ASSIEME AD HARVARD

I dati della ricerca sostenuta dalla Fondazione AIRC, pubblicati sulla prestigiosa rivista “Cancer Cell”, promettono nuovi sviluppi nella lotta contro il neuroblastoma, un tumore pediatrico ancora difficile da curare.

 

Il neuroblastoma rappresenta una sfida complessa per la pediatria oncologica, il tasso di sopravvivenza a cinque anni per questo tumore si aggira intorno al 50% per i bambini con forme ad alto rischio. Tuttavia, i risultati di uno studio, condotto dal gruppo di ricerca guidato dal Prof. Roberto Chiarle del Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute dell’Università di Torino, e professore presso il Boston Children’s Hospital e la Harvard Medical School, ha delineato una nuova strategia terapeutica che potrebbe migliorare l’efficacia delle cure per questo tipo di tumore.

I ricercatori hanno in particolare dimostrato che l’utilizzo di cellule CAR T contro il recettore ALK, in combinazione con inibitori di ALK stesso, può portare a risultati promettenti nella cura del neuroblastoma. Le cellule CAR T sono cellule del paziente stesso, modificate in laboratorio in modo che in superficie abbiano un recettore chimerico in grado di riconoscere, in questo caso, il recettore ALK.

I risultati dello studio, sostenuto da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, sono stati pubblicati sulla rivista Cancer Cell (https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/38039964/).

La terapia con cellule CAR T è una potente arma emergente contro il cancro, che modifica le cellule T dei pazienti in modo che possano riconoscere e attaccare le cellule tumorali in modo più preciso e mirato. Ma le attuali terapie a base di CAR T sono solo parzialmente efficaci contro la maggior parte di tumori solidi, compreso il neuroblastoma, un tumore che in genere inizia nel tessuto nervoso dei bambini e può dare origine a metastasi in diverse aree del corpo.

Roberto Chiarle e colleghi hanno creato in laboratorio una nuova terapia cellulare di tipo CAR T per il neuroblastoma e sperano di iniziare presto a sperimentarla clinicamente nei bambini ad alto rischio. Queste CAR T mirano specificamente al recettore ALK, il cui gene è un noto oncogene implicato in molti altri tipi di tumore. Tuttavia, non tutti i pazienti affetti da neuroblastoma presentano livelli sufficientemente elevati di recettori ALK sulle cellule tumorali per attirare un forte attacco da parte delle cellule CAR T.

Guidato dalla ricercatrice Elisa Bergaggio, il gruppo di Chiarle ha provato ad aggiungere al trattamento con cellule CAR T un farmaco inibitore di ALK. Si è scoperto che l’inibitore non solo silenzia la segnalazione oncogenica da parte dei recettori ALK, ma aumenta anche il numero di questi recettori sulla superficie cellulare, offrendo più bersagli per le cellule CAR T nei pazienti con bassa espressione di ALK.

I risultati preclinici, pubblicati su Cancer Cell, hanno dimostrato l’efficacia di questa combinazione terapeutica in animali con neuroblastoma metastatico, con una significativa riduzione della crescita tumorale e un miglioramento nella sopravvivenza nei topi trattati.

A seguito di queste scoperte, il Dana-Farber/Boston Children’s Hospital sta preparando la richiesta di autorizzazione alla Food and Drug Administration (FDA) americana per avviare uno studio clinico su questa terapia combinata nei bambini affetti da neuroblastoma refrattario alle cure o da una recidiva della malattia. Tale studio clinico si svilupperà a Boston e sarà in parte sostenuto anche dal contributo di filantropi torinesi e piemontesi guidati da Lucio Zanon di Valgiurata.

tumori infantili RNA
Una ricerca per la cura del neuroblastoma infantile aggiunge al trattamento con cellule CAR T un farmaco inibitore di ALK. Foto di RyanMcGuire

Testo dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino

Creato un organoide di osso per studiare trattamenti più efficaci la sindrome di Hurler, una malattia genetica pediatrica rara 

Uno studio condotto dalla Fondazione Tettamanti e da Sapienza Università di Roma ha permesso di realizzare, grazie a cellule staminali scheletriche prelevate dai pazienti, una riproduzione dell’architettura della cartilagine e dell’osso (organoide) per studiare trattamenti più efficaci per la sindrome di Hurler, malattia genetica pediatrica rara. La ricerca, pubblicata dalla rivista scientifica internazionale JCI Insight, apre alla possibilità di utilizzare organoidi per lo studio delle malattie genetiche rare.

 

Per la prima volta è stato creato in laboratorio un organoide di osso, ovvero una riproduzione tridimensionale del tessuto cartilagineo e osseo umano, utilizzando cellule staminali scheletriche di pazienti con la sindrome di Hurler, per studiare i meccanismi e sperimentare trattamenti più efficaci per questa malattia genetica rara pediatrica che colpisce in Europa un bambino su 100.000. E’ stato possibile grazie a una ricerca portata avanti dalla Fondazione Tettamanti di Monza e da la Sapienza Università di Roma, pubblicata sulla rivista scientifica internazionale JCI Insight.

Lo studio vede tra i co-autori il Professor Shunji Tomatsu dell’Università del Delaware, tra i massimi esperti mondiali di mucopolisaccaridosi, gruppo di patologie genetiche rare di cui fa parte la sindrome di Hurler.

Questa patologia è causata dalla mutazione di un gene e dalla conseguente assenza dell’enzima che nell’organismo umano si occupa dello “smaltimento” di alcune catene di zuccheri, dette glicosaminoglicani. L’accumulo di queste molecole danneggia tutti gli organi e i tessuti e, in particolare, le ossa che risultano essere la parte del corpo più resistente alle terapie oggi disponibili: la enzimatica sostitutiva, che consiste nella somministrazione dell’enzima mancante, il trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche e la genica, ovvero l’infusione nel paziente di cellule staminali ematopoietiche del paziente stesso in cui il gene mutato è stato “corretto” in laboratorio.

Grafica che illustra l’organoide di osso ottenuto da cellule derivate da donatori sani e da pazienti con sindrome di Hurler
Grafica che illustra l’organoide di osso ottenuto da cellule derivate da donatori sani e da pazienti con sindrome di Hurler

L’organoide, che replica alcune caratteristiche peculiari delle ossa dei pazienti colpiti da questa patologia, è pertanto un modello prezioso per osservare con precisione ancora maggiore i meccanismi della malattia e su cui sperimentare farmaci più efficaci.

I ricercatori che hanno realizzato la ricerca: Samantha Donsante (Sapienza Università di Roma), Alice Silvia Pievani e Marta Serafini (Fondazione Tettamanti), Andrea Biondi, direttore scientifico dell’IRCCS San Gerardo dei Tintori
I ricercatori che hanno realizzato la ricerca: Samantha Donsante (Sapienza Università di Roma), Alice Silvia Pievani e Marta Serafini (Fondazione Tettamanti), Andrea Biondi, direttore scientifico dell’IRCCS San Gerardo dei Tintori

L’organoide è stato creato a partire da cellule staminali scheletriche, cellule essenziali per generare il tessuto osseo, prelevate dal midollo osseo dei piccoli pazienti,” 

spiegano la Professoressa Marta Serafini, FondazioneTettamanti dell’IRCCS San Gerardo dei Tintori di Monza e la Professoressa Mara Riminucci, Dipartimento di Medicina Molecolare, Sapienza Università di Roma:

Queste cellule hanno generato cartilagine che si è poi trasformata in tessuto osseo e midollo osseo nel modello tridimensionale. È stato osservato, anche attraverso analisi molecolari e istologiche, che l’organoide manifestava delle importanti alterazioni rispetto ai soggetti sani. La ricerca rappresenta un primo passo importante per approfondire lo studio di questa patologia e, in prospettiva, di altre malattie genetiche rare con coinvolgimento scheletrico. È infatti fondamentale sviluppare modelli per studiare malattie rare vista la difficoltà di ottenere e, quindi, di analizzare campioni di tessuto, in particolare da pazienti pediatrici”.

I ricercatori che hanno realizzato la ricerca:  Biagio Palmisano, Mara Riminucci, Alessandro Corsi (Sapienza Università di Roma)
I ricercatori che hanno realizzato la ricerca: Biagio Palmisano, Mara Riminucci, Alessandro Corsi (Sapienza Università di Roma)

 La sindrome di Hurler è la forma più grave di mucopolisaccaridosi di tipo 1, malattia genetica rara che, a sua volta, fa parte della più ampia famiglia delle mucopolisaccaridosi, caratterizzate dall’assenza degli enzimi necessari a metabolizzare e smaltire nelle cellule le molecole di zucchero complesse. L’accumulo di tali molecole danneggia gli organi e i tessuti ed è alla base di gravi sintomi, tra cui problemi nella crescita, deformità scheletriche, malfunzionamento degli organi interni e del sistema nervoso.

Le ossa sono particolarmente resistenti alle terapie oggi in uso per il trattamento della sindrome di Hurler e, pertanto le deformità scheletriche risultano essere uno dei sintomi più gravi di questa patologia. Studiarne i meccanismi, anche attraverso organoidi ossei ricavati da cellule umane, aumenta le possibilità di conoscere la sindrome di Hurler più a fondo e di sperimentare in prospettiva terapie più efficaci.

Aggiunge il Professor Andrea Biondi, direttore scientifico dell’IRCCS San Gerardo dei Tintori: “Vorrei sottolineare l’importanza dei risultati all’interno della ricerca sulle malattie rare ed in particolare quelle metaboliche congenite, che ha nel nuovo IRCCS una delle sue aree più rilevanti di ricerca e sviluppo sia da un punto vista clinico che sperimentale”.

 

Riferimenti bibliografici: 

Modeling skeletal dysplasia in Hurler syndrome using patient-derived bone marrow osteoprogenitor cells – 

Samantha Donsante, Alice Pievani, Biagio Palmisano, Melissa Finamore, Grazia Fazio, Alessandro Corsi, Andrea Biondi, Shunji Tomatsu, Rocco Piazza, Marta Serafini e Mara Riminucci – JCI INSIGHT 2024 DOI: 10.1172/jci.insight.173449

 

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

La proteina SALL4, un nuovo bersaglio nella battaglia contro il medulloblastoma
Il gruppo coordinato da Lucia Di Marcotullio, del Dipartimento di Medicina molecolare della Sapienza Università di Roma, ha realizzato uno studio pionieristico sul ruolo della proteina SALL4 e della sua inibizione nel trattamento del medulloblastoma, un tumore cerebrale pediatrico. I risultati, ottenuti grazie al sostegno di AIRC, sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista Cell Death & Differentiation e premiati al 35° Meeting internazionale dell’Associazione italiana colture cellulari.

Da anni il gruppo guidato da Lucia Di Marcotullio svolge ricerche in campo oncologico nei laboratori della Sapienza di Roma per comprendere i meccanismi molecolari e identificare vie terapeutiche innovative. Di recente il gruppo ha aggiunto un nuovo tassello per chiarire e curare meglio il medulloblastoma, uno dei tumori cerebrali pediatrici più aggressivi.

Lo studio ha permesso di identificare per la prima volta la proteina SALL4 quale importante regolatore della via di segnalazione di Hedgehog, essenziale per lo sviluppo embrionale.  Di Marcotullio e colleghe hanno inoltre chiarito che l’anomalo accumulo della proteina interferisce con questa via di segnalazione, provocandone l’attivazione e la conseguente crescita tumorale.

Uno degli aspetti più promettenti dei risultati ottenuti riguarda alcuni dati che suggeriscono l’uso della talidomide quale strategia terapeutica per indurre la degradazione di SALL4 nei tumori che la esprimono in eccesso. L’inibizione di SALL4 si è rilevata infatti efficace sia nel bloccare la crescita delle cellule tumorali, sia nel contrastare la controparte staminale del tumore, responsabile di recidive e del fallimento delle attuali terapie.

La talidomide, nota per il suo ruolo nella storia come farmaco con effetti altamente tossici per il feto, ha però mostrato un nuovo volto nel campo delle terapie anti-tumorali. Attualmente è utilizzata nel trattamento del mieloma multiplo. In studi clinici in corso si sta valutando la sua possibile efficacia per la cura dei tumori cerebrali, incluso il medulloblastoma, offrendo una prospettiva promettente e innovativa.

“Per fornire dati a sostegno dell’uso di farmaci che inducono la degradazione di SALL4 nel trattamento di questo tumore pediatrico, abbiamo impiegato un approccio multidisciplinare, combinando tecniche di biologia molecolare, analisi di espressione genica, studi di interazione proteina-proteina ed esperimenti preclinici con topi di laboratorio con medulloblastoma”.

Le parole sono di Lucia Di Marcotullio insieme alle ricercatrici che hanno condotto lo studio: Ludovica Lospinoso Severini, che ha ricevuto una borsa di studio AIRC, e le colleghe Elena Loricchio e Shirin Navacci. La ricerca si è svolta prevalentemente presso il Dipartimento di Medicina molecolare della Sapienza, in collaborazione con l’Istituto Curie d’Orsay, in Francia, e dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Cell Death & Differentiation.

“Il passaggio dai risultati della ricerca scientifica alla possibile applicazione nei pazienti – spiega Di Marcotullio – si potrebbe tradurre in un beneficio pubblico, obiettivo ultimo di un lavoro tenace svolto tra banconi di laboratorio, pazienti da seguire, cellule e topolini da accudire, idee da perseverare, ipotesi da dimostrare e, soprattutto, dedizione e costanza”. Le ricercatrici ringraziano Fondazione AIRC per sostenere da decenni la ricerca contro il cancro in Italia con preziosi finanziamenti, e in particolare per avere reso possibile il progetto e assegnato una borsa di studio a Ludovica Lospinoso Severini, prima autrice dell’articolo.

Medulloblastoma
Foto di 藤澤孝志, CC BY-SA 4.0

Riferimenti bibliografici:

SALL4 is a CRL3REN/KCTD11 substrate that drives Sonic Hedgehog-dependent medulloblastoma – Ludovica Lospinoso Severini, Elena Loricchio, Shirin Navacci, Irene Basili, Romina Alfonsi, Flavia Bernardi, Marta Moretti, Marilisa Conenna, Antonino Cucinotta, Sonia Coni, Marialaura Petroni, Enrico De Smaele, Giuseppe Giannini, Marella Maroder, Gianluca Canettieri, Angela Mastronuzzi, Daniele Guardavaccaro, Olivier Ayrault, Paola Infante, Francesca Bufalieri & Lucia Di Marcotullio – Cell Death & Differentiation – Doi: https://doi.org/10.1038/s41418-023-01246-6

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

INDIVIDUATE NUOVE POSSIBILITÀ TERAPEUTICHE  PER IL MEDULLOBLASTOMA RESISTENTE ALLA CHEMIOTERAPIA

I ricercatori del Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino dell’Università di Padova, autori dell’articolo pubblicato sulla rivista Acta Neuropathologica Communicationshanno dimostrato che i farmaci che agiscono sul metabolismo delle cellule tumorali, e che sono chiamati comunemente antimetaboliti, sono particolarmente attivi nel trattamento delle cellule tumorali resistenti alle terapie.

La resistenza alla chemioterapia è una delle sfide più impegnative che i medici devono affrontare durante le cure dei pazienti oncologici e che i ricercatori devono cercare di risolvere con i loro studi sperimentali. L’insorgenza di cellule tumorali resistenti alle terapie è infatti uno dei maggiori ostacoli alla completa eliminazione del tumore. Questo è particolarmente rilevante per il medulloblastoma, un tumore cerebrale pediatrico ancora difficile da curare e spesso refrattario alla chemioterapia. Peraltro, le attuali opzioni terapeutiche prevedono l’utilizzo di farmaci che sono parzialmente efficaci, oltre a causare numerosi effetti collaterali e tossicità per i piccoli pazienti. Ciò lascia spazio a potenziali recidive, insieme alle conseguenze a volte durature di farmaci non del tutto tollerabili.

Allo scopo di identificare i meccanismi molecolari che permettono ad alcune cellule tumorali di resistere alla chemioterapia, alcuni ricercatori del Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino dell’Università di Padova insieme a colleghi dell’Istituto di Ricerca Pediatrica – Città della Speranza hanno esposto ciclicamente cellule di medulloblastoma derivate dai pazienti alla stessa combinazione di farmaci comunemente utilizzata in clinica. Hanno così cercato di riprodurre in laboratorio ciò che accade quando un tumore mostra la propria resistenza alla chemioterapia.

I risultati sono stati pubblicati sulla rivista internazionale Acta Neuropathologica Communications in un articolo dal titolo “Molecular and functional profiling of chemotolerant cells unveils nucleoside metabolism-dependent vulnerabilities in medulloblastoma. Lo studio è stato coordinato dal Prof. Giampietro Viola e dal Dott. Luca Persano del Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino dell’Università di Padova ed è stato condotto con pari contributo dalle Dottoresse Elena Mariotto, Elena Rampazzo e Roberta Bortolozzi. La ricerca è stata sostenuta dalla Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, Fondazione Just Italia, Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo (CARIPARO) e dalla charity statunitense Rally Foundation for Childhood Cancer Research.

Grazie a questi esperimenti i ricercatori hanno mostrato che le cellule di medulloblastoma resistenti alla chemioterapia sono in grado di stravolgere completamente molteplici processi intracellulari. Le cellule tumorali contrastano così i danni provocati dai farmaci, si adattano ai trattamenti farmacologici e soddisfano le crescenti esigenze di nutrienti. Questa riconfigurazione metabolica può però trasformarsi nel tallone di Achille di queste cellule.

I ricercatori coinvolti nello studio sono stati in grado di identificare tali vulnerabilità grazie a uno screening di più di 2000 farmaci, con il quale hanno dimostrato che i farmaci che agiscono sul metabolismo delle cellule tumorali, chiamati comunemente antimetaboliti, sono particolarmente attivi nel trattamento delle cellule resistenti. Questo risultato è particolarmente rilevante, dal momento che molti dei farmaci identificati sono già approvati e attualmente impiegati nel trattamento di altre neoplasie, anche pediatriche, facilitando così il loro potenziale futuro impiego anche nel contesto del medulloblastoma.

«Gli studi sulla resistenza alla chemioterapia effettuati e descritti – dice Elena Mariotto, prima coautrice dell’articolo – sono un buon sistema per studiare la resistenza farmacologica e il suo impatto sulla prognosi del medulloblastoma pediatrico. Possono infatti almeno in parte sopperire alla mancanza di campioni di recidive, una lacuna che può ostacolare l’identificazione dei fattori molecolari responsabili della ricrescita del tumore in seguito alla terapia».

«Nonostante siano molto promettenti, questi risultati chiariscono solo su una piccola parte dei potenziali meccanismi con cui le cellule tumorali sfuggono alle attuali terapie antitumorali – spiegano il Prof. Giampietro Viola e il Dott. Luca Persano, coordinatori dello studio –. Anche per questo saranno un punto di partenza per ulteriori studi finalizzati alla caratterizzazione dei processi che sostengono la resistenza terapeutica nei tumori cerebrali pediatrici e l’identificazione di potenziali bersagli farmacologici».

gruppo del professor Giampietro Viola (secondo da destra)
gruppo del professor Giampietro Viola (secondo da destra), impegnato sulla ricerca riguardante il medulloblastoma resistente alla chemioterapia

Link alla ricerca: https://actaneurocomms.biomedcentral.com/articles/10.1186/s40478-023-01679-7

Titolo: “Molecular and functional profiling of chemotolerant cells unveils nucleoside metabolism-dependent vulnerabilities in medulloblastoma” in Acta Neuropathologica Communications – 2023

Autori: Elena Mariotto, Elena Rampazzo, Roberta Bortolozzi, Fatlum Rruga, Ilaria Zeni, Lorenzo Manfreda, Chiara Marchioro, Martina Canton, Alice Cani, Ruben Magni, Alessandra Luchini, Silvia Bresolin, Giampietro Viola & Luca Persano

Testo e foto dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova

Bronchiolite in età pediatrica: negli ultimi anni casi più gravi associati a nuove varianti del virus VRS

Uno studio condotto da ricercatori della Sapienza in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità e pubblicato sulla rivista internazionale Journal of Infection della Elsevier ha caratterizzato le varianti genetiche del virus emerse nel periodo post-pandemico, associate a forme di bronchiolite particolarmente gravi nei bambini.

Negli ultimi anni sono aumentati i casi gravi di bronchiolite nei bambini, e all’impennata hanno contribuito varianti del virus respiratorio sinciziale (VRS), responsabile della malattia. Lo suggeriscono i risultati di uno studio condotto dai virologi della Sapienza di Roma in collaborazione con il Dipartimento di Malattie infettive dell’Istituto Superiore di Sanità pubblicato dal Journal of Infection,

La bronchiolite è una malattia spesso associata all’infezione da VRS che può causare insufficienza respiratoria soprattutto nei bambini con età inferiore a un anno. È importante riuscire a comprendere perché alcuni di loro sviluppino forme cliniche molto gravi e tali da richiedere l’ospedalizzazione e ricovero in terapia intensiva. La caratterizzazione di questi casi, inclusa l’individuazione di ceppi virali che provocano un decorso severo dell’infezione, è di fondamentale importanza per una migliore gestione clinica e terapeutica dei pazienti e per l’utilizzo mirato di misure profilattiche già disponibili o disponibili a breve, come anticorpi monoclonali e vaccini anti-VRS.

La ricerca, finanziata da un progetto Ccm del ministero della Salute, ha analizzato i casi ospedalizzati per bronchiolite presso i reparti del Dipartimento Materno Infantile del Policlinico Umberto I nelle stagioni pre-pandemiche, durante e dopo la pandemia, utilizzando i dati della piattaforma di sorveglianza RespiVirNet dell’Iss.

I risultati hanno dimostrato che nell’autunno 2021 si è verificato un numero di ospedalizzazioni per bronchiolite da VRS quasi doppio rispetto ai periodi pre-pandemici, probabilmente per effetto dell’allentamento delle misure di contenimento del virus. La malattia è stata causata principalmente da ceppi di VRS sottotipo A, che circolavano anche prima della pandemia di COVID-19, e la gravità è stata simile a quella delle stagioni precedenti. Diversamente, le ospedalizzazioni per bronchiolite del 2022-2023, in numero simile all’anno precedente, sono state principalmente causate da nuove varianti genetiche di VRSVù sottotipo B, associate a una maggiore severità della malattia se confrontata a quella delle stagioni precedenti, soprattutto per l’elevata necessità di supporto respiratorio e di ricovero in terapia intensiva.

“Un punto di forza delle nostre ricerche – spiega Guido Antonelli della Sapienza – è quello di aver svolto un’analisi virologica dettagliata su un numero elevato di pazienti pediatrici ospedalizzati per bronchiolite durante le ultime sei stagioni invernali dal 2018-2019 al 2022-2023. In tutti i bambini ricoverati, è stata eseguita la caratterizzazione molecolare e il sequenziamento del ceppo di VRS e una analisi statistica dettagliata dei dati demografici e clinici associati ad un maggiore rischio di forme gravi di bronchiolite.”

“Il nostro studio – spiegano Alessandra Pierangeli e Carolina Scagnolari, coordinatrici della ricerca condotta in stretta collaborazione con il gruppo di pediatri diretti da Fabio Midulla e il coordinamento del Dipartimento di Malattie Infettive dell’Istituto Superiore di Sanità diretto da Anna Teresa Palamara – aggiunge nuovi elementi alla comprensione dei meccanismi patogenetici associati alle varianti di VRS circolanti nel periodo post-pandemico. In effetti sembra che la maggiore severità della patologia e l’aumento degli ingressi in terapia intensiva riscontrato nei casi di VRS sottotipo B, nel 2022-2023 non sono spiegabili solo dal debito immunitario associato ai periodi di lockdown”.

“Lo studio – sottolinea Palamara – evidenzia la necessità di rafforzare la sorveglianza epidemiologica a livello nazionale di VRS, così come degli altri virus respiratori circolanti soprattutto nei mesi invernali, e di progetti di sequenziamento genomico integrati da studi che possano monitorare infettività e patogenicità delle varianti virali. Attraverso dati come quelli evidenziati da questo studio è possibile prevedere l’intensità dei picchi stagionali di casi di bronchiolite allo scopo di razionalizzare le risorse sanitarie”.

Riferimenti:

Genetic diversity and its impact on disease severity in respiratory syncytial virus subtype-A and -B bronchiolitis before and after pandemic restrictions in Rome – A. Pierangeli, R. Nenna, M. Fracella, C. Scagnolari, G. Oliveto, L. Sorrentino, F. Frasca, M.G. Conti, L. Petrarca, P. Papoff, O. Turriziani, G. Antonelli, P. Stefanelli, A.T. Palamara, F. Midulla – Journal of Infection https://doi.org/10.1016/j.jinf.2023.07.008

bronchiolite nuove varianti VRS
Foto di Brandon Holmes 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Bambini con malformazioni dei reni: chiarito il ruolo della profilassi antibiotica

La profilassi antibiotica, pratica comunemente utilizzata nei bambini nati con malformazioni congenite dei reni e delle vie urinarie, riduce da un lato il rischio di infezioni urinarie, ma dall’altro non modifica nel tempo il rischio del danno renale. Anzi, al contrario aumenta le infezioni da germi aggressivi: per diminuire i rischi legati all’antibiotico-resistenza, l’utilizzo di questi farmaci deve essere limitato ai pazienti con infezioni ricorrenti. La pubblicazione dello studio su New England Journal of Medicine.

Milano, 12 settembre 2023 – Qual è il ruolo della profilassi antibiotica nei bambini nati con malformazioni congenite ai reni e alle vie urinarie? È realmente utile oppure rischia solo di sviluppare un rischio di antibiotico-resistenza in pazienti già fragili?

La risposta arriva dai risultati dello studio europeo PREDICT, pubblicati oggi su New England Journal of Medicine, che chiariscono finalmente il ruolo della profilassi antibiotica. La ricerca è stata coordinata dal professor Giovanni Montini, docente di Pediatria dell’Università degli Studi di Milano e direttore della Struttura Complessa di Nefrologia e Dialisi Pediatrica – Trapianti di Rene del Policlinico di Milano, e dal dottor William Morello del suo staff medico.

I bambini nati con malformazioni congenite dei reni e delle vie urinarie sono infatti a elevato rischio di insufficienza renale, dialisi e trapianto di rene rispetto a chi nasce con reni normali. Questi bambini, purtroppo, sviluppano molte infezioni sintomatiche delle vie urinarie (pielonefriti), che potrebbero lasciare cicatrici renali e peggiorare la funzione dei reni nel tempo. Per questo motivo, per molti decenni, sono stati sottoposti a profilassi antibiotica prolungata (piccole dosi di antibiotico quotidiane per anni) per cercare di ridurre le infezioni e preservare la funzione dei reni, ma nessuno studio prima di PREDICT aveva stabilito se questa pratica fosse realmente utile.

Lo studio è stato condotto in 39 centri pediatrici provenienti da 6 Paesi Europei ed è riuscito ad arruolare oltre 290 lattanti nei primi 4 mesi di vita, con una malformazione congenita rara ai reni (reflusso vescico-ureterale). I pazienti sono stati suddivisi in 2 gruppi, di cui solo uno ha eseguito la profilassi antibiotica per 2 anni. Tutti i bambini sono stati strettamente monitorati e trattati per eventuali infezioni urinarie.

I risultati indicano che la profilassi antibiotica riduce il rischio di infezioni delle vie urinarie di circa il 15%, che la maggior parte (2 su 3) dei bambini con reflusso vescico-ureterale non sviluppa infezioni. Tuttavia, allo stesso tempo la profilassi non modifica il rischio di danno renale o di riduzione della funzione renale dopo 2 anni e allo stesso tempo, aumenta le infezioni da germi aggressivi come Pseudomonas aeruginosa e lo sviluppo di resistenze antibiotiche. Lo studio inoltre chiarisce il rapporto tra cicatrici renali e infezioni delle vie urinarie, dimostrando come queste alterazioni dei reni siano spesso congenite e non abbiano una relazione con l’infezione.

“I risultati di questo studio rappresentano il coronamento di un progetto, iniziato molti anni fa, mirato a offrire una risposta definitiva rispetto all’utilità di una pratica molto diffusa come la profilassi antibiotica”, commenta Giovanni Montini. “I nostri dati quantificano per la prima volta il suo effetto e ci fanno capire come possa essere riservata a chi soffre di infezioni ricorrenti, risparmiando lunghe terapie e molte visite ospedaliere in gran parte di questi bambini. Ancora più importante è l’impatto sullo sviluppo di resistenze batteriche. L’uso incontrollato di antibiotici rappresenta una vera emergenza medica della nostra epoca: si stanno, infatti, selezionando batteri sempre più resistenti agli antibiotici attualmente disponibili e per i quali potremmo non avere più terapie efficaci. I dati del nostro studio cambieranno l’approccio gestionale di questi pazienti”, conclude Montini.

Lo studio è stato finanziato dal Ministero della Salute Italiano e da due associazioni non profit, il Sogno di Stefano ONLUS e l’Associazione per il Bambino Nefropatico ONLUS, fondamentali per supporto ai bambini con malattie renali.

Bambini malformazioni reni profilassi antibiotica
Immagine generata dall’IA, di Elf-Moondance

Testo dall’Ufficio Stampa Direzione Comunicazione ed Eventi istituzionali Università Statale di Milano

Nanotecnologie per curare il diabete di tipo 1: una nuova strategia terapeutica scoperta al Centro di Ricerca Pediatrica Invernizzi della Statale di Milano

 I ricercatori del Centro di Ricerca Pediatrica Romeo ed Enrica Invernizzi dell’Università degli Studi di Milano hanno sviluppato una nuova strategia terapeutica per il diabete di tipo 1 basata su nanotecnologie che permette il targeting delle cellule T effettrici contemporaneamente nei linfonodi pancreatici e nel pancreas. Il lavoro, svolto in collaborazione con il Brigham and Women’s Hospital e la Harvard Medical School, è stato pubblicato su Advanced Materials.

COVID-19 albumina diabete tipo 1 nanotecnologie
Foto di Michal Jarmoluk

Milano – 17 luglio 2023 – I ricercatori del Centro di Ricerca Pediatrico Romeo ed Enrica Invernizzi dell’Università degli Studi di Milano, guidati dal Prof. Paolo Fiorina, in collaborazione con il Brigham and Women’s Hospital e la Harvard Medical School, hanno sviluppato una nuova strategia terapeutica per il diabete di tipo 1, basata su nanotecnologie che permette il targeting delle cellule T effettrici contemporaneamente nei linfonodi pancreatici e nel pancreas.

I risultati sono stati appena pubblicati sulla rivista internazionale Advanced Materials, una delle più prestigiose in ambito di scienza dei materiali. I ricercatori hanno sviluppato per la prima volta una nuova e specifica piattaforma basata su nanotecnologie per curare il diabete di tipo 1 che ha come target le HEVs (high endothelial venules) presenti nei linfonodi pancreatici e nel pancreas. L’anticorpo monoclonale anti-CD3 è incapsulato in nanoparticelle la cui superficie è coniugata con un anticorpo che riconosce le HEVs, questo consente il rilascio diretto dell’anti-CD3 mAb sia nei linfonodi pancreatici che nel pancreas. Il trattamento di topi NOD iperglicemici con queste nanoparticelle è risultato in una significativa remissione del diabete di tipo 1 rispetto ai gruppi di controllo.

 “Abbiamo scoperto come nel pancreas di topi NOD e di pazienti con diabete di tipo 1 vi siano HEVs di nuova formazione” afferma Paolo Fiorina, Professore Ordinario di Endocrinologia all’Università Statale di Milano, Direttore del Centro di Ricerca Internazionale sul Diabete di Tipo 1 presso il Centro di Ricerca Pediatrico Romeo ed Enrica Invernizzi, Direttore di Endocrinologia Ospedale Sacco-Fatebenefratelli-Melloni “questo trattamento, che ha come target le HEVs, può essere quindi utilizzato per rilasciare in modo specifico nei linfonodi pancreatici e nel pancreas agenti immunoterapici allo scopo di sopprimere in modo efficace il diabete autoimmune”.

Analizzando in vitro le caratteristiche immunologiche dei linfociti T dei topi NOD iperglicemici trattati con le nanoparticelle, i ricercatori hanno rilevato una riduzione significativa delle cellule T effettrici e una diminuzione nella produzione di citochine pro-infiammatorie.

“Questa piattaforma basata su nanotecnologie, creata in collaborazione con il Brigham and Women’s Hospital e la Harvard Medical School, ci ha permesso di preservare le isole pancreatiche, ridurre le cellule T effettrici, aumentare le cellule T regolatorie e curare il diabete autoimmune in un modello preclinico di diabete di tipo 1” afferma il Prof. Paolo Fiorina.

 Sarà necessario effettuare ulteriori studi ma sicuramente questi dati possono essere un punto di partenza per ottenere un’efficace strategia terapeutica per il trattamento dei pazienti diabetici di tipo 1.

Questo è un altro successo del Centro di Ricerca Pediatrica Romeo ed Enrica Invernizzi che si aggiunge a quelli già recentemente presentati”, commenta il Prof. Gian Vincenzo Zuccotti, Direttore del Centro di Ricerca Pediatrica Romeo ed Enrica Invernizzi. “Questo Centro sta facendo così tanto in termini di ricerca, deve diventare un punto di riferimento per la ricerca scientifica in Italia, un polo all’avanguardia anche per la scoperta di nuove terapie”, continua Zuccotti,senza la collaborazione internazionale tra l’Università di Milano e il Brigham Women’s Hospital Harvard Medical School questo sarebbe stato difficile, impossibile senza il sostegno fondamentale della Fondazione Romeo ed Enrica Invernizzi che ha permesso la costruzione di questo Centro e che ci motiva ogni giorno a lavorare per fare di più in questo campo”.

I coautori dello studio sono Sungwook Jung, Moufida Ben Nasr, Baharak Bahmani, Vera Usuelli, Jing Zhao, Gianmarco Sabiu, Andy Joe Seelam, Said Movahedi Naini, Hari Baskar Balasubramanian, Youngrong Park, Xiaofei Li, Salma Ayman Khalefa, Vivek Kasinath, MacKenzie D. Williams, Ousama Rachid, Yousef Haik, George C. Tsokos, Clive H. Wasserfall, Mark A. Atkinson, Jonathan S. Bromberg, Wei Tao, Paolo Fiorina, Reza Abdi.

Testo dall’Ufficio Stampa dell’Università Statale di Milano

GLI ESOSOMI, “MESSAGGERI” CHE FAVORISCONO LA DIFFUSIONE DELLE METASTASI NEI PAZIENTI PEDIATRICI CON UNA FORMA AGGRESSIVA DI LINFOMA, QUELLO ANAPLASTICO A GRANDI CELLULE

Rivelato l’importante ruolo, nella disseminazione delle metastasi, degli esosomi circolanti, individuati nel flusso sanguigno dei piccoli pazienti affetti da linfoma anaplastico a grandi cellule.

esosomi metastasi linfoma anaplastico
Il team UniPD con Lara Mussolin

I linfomi non-Hodgkin (LNH) dell’età pediatrica sono un insieme eterogeneo di malattie che possono presentarsi clinicamente anche in forma acuta e aggressiva. Una di queste è il linfoma anaplastico a grandi cellule (ALCL), in cui una frazione ancora consistente dei pazienti che non risponde alla terapia può avere ricadute e non guarire, nonostante i miglioramenti nei tassi di cura ottenuti negli ultimi anni.

Ricerche recenti condotte su diversi tipi di tumori solidi dell’adulto hanno mostrato che gli esosomi, minuscole vescicole rilasciate dalle cellule tumorali e immesse in circolo nel sangue, contengono proteine e materiale genetico. Questi ultimi possono a loro volta essere trasferiti a cellule sane, anche lontane dal tumore, e avere un ruolo importante nella progressione della malattia.

I risultati dello studio hanno rivelato il ruolo fondamentale che gli esosomi, circolanti nel flusso sanguigno dei piccoli pazienti affetti da linfoma anaplastico, hanno nella disseminazione delle metastasi. I dati sono stati appena pubblicati sulla rivista Cancer Communications in un articolo dal titolo “Plasma small-extracellular vesicles enriched in miR-122-5p promote disease aggressiveness in pediatric anaplastic large-cell lymphoma” da un gruppo di medici e scienziati, coordinato dalla ricercatrice Lara Mussolin del Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino dell’Università di PadovaLo studio è stato sostenuto da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro.

«In un gruppo di pazienti, dopo la diagnosi di linfoma anaplastico a grandi cellule e prima dell’inizio delle terapie, abbiamo analizzato, con la tecnica di small-RNA sequencing, il carico di piccole molecole, chiamate microRNA, che si trovavano negli esosomi del plasma – spiega Lara Mussolin».

Lara Mussolin
Lara Mussolin

«Le nostre analisi bioinformatiche – puntualizza la Professoressa Stefania Bortoluzzi, del Dipartimento di Medicina Molecolare dell’Ateneo patavino – hanno evidenziato un profilo di microRNA diverso rispetto ai campioni di controllo. In particolare abbiamo notato un significativo aumento del miR-122-5p negli esosomi plasmatici dei pazienti con stadio avanzato di malattia».

«Esperimenti successivi in cellule in coltura e in animali di laboratorio hanno dimostrato che il miR-122-5p inibisce la glicolisi nelle cellule sane, lasciando più glucosio libero. Ciò può favorire – dice Lara Mussolin – la creazione di una nicchia pre-metastatica ‘accogliente’ per le cellule tumorali, promuovendo sia l’aggressività della malattia sia la disseminazione delle cellule tumorali di linfoma anaplastico a grandi cellule. Abbiamo anche notato che elevati livelli di miR-122-5p negli esosomi sono associati a un aumento delle transaminasi nel plasma dei pazienti all’inizio della malattia, indicando che ci sia anche un danno epatico. Il miR-122-5p non è presente nella biopsia del tumore primario dei pazienti, né nelle linee cellulari di ALCL, mentre si trova in abbondanza nel fegato. Questi dati – conclude Lara Mussolin – ci hanno fatto capire che gli esosomi arricchiti di miR-122-5p, che hanno un ruolo importante nella diffusione delle metastasi, non derivano però direttamente dalle cellule tumorali. Queste scoperte, che ci dicono quanto il processo metastatico sia complesso da capire e decifrare, potranno contribuire allo sviluppo di terapia più precise e mirate contro questo tipo di cancro».

Lo studio è stato condotto a Padova, nei laboratori dell’Istituto di ricerca Pediatrica Città della Speranza dal gruppo della Dr.ssa Mussolin, in particolare dalle dott.sse Carlotta C. Damanti, Lavinia Ferrone e Federica Lovisa, e in sinergia con il gruppo di Genomica Computazionale del Dipartimento di Medicina Molecolare guidato dalla Prof.ssa Stefania Bortoluzzi e dal dott. Enrico Gaffo.

Questo importante risultato è stato reso possibile dal sostegno di Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro all’attività scientifica di entrambi i gruppi coinvolti e alla Dr.ssa Mussolin con l’Investigator Grant dal titolo “Identification of new biomarkers of disease progression in Non-Hodgkin Lymphoma of Childhood: the role of liquid biopsy”.

Link all’articolohttps://onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1002/cac2.12415

Titolo: “Plasma small-extracellular vesicles enriched in miR-122-5p promote disease aggressiveness in pediatric anaplastic large-cell lymphoma” – Cancer Communications (2023).

Autori (in grassetto i ricercatori dell’Università di Padova): Carlotta Caterina Damanti, Università di Padova, Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino, Istituto di Ricerca Pediatrico Città della Speranza Lavinia Ferrone, Università di Padova, Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino, Istituto di Ricerca Pediatrico Città della Speranza, Enrico Gaffo, Università di Padova, Dipartimento di Medicina Molecolare, Anna Garbin, Università di Padova, Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino, Istituto di Ricerca Pediatrico Città della Speranza, Anna Tosato, Università di Padova, Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino, Giorgia Contarini, Istituto di Ricerca Pediatrica Città della Speranza, Padova, Ilaria Gallingani, Università di Padova, Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino, Istituto di Ricerca Pediatrico Città della Speranza, Roberta Angioni, Università di Padova, Dipartimento di Scienze Biomediche, Barbara Molon, Università di Padova, Dipartimento di Scienze Biomediche, Giulia Borile, Istituto di Ricerca Pediatrica Città della Speranza, Padova, Elisa Carraro, Azienda Ospedaliera Universitaria di Padova, Marta Pillon, Azienda Ospedaliera Universitaria di Padova, Federico Scarmozzino, Università di Padova, Dipartimento di Medicina, Angelo Paolo Dei Tos, Università di Padova, Dipartimento di Medicina, Marco Pizzi, Università di Padova, Dipartimento di Medicina, Francesco Ciscato, Università di Padova, Dipartimento di Scienze Biomediche, Andrea Rasola, Università di Padova, Dipartimento di Scienze Biomediche, Alessandra Biffi, Università di Padova, Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino, Stefania Bortoluzzi, Università di Padova, Dipartimento di Medicina Molecolare, Federica Lovisa, Istituto di Ricerca Pediatrica Città della Speranza, Padova, Lara Mussolin, Università di Padova, Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino, Istituto di Ricerca Pediatrico Città della Speranza.

Testo e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Padova.

Tumori pediatrici, identificati i fattori genetici che predispongono al neuroblastoma

Colpisce bambini e adolescenti fino ai 15 anni. Circa 15.000 ogni anno nel mondo, 130 in Italia. Il Neuroblastoma è un tumore maligno che ha origine dai neuroblasti, cellule presenti nel sistema nervoso simpatico ed è considerato la prima causa di morte e la terza neoplasia per frequenza dopo le leucemie e i tumori cerebrali dell’infanzia.

Tumori pediatrici: identificati i fattori genetici che predispongono al neuroblastoma
Tumori pediatrici: identificati i fattori genetici che predispongono al neuroblastoma che colpisce bambini e adolescenti fino ai 15 anni. Da sinistra, Ferdinando Bonfiglio, Achille Iolascon e Mario Capasso

Oggi, grazie ad una promettente scoperta dei ricercatori napoletani, c’è una speranza in più per la diagnosi precoce e la cura di una delle malattie rare più temibili. Gli studiosi, guidati da Mario Capasso e Achille Iolascon, Principal Investigator del CEINGE e rispettivamente, professore associato e ordinario di Genetica Medica dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, hanno infatti identificato i fattori genetici che predispongono al neuroblastoma. E lo hanno fatto investigando su un bagaglio di dati tra i più ampi mai utilizzati al mondo.

«Abbiamo analizzato il DNA di quasi 700 bambini affetti da neuroblastoma e più di 800 controlli mediante sequenziamento avanzato, una tecnica innovativa che riesce a decodificare tutti i geni finora conosciuti in modo affidabile e veloce -spiega il professor Capasso – Questa è la più alta casistica mai studiata fin ad oggi grazie alla quale abbiamo scoperto che il 12% dei bambini con neuroblastoma ha almeno una mutazione genetica ereditata che aumenta il rischio di sviluppare un tumore».

La realizzazione di questo lavoro scientifico è stata resa possibile grazie ad analisi computazionali avanzate del team di esperti del prof. Capasso che lavorano nella facility di Bioinformatica per Next Generation Sequencing del CEINGE. In particolare, si tratta di indagini condotte dall’esperto bioinformatico Ferdinando Bonfiglio, primo autore del lavoro.

«Con predisposizione genetica ci si riferisce alla maggiore probabilità, rispetto alla media, che un bambino ha di sviluppare un tumore – chiarisce Iolascon –. Quindi i risultati di questa ricerca hanno rilevanti implicazioni cliniche; infatti sono utili a migliorare la diagnosi redendola sempre più precoce e certa e a migliorare la gestione clinica del paziente indirizzando il medico verso l’utilizzo di trattamenti personalizzati».

I risultati della ricerca, finanziata dalla OPEN Onlus, Fondazione Italiana per la Lotta al Neuroblastoma e Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro, sono stati pubblicati su una autorevole rivista scientifica, eBioMedicine del gruppo editoriale “The Lancet”. Inoltre, tutti i dati genetici sono stati resi disponibili in un database online che altri studiosi potranno liberamente consultare per sviluppare nuove ricerche.

E non è tutto. Lo studio ha investito anche altre patologie, come l’autismo. «Un altro dato interessante che emerso da questa ricerca è che alcune delle mutazioni trovate in questi bambini sono associate anche allo sviluppo di malattie del neurosviluppo, ad esempio i disturbi dello spettro autistico. I risultati raggiunti sono utili anche a meglio comprendere i meccanismi molecolari che sono alla base dello sviluppo di malattie non oncologiche», conclude Mario Capasso.

https://www.thelancet.com/journals/ebiom/article/PIIS2352-3964(22)00577-1/fulltext

Da sinistra, Ferdinando Bonfiglio, Mario Capasso e Achille Iolascon

Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università Federico II di Napoli