I Musei nazionali di Matera inaugurano l’allestimento dedicato ai resti del fossile della Balena Giuliana – Al Museo Archeologico Nazionale “Domenico Ridola” si segna una ulteriore tappa nel percorso di valorizzazione del fossile della Balena Giuliana, la balenottera ritrovata sulle sponde della diga di San Giuliano
I Musei nazionali di Matera annunciano l’apertura dell’allestimento dedicato ai resti del fossile della balena Giuliana, una delle sfide più importanti che il museo abbia mai affrontato in termini di valorizzazione.
La storia di questo particolare reperto è stata piuttosto complessa, fin dal momento della sua scoperta: il luogo del ritrovamento, lo stato di conservazione, le difficili operazioni di scavo e le eccezionali dimensioni dei resti hanno contribuito a renderne il recupero una vera e propria impresa.
Da allora, Giuliana ha attraversato molte vicissitudini e solo dopo molto tempo è stato possibile avviare un iter conservativo completo, con un intervento di restauro integrale mirato a restituire questa importante scoperta alla comunità e ai visitatori del Museo Archeologico Nazionale “Domenico Ridola”.
Per rispondere ai numerosi quesiti posti da questo straordinario ritrovamento, è stato necessario un lungo periodo di intenso lavoro da parte di un team multidisciplinare composto da paleontologi, restauratori, archeologi e geologi. Ogni membro del team ha contribuito con le proprie competenze specifiche, lavorando instancabilmente con l’unico obiettivo di valorizzare il reperto. Questo progetto ha richiesto anni di dedizione e collaborazione, riflettendo l’impegno e la passione di tutti i professionisti coinvolti.
Considerata la particolarità e la fragilità del fossile, è stato necessario, infatti, definire un processo virtuoso che, partendo dalla tutela del bene, arrivasse alla sua valorizzazione.
Quello che si inaugura al Museo Archeologico Nazionale “Domenico Ridola”, tuttavia, non rappresenta un allestimento permanente, ma un’ulteriore tappa fondamentale di un percorso ancora in evoluzione. Anche tramite l’esperienza di visita, questo percorso migliorerà nel tempo affinché la balena Giuliana possa essere compresa e conosciuta da un pubblico sempre più vasto.
Vi invitiamo a visitare il Museo Archeologico Nazionale “Domenico Ridola” per scoprire questa affascinante esposizione e partecipare a un viaggio unico nel tempo alla scoperta di Giuliana, la regina degli abissi.
Tigre dai denti a sciabola e gatto: più simili di quanto si creda
Uno studio, a cui ha preso parte la Sapienza, rivela una continuità morfologica tra specie estinte, dotate di canini lunghi come zanne, e i loro eredi moderni. La ricerca spiega anche le ragioni dell’acquisizione e della rapida scomparsa di tale caratteristica. I risultati, pubblicati sulla rivista Current Biology, forniscono nuove prospettive sull’evoluzione di alcune specie di predatori.
I denti a sciabola, ossia i canini superiori allungati caratteristici di alcuni dei più feroci predatori mai esistiti, hanno affascinato generazioni di scienziati e appassionati in tutto il mondo.
L’acquisizione di questa particolare caratteristica è comune principalmente ad alcune specie, oggi tutte estinte, appartenenti a due gruppi: i felidi (ossia la famiglia a cui appartengono leoni, tigri e gatti domestici) e i nimravidi, che sono completamente scomparsi. Essendo presenti in organismi non strettamente imparentati tra loro, i denti a sciabola sono considerati il classico esempio di un fenomeno noto come ‘convergenza evolutiva’. Tuttavia, il meccanismo progressivo che ha permesso a questi gruppi distinti di riuscire ad acquisire i loro canini allungati resta da chiarire scientificamente.
Un innovativo studio pubblicato su Current Biology e condotto da un team internazionale di biologi dell’evoluzione, a cui ha preso parte anche un ricercatore della Sapienza, con la partecipazione dell’Università della California – Berkeley ed dell’Università di Liegi, ha investigato i pattern evolutivi che stanno dietro allo sviluppo dei denti a sciabola per fare nuova luce su questo accattivante e popolare aspetto della paleontologia.
Esempio di scansione 3D ad alta risoluzione comparata con l’esemplare originale. In questo caso, si tratta di una emimandibola destra di leone americano (Panthera atrox) proveniente dallo Smithsonian National Museum of Natural History (Washington DC, USA) (crediti Narimane Chatar)
Il gruppo di ricercatori ha raccolto dati morfologici cranio-mandibolari relativi a numerose specie attuali ed estinte mediante l’uso di moderni scanner 3D e li ha analizzati con test statistici. In questo modo è stato possibile rivelare una continuità morfologica tra i piccoli felidi attuali e i loro antenati dai denti a sciabola, andando di fatto a confutare la teoria ritenuta finora universalmente valida che ci fosse una netta separazione tra i due gruppi di specie.
“Abbiamo descritto la morfologia di 99 mandibole e 91 crani provenienti da diverse epoche e sparsi in tutto il mondo, ottenendo una chiara mappa dell’evoluzione di questi animali – spiega Davide Tamagnini del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin – In particolare la nostra ricerca conferma che l’acquisizione dei denti a sciabola sia stata favorevole nel breve termine poiché ha conferito un grande vantaggio in termini di predazione, ma nel lungo termine ha esposto le specie con tali caratteristiche a maggiori rischi di estinzione (dovuti a carenza di grandi prede, impatto di repentini cambiamenti ambientali ecc). Questo potrebbe spiegare perché siano comparsi numerosi gruppi differenti di animali dai denti a sciabola e si siano tutti contraddistinti per una storia dalla durata limitata. Infine – conclude Tamagnini – le nostre analisi hanno chiarito che la chiave per l’acquisizione dei denti a sciabola risiede in un tasso evolutivo particolarmente rapido che caratterizza le prime fasi del cambiamento cranio-mandibolare delle specie”.
Una parte del materiale osteologico studiato per comprendere l’evoluzione dei denti a sciabola è ospitata nelle collezioni del Polo Museale Sapienza, in particolare del Museo di Zoologia e del Museo di Anatomia comparata “B. Grassi”. Tali collezioni sono state recentemente incluse in un ambizioso progetto di digitalizzazione museale, coordinato da Isabella Saggio (Spoke 7– National Biodiversity Future Center), attraverso fotografie e ricostruzioni 3D digitali. L’obiettivo è quello di aumentare l’accessibilità delle collezioni naturalistiche, cercando di accrescere l’impatto di queste tematiche sulla comunicazione e promuovere il coinvolgimento del pubblico nella scienza.
Tigre dai denti a sciabola e gatto: più simili di quanto si creda secondo i risultati di uno studio pubblicato sulla rivista Current Biology. Esempio di variazione morfologica osservata nel cranio di felidi e nimravidi in cui sono comparate specie con canini corti (“denti conici”) ed altre dai lunghi denti a sciabola (crediti Narimane Chatar)
Riferimenti bibliografici:
Evolutionary patterns of cat-like carnivorans unveils drivers of the sabertoothed morphology – Chatar, N., Michaud, M., Tamagnini, D., Fischer, V. – Current Biology, http://doi.org/10.1016/j.cub.2024.04.055
Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
Presentazione degli eventi di celebrazione del 70° anniversario dal ritrovamento dello scheletro fossile del Mammut a L’Aquila
Il Museo Nazionale d’Abruzzo per i 70 anni dall’eccezionale ritrovamento del fossile del Mammut nella cava Santarelli in località Madonna della Strada nel Comune di Scoppito, avvenuta a marzo del 1954, avvia una serie di eventi nell’anno in corso per un protagonista eccezionale. Il fossile, di 1.300.000 anni, reperto importantissimo della preistoria italiana, fra i più completi d’Europa, ha arricchito enormemente la conoscenza del Patrimonio paleontologico dei grandi mammiferi nel Quaternario sul suolo italiano.
La Mostra documentaria
Le recenti ricerche d’archivio impongono la revisione della data della scoperta. È infatti del 17 marzo 1954 l’informativa dell’Anonima Materiali Argillosi alla Soprintendenza alle Antichità degli Abruzzi e del Molise con la quale si comunicava il ritrovamento, da parte degli operai della fornace, dei primi resti. La notizia fu poi diffusa qualche giorno dopo, il 25 marzo, dal Corriere della Sera e ripreso da altre testate i giorni successivi.
Questi passaggi, oltre alle recenti donazioni di foto inedite, oggetto di una mostra documentaria visitabile dal 19 aprile nel Bastione Est del Castello Cinquecentesco, permettono di ripercorrere le fasi della scoperta, recupero e studio dell’esemplare sotto la direzione della professoressa Angiola Maria Maccagno, direttrice dell’Istituto di Geologia e Paleontologia dell’Università di Roma, con la collaborazione di Antonio Ferri nel restauro.
È del 15 novembre 1957 l’importante documento del Direttore Generale delle Antichità e Belle Arti, Guglielmo de Angelis d’Ossat, per conto del Ministro della Pubblica Istruzione Aldo Moro, che dichiara il suo interessamento nel garantire l’allestimento di una sezione di paleontologia presso il Museo Nazionale d’Abruzzo con il Mammut, poi esposto al pubblico dal 1960 nel Bastione Est del Castello Cinquecentesco.
70° anniversario dal ritrovamento dello scheletro fossile del Mammut a L’Aquila. Gallery
test della tiflologa Deborah Tramentozzi con modellino 3D
consegna premio Fossili regionali 2023
L’accessibilità inclusiva
Grazie ad una consolidata collaborazione con l’Accademia di Belle Arti è in corso la realizzazione di due prototipi 3D: uno con il particolare del cranio e della zanna e l’altro è un modellino di 30 cm del Mammut che vanno ad integrare il disegno in braille già presente nell’attuale allestimento. La progettazione è a cura dei docenti dell’ABAQ Simone Rasetti, Tecniche di modellazione digitale, e Marco Cortopassi, Scenotecnica. È stato effettuato, durante la conferenza stampa, un test di leggibilità con le tecniche di esplorazione tattile di un modellino di prova del cranio e della zanna del Mammut condotte dalla tiflologa non vedente Deborah Tramentozzi. Questa attività di ricerca sulle modalità di apprendimento dell’immagine e dei processi cognitivi nelle persone non vedenti e ipovedenti si avvale della professionalità accademiche del laboratorio di modellazione dell’Accademia di Belle Arti e della tiflodidattica, tramite le tecniche di percezione tattile del rilievo operate dalla tiflologa, volte a verificare il grado di acquisizione e restituzione dell’immagine, esperita al tatto e successivamente ricostruita nella mente dell’utente.
I modelli 3D tattili potranno essere fruiti anche dai visitatori normovedenti, preziosa opportunità per attivare una sensorialità troppo spesso inibita, anche per la consapevolezza dell’impossibilità di toccare le opere d’arte nel contesto di una visita museale.
Video
Due documenti storici del 1954 appartenenti all’Archivio Luce Cinecittà, che si ringrazia per la concessione di utilizzo: Uscito dalla preistoria, durata 55’’e Lo scheletro di un grosso mammuth trovato presso L’Aquila, segnalato dal Presidente del CdA di Abruzzo Film Commission Piercesare Stagni, Rep. Incom. senza sonoro, durata 3’, completano la suggestiva ricostruzione animata del Mammut già in proiezione nel Bastione realizzata dal Segretariato Regionale MiC per l’Abruzzo.
Tecnologia realtà aumentata
È stata possibile la produzione di contenuti digitali 3D fruibili con tecnologia AR core per la ricostruzione 1:1 delMammuthus meridionalis. Tramite un QR code sulla pedana, i visitatori potranno avere un’esperienza di visita più dinamica ammirando il Mammut nelle affascinanti forme che aveva quando era in vita. RUP Maria Rita Copersino – Segretariato Regionale MiC – Abruzzo
Convegno scientifico
Nel mese di ottobre avrà luogo un convegno scientifico di rilevanza nazionale “Il Mammut del Castello – Settant’anni dalla sua scoperta. Nuovi dati nel quadro dell’evoluzione ambientale del Pleistocene” per condividere i risultati acquisiti attraverso nuove metodologie di indagine e restauro. Verranno affrontati diversi aspetti scientifici quali l’evoluzione geologica del bacino aquilano, la paleobotanica e paleoclima; il confronto tra il Mammut meridionalis di Madonna della Strada con gli altri elefanti del Pleistocene; lo stato dell’arte della diagnostica e del restauro; l’esemplare nella realtà aumentata 3D e bodymass; i primi risultati della paleopatologia, nonché il tema del ruolo sociale attuale della divulgazione scientifica.
Annullo filatelico
Per rafforzare il potenziale narrativo è stato previsto un annullo filatelico dedicato al Mammut
Accompagnamento didattico
Si sta provvedendo, tramite formazione del personale AFAV curata dai funzionari del Museo, a fornire un servizio di accompagnamento ai visitatori per una maggiore conoscenza del Mammut.
Premio Fossili regionali
Nel corso della conferenza stampa la direttrice del MuNDA Federica Zalabra ha ricevuto la targa di riconoscimento del Premio Fossili Regionali 2023 al Mammut per la Regione Abruzzo consegnata da due membri del comitato regionale della Società Paleontologica Italiana e la paleonotologa Maria Adelaide Rossi e Marco Romano dell’Università degli Studi della Sapienza. L’iniziativa è nata dalla sinergia tra il gruppo dei giovani della società Palaeontologist in Progress e il Consiglio SPI per favorire la divulgazione e la conoscenza delle ricchezze del patrimonio paleontologico italiano.
Presentazione degli eventi di celebrazione del 70° anniversario dal ritrovamento dello scheletro fossile del Mammut a L’Aquila
Testo e immagini dall’Ufficio Stampa – Museo Nazionale d’Abruzzo – MuNDA
La ricerca di un gruppo di paleontologi del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza ha gettato nuova luce sulla diffusione in Europa dell’ippopotamo comune largamente presente in tutto il continente durante il Pleistocene. Lo studio, pubblicato su PLoS ONE, ha rivelato che questa specie comparve in Europa circa 500 mila anni fa, probabilmente in seguito a intensi cambiamenti climatici e ambientali.
odierno Hippopotamus amphibus
la Valle del Tevere durante la Transizione Pleistocene Inferiore–Pleistocene Medio
Restauro del cranio di ippopotamo da Cava Montanari
cranio di Hippopotamus amphibius da Cava Montanari dopo i restauri. Cranio visto da punti di vista dorsale (A), ventrale (B), laterale destro (C), laterale sinistro (D) e posteriore (E). Mandibola dal punto di vista occlusale (F) laterale destro (G) e laterale destro (H). Barra della scala: 10 cm
modello 3D della emimandibola sinistra di Hippopotamus amphibius da Cava Montanari (A-C) e la mappa di profondità (D). Legenda della mappa di profondità: blu è la superficie dell’osso e rosso è dove i ciotoli sono andati contro l’osso formando depressioni nella superficie
il cranio di ippopotamo da Cava Montanari, come raffigurato da Fabiani & Maxia (1953)
Immagini storiche dell’area di Tor di Quinto dall’archivio dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA, A, B) e la stessa area oggi (immagine USGS National MAP Viewer, C) e dalle cartine topografiche
C’è stato un tempo in cui il territorio di Roma fu popolato da elefanti, ippopotami, rinoceronti e iene, testimonianza di ecosistemi scomparsi e condizioni climatiche ben differenti da quelle attuali. Resti fossili di mammiferi sono conosciuti fin dalla fine dell’Ottocento, oggi patrimonio culturale oltre che scientifico di diversi musei del territorio laziale, fra cui il Museo universitario di Scienze della Terra della Sapienza Università di Roma (MUST).
Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista PLoS ONE da ricercatori del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza e dell’Istituto di Geologia ambientale e geoingegneria del Consiglio Nazionale delle Ricerche ha permesso di ridefinire la comparsa dell’ippopotamo comune Hippopotamus amphibius grazie ad analisi condotte su un cranio rinvenuto durante la prima metà del Novecento nell’area di Tor di Quinto e di datarla a circa 500 mila anni fa.
“L’approccio multidisciplinare applicato allo studio del cranio fossile di ippopotamo – spiega Beniamino Mecozzi della Sapienza – è stato fondamentale per ottenere preziose informazioni in merito all’età del reperto e alla sua classificazione tassonomica. I risultati permettono di attribuire il cranio alla specie Hippopotamus amphibius e di affermare con certezza che il reperto è stato rinvenuto presso una cava, denominata Montanari, operante lungo la via Flaminia, oggi non più esistente. Integrando i dati geologici, sedimentologici e cartografici, abbiamo potuto stimare l’età del reperto”.
La diffusione dell’ippopotamo comune in Europa è intimamente legata ai cambiamenti climatici e ambientali avvenuti negli ultimi 800 mila anni, in particolare durante la cosiddetta Early–Middle Pleistocene Transition (Transizione Pleistocene Inferiore–Pleistocene Medio), periodo in cui si registra l’estinzione di molte specie vissute durante il Quaternario nonchè la comparsa di forme moderne, come cervi, cinghiali, daini e lupi.
Lo studio del cranio di ippopotamo, identificato come un individuo maschile di circa 22-24 anni, rientra in un ampio progetto di restauro dei reperti di grandi mammiferi esposti presso il MUST.
Questo lavoro ha permesso di rimuovere precedenti integrazioni effettuate nel XX secolo che mascherano alcune morfologie originali del cranio e di recuperare sedimenti ancora presenti in alcune cavità craniali e mandibolari.
“I fossili esposti presso il Museo Universitario di Scienze della Terra di Sapienza – commenta Raffaele Sardella della Sapienza – rappresentano un patrimonio da tutelare e preservare. Il restauro del reperto di ippopotamo, per esempio, ha permesso di recuperare, e quindi analizzare, il sedimento originale del deposito, oggi non più accessibile a causa dell’intensa urbanizzazione che caratterizzò il quartiere di Tor di Quinto durante il Novecento. I risultati di questo lavoro, oltre alle notevoli ripercussioni scientifiche, offrono nuove preziose informazioni essenziali per una cosciente e più completa divulgazione del patrimonio paleontologico custodito presso il nostro Museo”.
Riferimenti bibliografici:
Reinforcing the idea of an early dispersal of Hippopotamus amphibius in Europe: Restoration and multidisciplinary study of the skull from the Middle Pleistocene of Cava Montanari (Rome, central Italy) – Beniamino Mecozzi, Alessio Iannucci, Marco Mancini, Daniel Tentori, Chiara Cavasinni, Jacopo Conti, Mattia Yuri Messina, Alex Sarra, Raffaele Sardella – PLoS ONE 2023, DOI: 10.1371/journal.pone.0293405.
Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma
Perucetus colossus: è un cetaceo fossile – scoperto in Perù nel Deserto di Ica – l’animale più pesante mai vissuto
La ricerca, pubblicata su Nature, è stata coordinata dai paleontologi dell’Università di Pisa e ha visto la partecipazione dell’Università di Milano-Bicocca e di Camerino.
Milano, 3 agosto 2023 – Dal Deserto di Ica, lungo la costa meridionale del Perù, riaffiorano i resti fossilizzati di uno straordinario animale risalente a quasi 40 milioni di anni fa: un antenato delle balene e dei delfini caratterizzato da ossa grandissime e pesantissime che fanno pensare a un mostro marino dalle proporzioni titaniche.
Un articolo appena pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Nature presenta una prima analisi di questo eccezionale cetaceo, a cui è stato dato il nome di Perucetus colossus in onore del paese sudamericano in cui è stato rinvenuto ed in riferimento alla sua taglia letteralmente colossale.
Il gruppo internazionale di scienziati autori della ricerca vede in primo piano i paleontologi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa: il professor Giovanni Bianucci, primo autore e coordinatore della ricerca, il dottorando Marco Merella e il ricercatore Alberto Collareta. Allo studio hanno partecipato anche altri geologi e paleontologi italiani provenienti dalle università di Milano-Bicocca (la ricercatrice Giulia Bosio e la professoressa Elisa Malinverno) e Camerino (i professori Claudio Di Celma e Pietro Paolo Pierantoni), affiancati da ricercatori peruviani e di diverse nazionalità europee.
Le ossa conservate di Perucetus colossus. Crediti per l’immagine: Giovanni Bianucci
Stima della massa corporea dell’esemplare di Perucetus colossus. Crediti per l’immagine: Giovanni Bianucci
Ricostruzione artistica del Perucetus colossus. Crediti per l’immagine: A. Gennari
La dott.ssa Giulia Bosio con vertebre dell’esemplare di Perucetus colossus. Crediti per la foto: Giulia Bosio
Studio della vertebra di Perucetus colossus al Museo di Storia Naturale di Lima. Crediti per la foto: Giovanni Bianucci
Team di geologi e paleontologi in Perù. Crediti per la foto: Elisa Malinverno
Accampamento nel Deserto di Ica, in Perù. Crediti per la foto: Giovanni Bianucci
Elisa Malinverno e Giulia Bosio davanti ad un affioramento. Crediti per la foto: Claudio Di Celma
Giulia Bosio ed Elisa Malinverno campionano sedimenti. Crediti per la foto: S. Malagù
Le ossa fossili di questo cetaceo primitivo sono state recuperate in successive campagne di scavo e sono ora conservate presso il Museo di Storia Naturale di Lima. Consistono di tredici vertebre, quattro costole e parte del bacino, quest’ultimo a indicare che Perucetus era ancora provvisto di piccole zampe posteriori, una condizione riscontrata anche negli altri Basilosauridi, il gruppo di cetacei arcaici a cui è stato riferito questo nuovo mostro marino.
«Sebbene lo scheletro da noi studiato non sia completo, stime rigorose basate sulla misurazione delle ossa conservate e sulla comparazione con un ampio database di organismi attuali e fossili – spiega Giovanni Bianucci – indicano che la massa scheletrica di Perucetus era di circa 5-8 tonnellate, un valore perlomeno doppio rispetto alla massa scheletrica del più grande animale vivente, la balenottera azzurra. Il pesantissimo scheletro di Perucetus, che in vita avrebbe raggiunto i 20 metri di lunghezza, suggerisce che la massa corporea di questo antico cetaceo potesse raggiungere le 340 tonnellate, quasi il doppio della più grande balenottera azzurra e oltre quattro volte quanto stimato per l’Argentinosauro, uno dei più grandi dinosauri mai rinvenuti.»
Perucetus rappresenta dunque un ottimo candidato al ruolo di animale più pesante di tutti i tempi, un record da cui verrebbe scalzata proprio la balenottera azzurra. Le implicazioni paleobiologiche di una simile scoperta sono di estrema importanza.
«L’enorme massa corporea di Perucetus – prosegue Bianucci – indica che i cetacei sono stati protagonisti di fenomeni di gigantismo in almeno due fasi: in tempi relativamente recenti, con l’evoluzione delle grandi balene e balenottere che popolano gli oceani moderni, e circa 40 milioni di anni fa, con la radiazione dei Basilosauridi di cui Perucetus è il rappresentante più straordinario.»
Lo studio di un simile ‘peso massimo’ è stato certamente eccitante ma non privo di difficoltà.
«Ciascuna delle vertebre di Perucetus è talmente pesante (la più leggera pesa oltre 100 kg) da richiedere diverse persone robuste per ogni minimo spostamento – racconta Marco Merella – Oltre a rendere più difficili le fasi di scavo e preparazione, ciò ha complicato fortemente l’analisi osteoanatomica dei reperti. Ci siamo quindi rivolti alle innovative metodologie della paleontologia virtuale e in particolare alla scansione a luce strutturata, per acquisire ed elaborare modelli tridimensionali di dettaglio di tutte le ossa raccolte. Questi modelli ci hanno poi permesso di proseguire lo studio una volta ritornati a Pisa; infatti, è proprio grazie alla scansione a luce strutturata che è stato possibile stimare in maniera rigorosa il volume dello scheletro, fornendo così un supporto quantitativo alla ricostruzione della forma del corpo e del modo di vita di questo eccezionale cetaceo estinto.»
«La taglia titanica delle ossa di Perucetus rappresenta certamente il tratto più appariscente di questa nuova specie – afferma Alberto Collareta – ma l’enorme massa ricostruita per l’intero scheletro riflette anche l’alto peso specifico della tipologia di tessuto osseo di cui esso si compone. Tutte le ossa di Perucetus, infatti, sono costituite da osso estremamente denso e compatto, simile a quello che si rinviene, anche se in maniera decisamente meno marcata, nei sireni attuali. Questi mammiferi abitano in acque costiere poco profonde, dove uno scheletro particolarmente pesante funziona da ‘zavorra’, facilitando così l’alimentazione al fondale ed aumentando l’inerzia all’azione delle onde. L’ispessimento e appesantimento dello scheletro, in termini tecnici pachiosteosclerosi, che accomuna Perucetus ai sireni non si rinviene in nessun cetaceo attuale. Dunque, benché sia difficile fornire un’interpretazione paleoecologica di questo straordinario adattamento, è probabile che esso fornisse a Perucetus la stabilità necessaria per abitare acque agitate prossime alla linea di costa. Perucetus si alimentava probabilmente presso il fondale, forse privilegiando la ricerca di carogne di altri vertebrati marini come fanno oggi alcuni grandi squali.»
«Per quanto la scoperta di Perucetus sia stata inaspettata, non sorprende che essa sia avvenuta nel Deserto di Ica – racconta la ricercatrice Giulia Bosio dell’Università di Milano-Bicocca – Questo deserto ospita infatti uno dei più grandi giacimenti di vertebrati fossili del mondo, oggetto di studio ormai da più di quindici anni grazie ad una serie di progetti di ricerca nazionali ed internazionali che hanno visto la collaborazione delle università italiane di Pisa, Milano-Bicocca e Camerino, affiancate da ricercatori peruviani tra cui Mario Urbina, lo scopritore di Perucetus colossus, e da ricercatori di diverse nazionalità europee.»
Gli studi presso l’Università di Milano-Bicocca si sono concentrati sulla ricostruzione della stratigrafia e sulla datazione dell’antico antenato delle balene.
«Sulla base di studi micropaleontologici di specie planctoniche e di una datazione radiometrica di una cenere vulcanica trovata nelle vicinanze del reperto – interviene la professoressa Elisa Malinverno dell’Università di Milano-Bicocca –abbiamo potuto stimare un’età compresa tra 39.8 e 37.84 milioni di anni per questo fossile. Perucetus colossus viveva quindi nell’epoca denominata Eocene, quando gli antenati dei cetacei attuali stavano abbandonando lo stile di vita terrestre a favore di quello marino.»
Claudio Di Celma e Pietro Paolo Pierantoni della sezione di Geologia dell’Università di Camerino hanno realizzato lo studio geologico-stratigrafico dell’area in cui è stato scoperto Perucetus colossus.
«Attraverso lo studio delle rocce sedimentarie che lo contenevano – spiega Claudio Di Celma – abbiamo contribuito alla ricostruzione dell’ambiente in cui questo antico mammifero marino ha vissuto. Dove oggi c’è un deserto che si estende per centinaia di chilometri lungo la costa del Perù meridionale, in passato si trovava un ampio bacino marino, il Bacino di Pisco, caratterizzato da una notevole abbondanza di nutrienti e una ricca biodiversità.»
«Il ritrovamento delle prime ossa di Perucetus risale a tredici anni fa ed è merito di Mario Urbina, ricercatore di campo e vera e propria leggenda vivente della paleontologia peruviana – spiega Bianucci – ed è solo grazie alla perseveranza di Mario che lo scavo pluriennale di questo straordinario (e pesantissimo) fossile è stato possibile. Scommetto che le sorprese non sono finite» conclude Bianucci.
Testo, video e immagini dall’Ufficio Stampa dell’Università di Milano-Bicocca.
DASYOMYLIOBATIS THOMYORKEI, UN PESCE FOSSILE DI 50 MILIONI DI ANNI FA, LA STRAORDINARIA SCOPERTA DEI RICERCATORI DI UNITO: ANELLO MANCANTE DELL’EVOLUZIONE DELLE RAZZE, TRA LE SUPERFAMIGLIA DASYATOIDEA E MYLIOBATOIDEA
Il lavoro ha permesso di ricostruirne non solo l’aspetto, dieta e modo di vita, ma anche di appurare come questa nuova specie di razza miliobatiforme,Dasyomyliobatis thomyorkei, dedicata al cantante dei Radiohead, rappresenti una forma di transizione tra le specie attuali più primitive che si nutrono di prede dal corpo molle e vivono principalmente nei fondali, e quelle più evolute che si nutrono di prede dal guscio duro e vivono in mare aperto.
Uno studio appena pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Palaeontology a firma di un team italo-austriaco guidato dai paleontologi Giuseppe Marramà e Giorgio Carnevale, rispettivamente ricercatore e professore del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino, risolve un dibattito decennale della paleontologia: come e quando si è evoluta la durofagia e lo stile di vita pelagico nelle razze?
Dasyomyliobatis thomyorkei, la razza fossile di 50 milioni di anni oggetto dello studio, scoperta nel dicembre 2020 nel giacimento paleontologico di Bolca (VR). Foto di Giuseppe Marramà
Dettaglio della regione caudale di Dasyomyliobatis thomyorkei dove sono ben evidenti i tre grandi aculei veleniferi di oltre 12 centimetri che questa razza usava come arma di difesa. Foto di Giuseppe Marramà
Ipotetica ricostruzione in vita di Dasyomyliobatis thomyorkei mentre nuota nelle acque tropicali poco profonde del mare della Tetide circa 50 milioni di anni fa. Opera di Fabrizio Lavezzi
Ipotetica ricostruzione di Dasyomyliobatis thomyorkei in diverse prospettive. Opera di Fabrizio Lavezzi
Il fossile oggetto dello studio è stato portato alla luce nel dicembre 2020 nel famoso giacimento paleontologico di Bolca (Monti Lessini, Verona), durante i recenti scavi condotti dal Museo di Civico di Storia Naturale di Verona. Conosciuta fin dal XVI secolo, Bolca è una delle località paleontologiche più conosciute al mondo per ricchezza, diversità ed eccezionale stato di conservazione dei suoi fossili, soprattutto pesci, che documentano la presenza di un antico mare tropicale poco profondo associato a barriere coralline di circa 50 milioni di anni fa, in un’epoca chiamata Eocene, dove oggi sorgono i Monti Lessini. E proprio per la loro importanza paleontologica, i giacimenti fossiliferi di Bolca, insieme ad altre località paleontologiche della Val d’Alpone, sono stati recentemente inseriti nella lista dei siti italiani candidati a diventare patrimonio UNESCO.
“Fin dalle prime analisi era chiaro che si trattava di un esemplare eccezionale, non solo per la sua completezza e la qualità della sua conservazione ma anche per il suo significato evolutivo”,
spiega il Dr. Roberto Zorzin,geologo e curatore del museo che ha supervisionato gli scavi e coautore dello studio.
Il fossile oggetto dello studio è una bellissima razza fossile che rappresenta una nuova specie appartenente ai miliobatiformi, un gruppo molto diversificato di razze oggi rappresentate da trigoni, pastinache, aquile di mare e mante, note per una caratteristica peculiare: la presenza di uno o più aculei veleniferi sulla coda che usano come arma di difesa contro altri pesci predatori e occasionalmente contro l’uomo. Queste razze possono essere raggruppate in due forme, o meglio due ecomorfotipi molto distinti sia dal punto di vista morfologico che ecologico: la superfamiglia Dasyatoidea comprende razze bentoniche e non-durofaghe come i trigoni e le pastinache che, avendo un disco pettorale discoidale con raggi poco mineralizzati hanno un nuoto di tipo ondulatorio e vivono principalmente sul fondale; grazie a batterie di piccoli e numerosi denti con radice bilobata catturano prede dal corpo molle, principalmente vermi policheti, piccoli pesci e crostacei. Al contrario, le razze della superfamiglia Myliobatoidea come le aquile di mare e le mante sono pelagiche o bentopelagiche, ovvero vivono in mare aperto grazie alla presenza di pinne pettorali a forma di ali sostenute da robusti raggi mineralizzati che permettono un nuoto di tipo oscillatorio, una sorta di “volo” subacqueo nella colonna d’acqua. Possiedono inoltre i lobi cefalici, proiezioni delle pinne pettorali posti anteriormente alla testa, utilizzate per localizzare e dissotterrare le prede. Alcune di queste razze pelagiche come le aquile di mare sono durofaghe, ovvero hanno pochi, grandi e robusti denti con radici multiple con cui frantumano i duri gusci dei molluschi e crostacei di cui si nutrono, mentre altre come le mante si nutrono di plancton.
“La presenza di due ecomorfotipi oggi così diversi e senza forme intermedie rende difficile definire come e da chi abbiano avuto origine le razze pelagiche durofaghe, poiché fino ad oggi non avevamo forme di transizione fossili che potevano chiarire questo aspetto”, sottolinea il Prof. Giorgio Carnevale.
Lo studio di questa nuova razza fossile ha permesso non solo di ricostruirne aspetto, dieta e modo di vita, ma anche di appurare che essa rappresenta una sorta di “anello mancante”, o meglio, una forma di transizione tra le più primitive razze bentoniche non-durofaghe e le più derivate razze pelagiche durofaghe. Questa razza fossile possiede infatti un mix di caratteri comuni a entrambi i gruppi di razze: come trigoni e pastinache, aveva piccoli denti laterali a radice bilobata e raggi delle pinne pettorali poco mineralizzati, mentre come le aquile di mare possedeva pinne pettorali a forma di ali, lobi cefalici, e una fila di denti centrali con radici multiple.
Questa combinazione di caratteristiche consentiva a Dasyomyliobatis thomyorkei (nome ispirato a Thom Yorke, leader dei Radiohead) di passare dal nuoto ondulatorio a quello oscillatorio, consentendo a questa razza di sfruttare l’ampia gamma di habitat che offriva l’antico mare tropicale di Bolca, dall’eterogeneo ambiente marino poco profondo al mare aperto, ma anche di nutrirsi di un’ampia varietà di prede, sia dal corpo molle che dai gusci più robusti.
“Questo nuovo fossile fornisce la prova diretta che la durofagia e lo stile di vita pelagico nelle razze miliobatiformi si sono evoluti a partire da circa 100 milioni di anni fa da un antenato comune appartenente ad una famiglia oggi estinta (chiamata Dasyomyliobatidae) che possedeva caratteristiche anatomiche comuni ad entrambi gli ecomorfotipi oggi esistenti, di cui Dasyomyliobatis thomyorkei fu probabilmente uno degli ultimi rappresentanti”, spiega il Dr. Giuseppe Marramà.
Lo studio dimostra che la paleontologia è una Scienza viva nel contesto italiano, e che la conservazione e valorizzazione a lungo termine del patrimonio paleontologico di Bolca sono necessarie in un’ottica di promozione culturale e turistica della Val d’Alpone e, in generale, di tutto il patrimonio paleontologico italiano.
STUDIO INTERNAZIONALE GUIDATO DA UNITO: PERCHÉ L’ITALIA È UNA “PENISOLA FELICE” PER RANE E SALAMANDRE
Il lavoro dei paleontologi mette in relazione i cambiamenti climatici avvenuti negli ultimi milioni di anni con la distribuzione di rettili e anfibi nell’Europa meridionale. È necessario monitorare con attenzione la salute degli anfibi italiani e concentrare gli sforzi di conservazione sulla nostra penisola, anche considerata l’elevatissima sensibilità di questi animali al cambiamento climatico in atto.
Un lavoro frutto di una collaborazione internazionale che vede coinvolti esperti paleontologi delle Università di Torino e di Firenze, ma anche dell’Università di Helsinki e dell’Istituto Catalano di Paleontologia Miquel Crusafont, ha messo in luce le correlazioni tra gli eventi climatici degli ultimi 3-4 milioni di anni e la distribuzione odierna di rettili e anfibi nell’Europa mediterranea. Secondo il recente studio, pubblicato su Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology, la maggiore umidità relativa avrebbe permesso ad anfibi come le salamandre di trovare nella Penisola Italiana un rifugio accogliente in cui poter sopravvivere. Al contrario, eventi di freddo estremo non hanno permesso la sopravvivenza di alcuni rettili che oggi troviamo ancora nella Penisola Iberica e nei Balcani, ma non più in Italia.
Il gruppo di paleoerpetologi del Dipartimento di Scienze della Terradell’Università di Torino, guidato dal Prof. Massimo Delfino, si occupa da anni di ricostruire la biogeografia del passato delle diverse specie di anfibi e rettili che vivono nel nostro territorio (e non solo).
“Una solida conoscenza del record fossile è l’unica base possibile per avere accesso diretto alla storia passata degli organismi che ci circondano – spiega il Prof. Delfino – e di conseguenza indagare le loro reazioni ai cambiamenti climatici già avvenuti sulla Terra”.
Lo studio ha evidenziato come la Penisola Italiana abbia perso nel periodo di tempo considerato numerose specie di rettili che in passato la abitavano e che oggi si ritrovano ancora nelle penisole Balcanica e Iberica. Tra questi, lo pseudopo (Pseudopus apodus) e lo stellione (Stellagama stellio) o un loro parente stretto. Questo è dovuto ad alcuni intervalli di poche decine di migliaia di anni caratterizzati da un clima particolarmente inadatto a questi rettili nella nostra penisola, laddove invece le aree più meridionali di Balcani e Iberia hanno mantenuto condizioni meno avverse.
Diversamente dai rettili, la distribuzione degli anfibi, e in particolare delle salamandre, è maggiormente controllata dai livelli di precipitazioni e quindi di umidità. Il maggior grado di umidità ricostruito dagli autori per il territorio italiano ha, pertanto, determinato la presenza di un rifugio particolarmente ospitale per gli anfibi durante i periodi “difficili” degli ultimi 3 milioni di anni.
Queste condizioni più umide sono testimoniate sia da analisi di modellizzazione della nicchia climatica sia da indagini parallele fondate sull’utilizzo del record fossile di altri gruppi (come i mammiferi e le piante) per ricostruire i livelli di precipitazione del passato.
“Quanto si osserva per la distribuzione degli anfibi è valido anche per alcune specifiche piante del passato, che richiedevano la presenza di estati umide”, osservano i paleobotanici Prof. Edoardo Martinetto (Università di Torino) e Prof.ssa Adele Bertini (Università di Firenze). “E non è escluso che pattern simili si possano osservare anche in gruppi diversi, soprattutto di organismi legati ad ambienti di acqua dolce”, aggiunge il Prof. Giorgio Carnevale (Università di Torino).
“Ho creduto molto in questo lavoro, perché penso che il record fossile abbia molto da dirci e che guardando al passato possiamo mettere in prospettiva gli eventi che accadono sotto i nostri occhi”, sottolinea la Dott.ssa Loredana Macaluso, prima autrice dell’articolo e attualmente ricercatrice alla Università Martin Luther University Halle-Wittenberg in Germania, che ha svolto il suo dottorato su questo tema presso il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Torino. “Il contributo di diverse branche della paleontologia e la collaborazione tra diversi esperti sono stati fondamentali per avere il quadro completo, consentendo l’unione di tutti i pezzi del puzzle. Proprio in considerazione della loro particolare storia evolutiva e biogeografica, le salamandre dovrebbero essere fra i nostri simboli e orgogli naturalistici, visto che la loro biodiversità nel nostro paese rappresenta un unicum a livello europeo e mondiale, con molte specie endemiche (e dunque esclusive del nostro territorio). Dovremmo capire che abbiamo una responsabilità molto alta riguardo la loro conservazione e che dovremmo iniziare a preoccuparcene seriamente”.
Italia, “penisola felice” per rane e salamandre. Gallery
Fig. 1 Speleomantes strinatii – foto di M. Sassoè (Università di Torino)
Fig. 2 Salamandrina perspicillata – foto di M. Sassoè (Università di Torino)
Fig. 3 Stellagama stellio – foto di M. Sassoè (Università di Torino)
Fig. 4 Pseudopus apodus – foto di M. Sassoè (Università di Torino)
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Area Relazioni Esterne e con i Media Università degli Studi di Torino
La tigre dai denti a sciabola dell’Era Glaciale sarà uno dei reperti esposti al Museo della Natura e dell’Uomo (MNU) dell’Università di Padovache aprirà il 23 giugno 2023 al Complesso di Palazzo Cavalli.
MERAVIGLIE IN VISTA / 1
«Nasce a Padova un nuovo luogo di partecipazione collettiva e democratica alla conoscenza, un grande museo scientifico inclusivo, che incentra la sua narrazione su migliaia di reperti originali di straordinario valore – dice Telmo Pievani, Responsabile scientifico del Museo della Natura e dell’Uomo –. Al MNU si farà ricerca, conservazione, didattica, condivisione dei saperi scientifici, sensibilizzazione sui temi ambientali, aprendosi ai pubblici più diversi, soprattutto giovani e giovanissimi. Sarà un teatro appassionante di cittadinanza scientifica».
«La nostra Università sta per compiere un altro grande salto verso il futuro con un progetto museale unico a livello universitario in Europa e probabilmente tra i più importanti progetti museali al mondo nel suo genere – afferma Fabrizio Nestola, Presidente del Centro di Ateneo per i Musei –. Da un Ateneo come il nostro non potevamo aspettarci che questo: un enorme investimento economico e di risorse umane completamente dedicato alla cultura e al territorio. Siamo tutti pronti ad iniziare questa entusiasmante avventura con l’obiettivo di educare ed ispirare le future generazioni».
Il Museo della Natura e dell’Uomo (MNU) dell’Università di Padova, che aprirà venerdì 23 giugno 2023, nasce dalla fusione delle ricchissime collezioni naturalistiche che sono state costruite nei secoli da studiosi ed esploratori dell’Università patavina, a fini di ricerca e didattica. Il nuovo allestimento riunisce in un unico percorso espositivo i preesistenti musei universitari di Mineralogia, Geologia e Paleontologia, Antropologia e Zoologia, integrandoli in una narrazione coerente e appassionante, arricchita da un intelligente apparato grafico, testuale e multimediale, a raccontare una storia planetaria dai suoi esordi, più di quattro miliardi di anni fa, fino ai giorni nostri.
Il MNU si articola in 38 sale per un totale di circa 3.800 mq, cui si aggiungono un ambiente per le esposizioni temporanee di circa 300 metri quadri.
Una delle sezioni del museo sarà quella di Geologia e Paleontologia – Dalla comparsa della vita a Homo sapiens con 6 sale e 940 metri quadri a disposizione per illustrare ed esporre i suoi reperti: tra questi anche la tigre dai denti a sciabola dell’Era Glaciale.
«La tigre dai denti a sciabola, Smilodon fatalis, unico esemplare nel suo genere in Italia e fra i pochi presenti nei musei europei, è un fossile che risale al Pleistocene Superiore e proviene da Rancho La Brea in California (USA), uno tra i più importanti giacimenti fossiliferi al mondo per quantità e varietà di specie ivi recuperate – sottolinea Mariagabriella Fornasiero, conservatrice della sezione di Geologia e Paleontologia –. Il genere Smilodon è vissuto nelle Americhe circa 2 milioni di anni fa. Carattere distintivo di questo grosso felino sono i denti canini enormemente sviluppati che lo rendevano un temibile predatore. Probabilmente viveva in branco e poteva cacciare grossi erbivori, come ad esempio i mammut, ma non è escluso che si nutrisse anche di carcasse. Lungo più di 2 metri e alto circa 1,20 metri (al garrese), poteva pesare fino a 300 chilogrammi».
«Recentemente l’esemplare è stato oggetto di studio. Ricerche d’archivio hanno consentito di stabilire che esso è stato donato nel 1933 dal Museum of Paleontology dell’Università di Berkeley (California) in cambio di un reperto di Ursus spelaeus proveniente dal Carso triestino. Grazie ai codici numerici individuati per la prima volta sullo scheletro – conclude Luca Giusberti, referente scientifico della sezione di Geologia e Paleontologia – è stato possibile definire con precisione la provenienza delle singole ossa che lo compongono e stabilire che il loro recupero è avvenuto negli anni tra il 1906 e il 1913. La tigre con i denti a sciabola è da sempre l’animale icona dell’era Glaciale che più colpisce l’immaginario di grandi e piccoli».
Testo e immagini dall’Ufficio Stampa Università di Padova
Inaugurato nel Museo Archeologico nazionale “Domenico Ridola” il nuovo allestimento “Giuliana degli Abissi”
Giuliana degli Abissi
È stato inaugurato oggi nel Museo Archeologico nazionale “Domenico Ridola” il nuovo allestimento “Giuliana degli Abissi”, a cura di Annamaria Mauro e Laura D’Esposito, dedicato al fossile della Balena Giuliana, scoperto nel 2006 sulle sponde del Lago di San Giuliano, a 8 km da Matera. All’inaugurazione hanno preso parte la Direttrice del Museo nazionale di Matera, arch. Annamaria Mauro, il Direttore generale Musei, prof. Massimo Osanna, il sindaco di Matera, Domenico Bennardi.
Il percorso espositivo dedicato alla Balena Giuliana si compone di quattro sale. La prima è dedicata alla scoperta del fossile e alle fasi del difficile recupero. Dopo lo scavo, completato nel 2011, i resti dell’animale furono consolidati, frazionati in blocchi, protetti con camicie di gesso e collocati all’interno di casse lignee costruite su misura e protette da un imballaggio di argilla espansa e schiuma di poliuretano. Tutte le casse furono trasportate presso la sede materana dell’allora Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici della Basilicata dove rimasero fino al 2013 quando vennero trasferite al Museo Archeologico nazionale “D. Ridola” di Matera.
Nella seconda sala il visitatore è accompagnato in un viaggio di grande impatto visivo attraverso una videoinstallazione immersiva ideata dal visual artist Silvio Giordano e realizzata da ETT SpA, azienda del Gruppo SCAI. Al fine di creare un flusso emotivo dinamico, le varie sezioni che compongono il filmato sono state realizzate utilizzando tecniche differenti, dall’animazione 2D al 3D fotorealistico, passando per il compositing, le riprese video live e la motion graphic. Alle riprese reali da drone, inoltre, si affiancano parti prevalentemente documentaristiche. La sala è caratterizzata dalla presenza di una proiezione immersiva su due lati che si attiva all’ingresso del visitatore, rendendo l’esperienza coinvolgente grazie anche alla grande parete specchiata. Un ruolo estremamente importante rivestono il suono e le musiche, che accompagnano lo spettatore in una dimensione acquatica. Alla voce del narratore Christian Iansante è affidato il racconto della vita marina, dalla genesi fino alla caccia violenta alla balena che, in tutta la letteratura, da Moby Dick a Giona della Bibbia, rappresenta una tappa verso la salvezza, recando con sé la possibilità del rinnovamento.
La terza sala è dedicata al paleoambiente, con l’esposizione di alcuni reperti riconducibili alla fauna e alle piante acquatiche dell’ecosistema in cui la balena è stata ritrovata. Attraverso un monitor il visitatore può inoltre seguire i lavori di restauro del fossile,eseguiti dalla ditta Lithos s.r.l, in corso nel laboratorio allestito nella Ex Palazzina Fio del Museo “Ridola”. Le notevoli dimensioni e la giacitura sulla spiaggia sommersa in cui l’animale si era arenato prima che fosse ricoperto dal sedimento sabbioso hanno infatti causato la perdita di gran parte dello scheletro; a questi si aggiungono i danni provocati dalle variazioni di temperatura e umidità che hanno interessato il reperto negli anni intercorsi dal suo recupero ad oggi. Pertanto, grazie ad una proficua collaborazione tra diversi enti coinvolti, è stato possibile individuare una metodologia di intervento che prevede, attraverso diversi step, la messa in sicurezza/consolidamento dei reperti osteologici. Tali operazioni, che si svolgeranno con la supervisione del paleontologo, in alcuni casi permetteranno il recupero dei frammenti e, ove possibile, le integrazioni che agevoleranno la lettura morfologica del fossile e il ristabilimento della coesione delle parti superstiti.
restauro
Nella quarta sala sono esposti i primi due reperti ossei integralmente restaurati: la bulla timpanica e l’omero dell’arto destro. Grazie ad un lungo e delicato intervento infatti, è stato possibile recuperare tutte le parti del cetaceo fossile giunte sino a noi: dodici vertebre toraciche, diverse costole, di cui una lunga oltre 3 metri, la pinna pettorale e gran parte del cranio. Proprio il rinvenimento della bulla timpanica ha consentito di attribuire con sicurezza l’animale al genere Balenoptera la cui lunghezza presunta è di 26 metri e che può essere assimilata all’odierna specie della balenottera azzurra. Gli specialisti confermano che la Balena Giuliana, probabilmente il più grande esemplare che abbia mai solcato le acque del mare che oggi chiamiamo Mediterraneo, visse nel Pleistocene inferiore, fra 1,5 e 1,25 milioni di anni fa ed aveva un peso compreso tra 130 e 150 tonnellate, contro le circa 100 tonnellate del più grande fossile dei dinosauri. Il rinvenimento di questa balena, quindi, risulta di grande importanza per l’approfondimento delle conoscenze sulla storia biologica del Mediterraneo.
Il racconto dell’allestimento viene completato dal fumetto d’autore “La Regina degli abissi” (Osanna Edizioni) realizzato dall’illustratore e fumettista Giulio Giordano. La semi dea Talassa, figlia del possente Nettuno, è stata incaricata dal padre di risolvere un enigma nei pressi della diga di San Giuliano. “La Regina degli abissi” riaffiora dagli oceani del tempo. Porta con sé l’eco di un mondo primitivo e selvaggio. Finalmente libera dalla prigione di sabbia che intrappolava i suoi resti, la Balena Giuliana racconterà la sua storia a chi vorrà ascoltarla. L’allestimento “Giuliana degli Abissi” viene introdotto dal nuovo visitor center, che prende spunto dagli scatti di alcuni reperti realizzati dal fotografo Mario Cresci, per offrire un’anticipazione delle principali sezioni archeologiche del rinnovato Museo “Ridola”.
«Il nuovo percorso espositivo “Giuliana degli Abissi” – sottolinea il Direttore generale Musei, prof. Massimo Osanna – è il frutto di un lungo e complesso lavoro che oggi rappresenta un grande traguardo non solo per il museo archeologico “Domenico Ridola” e per il Museo nazionale di Matera, ma per tutto il Sistema museale nazionale, in cui l’allestimento ben si inserisce sia per l’importanza scientifica del rinvenimento del fossile sia per le potenzialità che questo offre nel campo della valorizzazione. Un progetto che si è caratterizzato sin dal primo momento per la multidisciplinarietà che ha composto la squadra e che dimostra come proprio attraverso questa modalità operativa si ottengono risultati straordinari».
«Oggi è una giornata importante per il territorio materano e per l’intera Basilicata, ma credo anche per il mondo scientifico internazionale, perché apriamo al pubblico un esempio virtuoso di percorso espositivo dove si uniscono tutela, conservazione, restauro e valorizzazione insieme – evidenzia la Direttrice Annamaria Mauro -. Il visitatore verrà immerso nel racconto del fossile Giuliana, dal suo ritrovamento fino all’allestimento dei reperti già restaurati, ma potrà visitare anche il cantiere in fieri, ponendo domande ai restauratori e ammirando la grandezza e l’unicità di questo reperto che man mano dalle casse diventa uno scheletro vero. Accompagnerà la vista una videoinstallazione immersiva emozionante che racconta l’identità della Balena nell’immaginario collettivo».
«Come sindaco di Matera, Capitale Europea della Cultura, esprimo soddisfazione e felicità per l’apertura dell’allestimento dedicato alla Balena Giuliana, con la possibilità di vedere il restauro del fossile all’interno del Museo “Ridola” – spiega il sindaco Domenico Bennardi -. Una grande emozione, ricordando i primi mesi di insediamento del mio mandato, quando ho voluto aprire fortemente quelle casse che da tanti anni tenevano relegata la Balena Giuliana, un fossile che è tra i più grandi al mondo mai trovati per massa e che può diventare un potenziale nuovo attrattore culturale e scientifico per la città. Un plauso al Museo nazionale di Matera che ha permesso il restauro, con l’auspicio che si possa avere una collaborazione proficua con l’Amministrazione comunale nella progettazione dei percorsi turistico- culturali».
Testo e foto dall’Ufficio Stampa e Comunicazione Museo Archeologico nazionale “Domenico Ridola” di Matera
Un coccodrillo marino pasto indigesto del Giurassico
Un coccodrillo marino del Giurassico Superiore era un pasto indigesto per i grandi predatori, è quanto è emerso dallo studio del dott. Giovanni Serafini di Unimore e dal prof. Luca Giusberti dell’Università di Padova. I due geologi hanno studiato dei resti fossili presenti nel Museo di Geologia e Paleontologia dell’università patavina per scoprire che sono appartenuti ad un giovane esemplare di rettile marino che è stato rigurgitato 150 milioni di anni fa. Il reperto è il primo segnalato tra i suoi simili ed il terzo in una rigurgitalite in tutto il mondo.
Un nuovo studio guidato dalle Università di Modena-Reggio Emilia e Padova ha rivelato la natura sorprendente di un fossile proveniente dal Giurassico bellunese. Lo studio, a cura del Dr. Giovanni Serafini (Unimore) e del Prof. Luca Giusberti (UniPd) è frutto di una collaborazione con l’Università di Pavia, il National Museum of Scotland e l’Università di Yale. La scoperta è stata pubblicato su «Papers in Palaeontology» in un articolo dal titolo “Tough to digest: first record of Teleosauroidea (Thalattosuchia) in a regurgitalite from the Upper Jurassic of north-eastern Italy”.
I resti fossili
Nel 1980 il geologo feltrino Danilo Giordano scoprì presso Ponte Serra, in provincia di Belluno, i resti scheletrici di un piccolo rettile teleosauroide (gruppo di animali marini prossimi ai coccodrilli) in una lastra di Rosso Ammonitico Veronese, formazione geologica celebre per l’attività estrattiva in Veneto. Nonostante il reperto fosse esposto da alcuni anni al Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Padova, questo aveva ricevuto poca attenzione fino al 2021.
Durante una revisione dei rettili marini del museo da parte degli autori, si è notato infatti che il reperto presenta diverse caratteristiche inusuali: le piccole vertebre, gli elementi del bacino e gli osteodermi (“scudi” ossei tipici dei coccodrillomorfi) dell’esemplare appaiono infatti raggruppati in un’unica massa e sono molto sovrapposti tra loro. Questa particolare conformazione è altamente improbabile che sia il risultato di processi fisici nell’ambiente in cui si è fossilizzato (un mare abbastanza profondo con un fondale non interessato da correnti) mentre invece è molto più plausibile con un’origine biologica: il reperto è infatti molto simile ad un pellet gastrico, ossia una massa di elementi scheletrici passati dal canale alimentare di un altro animale. Analisi geochimiche e microstrutturali condotte al microscopio elettronico su campioni di matrice e osso estratti dall’esemplare confermano questa ipotesi: il tessuto scheletrico si presenta microscopicamente corroso e il sedimento registra bassi livelli di fosforo persi dall’osso. Queste particolari caratteristiche indicano un attacco piuttosto rapido e limitato da parte degli acidi gastrici, aspetto che permette di identificare il reperto come una regurgitalite, una massa rigurgitata da un predatore o da uno spazzino.
Questo resto fossile rappresenta il primo teleosauroide rinvenuto in una regurgitalite. L’esemplare è stato ascritto agli Aeolodontinae (il primo in Italia), un gruppo di teleosauroidi particolarmente adattato alla vita in mare aperto tipico del Giurassico Superiore; la datazione del sedimento per mezzo dei microfossili ha confermato questa assunzione, collocando il reperto nel Giurassico Superiore, intorno ai 150 milioni di anni fa.
La testimonianza di Ponte Serra è quindi di grande interesse, in quanto documenta un’interazione trofica estremamente rara in ambiente marino. Il predatore che può essersi nutrito del piccolo teleosauroide per poi rigurgitarlo non è facilmente identificabile: può essere stato un pliosauro, un ittiosauro, uno squalo oppure un’altra categoria di “coccodrilli” marini tipica dei mari giurassici, i metriorinchidi.
“Apparentemente sembrerebbe un insignificante mucchietto di ossa fossili conservato da 40 anni al Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Padova, invece grazie al nostro studio ha svelato un “segreto” avvenuto nei mari giurassici di 150 milioni di anni fa. Il fossile è stato interpretato come regurgitalite – dice Luca Giusberti del Dipartimento di Geoscienze dell’Ateneo patavino –. Le ossa della vittima che costituiscono tale rigurgito appartengono ad un esemplare giovanile di Aeolodontinae, un coccodrillo marino particolarmente adattato alla vita in mare aperto, segnalato per la prima volta in Italia. Il reperto sarà prossimamente esposto nel Museo della Natura e dell’Uomo dell’Università di Padova di prossima apertura a Palazzo Cavalli”.
“Dalla prima analisi del fossile bellunese ci siamo presto resi conto che qualcosa non tornava nell’organizzazione degli elementi scheletrici: vertebre e scudi dermici erano raggruppati in un’unica massa, in modo del tutto diverso dai normali resti disarticolati in ambiente profondo. Abbiamo optato– afferma il dott. Giovanni Serafini Dipartimento di Scienze Chimiche e Geologiche di Unimore – quindi per una spiegazione biologica e ogni analisi successiva sembrava confermare la nostra ipotesi: il piccolo coccodrillomorfo era stato rigurgitato da un predatore.Inoltre la particolare ornamentazione degli scudi dermici ci ha permesso di attribuire il reperto alla sottofamiglia di teleosauroidi detta Aeolodontinae tipica del Giurassico Superiore (150 milioni di anni fa).Il reperto di Ponte Serra si è quindi dimostrato estremamente interessante, dal momento che rappresenta un’interazione predatore-preda in ambiente marino, estremamente rara nel record fossile. Di fatto questo piccolo rettile marino è solamente il terzo segnalato in una regurgitalite in tutto il mondo, e in assoluto il primo tra i suoi simili“.
Titolo: “Tough to digest: first record of Teleosauroidea (Thalattosuchia) in a regurgitalite from the Upper Jurassic of north-eastern Italy” – «Papers in Palaeontology» 2022
Autori: Giovanni Serafini, Caleb M. Gordon, Davide Foffa, Miriam Cobianchi, Luca Giusberti
Modena/Padova, 6 dicembre 2022
Testo e immagine dagli Uffici Stampa Unimore e Università di Padova.