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OLTRE IL 2% DELLE EMISSIONI GLOBALI DI GAS SERRA SONO CAUSATE DAI FERTILIZZANTI SINTETICI

Lo studio internazionale condotto dal team di ricerca dell’Università di Torino, dell’Università di Exeter e di Greenpeace

fertilizzanti azotati sintetici gas serra

I fertilizzanti azotati sintetici sono responsabili del 2,1% delle emissioni globali di gas serra, secondo una nuova ricerca pubblicata sulla rivista Scientific Reports e intitolata “Greenhouse gas emissions from global production and use of nitrogen synthetic fertilisers in agriculture”. A differenza dei fertilizzanti organici, che provengono da materiale vegetale o animale, i fertilizzanti sintetici sono prodotti dall’uomo con processi chimici. La produzione e il trasporto causano emissioni di carbonio, mentre l’uso agricolo di questi fertilizzanti porta al rilascio di protossido di azoto (N₂O), un gas serra 265 volte più potente dell’anidride carbonica (CO₂) nell’arco di un secolo.

Il team di ricerca – dei Laboratori di Ricerca dell’Università di Torino, dell’Università di Exeter e di Greenpeace – ha scoperto che la filiera dei fertilizzanti azotati sintetici è stata responsabile dell’emissione dell’equivalente di 1,13 gigatonnellate di CO₂ nel 2018. Si tratta di oltre il 10% delle emissioni globali prodotte dall’agricoltura e di una quantità superiore alle emissioni dell’aviazione commerciale nello stesso anno. I primi quattro emettitori – Cina, India, Stati Uniti e UE28 (Paesi dell’Unione Europea più il Regno Unito) – hanno rappresentato il 62% del totale.

“Non c’è dubbio che le emissioni di fertilizzanti azotati sintetici debbano essere ridotte, invece di aumentare, come attualmente previsto”, ha dichiarato la Dott.ssa Reyes Tirado, dei Laboratori di ricerca di Greenpeace. “Il sistema agroalimentare globale si affida all’azoto sintetico per aumentare la resa dei raccolti, ma l’uso di questi fertilizzanti è insostenibileLe emissioni potrebbero essere ridotte senza compromettere la sicurezza alimentare. In un momento in cui i prezzi dei fertilizzanti sintetici stanno salendo alle stelle, riflettendo la crisi energetica, ridurne l’uso potrebbe giovare agli agricoltori e aiutarci ad affrontare la crisi climatica”.

Quando i fertilizzanti azotati vengono applicati al suolo, una parte viene assorbita dalle piante e una parte viene utilizzata dai microrganismi del suolo, che producono N₂O come sottoprodotto del loro metabolismo. L’azoto può anche finire per lisciviare dal sito. Secondo i ricercatori, la strategia più efficace per ridurre le emissioni è quella di ridurre l’eccesso di fertilizzazione, che attualmente si verifica nella maggior parte dei casi.  

“Abbiamo bisogno di un programma globale per ridurre l’uso complessivo dei fertilizzanti e aumentare l’efficienza del riciclo dell’azoto nei sistemi agricoli e alimentari”, ha dichiarato il Dott. Stefano Menegat, dell’Università di Torino. “Possiamo produrre cibo a sufficienza per una popolazione in crescita con un contributo molto minore alle emissioni globali di gas serra, senza compromettere le rese”.

Il cambiamento dei modelli alimentari verso una riduzione della carne e dei prodotti lattiero-caseari potrebbe svolgere un ruolo centrale. Tre quarti dell’azoto della produzione vegetale (espresso in termini di proteine e compresi i sottoprodotti della bioenergia) sono attualmente destinati alla produzione di mangimi per il bestiame a livello globale.

I dati dello studio, relativi al 2018, mostrano che il Nord America ha il più alto utilizzo annuale di fertilizzanti azotati per persona (40 kg), seguito dall’Europa (25-30 kg). L’Africa ha registrato il consumo più basso (2-3 kg). Il team di ricerca ha sviluppato il più grande set di dati disponibili a livello di campo sulle emissioni di N₂O nel suolo. Sulla base di questi dati, ha stimato i fattori di emissione diretta di N₂O a livello nazionale, regionale e globale, mentre ha utilizzato la letteratura esistente per trovare i fattori di emissione per le emissioni indirette di N₂O nel suolo e per la produzione e il trasporto di fertilizzanti azotati.

 

Testo e foto dall’Area Relazioni Esterne e con i Media dell’Università degli Studi di Torino

Zanzare che trasmettono virus: tracciarle è importante: con l’app Mosquito Alert, i cittadini aiutano i ricercatori
Monitorare le zanzare e i patogeni che possono trasmettere, come il virus West Nile, è importante per la salute pubblica e per la sanità animale. Un aiuto arriva anche da Mosquito Alert, l’app con cui i cittadini aiutano i ricercatori a tracciare le specie di zanzara presenti sul territorio.

L’Italia è sempre al centro della ricerca scientifica sulle zanzare, che mai come ora vanno studiate con attenzione anche nel nostro paese. Con le loro fastidiose punture, infatti, le zanzare possono anche trasmettere malattie a uomo e animali. Questo succede prevalentemente in regioni tropicali dove oltre 700.000 morti all’anno sono attribuite a malattie trasmesse da zanzare. Si stima che circa metà della popolazione mondiale viva in aree dove è possibile contrarre un’infezione dalla puntura di una zanzara.

Quest’estate, l’Italia sta vivendo un forte aumento di casi del virus di West Nile rispetto agli anni precedenti. Questo virus viene normalmente trasmesso da zanzare a uccelli (e viceversa), e occasionalmente alcuni mammiferi come cavalli ed esseri umani possono essere infettati attraverso la puntura di una zanzara che a sua volta si è infettata pungendo un uccello malato. La maggior parte delle persone infette non mostra alcun sintomo, mentre circa il 20% presenta sintomi leggeri: febbre, mal di testa, nausea, vomito, linfonodi ingrossati, sfoghi cutanei. Solo in rari casi, e prevalentemente nelle persone anziane, il virus produce seri problemi neurologici e può essere letale. Dalla sua prima segnalazione nel 1937 in Uganda nell’omonimo distretto, il virus West Nile è ormai presente in Medio Oriente, Nord America, Asia Occidentale ed Europa, dove è comparso nel 1958 e in Italia dal 2008.

“A differenza del cavallo, nell’essere umano non esiste ancora un vaccino per la malattia di West Nile e la prevenzione consiste solo nel difendersi dalle punture di zanzara, per esempio con repellenti e zanzariere – chiarisce Alessandra della Torre, coordinatrice del gruppo di ricerca di entomologia medica di Sapienza. La prevenzione va effettuata soprattutto a livello individuale, ma tanto i cittadini quanto le amministrazioni pubbliche devono vigilare: l’obiettivo è quello di eliminare, quando possibile, i siti dove maturano le larve (raccolte d’acqua, canali di irrigazione, vasche ornamentali, caditoie stradali) delle zanzare che trasmettono il virus, o di trattare tali siti con insetticidi a basso impatto ambientale, in modo da ridurre infine il numero delle zanzare adulte”.

West Nile in Italia, ecco un po’ di numeri: dall’inizio di giugno al 30 agosto 2022, il bollettino periodico dell’Istituto Superiore di Sanità, del Ministero della salute, riporta 386 casi umani di infezione confermata, con 22 decessi; il primo caso è stato in Veneto e prevalgono le segnalazioni al nord, ma se ne registrano anche più a sud come in Toscana ed Emilia-Romagna, nonché in Sardegna. La sorveglianza veterinaria su cavalli, zanzare e uccelli (selvatici e stanziali) al 30 agosto conferma la circolazione del virus West Nile in Piemonte, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Lombardia e Sardegna. E tra tutte le infezioni umane West Nile segnalate all’ECDC (European Centre for Disease Prevention and Control) dai paesi dell’Unione europea e dello Spazio economico europeo, dall’inizio della stagione di trasmissione al 31 agosto 2022, la maggior parte arriva proprio dall’Italia.

Mosquito Alert Italia, a cui partecipano l’Istituto Superiore di Sanità, Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, MUSE- Museo delle Scienze di Trento e Università di Bologna, con il coordinamento del Dipartimento di Sanità Pubblica e Malattie Infettive di Sapienza, è un progetto di scienza partecipata (Citizen Science), che coinvolge cioè i cittadini nel monitoraggio delle zanzare.Basta avere uno smartphone, scaricare l’app gratuita Mosquito Alert e inviare ai ricercatori foto di zanzare e di possibili siti riproduttivi dell’insetto (es., tombini), ma anche segnalazioni delle punture ricevute.

Culex Pipiens Zanzare che trasmettono virus: tracciarle è importante con l’app Mosquito Alert, i cittadini aiutano i ricercatori
Zanzare che trasmettono virus: tracciarle è importante: con l’app Mosquito Alert, i cittadini aiutano i ricercatori. Culex Pipiens. Foto di David BARILLET-PORTAL, CC BY-SA 3.0

Ma è inviando fotografie di zanzare che si potrà davvero fare la differenza, permettendo alla task force di Mosquito Alert Italia di identificarne le specie; si potranno anche inviare fisicamente interi esemplari dell’insetto ai ricercatori di Sapienza. Il tracciamento sarà indirizzato a tutte le specie di zanzara: sia quelle che hanno ampliato la loro distribuzione a seguito di fenomeni quali cambiamento climatico, globalizzazione e aumento degli spostamenti internazionali (specie invasive), sia quelle già presenti in origine sul territorio (autoctone), come la cosiddetta “zanzara comune” o “zanzara notturna” (Culex pipiens), responsabile della trasmissione del virus West Nile in Italia.

“Tracciare le specie di zanzara e le variazioni dei loro areali è importante – dichiara Beniamino Caputo di Sapienza, coordinatore di Mosquito Alert Italia – anche nel Piano Nazionale di prevenzione, sorveglianza e risposta alle Arbovirosi (PNA) 2020-2025 del Ministero della salute, si contempla la collaborazione attiva dei cittadini con i ricercatori (Citizen Science), tra le azioni rilevanti ai fini della gestione delle malattie trasmesse da vettori. Mosquito Alert consente di farlo con un minimo sforzo”.

Riferimenti:

www.mosquitoalert.it

https://www.epicentro.iss.it/westNile/bollettino

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Lotta alle zanzare: approda in Italia MosquitoAlert, l’app che permette ai cittadini di contribuire con un click 

Testo dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma

Ricerca medica, nuovi risultati in Epatologia con l’intelligenza artificiale

 

Grazie ad uno studio sui dati clinici di 12mila pazienti di tutto il mondo identificati quattro sottogruppi di Colangite Biliare Primitiva, classificati in ordine di gravità crescente.
Colangite Biliare Primitiva epatologia intelligenza artificiale
Foto di Gerd Altmann

 

Milano, 16 marzo 2022 – L’intelligenza artificiale al servizio della ricerca medica in Epatologia. Una ricerca condotta dal Centro delle Malattie Autoimmuni del Fegato dell’Università di Milano-Bicocca presso l’Ospedale San Gerardo di Monza, e dal team di Data Science di Rulex a Genova, ha permesso di individuare quattro nuovi sottotipi di Colangite Biliare Primitiva (CBP) basandosi sui dati clinici di più di 12mila soggetti provenienti da tutto il mondo. Il nuovo algoritmo si unisce agli esistenti score prognostici e consente di migliorare la valutazione prognostica dei pazienti già al momento della diagnosi.
«Per noi pazienti questo studio è molto importante considerato il grande numero di pazienti italiani inclusi e le potenzialità di innovazione portate dall’intelligenza artificiale – commenta Davide Salvioni, presidente di AMAF Onlus, l’associazione italiana di pazienti dedicata alle malattie autoimmuni del fegato –. Una migliore conoscenza di queste patologie avrà sicuramente delle ricadute positive sulla capacità dei medici di gestirle in modo più efficace».

La CBP è una malattia del fegato che, benché rara, in Italia colpisce più di 10.000 persone, soprattutto donne oltre i 40 anni di età. Nell’ultimo decennio vi è stato un progressivo miglioramento della stratificazione prognostica dei pazienti con CBP, grazie anche allo sviluppo di score e calcolatori.

 

Di recente l’intelligenza artificiale e il machine learning sono stati applicati con beneficio nello studio di malattie comuni, dalle infezioni alle malattie cardiovascolari, dal tumore alla mammella a quello del colon-retto. Nel contesto delle malattie rare, e della CBP nello specifico, mancavano tuttavia evidenze sperimentali in relazione a queste nuove tecnologie e alle loro applicazioni.

 

Il team del Centro Malattie Autoimmuni del Fegato di Monza guidato dal professor Pietro Invernizzi, ha utilizzato Rulex, uno strumento innovativo di analisi dati che impiega un sofisticato algoritmo di intelligenza artificiale sviluppato dal team di ricerca e sviluppo di Rulex, coordinato dall’amministratore delegato Marco Muselli, e basato su un modello teorico messo a punto all’interno dell’Istituto di Elettronica, di Ingegneria dell’Informazione e delle Telecomunicazioni del CNR di Genova.

 

Lo studio, pubblicato sulla rivista Liver International, ha raccolto la più grande coorte mai esplorata di pazienti con CBP a livello internazionale, includendo pazienti dall’Europa, dal Giappone e dal Nord America (DOI: 10.1111/liv.15141). L’obiettivo del lavoro è stato quello di sfruttare questa enorme mole di dati al fine di migliorare la stratificazione del rischio in questa patologia rara. Sono stati identificati quattro sottogruppi di malattia, in ordine di gravità clinica crescente, basandosi solamente su tre valori di laboratorio: albumina, bilirubina e fosfatasi alcalina.


«Il team di Rulex guidato da Damiano Verda ha raggruppato i pazienti affetti con CBP in modo completamente nuovo e ha creato delle regole molto facili da applicare in clinica per classificare i nuovi pazienti già alla diagnosi», spiega il dottor Alessio Gerussi, primo nome dello studio e ricercatore presso il Centro Malattie Autoimmuni del Fegato di Monza.

 

«Il nostro lavoro non finisce qui: gli studi futuri saranno mirati alla integrazione dei dati clinici con i dati provenienti dal sequenziamento genetico, dalle tecniche di imaging radiologiche e dalle scansioni digitali dei vetrini dei campioni istologici – sottolinea Gerussi –. Lo scopo finale è descrivere la eterogeneità della malattia in modo più raffinato di quanto fatto fino ad ora per offrire cure personalizzate ai pazienti, scopo ultimo della Medicina di Precisione».
Testo dall’Ufficio Stampa Università di Milano-Bicocca

I mammiferi invasivi minacciano la biodiversità nel Vecchio Continente

Grido d’allarme dei ricercatori internazionali sulla crescente presenza in Europa di mammiferi introdotti da altri continenti, quali il visone, la nutria e lo scoiattolo. Le specie invasive rappresentano un rischio per la sopravvivenza di numerose specie native e anche per la salute dell’uomo.

Un gruppo congiunto di ricercatori internazionali provenienti da Italia, Austria e Portogallo ha recentemente messo in luce nella review “Introduction, spread, and impacts of invasive alien mammals in Europe”, pubblicata su Mammal Review, che i mammiferi alieni invasivi stanno espandendo i loro areali in Europa, minacciando la biodiversità nativa.

La presenza di queste specie, introdotte – in territori diversi dal loro habitat naturale – intenzionalmente come “animali da compagnia o da pelliccia” o accidentalmente, ha conseguenze negative, non solo sull’ambiente, ma anche sulla potenziale trasmissione di patogeni, inclusi quelli zoonotici che possono essere trasmessi dagli animali all’uomo. Il team di ricerca ha evidenziato che questo rischio è associabile all’81% delle specie aliene invasive studiate.

Il lavoro, coordinato da ricercatori del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza e dell’Università di Vienna, in collaborazione con l’Università di Lisbona, ha evidenziato come, nonostante l’implementazione di appositi accordi internazionali, in Europa le segnalazioni di mammiferi alieni invasivi siano in forte aumento a scapito delle specie autoctone. La ricerca consiste in una review sistematica della letteratura finora pubblicata su 16 specie aliene invasive, integrata con informazioni aggiornate ed estratte dai database globali.

L’Unione Europea per far fronte al fenomeno, ha adottato nel 2014 il Regolamento n. 1143/2014 con l’obiettivo di controllare o eradicare le specie aliene invasive prioritarie e prevenirne ulteriori introduzioni e insediamenti. Il cuore del regolamento è la Union List, una lista di specie verso cui indirizzare misure di prevenzione, gestione, individuazione precoce ed eradicazione veloce. Nonostante l’interesse comunitario al problema, nessuno studio finora aveva affrontato specificamente l’ecologia dei mammiferi alieni invasivi della lista.

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Il cane procione (Nyctereutes procyonoides). Foto di Piotr Pkuczynski

Secondo gli autori della Review, le specie invasive più diffuse in Europa sono il cane procione (Nyctereutes procyonoides) originario della Siberia orientale, il topo muschiato (Ondatra zibethicus), il visone (Neovison vison) e il procione (Procyon lotor), queste ultime di origine nordamericana, che hanno invaso almeno 19 paesi e sono presenti da 90 anni nel territorio europeo. L’ampia distribuzione di questi mammiferi può essere attribuita a diversi fattori, tra cui adattabilità, capacità di colonizzare ambienti diversi e grande capacità riproduttiva.

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I mammiferi invasivi minacciano la biodiversità nel Vecchio Continente. Il visone americano (Neovison vison). Foto di Ryzhkov Sergey

Inoltre è stato visto come tutte e cinque le specie di Sciuridi (la famiglia di roditori che comprende, tra gli altri, marmotte, petauri e scoiattoli arboricoli) sono state introdotte in Europa almeno una volta come “animali da compagnia” o per svago: vengono spesso rilasciate illegalmente nei parchi urbani quando non si è più disposti a tenerle, oppure a scopo ornamentale, sebbene tale attività, grazie alle campagne di sensibilizzazione, stia cadendo in disuso.

Altre specie come la nutria (Myocastor coypus), il procione o il visone americano sono state, invece, ripetutamente introdotte per essere allevate come animali da pelliccia: le fughe dagli allevamenti, frequenti, non sempre accidentali e ripetute negli anni, hanno permesso che si stabilissero vere e proprie popolazioni in natura.

“Nonostante negli ultimi 50 anni si sia registrata una diminuzione nelle nuove introduzioni di mammiferi alieni – spiega Lisa Tedeschi della Sapienza, prima autrice dello studio – questi continuano a espandere i loro areali in Europa, aiutati dal rilascio illegale di individui in natura, minacciando gravemente la biodiversità nativa”.

Un altro aspetto importante riguarda il coinvolgimento delle specie studiate nei cicli di trasmissione di patogeni zoonotici: alcune malattie infettive associate a mammiferi invasivi (come echinococcosi, toxoplasmosi e bailisascariasi) possono minacciare la salute umana. Basti pensare agli outbreaks del virus SARS-CoV-2 registrati negli allevamenti di visoni americani di Paesi Bassi e Danimarca nel 2020, nonostante non sia ancora chiaro il ruolo epidemiologico dei visoni (e di altri mammiferi invasivi) nel ciclo del virus.

Oltretutto, il visone americano esercita un effetto negativo anche attraverso la predazione su altre specie, come l’arvicola eurasiatica (Arvicola amphibius). Anche il patrimonio genetico delle specie autoctone può essere minacciato dai mammiferi invasivi, attraverso l’ibridazione (cioè l’incrocio tra specie animali diverse): nel Regno Unito, per esempio, il cervo sika (Cervus nippon) sta mettendo a rischio l’integrità genetica della sottospecie scozzese di cervo rosso (Cervus elaphus scoticus).

“I mammiferi invasivi possono contribuire all’estinzione delle specie autoctone attraverso diversi meccanismi, tra cui competizione, predazione e trasmissione di malattie – dichiara Carlo Rondinini della Sapienza, coordinatore del lavoro insieme a Franz Essl dell’Università di Vienna. “Lo scoiattolo rosso eurasiatico (Sciurus vulgaris), per esempio, in Italia si è estinto in più della metà del suo areale ed è stato sostituito dallo scoiattolo grigio orientale (Sciurus carolinensis), mentre il visone americano ha colonizzato l’area occupata dal visone europeo (Mustela lutreola) confinando questa specie nativa, nonchè in grave pericolo di estinzione, in poche aree della Spagna”.

Poiché l’eradicazione di mammiferi alieni che hanno una così ampia distribuzione è difficile da ottenere, sarebbe opportuno invece gestire in maniera ottimale le popolazioni delle specie che sono diventate invasive e che potrebbero essere problematiche.

“In questo contesto – conclude Lisa Tedeschi – l’identificazione di popolazioni problematiche o di aree più invase di altre può aiutare a mitigare gli impatti futuri”.

Riferimenti:

Introduction, spread, and impacts of invasive alien mammal species in Europe – Tedeschi L, Biancolini D, Capinha C, Rondinini C, Essl F.  Mammal Review  https://doi.org/10.1111/mam.12277

 

Testo e foto dal Settore Ufficio stampa e comunicazione Sapienza Università di Roma