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LA TEMPESTA GEOMAGNETICA PERFETTA DEL 1872. COSA SUCCEDEREBBE SE CAPITASSE OGGI?

Un team internazionale composto da fisici solari, geofisici e storici ha analizzato le osservazioni e i documenti che descrivono una tempesta geomagnetica che si è verificata nel febbraio 1872. I risultati dello studio pubblicato oggi su The Astrophysical Journal mostrano che un gruppo di macchie solari di moderate dimensioni ha innescato una delle più grandi tempeste geomagnetiche mai registrate, che ha prodotto aurore osservate anche a basse latitudini in entrambi gli emisferi terrestri. Se una tempesta simile si verificasse oggi danneggerebbe gravemente le infrastrutture tecnologiche della società moderna, arrecando ingenti perdite economiche e notevoli disagi.

Nei primi giorni di novembre sono stati osservati fenomeni atmosferici associati all’aurora boreale a latitudini sorprendentemente basse, anche nelle regioni meridionali dell’Italia e del Texas. I fenomeni osservati manifestano le relazioni Sole-Terra che si stabiliscono quando un’espulsione di massa coronale del Sole produce effetti sul campo magnetico e l’atmosfera della Terra. I fenomeni osservati lo scorso novembre, seppur spettacolari, sono stati di piccola entità rispetto a quelli prodotti da una tempesta geomagnetica che si è verificata nel febbraio 1872. Gli effetti di quella tempesta riguardarono l’intero globo terrestre, con aurore osservate anche in località prossime all’equatore, quali Bombay e Khartum. Un gruppo di ricerca internazionale composto da 22 ricercatori di 16 istituti in 9 nazioni e a cui ha partecipato anche Ilaria Ermolli dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), ha analizzato osservazioni e documenti dell’epoca per ricostruire l’origine nell’atmosfera solare e gli effetti a terra della tempesta del febbraio 1872.

Quella tempesta danneggiò le reti telegrafiche e disturbò le comunicazioni per molte ore, ad esempio tra Bombay (Mumbai) e Aden, tramite il cavo sottomarino posizionato nell’Oceano Indiano, e nelle linee a terra tra Il Cairo e Khartum. Oggi tempeste simili produrrebbero danni e malfunzionamenti alle infrastrutture tecnologiche della società moderna, in particolare alle reti di distribuzione elettrica a terra, ai sistemi di comunicazione e navigazione, ai satelliti nello spazio, arrecando ingenti perdite economiche e notevoli disagi.

tempesta geomagnetica 1872 mappa delle aurore nel 1872
mappa delle aurore nel 1872

Alla luce delle conoscenze scientifiche attuali, i ricercatori hanno analizzato dati di macchie solari provenienti da archivi di osservazioni storiche del Sole, effettuate in Italia da Angelo Secchi, Francesco Denza e Pietro Tacchini e in Belgio da Gustave Bernaerts, al fine di ricostruire l’origine solare della tempesta. Per valutare l’evoluzione e l’intensità degli effetti a terra della tempesta hanno inoltre analizzato misure del campo magnetico terrestre registrate in varie località, tra le quali Bombay (Mumbai), Tiflis (Tbilisi) e Greenwich. Hanno infine esaminato anche centinaia di resoconti di aurore osservate durante la tempesta, conservati nelle biblioteche, negli archivi e negli osservatori di tutto il mondo.

tempesta geomagnetica 1872 disegni del Sole di Angelo Secchi
disegni del Sole di Angelo Secchi

Uno degli aspetti più interessanti emerso dallo studio riguarda l’origine solare della tempesta, individuata nell’evoluzione di un gruppo di macchie di modeste dimensioni osservato vicino al centro del disco solare. Per quanto modesto, quel gruppo di macchie è stato in grado di innescare una delle tempeste geomagnetiche più estreme della storia.

“I risultati ottenuti mostrano che la tempesta del febbraio 1872 è tra le più estreme avvenute nella storia recente. Le sue caratteristiche sono paragonabili a quelle della tempesta Carrington del settembre 1859 e della tempesta della New York Railroad nel maggio 1921”

afferma Hisashi  Hayakawa, assistente professore designato dell’Università di Nagoya e primo autore dello studio.

“Ora sappiamo che negli ultimi due secoli si sono verificate tre tempeste geomagnetiche estreme e queste sono avvenute nell’arco di soli sei decenni: la minaccia per la società moderna legata a queste tempeste è reale” aggiunge Hayakawa.

Ilaria Ermolli, ricercatrice dell’INAF a Roma e parte del team che ha condotto lo studio ricorda che

“L’INAF, con strumentazione dedicata in funzione presso vari osservatori a terra e in orbita, è molto attivo nel monitoraggio continuo del Sole, dell’eliosfera, della magnetosfera e della ionosfera terrestre, con l’obiettivo di migliorare le conoscenze dei processi che determinano lo Space Weather, cioè le caratteristiche di quegli ambienti, e sviluppare competenze e modelli utili a mitigare gli effetti di eventi simili alla tempesta del febbraio 1872. L’INAF, che coordinerà l’attività relativa allo Space Weather nel programma PNRR SPACE IT UP, conserva inoltre nei suoi archivi osservazioni storiche uniche per avanzare la conoscenza degli eventi estremi di Space Weather”.

Il Sole si sta avvicinando al massimo del Ciclo Solare 25, previsto nel 2024-2025. A seguito della maggiore attività solare nei prossimi anni sarà possibile osservare più facilmente regioni instabili nell’atmosfera del Sole e fenomeni aurorali nell’atmosfera terrestre.

Per ulteriori informazioni:

L’articolo The Extreme Space Weather Event of 1872 February: Sunspots, Magnetic Disturbance, and Auroral Displays di Hisashi Hayakawa, Edward W. Cliver, Frédéric Clette, Yusuke Ebihara, Shin Toriumi, Ilaria Ermolli, Theodosios Chatzistergos, Kentaro Hattori, Delores J. Knipp, Séan P. Blake, Gianna Cauzzi, Kevin Reardon, Philippe-A. Bourdin, Dorothea Just15, Mikhail Vokhmyanin, Keitaro Matsumoto, Yoshizumi Miyoshi, José R. Ribeiro, Ana P. Correia, David M. Willis, Matthew N. Wild, e Sam M. Silverman è stato pubblicato online sul sito web della rivista The Astrophysical Journal.

 

Testo e immagini dall’Ufficio stampa – Struttura per la Comunicazione di Presidenza dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF)

Dalla curcuma una soluzione per salvare i coralli dai cambiamenti climatici

L’Istituto Italiano di Tecnologia – IIT e l’Università di Milano-Bicocca hanno dimostrato l’efficacia di una sostanza estratta dalla curcuma nella protezione dei coralli dai danni dei cambiamenti climatici. La molecola viene somministrata attraverso un biomateriale biodegradabile, sviluppato dagli stessi partner, e nei test svolti all’Acquario di Genova si è dimostrata efficace nel proteggere i coralli dallo sbiancamento.

Milano, 19 luglio 2023 – L’Istituto Italiano di Tecnologia – IIT e l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, in collaborazione con l’Acquario di Genova, hanno recentemente pubblicato su ACS Applied Materials and Interfaces, uno studio (“Biodegradable Zein-Based Biocomposite Films for Underwater Delivery of Curcumin Reduce Thermal Stress Effects in Corals”, DOI: 10.1021/acsami.3c01166) dove è stata dimostrata l’efficacia della curcumina, una sostanza antiossidante estratta dalla curcuma, nel ridurre lo sbiancamento dei coralli, fenomeno causato principalmente dai cambiamenti climatici. I due partner coinvolti hanno sviluppato un biomateriale biodegradabile per somministrare la molecola senza provocare danni all’ambiente marino circostante. I test eseguiti all’Acquario di Genova hanno dimostrato un’efficacia significativa nel prevenire lo sbiancamento dei coralli.

Scogliera corallina in fase di recupero nei pressi del MaRHE center, isola di Magoodhoo, Atollo di Faafu, Maldive. Crediti: Università Milano-Bicocca

Lo sbiancamento dei coralli è un fenomeno che, negli eventi estremi, determina la morte di questi organismi con conseguenze devastanti per le barriere coralline, queste ultime fondamentali per l’economia globale, la protezione delle coste dai disastri naturali e la biodiversità marina. La maggior parte dei coralli vive in simbiosi con alghe microscopiche, indispensabili per la loro sopravvivenza e responsabili dei loro colori brillanti. A causa dei cambiamenti climatici le temperature di mari e oceani sono in aumento, condizione che interrompe il rapporto tra questi due organismi. Quando ciò accade, il corallo, ormai bianco per la perdita delle alghe, rischia letteralmente di morire di fame.

Negli ultimi anni, a seguito dei cambiamenti climatici, questa condizione ha colpito la maggior parte delle barriere scogliere coralline più importanti del mondo, inclusa la Grande Barriera Corallina australiana. Tuttavia, a oggi non esistono interventi di mitigazione efficaci per prevenire lo sbiancamento dei coralli senza mettere in serio pericolo l’integrità di questi habitat e l’eccezionale biodiversità associata.

curcuma coralli
Corallo Stylophora pistillata ricoperto del biomateriale durante le prove di stress termico.
Crediti: Acquario di Genova

I ricercatori e le ricercatrici dell’Istituto Italiano di Tecnologia e dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, in collaborazione con l’Acquario di Genova, hanno dimostrato l’efficacia di una molecola, la curcumina, nel bloccare lo sbiancamento dei coralli provocato dai cambiamenti climatici. La curcumina viene somministrata in maniera controllata sul corallo applicando un biomateriale a base di zeina, una proteina derivata dal mais, che è stato sviluppato dagli stessi partner per essere sicuro per l’ambiente.

Durante i test, svolti nell’Acquario di Genova, si sono simulate le condizioni di surriscaldamento dei mari tropicali alzando la temperatura dell’acqua fino a 33°C. In questa condizione tutti i coralli non trattati sono risultati colpiti dal fenomeno dello sbiancamento come succederebbe in natura mentre, al contrario, tutti gli esemplari trattati con la curcumina non hanno mostrato segni di tale fenomeno, risultati che rendono questo metodo efficace nel ridurre la suscettibilità dei coralli allo stress termico. Per questo studio è stata utilizzata una specie di corallo (Stylophora pistillata) tipica dell’oceano Indiano tropicale e inserita nella Lista rossa IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura) tra le specie minacciate dal rischio di estinzione.

Simone Montano
Simone Montano. Crediti: Università Milano-Bicocca

«Questa tecnologia è oggetto di una domanda di brevetto depositata, infatti i prossimi passi di questa ricerca si focalizzeranno sull’applicazione in natura e su larga scala – afferma il primo autore dello studio Marco Contardi, ricercatore affiliato del gruppo Smart Materials dell’Istituto Italiano di Tecnologia e ricercatore del DISAT (Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra) dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca – allo stesso tempo, esamineremo l’utilizzo di altre sostanze antiossidanti di origine naturale per bloccare il processo di sbiancamento e prevenire così la distruzione delle barriere coralline».

Marco Contardi, Foto di D. Farina.Crediti: Istituto Italiano di Tecnologia - © IIT, all rights reserved
Marco Contardi. Foto di D. Farina. Crediti: Istituto Italiano di Tecnologia – © IIT, all rights reserved

«L’utilizzo di nuovi materiali biodegradabili e biocompatibili capaci di rilasciare sostanze naturali in grado di ridurre lo sbiancamento dei coralli rappresenta una novità assoluta – dichiara Simone Montano ricercatore del DISAT e vice direttore del MaRHE Center (Marine Research and High Education Center) dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca – credo fortemente che questo approccio innovativo rappresenterà una trasformazione significativa nello sviluppo di strategie per il recupero degli ecosistemi marini».

Testo e foto dall’Ufficio stampa Università di Milano-Bicocca

Milano-Bicocca, una task force per salvare le tartarughe marine alle Maldive

Firmato l’accordo tra l’Università e ABA – Associazione Benessere Animale. Ricercatori, studenti e veterinari saranno coinvolti in attività di monitoraggio, analisi e sensibilizzazione.


Milano, 3 agosto 2022 – Una task force per promuovere attività di monitoraggio, analisi e salvaguardia delle tartarughe marine dell’arcipelago delle Maldive, nell’Oceano Indiano. È quanto previsto da un accordo firmato dall’Università di Milano-Bicocca e dall’ABA – Associazione Benessere Animale, che consentirà di coniugare le competenze di veterinaria dell’associazione ABA con quelle di ecologia marina del MaRHE Center, il Centro di ricerca di eccellenza dell’Ateneo milanese, situato alle Maldive e dotato di grandi apparecchiature e laboratori all’avanguardia.

Foto di Davide Seveso

La task force sarà guidata da Paolo Galli, professore di Ecologia del dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra dell’Università e direttore del MaRHE Center, e dal veterinario Giordano Nardini, presidente dell’Associazione ABA e tra i massimi esperti mondiali nella cura delle tartarughe marine.

La collaborazione tra Milano-Bicocca e ABA è appena partita. Inizialmente si focalizzerà sulla ricerca di marcatori molecolari di stress nelle tartarughe marine: mediante l’analisi di un piccolo prelievo di sangue sui campioni di tartaruga recuperati in spiaggia o nell’oceano, l’equipe di ricercatori e veterinari potrà valutare lo stato di salute degli esemplari. L’analisi verrà effettuata di volta in volta mediante strumentazione all’avanguardia in grado di restituire valori dei parametri biochimici ed ematologici dei singoli campioni.

Foto copyright Tane Sinclair-Taylor

I dati raccolti permetteranno ai ricercatori di avere indicazioni sullo stato di salute degli esemplari che vivono in popolazioni libere ad oggi molto poco studiate. Verrà inoltre valutata la presenza di malattie infettive o traumi provocati ad esempio da impatti con natanti, detenzioni in cattività o battute di pesca. Tutte le informazioni raccolte confluiranno in una banca dati, che si arricchirà di volta in volta andando a costituire una sorta di censimento dei rettili acquatici.

In un secondo momento, gli studi verranno incentrati sul momento della riproduzione, con azioni di monitoraggio nei siti di nidificazione. Nella task force verranno coinvolti non solo i ricercatori del MaRHE Center ma anche gli studenti del corso di laurea magistrale in Marine Sciences dell’Università di Milano-Bicocca. Le competenze di ecologia marina dell’Ateneo Milanese saranno fondamentali per studiare il comportamento, i siti di riproduzione, la riduzione della mortalità causata dalla pesca professionale.

Ulteriore obiettivo dell’accordo, la delineazione di linee guida da adottare per un comportamento responsabile da parte della comunità locale e dei turisti, che vengono in contatto, nelle acque dell’Oceano Indiano, non solo con le tartarughe ma anche con animali quali squali, balene, delfini… Dal rispetto dell’ambiente (per esempio, non lasciare rifiuti di plastica nel mare, facilmente confondibili dalle tartarughe come cibo) al rispetto dell’habitat e delle abitudini della fauna locale (per esempio, non disturbare i siti di nidificazione o le fasi di cova).

«Sono molto orgoglioso di questa nuova collaborazione finalizzata alla cura e protezione, monitoraggio e cura delle tartarughe marine dell’Arcipelago Maldiviano – afferma Paolo Galli –. Le attività di ricerca e salvaguardia inizieranno nell’Atollo di Faafu per poi spostarsi, grazie anche alla fitta rete di collaborazioni che abbiamo con i Resort, in tutti gli Atolli Maldiviani. Contiamo inoltre di coinvolgere nelle attività studenti universitari iscritti a Scienze Marine, Scienze Ambientali, Biologia».

una task force per salvare le tartarughe marine alle Maldive
Da sinistra a destra Paolo Galli, professore di Ecologia del dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra dell’Università, e Giordano Nardini, presidente dell’Associazione ABA (Associazione Benessere Animale)
«L’accordo firmato tra Associazione Benessere Animale e Università Bicocca con il MaRHE Center – dichiara Giordano Nardini – è un importante traguardo nel campo della salvaguardia delle tartarughe a livello mondiale: pochissime informazioni e dati scientifici sono infatti reperibili nell’oceano indiano e in particolare nell’arcipelago Maldiviano. Contiamo di ottenere nell’arco di un anno i primi dati epidemiologici sullo stato di salute delle tartarughe e di poter procedere, nel caso fosse necessario, a curare e ad operare le prime tartarughe. Vista la conformazione delle Maldive, costituite da circa 1200 piccole isole difficilmente raggiungibili, cercheremo di mettere a disposizione un servizio di telemedicina veterinaria».
una task force per salvare le tartarughe marine alle Maldive
Da sinistra a destra Paolo Galli, professore di Ecologia del dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra dell’Università, e Giordano Nardini, presidente dell’Associazione ABA (Associazione Benessere Animale)
Testo e foto dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca.

Il Carbonio controlla la profondità di genesi dei magmi nel mantello superiore della Terra

In un nuovo studio (https://www.nature.com/articles/s41561-021-00797-y), pubblicato sulla rivista Nature Geoscience (https://www.nature.com/ngeo/), un team di ricercatori italiani guidato da Alessandro Aiuppa (Università di Palermo) e che vede fra i co-autori Federico Casetta (Università di Ferrara), Massimo Coltorti (Università di Ferrara), Vincenzo Stagno (Sapienza Università di Roma) e Giancarlo Tamburello (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Sezione di Bologna), ha sviluppato un nuovo approccio per ricostruire la quantità di Carbonio immagazzinato nel mantello superiore della terra, dalla cui fusione sono segregati i magmi.

Il Carbonio, il quarto elemento più abbondante in termini di massa nell’universo, è un elemento chiave per la vita. Il suo ricircolo, da e verso l’interno della Terra, regola i livelli di CO2 nell’atmosfera, giocando quindi un ruolo fondamentale nel rendere il nostro pianeta abitabile. Il Carbonio è un elemento unico, perché può essere immagazzinato nelle profondità della Terra in varie forme: all’interno di fluidi, come componente di fasi minerali, oppure disciolto nei magmi. Si ritiene, inoltre, che il Carbonio giochi un ruolo chiave nella geodinamica terrestre, in quanto questo elemento è in grado di controllare i processi di fusione che avvengono mantello superiore. Vista la sua tendenza ad essere incorporato nei magmi prodotti per fusione delle rocce peridotitiche nel mantello superiore, il Carbonio è facilmente trasportato verso la superficie terrestre, ove viene poi rilasciato come CO2 nelle emissioni gassose di vulcani attivi o quiescenti. I magmi ed i gas derivati dal mantello sono, pertanto, i mezzi di trasporto più efficaci per portare il Carbonio verso l’idrosfera e l’atmosfera, dove gioca un ruolo primario nel controllo dei cambiamenti climatici su scala geologica.

Ma quanto Carbonio è immagazzinato all’interno della Terra?

Questa domanda ha ispirato ricerche in diversi ambiti delle geoscienze, che si sono avvalse di molteplici approcci empirici, quali lo studio dei gas emessi in aree vulcaniche, del contenuto in CO2 nelle lave eruttate lungo le dorsali medio-oceaniche e/o nelle inclusioni di magma all’interno dei cristalli, delle inclusioni fluide in xenoliti di mantello portati in superficie dai magmi, e le misure sperimentali sviluppate con lo scopo di comprendere la massima quantità di CO2 che può essere disciolta nei magmi a pressioni e temperature tipiche dell’interno della Terra. Sfortunatamente, questi approcci hanno portato spesso a conclusioni contrastanti, al punto che le stime sul contenuto di Carbonio del mantello (così come dell’intera Terra) divergono di più di un ordine di grandezza. Le “melt inclusions”, o inclusioni di magma, cioè piccole goccioline di fuso silicatico intrappolate nei cristalli al momento della loro formazione nei magmi, possono essere sorgenti di informazione uniche per quantificare il contenuto di Carbonio del mantello da cui i magmi stessi sono segregati. Tuttavia, il massivo rilascio di gas (degassamento), tra cui CO2, a cui i magmi sono soggetti durante la loro risalita verso la superficie (prima della loro messa in posto ed eruzione) ha rappresentato un fattore limitante nella comprensione delle variazioni di concentrazione di Carbonio nel mantello.

Nel loro studio, Aiuppa e co-autori hanno revisionato e catalogato i dati relativi al contenuto in CO2 (e zolfo) nei gas vulcanici emessi da 12 vulcani di hot-spot e di rifting continentale, i cui magmi sono generati da sorgenti mantelliche più profonde rispetto a quelle del mantello impoverito da cui derivano i magmi delle dorsali medio-oceaniche.

Gas magmatici ricchi in CO2 rilasciati dal degassamento del lago di lava a condotto aperto presso il vulcano Nyiragongo, Repubblica Democratica del Congo (foto di Sergio Calabrese, Università di Palermo)

I risultati ottenuti hanno permesso di comprendere che il mantello superiore (50-250 km di profondità) che alimenta il vulcanismo in aree di rifting continentale e di hot-spot contiene in media 350 parti per milione (ppm) di Carbonio (intervallo compreso tra 100 e 700 ppm di C). Questo ampio range conferma la visione di un mantello superiore fortemente eterogeneo, la cui composizione è stata variabilmente modificata, in tempi geologici, dall’infiltrazione di fusi carbonatici-silicatici generati in profondità. Le nuove stime ottenute da Aiuppa e co-autori indicano che il mantello superiore ha una capacità totale di Carbonio di circa ~1.2·1023 g. È possibile che la Terra, nelle sue porzioni interne, sia in grado di contenere ancora più Carbonio, come suggerito dai diamanti provenienti da profondità sub-litosferiche (fino a 700 km), i quali mostrano evidenze dell’esistenza di minerali e fusi che contengono significative quantità di C.

In aggiunta, il team di ricercatori ha stimato che il contenuto di Carbonio aumenta con la profondità di fusione parziale nel mantello. Questa scoperta permette di validare i dati sperimentali, che suggeriscono come il Carbonio giochi un ruolo nel determinare percentuale e profondità di fusione parziale nelle sorgenti di mantello che alimentano i vulcani in aree di rift continentali e di hot-spot. I risultati ottenuti, indicando che le porzioni di mantello ricche in Carbonio fondono più in profondità rispetto a porzioni povere in Carbonio, confermano il ruolo di primaria importanza giocato da questo elemento nel guidare i cicli geodinamici.

Aumento della concentrazione di Carbonio con la profondità di fusione nel mantello superiore terrestre. I magmi prodotti in contesti di Isole Oceaniche e di Rift Continentale sono alimentati da sorgenti di mantello più ricche in Carbonio rispetto alle porzioni di “Depleted MORB Mantle (DMM)”, cioè di mantello impoverito da cui sono prodotti i “Mid-Ocean Ridge Basalts (MORB)”, ovvero basalti di dorsale medio-oceanica

L’esistenza di un mantello ricco in Carbonio, evidenziata da Aiuppa e co-autori, ha profonde implicazioni rispetto alle modalità di immagazzinamento del Carbonio primordiale nel mantello, e per il suo riciclo nel tempo e nello spazio. I risultati ottenuti con questo studio sono anche importanti per comprendere le possibili variazioni nel ciclo geologico del Carbonio causate da eventi vulcanici di grande magnitudo, quali la messa in posto delle “Large Igneous Provinces (LIP)”, o grandi province ignee. Se i magmi prodotti dai “plume”, o pennacchi, di mantello sono ricchi in Carbonio, come suggerito da questo studio, allora il rilascio di Carbonio dalle grandi province ignee nel Fanerozoico può aver contribuito a causare le estinzioni di massa, le cui tracce sono preservate nei record sedimentari in tutto il mondo.

carbonio genesi magmi mantello
Sezione schematica dall’Oceano Atlantico all’Oceano Indiano (passando attraverso il cratone Africano), che mostra le variazioni nelle concentrazioni di Carbonio ricostruite nelle sorgenti di mantello da cui sono prodotti i magmi delle Isole Oceaniche e dei Rift Continentali

Il Carbonio controlla la profondità di genesi dei magmi nel mantello superiore della Terra

CITAZIONE

Alessandro Aiuppa, Federico Casetta, Massimo Coltorti, Vincenzo Stagno and Giancarlo Tamburello (2021), Carbon concentration increases with depth of melting in Earth’s upper mantle, Nature Geoscience, https://doi.org/10.1038/s41561-021-00797-y

La ricerca è stata finanziata dal Deep Carbon Observatory (https://deepcarbon.net/) e dal Miur, Progetto PRIN2017 Connect4Carbon (https://prin2017.wixsite.com/connectforcarbon)

Il Carbonio controlla la profondità di genesi dei magmi nel mantello superiore della Terra. Testo e immagini dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma, Università di Palermo, Università di Ferrara, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia.