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Paola Berchialla

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SIAMO “CIÒ CHE MANGIAMO” MA NON SIAMO “DOVE VIVIAMO”

Uno studio di ricercatori dell’Università di Torino, Trieste e Padova – pubblicato su PNAS – ha esaminato le preferenze alimentari di sei popolazioni lungo l’antica Via della seta e ha scoperto come le nostre scelte, più che dal luogo dove siamo nati o abitiamo, dipendono maggiormente dal sesso biologico, dall’età e da altri fattori culturali.

Gli studi genetici degli ultimi 20 anni hanno ampiamente dimostrato che, tra le popolazioni di tutto il mondo, la maggior parte delle differenze genetiche si riscontrano a livello individuale piuttosto che a livello di popolazione. Due individui presi a caso nella stessa popolazione tendono infatti a essere geneticamente più diversi l’uno dall’altro rispetto alla differenza media fra due popolazioni distinte. Si può dire la stessa cosa anche se si parla di stile di vita e cultura?

In un recente articolo pubblicato sulla rivista scientifica PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences) da ricercatori delle Università di TorinoTrieste e Padova, gli autori hanno indagato la questione utilizzando le abitudini alimentari come una possibile fonte di differenze culturali fra individui. In particolare, hanno esaminato le preferenze alimentari relative a 79 diversi alimenti in sei popolazioni lungo la Via della seta, l’antica rotta commerciale che si estende attraverso tutta l’Asia centrale.

Abbiamo scoperto che la preferenza per alcuni cibi era informativa della preferenza per altri cibi, o che, in altre parole, le preferenze alimentari possono essere descritte combinando un numero discreto di ‘profili alimentari’”, ha affermato il Prof. Luca Pagani, autore senior dello studio, professore associato in Antropologia Molecolare presso l’Università di Padova.

Luca Pagani
Luca Pagani

Inaspettatamente, i profili così individuati non sono tipici di un determinato villaggio o nazione, ma sono invece legati ad altre caratteristiche degli individui partecipanti come la loro età, il sesso e altre scelte culturali. Questo naturalmente con qualche eccezione, rappresentata da alcuni alimenti disponibili solo in determinati Paesi: tra questi spiccano alcuni prodotti locali, come il “sulguni”, un formaggio in salamoia tipico della Georgia ed il “kurut”, un alimento diffuso tra le popolazioni nomadi dell’Asia centrale a base di yogurt essiccato.

I ricercatori hanno verificato che solo il 20% delle abitudini alimentari sono legate al Paese di origine, un valore piuttosto alto se confrontato con la sua controparte genetica (1%) ma ancora non sufficiente a spiegare le differenze osservate, nonostante le migliaia di chilometri che separano le aree geografiche oggetto di studio.

Siamo ciò che mangiamo ma non siamo dove viviamo

I ricercatori hanno poi condensato le differenze nella composizione genetica e nelle preferenze alimentari tra i Paesi in distanze “genetiche” e “alimentari”, e le hanno confrontate con le distanze geografiche reali tra i luoghi di campionamento, rappresentandole insieme in una mappa. Da essa emerge che la “localizzazione culturale” è leggermente più simile a quella geografica, rispetto a quella “genetica” per i gruppi analizzati (Figura 1), coerentemente con quanto emerso dal resto dei risultati.

Non importa dove viviamo o dove siamo nati. Le nostre scelte (almeno quelle legate all’alimentazione) dipendono maggiormente dal sesso biologico, dall’età e da altri fattori culturali”, ha concluso la dott.ssa Serena Aneli, prima autrice dello studio, ricercatrice del Dipartimento di Scienze della Sanità Pubblica e Pediatriche dell’Università di Torino.

Serena Aneli
Serena Aneli

Informazioni

Titolo dell’articolo: “The impact of cultural and genetic structure on food choices along the Silk Road”

Autori: Serena Aneli, Massimo Mezzavilla, Eugenio Bortolini, Nicola Pirastu, Giorgia Girotto, Beatrice Spedicati, Paola Berchialla, Paolo Gasparini, Luca Pagani

LINK: https://www.pnas.org/cgi/doi/10.1073/pnas.2209311119

 

Testo e immagini dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino

DISEGUAGLIANZE SOCIO-ECONOMICHE E USO PROBLEMATICO DEI SOCIAL MEDIA NEGLI ADOLESCENTI

Per la prima volta si è analizzata questa relazione in un campione cross-nazionale di 180.000 soggetti appartenenti a oltre 6.200 scuole di 43 paesi o regioni territoriali

C’è una correlazione tra diseguaglianze socio-economiche e uso problematico dei social media (siti di social network e di messaggi istantanei) comunemente usati dagli adolescenti?

Lo studio pubblicato su «Information, Communication & Society» dal titolo “Can an equal world reduce problematic social media use? Evidence from the Health Behaviour in School-aged Children study in 43 countries” – frutto di una collaborazione internazionale e che ha come prima firma la professoressa Michela Lenzi del Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione dell’Università di Padova – ha preso in esame un campione di circa 180.000  adolescenti dell’età di 11, 13 e 15 anni iscritti a oltre 6.200 scuole di 43 paesi o regioni territoriali e appartenenti al network Health Behaviours in School-aged Children, uno studio cross-nazionale promosso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che viene svolto ogni quattro anni.

Michela Lenzi DISEGUAGLIANZE SOCIO-ECONOMICHE E USO PROBLEMATICO DEI SOCIAL MEDIA NEGLI ADOLESCENTI
Michela Lenzi

Per la prima volta si è analizzata la relazione tra le diseguaglianze socio-economiche (misurata a vari livelli come la scuola e le nazioni) e l’uso problematico dei social media in un campione cross-nazionale. I risultati dell’indagine indicano che la correlazione esiste e che il luogo ideale per prevenire tali effetti sia la scuola perché è in questo contesto che le conseguenze delle diseguaglianze si fanno maggiormente sentire in adolescenza.

La ricerca

Circa 180.00 adolescenti – rispettivamente di 11, 13 e 15 anni, di differenti nazioni, campionati per tipologia di scuola e classe frequentata – hanno compilato un questionario contenente domande sul loro benessere, sui comportamenti legati alla salute e sulle caratteristiche dei contesti di vita.

I ricercatori hanno ipotizzato che il confronto sociale potesse rappresentare il processo che accomuna e collega due fenomeni: l’uso dei social media e le diseguaglianze socio-economiche. La letteratura scientifica aveva già validato, in altre pubblicazioni, le conseguenze negative delle diseguaglianze socio-economiche – riscontrate ad esempio per nazione, regione o quartiere – sul benessere psicologico e fisico degli adolescenti. Esiste un solido consenso tra i ricercatori sulla circostanza che in una società con molti “gradini” lo status diventa più saliente, difficile da ignorare e lo rende, anche nei soggetti appartenenti alle classi abbienti, più percepibile come svantaggioso della situazione vissuta dai singoli. Queste circostanze generano lo sviluppo di una “forte preoccupazione” per il proprio status le cui conseguenze si possono polarizzare in “sentimenti di inferiorità e vergogna” o, alternativamente, in una “tendenza ad amplificare artificialmente il proprio ego”.

Quale modo migliore allora per analizzare i processi di confronto sociale se non i social media, luoghi in cui, soprattutto in adolescenza, questo paragone è molto comune?

I ricercatori si sono chiesti se vivere in contesti molto diseguali, a scuola o in nazioni diverse, aumenti il rischio di uso problematico dei social media, con conseguenze negative sulla vita quotidiana come ad esempio una mancanza di controllo o effetti dannosi sulle relazioni sociali.

 I risultati

Gli esiti della ricerca mostrano che le diseguaglianze socio-economiche, misurate a vari livelli, hanno una relazione diretta con l’uso problematico dei social media.

In particolare, a scuola più lo status socio-economico degli adolescenti si allontana, in media, da quello degli studenti più ricchi dell’istituto, maggiore è il rischio di fare un uso problematico dei social media, a prescindere dalla ricchezza assoluta.

Nel contesto scolastico, il livello medio nel divario di ricchezza tra gli studenti di una scuola (che è un indice riassuntivo della scuola, non la posizione relativa dello studente o della studentessa), si associa ad un maggiore uso problematico dei social media, soprattutto tra le ragazze e i ragazzi che hanno minor sostegno da parte degli amici.

A livello nazionale esiste una relazione tra diseguaglianze e uso problematico dei social media solo per gli adolescenti con basso livello di sostegno familiare. Le spiegazioni di questi risultati devono essere indagate in maniera più approfondita. Infatti da un lato la preoccupazione per il proprio status, favorito dal vivere in contesti diseguali, può portare l’adolescente a cercare sui social una distrazione o uno sfogo di sentimenti negativi. Dall’altro i social media offrono la possibilità di cercare modelli alternativi con cui confrontarsi e di plasmare la propria immagine amplificandone gli aspetti positivi, tutti processi che potenzialmente portano ad un uso problematico.

«Lo studio va ad ampliare la nostra conoscenza sugli effetti negativi che elevati livelli di diseguaglianza possono avere sul benessere. Interventi mirati a ridurre le diseguaglianze socio-economiche potrebbero quindi avere ripercussioni positive anche nella prevenzione dell’uso problematico dei social media, oltre che su una grande varietà di conseguenze sanitarie e sociali come l’uso di sostanze, le gravidanze adolescenziali e l’obesità – dice la professoressa Michela Lenzi, prima autrice della ricerca pubblicata –. Secondo i nostri risultati possiamo affermare che proprio nel contesto scolastico le conseguenze delle diseguaglianze si fanno sentire in adolescenza. Inoltre è la scuola il luogo ideale per prevenire tali effetti. Come? Lavorando sulla percezione dello status socio-economico e sul valore ad esso attribuito nella nostra società, riducendo la tendenza a considerarlo una misura del valore personale, ma anche promuovendo la coesione e il sostegno tra studenti e l’insegnamento di competenze emotive, sociali e digitali. Affinché questi interventi possano essere efficaci è importante che siano associati a politiche che promuovano maggiori livelli di uguaglianza a livello nazionale».

Link alla ricerca: https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/1369118X.2022.2109981

Titolo: “Can an equal world reduce problematic social media use? Evidence from the Health Behavior in School-aged Children study in 43 countries” – «Information, Communication & Society» – 2022

Autori: Michela Lenzi, Frank J. Elgar,Claudia Marino, Natale Canale, Alessio Vieno, Paola Berchialla, Gonneke W. J. M. Steven, Meyran Boniel-Nissim, Regina J. J. M. van den Eijnden & Nelli Lyyra

 

Testo e foto dall’Università degli Studi di Padova